d'insegnamento nan corrispondono al- le esigenze estetiche
dell'evoluzione dell’arte attraverso i tempi. L'arte non si insegna. Gli
attuali diplomati non sono né tecnici competenti né artisti.
Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professio- nali senz’altre
sostituzioni. (Proposta Marasco). PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA
ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar- tistica
all’estero che tuteli glì interessi artistici ed econo- mici degli
artisti italiani. Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani
artisti stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio
novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda ti le varie arti e
uffici di corrispondenza nei principali centri artistici esteri. Agirà
mediante conferenze, concerti, esposizioni e pubblicazioni periodiche di
propaganda. (Pro- posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt,
Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE. Utilizzare una parte del
denaro che lo Stato spende attualmente per l'arte in concorsi di poesia,
plastica, ar- chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora
venti- cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo- lare.
(Proposta Balla, Marinetti, Marasco). AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE
FE. STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive, ecc.) ai
gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han- no ormai provato in
modo incontestabile la loro genialità innovatrice, fonte di
quell’ottimismo che è indispensabi- le alla salute della Patria.
(Proposta Depero, Azari, Mari- netti, Marasco). AGEVOLAZIONI AGLI
ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei diritti
d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul mag- gior prezzo
raggiunto dalle opere loro, attraverso le ven- dite successive, mediante
una istituzione simile alla « So- cietà degli Autori ». d)
Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia riguardo le
importazioni che le esportazioni delle opere d’arte moderna. (Proposta
Prampolini, Depero, Azari, Ma- rasco, Marinetti, Volt). 9°
CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da artisti ed eletti fra artisti con
una rappresentanza propor- zionale delle tendenze d'avanguardia. Questi
Consigli Tec- nici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi
de- gli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,
private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Mara- sco, Marinetti,
Volt) RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le avanguardie
artistiche italiane dovranno essere in- vitate a partecipare con una
rappresentanza proporzionale a tutte le manifestazioni e cariche
artistiche statali, co- munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinet- ti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute. la
degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avan- guardia.
Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentra- mento delle migliori
istituzioni artistiche di avanguardia, per la solidarietà, la difesa e la
propaganda artistica ed economica. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinetti, Volt). Per la Direzione del Movimento Futurista
e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani MARINETTI
NATALE SENZA LUCE sequestrato). Chi fu legionario di
Fiume non potrà mai dimenti- care le rosse giornate natalizie di quattro
anni fa, con le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente
una breve ma non ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un valore
particolare per chi lo avvicini al pensiero della situazione politica
odierna, che ha qualche vaga analogia con quella che segnò la fine di un
generoso sforzo della nuova Italia. Il sangue fraterno di
quelle Cinque Giornate non è stato ben vendicato. Pareva a molti di noi
che la Marcia su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare
alla nostra grande Patria una nuova fisionomia di po- tenza e per
vivificarla di un nuovo afflusso di giovi- nezza. Ma la spinta
rinnovatrice della generazione di Vit- torio Veneto si è, ahimé, fiaccata
nel labirinto delle vec- chie pance e vecchie barbe che tengono tuttora
il campo della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa
segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la sagoma
«immortale » del cavalier Giolitti si profila — come quattro anni fa — a
rassicurare il mondo che l’Ita- lia è ancora quella mediocre, umile
nazioncella di molte chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e
che agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi, è
destinato al più pietaso insuccesso. Sembra — a ben considerare i
più recenti avvenimen- ti — che il sogno di una politica più alta, più
rettilinea, più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati;
e che una sola specie di politica sia possibile: quella che ha nome
Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo, sul compromesso, sulla
pattuizione, sull’arte di farsi ricat- tare. La manovra
parlamentare domina ancora tutto il con- gegno di governo. E’ pacifico
che non si governa coi parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno
per eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo
italiano 119 rabbiosamente ingovernabile non vuol
rinunciare al suo bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di
ogni decadenza. Contro questa massima cloaca nazionale
(parlo, s’in- tende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è
an- dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha com- messo
questo gravissimo errote iniziale: di non saltare a pié pari il
Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto, ha voluto saggiarne le
delizie, ha voluto conquistare que- sta quota a colpi di scheda — mortificando
la sua anima guerriera — quando avrebbe dovuto farla saltare a
colpi di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non si
debbano scontare. Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili
anti- parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà pre-
meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù elettorali, it
diritto di tener fede ai principi per quali s'ini- ziò la battaglia, e
soprattutto alla nostra accesa spiritua- lità di italiani #4ovi: nuovi
nella mente, nel tempera- mento, nell’educazione, nella passione. Anche
se tutto crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre,
perse- guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-
vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem- mo ad essere
quelli che fummo e che siamo: cittadini di una Patria più grande, più
eroica, più possente, più do- minatrice. Mai non rinunceremo
— lo sappiano bene i nostri nemici — alla nostra sete d’impero, alla
nostra fiamma di grandezza, che odia la vita democratica,
l’egualitarismo ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di
bra- che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che per
disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla all'impero,
chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu- nali civili e militari,
la giurisdizione eccezionale, la legi- siazione di gabinetto da
sovrapporre a tutte le leggi ante- riori, il diritto di battere moneta,
di convocare il popolo, di sospendere e punire i funzionari dello Stato,
e infine, di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi
piace infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo
120 dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o
no la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato
dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo segnale, e che
incide sulla tabella i nomi dei Senatori vetanti contro di lui, per
ricordarsene a tempo e luogo. Il Fascismo è venuto al potere più
attraverso la spa da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché
dimenti- carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una sua
politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo vogliono
polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si continuerà a ceder loro
in ogni occasione. Dal 10 giugno in poi, si può dire che l’Italia è stata
governata dall'om- bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura,
contro storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano aver
diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan- do ci scrolleremo di
dosso tutte le ombre importune che ci soffocano come ali di corvacci e di
vampiri? Mario CARLI [da: Fascismo intransigente, Bemporad,
Firenze 1926, pag. 253-256] Con la Mostra della Rivoluzione si
risolve finalmente, e in modo favorevole, il grave problema della militariz-
zazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da im- porre agli
artisti. Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a
rea- lizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente turbati
dal prestigio di queste gloriose parole che domi- nano ormai nella nuova
storia d’Italia: interventismo, Vit- torio Veneto, Mussolini, e Popolo
d'Italia, Diciannove, battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!,
covo di via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accur-
sio, Marcia su Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci
cittadi- nì o rurali, tramonti melanconici e ritratti statici, que-
sti artisti sentirono subito la necessità di capovolgere il loro spirito
per disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel mare della novità.
Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di avanguardie
estere più o meno originali, gridava per in- segnare l'invenzione a ogni
costo. Quattro mesi fa il Du- ce, con la sua bella parola imperiosa e
veloce, ordinò che si evitasse il passatismo della palandrana di
Giolitti. Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo colorato
e tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro sta- ticità
e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare una faccia
nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposi- zione, sentirono
l’assurdità di qualsiasi decorativismo sim- bolico, floreale, mitologico
o grazioso. Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi
ascen- sionalmente, presero lo slancio aggressivo, guerriero e mi-
naccioso di altissime torri di acciaio o ciminiere naviganti. A me
ricordano simpaticamente i geniali fasci di ascen- sori dell'architettura
di Antonio Sant'Elia, il grande e com- pianto padre futurista
dell’architettura moderna. Logicamente andò determinandosi lo
stile della Mostra per virtù della Rivoluzione e del suo ritmo mobile
ag- gressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista. Un
dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso dei fascisti
come un tino stracarico di giganteschi grappo- li neri io ricordo
soltanto il mosto rosso a terra e l’acu- tissimo odore di benzina. Quindi
sintesi, dinamismo e in- tersecazioni di piani. Visibilità aggressività
giocondità. Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli squadristi
augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria del Fascismo con
uno stile rivoluzionario italiano che ha avuto pet primi maestri
Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo le parole di Edmondo Rossoni dettemi
questa mattina, il trionfo dell’arte futurista. F.T
MARINETTI [du: Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il
Futurismo molti si chiedono: come la pensa il Duce? A questo in
terrogativo i nostri avversari rispondono arbitrariamente come saremmo
ugualmente arbitrari noi volendo asserire l'opposto di ciò che loro affermano.
Per la verità il Duce non può essere dall’una o dall’altra parte
(passatismo © futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo
della Nazione non può essere passatista e futurista nello stesso
tempo. Che Egli prediliga come certuni pretendono cor- renti intermedie
lo esclude il suo temperamento nemico di tutti gli oscillamenti e di ogni
mezzo termine. Prefe- risce le posizioni diritte anche le più azzardate e
non è detto quindi che si compiaccia trattenersi ad ammirare le
varie denominazioni che si dànno alla strada nel corso di così lungo e
complicato cammino com'è quello dell'arte. Egli tende alla meta: L’arte
fine a se stessa. Passatismo e Futurismo: due colossi che se non
esistessero Musso- lini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a
gioia patriottica di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità
opposte, nuove faville di luminosa genialità italiana. I piccoli mondi
che rotolano ai margini di questa battaglia sono frammenti o scorie
staccatesi, nell’urto, dal corpo dei titani: hanno una vita effimera e
quelli che precipitan- do come valanghe trascinano nella loro scia deboli
detriti superficiali, se sopravvivono, sono sempre alimentati dal-
l'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo che li ha creati.
Passatismo e Futurismo rimangono inamo- vibili l'uno di fronte all'altro:
impossibile conciliare il concetto conservatore tradizionale del primo
col principio rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più
forte non è facile stabilite: dipende da determinate condizioni
intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però — in que- sto secolo
fascista — più che le biblioteche e i musei si moltiplicano scuole
avanguardiste, impressioniste, raziona- liste, novecentisie, moderniste
in genere, tutte volenti o nolenti generate dal futurismo. Volenti o
nolenti: non ha 123 valore il fatto che molti
sconfessano la loto origine. E' fatale; anzi vorremmo dire storico.
Probabilmente tra cin- quant’anni il mondo fascistizzato considererà
Mussolini un utopista e ogni nazione vanterà il merito di avere
instau- rato per prima il nuovo regime politico. Di queste infa-
mie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si rende giustizia
alla verità. Tornando al nostro argomento, è fuori dubbio che Mussolini,
valotizzatore delle gloriose conquiste del passato, sprona i capaci a
superarle sul tra- guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo
rap- presenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto che
trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuo- vo. Questo
fatto in sé eloquente e inconfondibile, unico nella storia dell’arte, ha
rapporti precisi in campo poli- tico con la gloriosa epopea mussoliniana.
L'inesauribile ottimismo futurista si identifica così con il concetto
gene- roso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare
fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per- sonali, in
tema « Mussolini e il futurismo » basterà ri- cordare giacché l'occasione
è opportuna queste tre date significative: Boccioni vi avrà detto
che tutte le mie simpatie sono, anche nel dominio dell’arte, per i
novatori e i distruttori e per i futuristi... » Mussolini. 1924: «...
presente adunata futu- rista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie
artistiche politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve
essere punto di partenza non punto d'artivo... » Mussolini. ...Dopo di avere
concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso
contributo ma- teriale per il trionfo della grande rassegna dell’arte
futu- rista italiana. A questo punto, dopo quanto abbiamo
detto, ulteriori considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo
ri- cordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata dal
futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo la guerra e il
fattivo isolato contributo dei futuristi al fascismo nel 1919
(...). Mino SOMENZ2I (da: Sant'Elia, n. 3, anno II, 1°
febbraio 1934] Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di
Piazza San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello
edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel manipolo degli
intervenuti individuò degli artisti, questi erano soltanto ed
esclusivamente artisti futuristi. Appena creati i Fasci di
combattimento, i primi gruppi che cotseto ad ingrossare le schiere che
cominciavano a formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e
gli arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me-
rito esclusivo dei futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al
Fascismo un apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre
die- de alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco di
fede cieca, di entusiasmo eroico. Vogliamo indagare il perché di
questa spontanea sim- patia, di questo irresistibile trasporto del
Futurismo verso il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria
cor- rispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed una
concezione eminentemente artistica? Prima di tutto, troviamo che il
Fascismo e il Futu- rismo hanno alla loro origine dei germi comuni:
l’amore disperato alla propria terra, la necessità di moto e di
azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il punto di partenza
per la sognata rivalorizzazione della patria; l’altro, lo sbocco
conclusivo di quei fatti e di quel- le idee che possono riassumersi nei
tre principii futuristi: « Tutti 1 diritti, meno quello di esser
vigliacchi ». « La parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». «
La puerta, sola igiene del mondo », Dalle piazze affollate
d'Italia si passò alle trincee in- sanguinate d'Italia: interventisti
intervenuti: identico en- tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà
di far ger- mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla
morte dei suoi figli. E questa è già molto per dimostrare la
straordinaria 125 affinità sentimentale, di origine e
di scopi esistente tra Fascismo e Futurismo. Ma v'è di più.
Infatti, passando dal campo delle con- cezioni teoretiche a quello delle espressioni
pratiche, noi vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei
ricordi del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del
presente, protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla
conqui- sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;
raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre raggiungere
anche queste: ogni sosta è un tradimento: ogni indugio è un
delitto. Non sona questi i principii stessi cui s’informa il
Futurismo? E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue
schie- re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-
tù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la stessa
generosità, con lo stesso dispregio di ogni premio e di ogni
riconoscimento, con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro
uni- co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire a
che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre niù in estensione
squilli nel mondo. E non è Fascismo, questa? Ma non è
soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto mai verificatosi nella
storia dell'umanità, una concezione esclusivamente morale ed artistica
abbia potuto così bene assorbire ed assorbirsi in una concezione
esclusivamente politica e sociale Il fatto straordinario che
oggi non può non riempirci di legittima se pur meravigliata
soddisfazione, è questo: un colosso della politica che pensa, agisce,
crea, con la ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta:
un poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per la gloria
della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad oggi antitetiche,
politica e arte, s'urtano o si contrastano: anzi si può ben dire che esse
hanno così informato di sé medesime le due personalità che concepirle in
diversi at- teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile.
Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori 126
del comune, se non riferendoci ad una forza incoerci- bile,
misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella for- za cioè che crea in
alcuni privilegiati quegli speciali stati d'animo per cui il Genio,
attraverso l'adamantina lumi- nosità di un pensiero superiore,
giganteggia e s’infutura? E’ indubbiamente questa forza contro la
quale noi nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della
stessa tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, de- gno seguace di
Mussolini. E' sempre questa forza che avvicinando i due crea-
tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è perciò che come
non potrebbe comprendersi un futurismo non fascista così non si potrebbe
concepire un fascismo conservatore e passatista. E’ perciò
ancora che i futuristi e i fascisti, se veri ambedue, s’intende, non
possono distinguersi: l’italiano nuovo è un miscuglio — nel valore che la
chimica dì a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi
costi- tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un
tutto organico. Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi
/uturfasci- sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de-
finirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran- de verità che
non può discutersi e non si distrugge. Come altrettanto vero è che
i fascisti autentici sono ottimi futuristi. e non potrebbe essere
diversamente data l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista
nella quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani. Ma come
avviene, allora, che anche tra i fascisti sono molti i contrati al
Futurismo? Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo
in camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e pur- troppo
parlando solo) fascisticamente e mettendosi sem- pre in prima fila nei
cortei, han tuttavia conservato l’ani- ma italiana di anteguerra, pavida,
gretta, piccina. Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo
tutto ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen- so
invincibile di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio
di essere tenuti e rispettati quali persone serie, dicono e non dicono,
ammettono e smen- tiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti,
bor- ghesi, vigliacchi. Ma ciò che prima o poi capiterà a
costoro, che noi sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto
di più dei nemici nostri aperti e leali, che almeno rispet- tiamo,
lo ha detto chiaramente il Duce nel suo recente magnifico discorso
all'Assemblea quinquennale. Per essi non si tratta né di Fascismo né di
Futurismo: si tratta di vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a
chiamarsi italiani. Né escludiamo da questa ignominiosa
schiera quei gio- vani d'anni che han conservato intatta l’anima dei
bisa- voli: che gridano doversi l’arte rinnovare e si impuntano
come muli riottosi dinanzi al futurismo: che accettano e sì prosternano
ad ogni novità che ci proviene d'oltre confine, anche se figlia di genitori
futuristi italiani, e fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i
superuomini verso il nostro movimento che gli stranieri stessi ammirano
co- me un’altra delle tante glorie italiane. Anche questi
così detti giovani non possono e non po- tranno mai essere fascisti sul serio,
giacché essi non hanno del Fascismo né compreso né assimilato quelle
ca- ratteristiche di spiccato futurismo che sono il rinnovamen- to,
la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la mat cia ininterrotta
verso la perenne conquista. E lo stesso diciamo di quei critici
che si fermano a vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto
am- biente donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno
l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è soltanto un
membro di un corpo gigantesco. Essi dimo- strano di aver perduto o di non
aver mai posseduto quella somma virtù latina, fascista e futurista
insieme, che è la virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda
pesantez- za anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i compri-
matii, le comparse della nostra vita e abbiamo di già concesso loro
troppo onore di discussione. Su tutto e su tutti restano le idee:
nel campo politi 128 co-sociale, l'idea fascista; nel
campo artistico-spirituale. l’idea futurista. Ambedue han
detto al loro mondo una parola non an- corta udita; ambedue hanno
tracciato, ognuna nei propri confini, la via nuova da seguire per
giungere alla salvezza: tanto l’una che l’altra si sono dimostrate
possenti dina- mo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì
ottimi- smo. di passione, di entusiasmo. L'una, nel campo
politico, ha raccolto infiniti proseliti ovunque, e ciò in relazione ai
numerosi problemi d’indole contingente di cui ha trovato o propone le
soluzioni; l'al- tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente
susci- tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri,
rincuorato i pavidi, persuaso i dubbiosi. Se qui dovesse attestarsi
l’opera vitale sia dell'una che dell'altra idea, già tutti i diritti esse
avrebbero acqui- stati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.
Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensio- nale: e i critici
che affermano essere il Futurismo supe- rato ci fan lo stesso effetto di
quei pochi e sparuti anti. fascisti che affermano aver il Fascismo
esaurito il suo compito. Idee come queste nostre non possono
né sostare, né esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di
con- tinua marcia, di continua ascesa, di continua conquista non lo
permette. Un uomo, a idea, una opera potranno esser supe-
rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera. Ed ora che
conclusione trarremo dalla dimostrata iden- tica struttura spirituale del
Fascismo e del Futurismo, dal- la dimostrata perfetta corresponsione fra
loro di scopi e d’intenti? La conclusione è la solita:
ripetiamo ancora una volta e confermiamo che il solo artista capace di
riprodurre in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta
la sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista
futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte degna e capace
di tramandare ai posteti la vitalità, la po- tenza, la dinamicità
dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da
quel- l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del
Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che nessuna scuola,
nessuna tendenza, nessun'altra forma di arte può vantare E
noi teniama al riconoscimento di questo nostro di- ritto: non perché ci
spingano meschini interessi o poco nobili ambizioni ma perché, forti di
un infinito amore per la patria nostra e di una dedizione cosciente e
completa di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di
un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo. gliamo che non
abbia soste il cammino trionfale che l’Ita- lia rinnovata sta compiendo
verso le sue più alte mète, sotto il comando romano di Benito
Mussolini. FuTURISMO [da Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile
1934] La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi
rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già espressione di
quel «secondo futurismo», che abbia mo visto e detto essere momento
collaterale del fa- scismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare
la avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale era più
propenso ad un suo ordine intrinseco e im- prescindibile da mantenere 0
da continuare. In questo senso il futurismo «di destra», come lo
definisce il sansepolcrista Bruno Corra nel marzo del ‘32 su Fu-
turismo, vorrebbe un po’ essere quello degli « arri. vati », di chi si
asside sulle comode poltrone della fine della carriera, pur cercando di
mantenere uno Spirito 4 precedente », giovanile e innovatore, che non
può essere venuto meno in chi ha giù combattuto e si è esposto per una
causa di rinnovamento. Gli fa eco Corrado Gawvoni riprendendo il discorso
e pun- tualizzando il concetto stesso di futurismo, senza che gli
si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio fatto da tutte le
parti, e a riconoscergli invece la sua portata e i suoi risultati.
Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul numero del 26 marzo
sempre di Futurismo con un violento attacco ai «futuristi di destra » e
il sostegno 4 un ritorno alle estrema sinistra », come già dice nel
titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se vuol rimanere
avanguardia, non può che esercitare una funzione di vottura per il
rinnovamento ed il rivolgi- meuto del vecchio e del passato. Come tale
l'aver guardia non può che essere e rimanere di « estrema sinistra
», sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar dia 0 vuole mantenersi e
vivere. Resta però forse una voce isolata quella del Buzzi, rincalzato
ancora il 2 aprile, sul numero della settimana dopo, da Remo Chiti
che postula un futurismo sostanziale in cui tutto si annulla, destra e
sinistra, nel momento stesso in cuni tt futurismo diviene ercativo e vu
libera dvi con- formismi e delle convenzioni. Ancora
«all'Avanguardia » dedicava un quinto ed ultimo articolo Luciano Folgore,
sempre su Futurismo dello stesso anno (1933). Il futurismo di destra
e quello di sinistra st superano oramai nell'avanguardia che ancora
continua e sì muove nell'avanzata dell'en- tusiasnio. E l'ottintismo
continua in effetti fino al’ul- timo, anche con la fine del fascismo,
anche con la morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella
guerra « sola igiene del mondo », continua ancora nelle ulti me
gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto, quello del «futurismo-oggi
», che vive e crea nel pre sente. NOI FUTURISTI DI
DESTRA Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso
dei futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi — vicino a Buzzi, a
Notari, a Folgore, a Govoni — ad un banco dell’estrema destra. Ma esiste
dunque, può esiste- te un Futurismo di destra? I due termini non fanno
a pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere in sé tendenze
conservative? E, infine, l’espressione « futuri- sta di destra» non val
quanto « futurista annacquato e prudente » non s'identifica con l’ambigua
parola « nove- centista »? Mi pare che qui si tratti, prima
di tutto, di una que- stione di moralità. Dare al Futurismo quel che al
Futuri smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una
etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma non futurista,
sputa nel piatto dove ha mangiato. Poi, io stabilirei questo principio:
che il privilegio di poter restare nella sfera magnetica del Futurismo
pure affermando, nel- la propria opera matura un remperamento
realizzatore di destra debba accordarsi soltanto a coloro che han
dimo- strato di saper essere « integralmente » futuristi. E recla-
merei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in no- me della mia
effettiva collaborazione al Futurismo più ri- voluzionario: Teatro
Sintetico; Cinema futurista; e due opete di audacissima narrazione
fututista (La donna ce duta dal cieln — Sam Dunn è morto). In
realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo è e non può non essere
rivoluzionaria, bisogna dire che nel nostro movimento i termini sinistra
e destra non si oppongono, perdono ciaè il loro significato
convenzionale. La mentalità futurista supera il contrasto fra il
sovverti- mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo
in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso fu- turista
dovrebbe assumere una configurazione non oriz- zontale ma verticale:
fututisti di cima e futuristi di base, 133 aviazione
e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo, io qui mi son servito della
parola destra. Ma diciamo pure i fanti, i pontieri, i costruttori
di stra- de del Futurismo, e avremo indicato il carattere e spiega-
to la necessità di questo settore nel nostro movimento: l'aderenza al
terreno pratico. Come l'architettura, come la decorazione, l’arte
narrativa adempie a una funzione in gran parte pratica: da ciò l'obbligo
per essa di equili- brarsi tra il dovere del rinnovamento artistico e
l’impe- rativo degli scopi vitali ai quali la sua natura la destina.
Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza finestre per vederci o a
una stazione dove i treni non possono cir- colare. Ora il Futurismo vanta
la proptia aderenza al tem- po attuale anche nel senso della praticità.
Le case futuriste vogliono essere le più comode: la struttura delle città
futu- riste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudi-
ni che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore fu- turista ambisce
di garbare alle folle dei giovani, traendone e in esse trasfondendo gli
ideali tipici del nostro tempo, per via di una tecnica intonata alla
sensibilità moderna, tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il
buon narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna
terrestre, per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un volo lirico la
propria tempra di novatore. Questa nota velo- ce non intende di risolvere
l'importante problema al qua- le si riferisce: ma soltanto di proporre lo
studio ai came- rati futuristi. Bruno CorRrA Sansepolcrista
[da: Futurismo -- Con il suo articolo « Noi futuristi di destra » uscito
nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha oppor- tunamente aperto
una tempestiva discussione intorno al movimento futurista che, secondo
me, va allargata e approfondita da una serie di perentorie domande —
argo- menti che, investendone in pieno la vita e la vitalità, ri-
chiedono altrettante risposte urgenti e risolutive, Quali sono le
origini e le funzioni del movimento fu- turista in Italia.
Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari succedntisi
in questi ultimi venti anni in Europa, che accusano sinceramente una
netta derivazione dal Futu- rismo. Individuazione dei
movimenti artistici e letterari che rappresentano una deviazione e una
contraffazione del Futurismo e dei movimenti che, o fingendo
d’ignorarlo, o ammettendolo furbescamente solo attraverso la
propria attenuazione, continuano a pompargli generoso sangue e a
servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda simbiosi di
Bernardo l’Eremita. Quali sono Je vere umane ragioni per cui
elementi di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal
movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver- ne
attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi e Carrà; Soffici
e Papini). In che cosa consista e came vada intesa il
cosidetto « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-
na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del Fututismo.
Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu- tutismo di
essere un movimento difettoso e caduco per- ché nato senza una dottrina
estetica che lo giustifichi. Espansione influenza e fortune del
Futurismo in tut- to il mondo e suo riconoscimento in Italia.
Sono tutte domande che hanno bisogno per una con- veniente risposta,
di lunghe e minuziose trattazioni. Ed è più che naturale e logica
la irresistibile tendenza dei nostri connazionali a sbarazzarsene con una
sola pa- rola. Questa parola la conosciamo troppo bene:
Marinetti! Ma conosciamo troppo bene anche il grossolano
trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto, e
il più nascostamente che sia possibile: è bene non compro- mettersi
troppo!), per negare poi il Futurismo e massacra- re i futuristi.
Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo inganno per non sperare
che abbia finalmente a fruttare un ri- sultato vittorioso e
definitivo! E’ il trucco indegno tentato dagli antifascisti
contro il fascismo quando si cercava di mettere in mora il fa-
scismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda cana- gliesca mira di
dividerli, per batterli poi con più comada separatamente.
Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce per non avvertire la
subdola insidia e sventarla. Marinetti! Chi più di noi l’ha più
fedelmente amato ed ammirato? Per conoscere quali prodigiosi
tesori di amore e di energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero.
Bisogna sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare i
pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili ad ogni cosa
che abbia la nostra impronta di quanto non st creda, e per mentalità, per
gelosia e furore d'inferiorità; bisogna sentirlo dominare a poco a poco
col suo impeto irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e,
mentre fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani- ma
del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co- stringerle a
riconoscere la poesia italiana come una cosa caduta dal cielo: bisogna,
dico, vedere quest'Uomo straor- dinario all’estero, per capire che
instancabile affascinante ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo
in lui. Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza,
que- sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che è
forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul-
l'argomento. Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un
mostruo- so delitto. Che cosa volete allora?, ci domanderà
qualche impru- dente con un sorriso allusivo. No, no, non
invidiamo il puzzo di benzina, state tran- quilli: a questo volevate
alludere. Ma troppe volte ricevia- 136 mo in faccia
la cenciata dell'insolente puzzo di benzina per non sentirci offesi e
disgustati nella nostra rassegnata povertà. La ragione del
nostro malcontento è che da troppo tempo noi andiamo seminando e
falciando per quelli che ci seguono e allegramente raccolgono senza
nemmeno ri- volgerci un pensiero di ringraziamento. Amici
cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo un pochino indietro anche
noi? Se pensassimo anche noi di raccogliere un pugno di quelle spighe, da
portarcele a casa se non altro per ricordo e testimonianza della
lunga fatica compiuta? Ma se lasciamo ancora correre un poco,
ho paura che ci negheranno anche questo piccolo premio di
consolazio- ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo
non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che st prodigarono e
sactificarono per una fede e un ideale e che Alfredo Panzini già propose
di raggruppate in una sola classifica con la denominazione di collezione
di fessi... CorRrADO GovonI [da: Futwrismo, ESTREMA SINISTRA E non vorrei
altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun- ti fermi», Îe categorie
anagrafiche non contano. Si sa che, per taluni, l'età del « destino »
futurista è passata da un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione
non è discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente
astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si sente, ogni mattina,
l'età — magari — di Vittoria, di Ala e di Luce Marinetti...! Questo, e
non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei sedermi a destra, proprio
io? Mi sembre- rebbe di tradire la causa di « Aeroplani », di « Ellisse
€ la Spirale », di « Cavalcata delle vertigini », di « Popolo canta
così! » di « Dannazioni » e di tutto il mio Teatro inedito, ma ultra
violetto, che ha forse, a suo tempo, spa- ventato anche i genii scenici
sovversivi di Petrolini e di Bragaglia. Soprattutto, mi
sembrerebbe di tradite le mie Opere fantasticamente audaci di domani: «
Beatitudini » (affret- tati mio caro Campitelli: perché
l'aeroplano-razzo deve partire per le stelle!). « Canto quotidiano »,
dove vedrete il Poema attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta
stam- pando); e «Nostra Signora degli Abissi »: dove, fina] mente,
la Motte sarà vinta e le onde cosmiche impaste- ranno da pari loro la
nuova genesi delle radiazioni inter- planetari. Questo è
futurismo: e di ultra estrema sinistra. Le mie anatomie sintetiche
di anime e di sensi, le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei
cosmapolitismi spa- ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una
intransi- genza etico estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed,
un pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di uomo che
ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra messa. Aviatore
sempre, adunque: fante e stradino, non mai. Lo so che i miei romanzi
(appunto perché sempre ed esclusivamente poemi) non hanno trovato che
editori san- ti, martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile
del- le cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie
opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di trovarmele
analizzate e comprese e discusse ed evidente- mente — quindi — amate da
una Rivista di giovanissime menti e di ardentissimi cuori: dico, la «
Penna dei Ragaz- zi » diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma.
I giovani, quelli veramente degni di questo nome pri- maverile,
sanno che, al di fuori e al di sopra d’ogni inevi- tabile chiasso
letterario, la parola « futurismo » risponde alla solo unica vera «idea
forza» che oggi esista nella sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di
essa, unica- mente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa
Italia fascista vive e vivrà. Naturalmente io dico ai
giovani, anche e specie se 138 coronati dal casco
d'alluminio in pieno cielo: « lavorate » non accontentatevi di quattro
parole intonate all’onoma- topea del motore: la Poesia italiana ha ben
altri diritti ed impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di
Palazzo Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi « Carmi de-
gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il Duce vi
premierà. PaoLo BUZZI [da: Futurismo, FUTURISMO SOSTANZIALE « Non c’è
che un futurismo: quello di estrema si- nistra », ha affermato Paolo
Buzzi. Ma questa generosa intransigenza che parrebbe volere ammettere un
unico modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor- ra
circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra « aderente al
terreno pratico » — rimane una questione poetica e individuale di fronte
agli argomenti che le ter- ranno dappresso: 1) Il futurismo
non è formalista; non si crea né si lascia creare barriere dalle
definizioni; pago della pro- pria influenza, lontano da ripulse
d’ortodossia vendicati- va, riconosce per suo anche quello che è tale
sull’altro name. Del resto Corra aveva scritto: « fermo
restando che l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-
zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi- ni sinistra e
destra non sì oppongono, perdono cioè il loro significato convenzionale.
La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvertimento e la
conservazione, in quanto si libera di continuo in uno slancio creativo
». Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen- to non si
compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica;
ma l'ispirazione e i tem- peramenti saranno naturalmente diversi. Così
uno stesso tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili
di- versi. Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel
pun- to? E come negarne la sostanza futurista? 3) La varietà
di tipi, che documenta l’importanza sociale del fenomeno futurista, è
assoluta; e va dai poeti ai militari, dai pittori agli industriali,
ecc. Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.
zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si. tuazioni
ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non si tratta qui di
temperamento o di mentalità più o meno ardenti. Si tratta di concezione e
di azione che devono spesso basarsi sul comune « campo pratico » dove
s'in- contrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali
negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,
gl'ingegneri). Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni
e alle inaugurazioni, faccia — con istintiva attenuazione del- la
sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché allora è sul terreno
« pratico ». E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi
stes- so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,
che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Con- gresso
futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli- gente accoglienza a
dare alla manifestazione una luce di concordia, rara nelle ancor più rare
grandi adunate di artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso
che fon- dò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di
con- quiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continua-
zione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse dopo, con
larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni fama purché attratto
da poli positivi. Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un
solo futurismo bisognerebbe dire: « futurismo sostanziale », che è
poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illi- mitato,
ascendente. Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini
che le divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi.
racolosamente, quasi contro tutte le volontà. Corrado Govoni, a
seguito della discussione aperta da Bruno Corra, proponeva di riesaminare
la posizione del tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette
que- siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos-
sa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina giustificante
l'estetica futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di
dottrina: - e non dai soli avversari. Quale dottrina, quando
la critica ufficiale vede attra- verso la cultura, divenuta una seconda
natura? Remo CHITI (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile
1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un movimento chiuso
e voleva che i giovani artisti, i quali si dichiatavano futuristi e
aspitavano ad entrare nel nostro gruppo, subissero un lungo periodo di
quarantena. Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore
per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più o meno
entusiastica per avere ingresso libero in un mo- vimento che si proponeva
di attuare nell'arte e nella vita un nuovo ordine di cose.
Dal suo punto di vista, puramente artistico, il crea- tore del «
dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono della originalità non è
largito che a pochi. Per superare il già fatto, mettersi in armonia coi
propri tempi e pre- vedere i lineamenti estetici del futuro occorre
un’intelli- genza ardita, geniale e di largo respiro. Ma
contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vi 141
brante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni altro intuiva
la necessità di creare un clima, di generaliz- zare una tendenza, di
suscitare una vasta atmosfera spiri- tuale in cui si dovessero respirare
continuamente il senso e il desiderio della novità. Ecco la
ragione profonda del suo proselitismo, della sua accettazione, quasi
incondizionata nel movimento, di tutti quei giovani e giovanissimi che
avessero fede nel futurismo. Tale generosità non fu e non
sarà mai faciloneria. Nel fervore del diciottenne c'è sempre
qualcosa di vivo e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di
noi sa per esperienza che è la primavera, anche con le sue
intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di domani. E non
bisogna aver paura che gli entusiasmi sbol- liscano presto. Basta che la
fiaccola timanga accesa e che trascorra di mano in mano agitata e
sollevata continua- mente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna
giovinezza della nostra arte e della nostra vita. Futurismo
di destra? Futurismo di sinistra? Non cre- do che sia il caso di
parlarne. In quanto alle benemerenze e al sacrifici, talvolta eroici, dei
primi banditori del futu- tismo essi appartengono ormai alla
storia. L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia
fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tribu- to di
applausi e di ricompense che essi giustamente meri- tano. Ma ciò
equivarrebbe a una giubilazione e noi ri- schieremmo di diventare dei
sopravvissuti. Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto
di combattimento. In prima linea sempre e all'avanguardia ad
ogni co- sto! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con
il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e accetta
soltanto il futurismo di seconda mano, addomesti- cato dagli abili
profittatori del nostro movimento. Questo disprezzo del rendiconto
e del caso personale, questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani
è un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’otti- mismo
che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché so- 142
no nati con la barba nel cervello, non hanno avuto mai vent'anni e
non arrivano a comprendere che soltanto nel- l'entusiasmo assoluto e
nella fede cosciente ma senza mez- zi termini c'è il lievito di ogni
grandezza futura e d’ogni poesia nuova. Chi ha il torcicollo nostalgico
non può guar- dare dititto innanzi a sé e andare oltre
speditamente. Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si
per- petua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze
istintive e fornito da madre natura del vero e genvino senso
dell'immortalità. Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il
clima fu- turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e
acerbo. Luciano FOLGORE [da: Futurismo, -- Abbiamo raccolto
quattro testimonianze futuriste, è sul futurismo. Una è di Alberto
Sartoris, architetto, una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli,
eri- tico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giorna- lista.
Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel. loli) è un esperto,
studioso ed interprete del futurismo. Ci sono sembrati interventi
significativi e ittdispensa- bili alla puntualizzazione dell'argomento,
visto che si tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al
futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano di dargli alito o di
vivere futuristicamente a tutt'oggi in un mondo, forse, ricaduto nel «
passatismo ». Crali con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato
l'avan- guardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre l'aveva
sostenuta, al di qua e al di là del fascismo. Benedetto con un manifesto
{Futurismo oggi) e poi con un foglio periodico «operativo »,
capace di pro porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi.
Sar toris con un'ottività artistica professionale volta 4 con-
timuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumen- ti di vicerca,
la prima avanguardia cui aveva aderito entusiasta. Belloli puntualizza e
sancisce criticamente con la profondità dell’evperto certi. rapporti e
certe « colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0
accantonate. La critica deve essere seria e intellettual. mente, n
«ideologicamente », corretta. E° quello che abbiamo cercato di fare.
Anche con la pubblicazione di questo testimonianze Carlo
Belloli, critico, poeza « visuale » di sperimen tazione futurista, e
docente nelle università svizzere di estetica {Basilca) e storia della
critica d'arte (Strasbur- go) Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E'
colla boratore de La Martinella di Milano, già del Roma di Napoli,
e della rivista Les Arts di Parigi Organizza come consulente le mostre di
numerose gallerie d'arte di Milano. Enzo Benedetto,
pittore e scrittore, futurista « da sempre » (1923). E' nato a Reggio
Calabria nel 1905, vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica
Futurismo aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri
produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del l'omonimo manifesto
nel dopoguerra (1967). ‘Tullio Crali, pittore futurista e
aeropittore. E' nato nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove
ha lo studio e il più importante archivio del futurismo attualmente
esistente. Futurista dal '29 e creatore della camicia anticravatta e
della giacca antibavero (nel '33), é firmatario nel ‘58 del manifesto
futurista sulla « Sas- sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere
Marinetti nel ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can
lui la continuità del futurismo dapo la guerra Alberto Sartoris,
architeito e professore dll'Univer sità di Losanna. Futurista e amico di
Terragm e di Le Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a
Cossonay Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e nel
‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese. Nel ’36 fonda il
gruppo degli astrattisti a Como, dove collabora con Terragni nel progetto
della città operaia di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il
li bro Gli elementi dell’architettura funzionale (1932), pilastro
teorico del razionalismo architettonico italiano (introdotto da Le
Corbusier) FUTURISMO-FASCISMO: OSMOSI DI DUE MOVIMENTI
DELL'ITALIA CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al
fascismo, o viceversa, al- cuni letterati e pittori, qualche pensatore,
di singolare auto- nomia espressiva. E' il caso di Mario
Carli, Emilio Settimelli ed Arman- do Mazza letterati e giornalisti di
non trascurabile inci- denza che dalla originaria militanza futurista
estrassero dialettica, argomentazioni autonome e maturazione spiri-
tuale, per assumere nel giornalismo fascista più avanzato ruoli
protagonisti. Mario Carli, ufficiale degli Arditi nella prima
guerra mondiale e poi legionario fiumano, fondò con F.T. Ma-
rinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico Roma
Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica divulgazione il teatro
sintetico, le pratiche parolibere dei poeti futuristi e le prime prove
versoliberiste di Giuseppe Bottai che ne fu redattore. In
quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvi- cinerà ai futuristi
per esporre alcune tavole parolibere di accertata ingegnosità, alla «
Grande Esposizione Naziona- le Futurista » nella galleria centrale d'arte
di Palazzo Co- va a Milano, mostra successivamente presentata a
Firenze e a Genova. Mario Carli con la raccolta di versi
liberi e parole in libertà Caproni, pubblicata a Milano nel 1925,
precorse l’aeropoesia futurista degli Anni Trenta. Alla
prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti fil- trate, singolare
repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri- stampato a Roma, nel 1923 per
i tipi di Giorgio Berlutti che dirigerà quella Libreria del Littorio,
editrice di mo: numenti e documenti dell'era fascista. Il suo debutto
di prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novel- le,
Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena.
All’attività letteraria e giornalistica Mario Carli alternerà quella
politica e diplomatica. Nel 1926 pubblicherà a Firenze Fascismo
Intransigente, con prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la
ten- denza più oltranzista del fascismo. Nel 1925 Carli era
stato nominato Console d’Italia in Brasile, per essere in seguito
trasferito a Porto Alegre nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico
assumerà la reg- genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro.
La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a Rio de Janeiro,
Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel maggio del 1926, troverà Mario
Carli a fianco di Mari- netti per arginare le polemiche causate in
Brasile dalla aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in
li bertà. Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà
la parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu- risti
non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle arti e nell'estetica
alle quali la poetica futurista aveva aperto liberi orizzonti
precisamente influenzando il « mo- dernismo » sudamericano.
Emilio Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giorna- lista,
aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel 1915 e con F.T.
Marinetti e Bruno Corra aveva curato la prima antologia del Teatro
Sintetico Futurista, edita da Umberto Notati, a Milano in quel medesimo
anno, nella collezione dei « Breviari Intellettuali » del suo
Istituto Editoriale Italiano. Nel 1917 Settimelli pubblicherà
a Firenze Maschera- te e, nel 1918, I capricci della Duchessa Pallore,
edito a Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta pre-
cursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dia- lettico,
inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici che avranno fortuna
nel linguaggio governativo e giorna- listico italiano degli Anni Venti e
Trenta. Il teatro sin- tetico di Settimelli si differenzia da quello
degli altri auto- ri futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati
d’ani- mo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne alla
corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate 148
a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col: piranno
più di un gerarca in posizione moderata e con- formista.
Filippo Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi- lio Settimelli
e Mario Carli il manifesto Che cos'è il Futu- rismo | Nozioni elementari,
dove vengono considerati « fu- turisti nella politica » coloro che amano
il progresso del- l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno
liberare l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal
parla- mento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro-
positi del fascismo. Così la volontà di perseguire un governo
tecnico di giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio
ec- citatorio di giovanissimi », la determinazione di « espro-
priare gradualmente tutte le terre incolte e malcoltivate, preparando la
distribuzione della terra ai suoi lavoratori » e l'abolizione di ogni
forma di parassitisma burocratico, industriale e capitalistico,
diventeranno tipicamente na- zionalfasciste e fasciorepubblicane.
Il manifesto considera, poi, « futurista nella vita » chi « sa dare
a tempo un cazzotto e uno schiaffo decisivo », chi « agisce con energia
pronta e non esita per vigliacche- ria », come chi « fra due decisioni da
prendere preferisce la più generosa e la più audace, sempre che sia
legata al maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del-
la razza... »: medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo. Nel
1922 Emilio Settimelli aveva dedicato un saggio critico all'opera di
Marinetti, edito a Milano con | tipi di Gaetano Facchi, che può essere
considerato il primo ten- tativo di analizzare la letteratura
marinettiana al di sopra del clamore scandalistico e della propaganda
futurista. Nel 1927 Settimelli pubblicherà a Roma, nelle
Edizioni d'Arte e di Critica, Come combatto che raccoglie i suoi
più polemici scritti apparsi sul quotidiano romano L’Irm- pero, diretto
con Mario Carli. Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli,
subirà al. cuni anni di confino di polizia causati dalla sua intransi-
genza critica verso alcuni personaggi-chiave del regime. Di Armando
Mazza, che ci fu dato di personalmente 149 conoscere
e frequentare, il futurismo si avvaleva per pre- sentare le prime,
contestate, serate propagandistiche nei teatri della Penisola. Eccellente
declamatore di versi, tonante dicitore di manifesti tecnici futuristi,
Mazza possedeva un fisico atle- tico di lottatore greco-romano. Marinetti
affidava, quindi, a Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi
passatisti, mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi e il
vociare degli oppositori. Singolare poeta parolibero, Mazza,
sarà il primo ad organizzate un movimento anticomunista, fondando
nel 1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,
organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Nel 1918 Mazza aveva
pubblicato dall'editore Gaetano Facchi di Milano 10 Liriche d'Amore,
seguito di altrettanti poemi in versi liberi stampati come cartoline
postali raccolte in contenitore di carta crespata. Queste cartoline
poetiche so- no il primo esempio rilevabile e significativo di quella
che negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, « Arte po- stale
», assegnando alla comunicazione poetica il canale inabituale della
spedizione a domicilio del messaggio este- tico. Già nel 1917, Armando
Mazza, aveva introdotto l’uso delle « Cartoline Postali di Guerra »,
edite dallo Stabi- limento Tipografico Taveggia di Milano, di cui
Vedetta (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente de-
terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti. liriche pubblicate
nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una spie
gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a Milana dalle
Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di una pregevole sequenza di
parole in libertà dove la com- ponente tipovisuale dialettizza le scelte
semantiche, tal- volta enfatiche ed irruenti con frequenti ricorsi ad
ana- logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà totalmente
assorbito dal giornalismo e dall’attività politica Sarà direttore
di importanti periodici come La grande Italia e di quotidiani: L'Arena di
Verona, I! Giornale di Genova, Il Resto del Carlino di Bologna.
Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando Mazza
150 farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava
del Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del qua- le
Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose », riser- vando « merde
» ai conservatori e ai romantici. Mazza aveva frequentato Guglielmo Apollinaire
a Parigi e Grasa Aranba a Rio de Janeiro, Benedetto Croce a Napoli,
ai tempi de La Diana e Giovanni Gentile a Milano, proprio mentre il
filosofo stava orientandosi verso il fascismo. Amicissimo di Umberto
Boccioni, che aveva aiutato nei primi anni del soggiorno milanese, Mazza,
era stato di- pinto dal maestro futurista in un esemplare pastello
di rara fattura e di deflagrante cromaticità, che pubblicam- mo nel
1977 fra le opere inedite di Boccioni. Sarà Mazza a favorire
l'attitudine di Boccioni per la critica d'arte, presentandolo ad Umberto
Notari, editore del quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove
il pittore reggerà per qualche tempo la rubrica d'arte. Il fascismo
di Armando Mazza restò sempre moderato e la sua coerenza politica gli
causerà nel dopoguerra 1940-1945 il più completo ostracismo, impedendogli
di continuare la attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia
sino agli ultimi giorni di vita. Il forzoso silenzio
pubblicistico ricondusse Mazza alla poesia alla quale apporterà non
trascurabili contributi in versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il
1959, presso editori inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo
con- fluiranno al fascismo, assumendovi incarichi di alta re-
sponsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone) che, a Roma, diventerà
capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N. (Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale) e Paolo Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di
Segretario Ge- nerale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi
di minore rilievo, come il poeta Federico Pinna-Berchet, au- tore
delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel 1930, il poeta parolibero
giuliano Bruno Sambo e Ferruccio Vecchi, prosatore e capitano degli
Arditi, aderiranno al fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo diventerà
federale di Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi ricopriranno alte
cariche corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919
e battagliero giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928,
poi Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di saggi
di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle edizioni Alpes
di Milano. Anche il grande invalido di guerra Giuseppe
Steiner, piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali
Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la « poesia
grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva » dei giovani fiorentini
negli Anni Sessanta, sarà nominato Consigliere Nazionale fascista. Dal
futurismo si oriente- ranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido
Kel- ler, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un pitale
su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti, il « cagoia » del «
Natale di sangue » fiumano; e la Me- daglia d'Oro ferrarese Olao
Gaggioli, poeta parolibero fu- turista e pluridecorato ufficiale del
XXIII Battaglione di Assalto dei Bersaglieri sul Podgora.
Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Da- quanno, poeta
parolibero e cofondatore a Milano del pe- riodico I Principe, organo
fascista difensore della « Mo- narchia integrale ». Daquanno, che nel
1925 aveva pub- blicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio
dell’artigianato italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa
della Federazione Fascista delle Comunità Artigiane. Un
riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di teatro sintetico
Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa- sci Futuristi », di cui era
stato promotore nel 1918 con Marinetti, passerà ai « Fasci di
Combattimento Siciliani » assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli
pub- blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza
Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa- scismo in
Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set- timelli e Mario Carli,
miei fratelli nella avanguardia arti- stica e politica della nuova Italia
e anime capaci di ren- dere pienamente la sincerità che mi ha mosso a
compiere queste franche pagine obbiettive ». Questo scritto
di Jannelli conferma l’esistenza di una autocritica nell’ambito del
fascismo, di una volontà revt- con
1acusaro adagio. «.., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0- luta... ». Così
Jannelli vede il fascismo nel 1924: «... il fascismo si è rotto in due
pezzi: molta della parte più buona è rimasta bloccata, impedita di agire;
e l’altra par- te trionfa esteriormente unita ma intimamente diversa,
po- co moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi-
gnificante... ». Anche Corrado Pavolini, poeta, autore teatrale,
regi- sta, critico d’arte e letterario, che si era avvicinato al
mo- vimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore futuri- sta
fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un saggio monografico al
fondatore del futurismo pet, infine, pubblicare nel 1927, a Bologna per i
tipi dello Zanichelli, quel fondamentale Cubismo Futurismo
Impressionisnio, ade- rirà al fascismo assumendo importanti incarichi nel
diret. torio del partito e al Ministero della Cultura Popolare. Dal
fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo Fran- cesco Orestano,
Accademico d’Italia, che negli Anni Tren- ta dedica al movimento di
Marinetti saggi di teoria este- tica e di critica letteraria. Orestano
aveva pubblicato nel 1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura
teo- retica aveva particolarmente influenzato il giovane Ma-
rinetti.” Anche Paolo Orano, scrittore, storico della
filosofia e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per
la Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII e al
quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di storia del giornalismo
nella facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, si
orienterà verso il futurismo. Nella raccolta di saggi critici I
Contemporanei, pubblicata a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà
a Ma- rinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al
futurismo considerato estetica nuova di apertura inter- nazionale. Dalla
pittura futurista si muove, invece, verso il fascismo Antonio Marasco,
senz'altro il più impegnato e coerente politico fra tutti gli operatori
plastici del futu- rismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte
rilevante nelle squadre d'azione fasciste di Firenze dove si era
tra- sferito prima ancora di arruolarsi volontario per la guerra
1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di ipri- te sul Piave e
dopo essere stato promotore con Marinetti dei « Fasci Futuristi ».
Nel 1914 Marasco aveva accompagnato Marinetti nel suo secondo
viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo, dove avrà modo di conoscere
Velimir Klebnikow e Wla- dimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di
estrema inventività grafica al medico-pittore Nicolaj Kulbin,
al pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poe-
ta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits, al mu- sicista A.
V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma. rasco presenterà sempre
componenti sperimentali, non con- dizionata da temi fascisti o da enfasi
dell'aviazione mili- tare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte
della neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco
precorre il cosiddetto « astrattismo » delineatosi nell’am- bito della
milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghi- ringhelli e può essere
considerato uno dei pionieri del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Particolarmente affezionati a Marasco avevamo
avuto modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima mostra
personale a Milano, di carattere antologico, attra- verso la quale il più
vasto pubblico riuscì a scoprire le sue ricerche preastratte e
protoconcretiste realizzate a Fi- renze fra il 1923 e il 1930
Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fa- scismo ebbe
coerenza di adesione alla Repubblica Sociale Italiana dove ricoprì
importanti incarichi nella rinnovata Direzione Generale delle Belle Arti
e dei Beni Culturali del Ministero della Cultura Popolare. Questo
magistrale pittore svolse anche attività di scrittore e di critico
d’arte e un suo libro, pubblicato a Firenze nel 1935, Parrorami
allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.
Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, pro- mosse i « Gruppi
Futuristi Indipendenti », attivi a Firen- ze fra il 1925 e il 1958, che
rivelarono personaggi della importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto
razionalista, tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari
costruzioni civili per la difesa bellica. Quando, nella se- conda metà
degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fa- scista contro il
futurismo, accusato di difendere l'arte « astratta » considerata « giudea
e massonica », Matasco sarà a fianco di Marinetti per chiarire i termini
di indi- pendenza dell’« astrattismo » plastico da ogni motivazio-
ne di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o mura- toria. Se
disponessimo di maggiore spazio per analizzare compiutamente questo
pericoloso momento dei rapporti fu- turismo-fascismo ne risulterebbe la
conferma di una pre- cisa interdipendenza di propositi e di azione fra i
due movimenti. Il futurismo non condizionò mai le proprie libertà
espressive, i propositi di rinnovamento, di costan- te evoluzione
spirituale, alle esigenze agiografiche del fa- scismo che, del resto, non
considerò il futurismo come arte di Stato, riservando questo pericoloso
privilegio al movimento del Novecento, celebrarore di miti
romanistici e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo,
pur mascherato da un malcompreso funzionalismo. Antonio
Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla so- glia degli
ottant'anni. Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto,
sino all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di auto-
noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let- tere di accorata
italianità, preziosi appunti di teoria pla- stica che, un giorno, dovremo
pur raccogliere e pubblicare come contributi fondamentali alla storia del
costruttivismo e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non
era- vamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fa-
scista alle libertà espressive promosse e favorite dal futu- rismo, né ci
si potrà accusare di aver posto le nostre pri- me ricerche futuriste al
servizio dell'apologia di regime. Così le nostre Parole per la
Guerra, pubblicate nel mar- zo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in
Armi, sovven- zionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai
canoni conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli
an- ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta
e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica
internazionale più obiettiva e attenta. Il nostro poema Bimba /
bomba, del 1943, può essere, infatti, considerato il primo esempio
esistente di poesia concreta a struttura semantica reversibile e a
susseguenza ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già
seria- listico. Il nostro fascismo eta quindi disarticolato
dalle pra- tiche dell’estetica futurista, proprio come si era
verificato per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo
Buz- zi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In- fatti
anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944 dalle Edizioni
Etre (Repubblica) con un «collaudo » di Martinetti, piuttosto di
risolversi nell'abituale apologia guetresca di quel periodo, introducono
un modo nuovo di poetare inaugurando le problematiche di quella «
poesia visuale » che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi
internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideo- logia
politica di Marinetti, le teorie del suo particolare na- zionalismo «
prefascista » sono raccolte in due volumi pub- blicati in tempi diversi.
Democrazia Futurista, edita a Mi- lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la
sintesi delle posi- zioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato
dopo- guerra 1915-1918. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui
nel 1918, dopo Ca- poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti
» con Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel- mo
Jannelli, Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia- como Balla, Ottone
Rosai, Fattunato Depero, il poeta-pit- tore cremonese Enzo Mainardi, lo
scrittore Remo Chiti, il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il
chirur- go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del
poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi- Sta settanta
intellettuali e uomini di varia estrazione cul- turale. I
«Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi, gradualmente in «
Fasci di Combattimento » confluendo nel. lo squadrismo fascista. Così,
quando i fascisti partecipe- ranno per Ja prima volta alle elezioni
politiche del 1919, 156 rinetti, Piero Bolzon, il
poeta-aviatore Giacomo Macchi, Baseggio e Podrecca. Futurismo
e Fascismo, pubblicato da Franco Campi. telli, editore in Foligno, nel
1924, indica, invece, la per- sonale interpretazione della dottrina
fascista praticata da Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai
numerosi affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con
il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca- po della Nuova
Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli,
il futurismo, già in que- gli anni, istigherà il fascismo alla fondazione
dell'Impero, precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si
concluderà con la conquista dell'Etiopia. Marinetti scriverà
nel 1924: «... il Fascismo, naro dall’interventismo e dal futurismo si
nutrì di principi fu. turisti... » Una storia parallela dei
due movimenti, ancora da scri- vere, dovrà tener conto della mai
rinunciata indipendenza futurista che non condizionò le esigenze di
libera ricerca espressiva alla necessità della politica
dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale
prima come fascista e dopo come futurista. Avevo sedici anni quando
nel 1921, proprio in corti. spondenza del mio compleanno, sottoscrissi
una domanda di ammissione ai « Fasci di Combattimento ». La doman-
da fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come soci
presentatori, i quali compirono coscientemente un pic- colo falso
alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia
ammissione come socio ad ogni effetto. Così diventai a pieno titolo uno
dei pochi iscritti della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di
Combat- timento », che aveva allora sede in una baracchetta per i
bagni di mare, in disuso. Perché questo sedicenne studente del
Liceo aveva ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente
pericoloso? A mio avviso, furono determinanti, l’amore per la Patria,
nato dentro durante fa guerra sull’esempio di un avo materno che ne aveva
avuto, forse, di troppo; l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente
indignazione per quanto accadde subito dopo con l’attività dei
cosid- detti progressisti del momento, ostili ai reduci, in con-
trasto con la spavalderia ed intraprendenza di questi ul- timi.
Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne, invece, due anni dopo,
con la scoperta di Zang iumb tuumm e l’incontro con F.T. Marinetti
Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sem- brò una particolarità
personale e la confessai un giotno — dopo tantissimi anni -— a Mario
Dessy, e lui mi disse che gli era accaduto lo stesso benché avesse cinque
anni più di me. Comunque è chiaro che nel periodo fra il 1919 ed il
1922 vi fu un rapporto di identità ideale fra queste due forze, anche se
vi furono dissensi spesso di carattere costruttivo, E’ difficile —
infatti — che possano andare in tandem per lungo tempo movimenti di
carattere poli- tico e movimenti di carattere intellettuale o culturale.
Le ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale, anche se
basa la propria forza nelle realtà della vita (come il futurismo), ha il
suo fulcro nella idea-base che difende con ortodossia e non è disponibile
per transazioni ideolo- giche. Il movimento politico, invece, pet propria
natura, specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene dut-
tile e transigente al fine di mantenere è consolidare la proptia forza
concreta, allargando la base dei consensi. Il Futurismo prima
della guerra mondiale si caratteriz- za artisticamente con l'invenzione
dei grandi temi di rin- novamento nei settori di tutte le arti e, in
veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per
que- sta, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed anti-
clericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale ed agricolo
tecnicamente progredito, che si progettava astrattamente, certamente
irrealizzabile. Qui i tentativi di un’azione politica che non aveva,
però, un valido autonoma sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da
poeti ed ar- tisti? Nel tempo in cui Marinetti iniziò il «
Movimento », le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo
svi- luppo sociale al fine di un miglioramento della situazione
economica delle classi più disagiate e trascurate, trovava- no una sede
formalmente appropriata nelle spinte del sa- cialismo deamicisiano; ma
tale situazione ebbe durata bre- ve perché questo socialismo si sviluppò
in senso interna- zionalista apatriottico collettivista antindividualista
e fu sconfitto dagli eventi della prima guetra mondiale. Tanto è
vero che dal suo seno, a guerra conclusa, prosperarono il comunismo ed
altre scissioni e nacque il fascismo. Sono noti e possono essere
facilmente consultati i do- cumenti delle manifestazioni spiccatamente politiche
del movimento futurista che precedettero la Fondazione dei « Fasci
di Combattimento ». Intendo rifetirmi al « Pro- gramma Politico Futurista
» dell'11 ottobre 1913, firma- to da Marinetti Boccioni Carrà Russolo,
all'azione politi- ca svolta da La Balza Futurista fondata da Di
Giacomo Jannelli e Nicastro del 1915, e dei «Fasci Interventisti
Siciliani », di Roma Futurista e dei relativi gruppi, nati nel 1917-18,
del Partito Politico Futurista sempre del 1918 che concretizzava un suo
programma nel libro Democrazia Futurista di Marinetti, eccetera eccetera.
Tutte queste for- ze si concentrarono nel movimento fascista nel 1919,
sia aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piaz- za
San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per forza
d'inerzia. Il fatto è che — di solito — quando si parla di
par- tecipazione politica dei futuristi, ci si richiama soltanto al
ricordo dell’attività degli artisti che militarono con la qualificazione
di « futuristi ». Vale a dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi
ovviamente ad esaminare il con- tributo di coloro che hanno raggiunto
maggiore notorietà, trascurando i « minori ». Ma questi ultimi erano in
nu- mero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto che
i maggiori spesso presi del tutto da altre attività, non erano
altrettanto validi e disponibili in campo politico. In verità, il «
Futurismo » di quel tempo è stato un movi- mento a larga partecipazione
di giovani, di tantissimi gio- vani. Non tutti poterono — ovviamente
militare nel campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere
ri- cordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e
furono a migliaia i militanti di futurismo che partecipa- rono ad episodi
fascisti negli anni precedenti, o appena suc- cessivi, alla marcia su
Roma. Non credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddet-
te schiere dello « squadrismo » molte furono le partecipa- zioni
futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni futuriste. Basta
ricordare la prima azione di Marinetti e Ferruccio Vecchi nel 1919 (16
aprile: Piazza Mercanti Mi- lano) e ricordare i tanti nomi dei militanti
futuristi che ebbero più spicco in campo politico che in quello
dell’arte. Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel fiume
che diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come ho già
accennato) movimenti di ogni genere che avevano un minimo comune
denominatore nella volontà di rinnovare in qualche modo l’Italia che, pur
vittoriosa nella guerra, si dimenava in serie difficoltà ed era incapace
ad affron- tare la svolta storica che la vittoria aveva aperto.
Anche i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso
forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con capacità ed
intendimenti politici ed il secondo come lette- rato e poeta), ma dei
quali non si è ancora scritta la storia, né accertato la reale
efficienza, vi aderirono. Come aderì Marinetti con tanti altri futuristi
che risultano elen- cati nella schiera dei cosiddetti « sansepolcristi
». In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futu-
risti sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nel- l’arte gran
parte dei propositi del futurismo. In questa illusione fummo cullati da
alcuni elementi: la impostazio- 160 ne
altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del combattentismo
e del volontarismo, l'amore per il nuovo ed il rischio, il pragmatismo
attivo dimostrato immedia- tamente con i primi atti di governo, eccetera.
Va anche rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni
non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità di Mussolini
era molto al di sopra non solo di quella dei suoi collaboratori politici,
ma sovrastava la media dei cer- velli politici di quel periodo. Tanto è
vero che furono ap- punto gli avversari a votargli subito i « pieni
poteri » che gli consentirono l'avvio della prima gestione
governativa. Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre
dapprima le simpatie collettive ed — in seguito — a conquistare una
enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori di un tempo, ma
anche da parte di ex avversari e simpa. tizzanti e — nei periodi più
floridi — perfino dai nemici del sistema politico che egli cercava di
sviluppare. Quando il fascismo s’insediò al governo per realizzare
la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato dalla debole
monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima una sosta di
aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro- blemi immediati dalla cui
soluzione dipendeva il recupe- ro dell'ordine econamico e politico. Per
questo, Mussolini non si sbarazzò immediatamente degli avversari che
erano troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a
collaborare per il meglio, pur costituendo nello stessa tempo zone di
resistenza alle innovazioni Così anche nei fatti dell’Arte
ovviamente meno pres- santi, ove non comparvero personalità « nuove » che
aves- sero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivolu-
zionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari. netti e nella
quasi totalità si convinsero che la « rivolu- zione » potesse realizzarsi
per pradi anche in Arte. Che la forza del nuovo potesse penetrare per
gradi nelle isti- tuzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione.
Illusione giu- stificata sul momento non solo dal fascino personale
di Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe sue
caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica e precisa
oratotia che andava direttamente allo scopo in 161
modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale capo futurista. Se
si aggiunge inoltre l'amicizia personale fra Mussolini e Marinetti,
vicini anche in altre precedenti azioni politiche, si comprende come il
movimento rivolu- zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a
fian- co del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba-
sel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze immediate
dell'esercizio del potere su una nazione che di rivoluzionari di
qualsiasi tipo ne ha avuto — per la veri- tà — sempre pochi, anche se
gonfiati ad oltranza quando occorre, in tutti i testi di storia antica e
recente. I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila
del fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i]
messaggio che concluse il Congresso futurista di Milano (L'Impero, 27
novembre 1924): « L'ultima riunione del congresso futurista è
stata de- dicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti
espose alla numerosa assemblea una dichiarazione prece- dentemente
elaborata in accordo con i maggiori futuristi politici, la lettura della
dichiarazione fu entusiasticamente approvata ed acclamata in ogni suo
punto. Ecco Ja dichia razione: «“I futuristi italiani, primi
fra i primi interventisti nella piazza e sui campi di battaglia e primi
fra i primi dician- novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte
lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito
Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen- sabile liberati
del parlamento. Secondo: restituisci al fa- scismo ed all'Italia la
meravigliosa anima diciannovista di- sinteressata ardita antisocialista
anticlericale antimonar- chica. Tetzo: Concedi alla monarchia
soltanto la sua prov- visoria funzione unitaria, rifiutale quella di
soffocare e morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta
Italia di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-
ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al- l'Italia
immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la opposizione socialista
antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di Albertini con una
ferrea dinamica aristocra- zia di pensiero.«“Tu puoi e devi far ciò. Noi
dobbiamo volerlo e lo vo- gliamo. F.T. Marinetti - Capo del Movimento Futurista
Italiano”». Sono inoltre innumerevoli le manifestazioni dei
futu- risti in tanie occasioni, con opere scritti ed anche con la
partecipazione concreta alle guerre di quel periodo. Vo- glio ricordare,
però, un solo scritto di Fillia (morto nel 1930 e che adesso cercano di
passare per antifascista) il quale nel 19527 in occasione della
Quadriennale di Tori- no, così scriveva sulla sua rivista Vetrina
Futurista: «... Bisogna, però, giungere a “convincere” il
grosso pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter
pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci cir- conda, non
basta: è assurdo riconoscere il futurismo come manifestazione d'Arte ed
ammettere contemporaneamente le antiche manifestazioni. La vita può avere
individual mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere
in- quadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente alla
vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di esistenza a
intere categorie di pittori rimasti spititualmen- te arretrati: ma è
necessario preparare il pubblico alla loro graduale eliminazione dalla
vita artistica ufficiale, fino al riconoscimento del Futurismo “arte di
Stato” massimo ri- conascimento che lo caratterizzerà nella sua
importanza... ». Purtroppo però le autorità artistiche avevano il
so- pravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia-
centini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura no- vecentista,
effettivamente arte del regime. E noi futuristi interpretavamo le isianze
di rinnovamento dell’arte senza alcun riconoscimento dal Regime che
ritrovava sé stesso nelle manifestazioni novecentiste.
Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti. E poi?
Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entu- siasmi e
le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la mag- giore maturità.
Ma non creda di sbagliare se affermo che noi futuristi vivemmo quel tempo
con spirito indipendente e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo
avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità
artistiche e subiti obiorto collo quando necessario. Poi andammo
all'ultima guerra, che fu sconvolgente per tutti. To ne vissi
scrupolosamente la mia parte con coeren- za. Fui costretto fuori a lungo.
Pet un anno di guerra, ne subii sei di prigionia e non conosco nei
particolari ciò che è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie
esperienze. AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di
sbarcare in un altro mondo al quale non mi sono ancora completa- mente
assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile del ‘47 cominciai
la mia nuova personale battaglia per il futurismo con la mostra alla «
Galleria di Roma » inaugu- rata da Benedetta c dedicata a F.T.
Marinetti. Continuai ancora e vado avanti con i futuristi soprav-
vissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non disdegnano
l’idea del futurismo che continua e si rinnova attraverso le spiccate
personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista Uno dei
pochis. simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora attuale? SÌ,
ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua attualità perché si è
espresso, si è mosso, e ci parla ancora. Ma non certo per chi ci ha
mangiato sopra, per chi non è mai stato futurista, ed ha espresso
solamente « necrofilia », vera e propria « necrofilia ».Il futurismo di
prima, quello per cui lei aderì al movimento, o vi st convertì, come la
investì per così dire, o come la ispirò? R. — Non mi sono
affatto « convertito », perché non c'era niente da convertite. Mi sono
trovato di fronte al 164 futurismo come un’anima
candida, che non sa e non è con- sapevole di nulla. Mi sono ritrovato una
simpatia incon- scia per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino
illustrato di Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico mio, che
la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciam- mo a litigare, e
per litigare ad approfondite l’argomenta ecc. ecc. Così ho cominciato ad
essere interessata al futu- rismo. E sono partito senza avere una preparazione
di me- stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere o
disegnare, anche se poi una specie di grillo della coscienza mi ha
suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure da solo (anatomia,
prospettive, ecc ). L’astratto e il figu- rativo erano | temi o le
prospettive dominanti. Ho cercato una « terza via », che fosse tutta mia,
tutta personale: una ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho
lasciato il figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di
dover dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata
a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi. mento.
L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno del futuro, o, per
allora, del « futuribile ». E fu una delle realtà che mi diedero più
spunti, più ispirazione (l'Idrovo- lante italiano, D’'Annunzia e il volo
su Vienna, e il campo di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato,
ecc.). Così sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora
oggi. Marinetti, invece, per quello che lo frequentò o poté
essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero futurista, © forse
solo un grande « maestro »? R. — No, non lo considero un maestra,
perché non ha mai voluto essere un « maestro ». Ci ha sempre
stimolato e spinto a lare, senza mai dire però come dovevamo fare
Era contrario ad ogni gerarchia nel movimento del futuri. smo. E si
opponeva sempre a Boccioni e Prampolini, che volevano imporre la loro
pittura. Voleva che ognuno di noi fosse libero e indipendente. Prampolini
invece voleva fare il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno
fosse se stesso e non ha creato nessuna scuola. Amava la sua
libertà e la sua indipendenza a tal punto che non poteva imporre
insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva influen- zato in questo senso,
nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata. Io lo ricordo e lo
ricorderò sempre con rico- noscenza. Quasi come un padre. O come un
fratello map- giore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre
de! resto pensato. Gli altri hanno tutti « mollato ». Lui è an-
dato avanti fino all'ultimo. L'unico che può personificare il futurismo è
fui, l’unico che non ha rivestito patine di cul: turame
intellettvalistico, come hanno fatto invece molti al- tri (Soffici,
Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere futurista sempre e
comunque, anche nel gusto del contra- sto. Amava la luna, e scrisse un
manifesto « contro il chia- ro di Juna ». « Uccidiamo il chiaro di luna
», vi si diceva, forse contro i poeti. Ma non era poeta? Predicava la
guer- ra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava la madre
e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté la donna sul piano
ideologico. In questo è veramente futu- rista. E lo è solo lui. Gli altri
non lo sono mai stati. Il futurismo di Marinetti che accento o che
an- golazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filoso-
fica 0 piuttosto politica? R. — Politica no, assolutamente e mai.
Filosofica nean- che, se non forse in senso attivo, ma allora « senza
pen- siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto quando la
patria entra in pericolo », aveva detto Marinetti in un momento cruciale
della nostra storia nazionale. Il manifesto politico del fuuttismo è
conseguenza del fatto che esso sta movimento d'arte e di vita, e come
tale anche di vita poli- tica, tout court. Il manifesto politico è del
’13. Dopo Ja fine della guerra l'accostamento agli arditi o al
fenomeno dell’« arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce
in vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esem-
pio (ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo
accostamento di Mussolini alla monarchia e alla chiesa Ma- rinetti si
stacca. Abbandona il partito e si ritrova pressoché in miseria, con
moglie e figli. Aveva grande ammirazione ed amicizia per Mussolini, che
non credo fosse ricambiata per una certa forma di invidia-gelosia
mussoliniana nei con- fronti di Marinetti. Il regime gli offriva
incarichi 0 preben- de, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad
offrirgli la presidenza dell’Associazione dei grandi alberghi italiani,
pro- 166 prio a lui che disprezzava l’industria del
forestiero. Accer- tò solamente, e sollecitato, la segreteria
dell'Associazione Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata
al solito « arraffone » di turno. Tuttavia si tenne sempre in
disparte e non fece mai politica attiva, non partecipò mai direttamente
al regime, che anzi forse osservava contrariato, a parte solo qualche
onesta e sincera manifestazione di sim- patia per Mussolini.
Nel ’35 si oppose alla presa di posizione politica di Hit- ler
contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si manifestò e sfociò nella
censura e nella repressione dell'arte. E nella stesso momento organizzò a
Berlino una mostra di aero- pittura futurista che creò non pochi problemi
e suscitò non poche difficoltà anche diplomatiche fra i due governi
ira liano e tedesco. Oltre che produrre una situazione difficile e
imbarazzante per le posizioni o i movimenti artistici e in- tellettuali
della Germania dell’epoca. In Italia fu l’unico in questa occasione a
prendere posizione ed esprimersi con- tra l’ingerenza politica e
l'intervento del regime di Hitler nella cultura e nell'arte.
Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui (presidente
della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini insieme ad altri «
consiglieri regionali » del regime. Ma- rinotti si era accinto a
raccontate a Marinetti che tutti i consiglieri avevano « relazionato »
Mussolini e che nessu- no aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose
andavano male, tranne uno, il consigliere sardo, che aveva
sostenuto la stanchezza della gente, la maldicenza, il
tradimento... Marinetti osservava che non era possibile che non si
sa- pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non era
possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da lui e mi
comunicò che il consigliere sardo era stato nomi- nato da Mussolini
ispettore generale per tutta l'Italia. Nel ‘44 poi si mosse da
Venezia e risalì verso la Lam- bardia, perché non se la sentiva di
starsene in disparte a « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto in
versi, l'ul- tima sua espressione letteraria s'intitola appunto:
Musica di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato
167 di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già
definizione sintomatica e totale dell'opera. D. — Ailora,
Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu fino a che punto? O non lo fu, e
fino a che punto non lo fu per essere futurista? Marinetti è stato
sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché
ha se- guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futu-
rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra in politica
». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a casa sua, in un gruppo di
amici, a parlar di Majakowski e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: «
Ma Majakowski è un comunista ». Ed egli allora ribatté
immediatamente: « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è
prima di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci- smo
si può considerare forse il fatto che fosse nato al l’estero, che fosse
educato in Egitto alla cultura francese, spesso pesantemente sprezzante
verso l'Italia. Sentì quindi una specie di aspirazione all’Italia 0, più
ancora, di nostal- gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo
come fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò
tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare e dare un
certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu- ra italiana. E pensò o
vide che Mussolini potesse essere l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e
per darle una sua nuo- va base, culturale ed artistica. Senza sapere,
alle origini o senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a
Parigi, la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in
buona fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-
naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi economici), ed
ebbe la Biennale di Venezia {come « una riserva indiana »). Il suo è un
fascismo di speranza o di desiderio, nella speranza di poter vedere
realizzato il suo futurismo. E' contrario al « Novecento » e al
classicismo « romano » alla Piacentini, che Mussolini invece
appoggia- va. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di
eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, men- tre il
nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto che Marinetti
appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a
Venezia, il futurismo è stato accettato sì, ma mon con la considerazione
che Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet- tare
all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in Italia. E invece è
stato accolto sì il futurismo, ma quasi messo in disparte.
Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di- scorso di
presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad alta voce, presente il
Ministro dell'Educazione Nazionale, lamentando l'ingiustizia per
l'esclusione dell'unico movi- mento d'avanguardia dell'arte
italiana. L'anno dopo Mus- solini stesso gli concesse un padiglione di
riserva, che do- veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi
(la « riserva indiana », già summenzionata). D. — Mussolini
invece, secondo lei, fu futurista? R. — E' stato un politico ed ha
appoggiato Marinetti per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il
futu- rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che
avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma nei suoi simboli
e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che era rimasto fuori dal
futurismo. D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il
futurismo di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si
possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega mento, e fino a
che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per
Mari- netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-
mente diverse. D. — Non si può quindi parlare di futurismo
fascista, nemmeno del primo, quello delle origini? R. —
Finché un movimento politico è in fase rivo- luzionaria, le posizioni
della « rivoluzione » culturale con quelle politiche coincidono; poi però
quando il movimento politico diventa regime si burocratizza, e allora non
può non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-
naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi- che di un
«partito». Ecco perché esistono punti di contatro 169
o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa- scismo politico
dei primi anni, poi rallentati o rilasciati quando si afferma l’« ordine
romano », utile al regime, ma speculare di un passatismo senza mezzi
termini, e totale. Marinetti tollera questa esigenza politica di
Mussolini, ma non la condivide od ammette in campo artistico e
cultu- rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-
cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per principi
ideologici, anche violentemente, senza però in- taccare l'amicizia, che
rimaneva sempre e comunque. D. — Resta oggi il futurismo? E resta
come realtà artistica solamente, o anche politica, nella sua
dimensione d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito
ovvia- mente, e da tempo. Forse resta il futurismo, come ten- sione
di rinnovamento? R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua
posizione di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di
nuove forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta
per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in sostituzione.
Il futurismo aveva invece dato i suoi mani- festi. Volle distruggere, ma
propose ciò che voleva rico- struire. Anche oggi, per quel che resta, il
futurismo cerca un suo rinnovamento che si superi continuamente.
Oggi c'è molta saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca
l’entusiasmo, nonostante la grinta. Penso che esista an- cora futurismo
oggi, perché esiste ancora temperamento di novità, e di rinnovamento.
Perché esiste ancora una spinta vitale di « ossigeno ». E l'opera deve
avere un suo sangue, se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve
vivere, o un sangue per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore
assoluto che resta, non si toglie, perché è ineliminabile. Anche in
bottiglia, nella plastica, rarefatto 0 alla luce del sole. Il futurismo è
un po’ come l'ossigeno, o l'anima o lo spirito del lavoro e dell’opera, o
della vita: è un po' il suo « entusiasmo ». [Intervista u cura di
Alberto Schiavo] Per quanto riguarda lo svisceramento dei
collegamenti fra Je correnti del futurismo indipendente come
movimen- ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-
litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce al carattere
autonomo del futurismo torinese e al fascismo delle origini, è ovvio che
i tapporti intercotsi fra di loro furono lungi dall’essere quelli di un
matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari
accordi immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che
abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una vera rivoluzione
(quella artistica e spirituale scatenata dal futurismo), in un clima
fascista che di rivoluzionario non ebbe in seguito che la sola
etichetta. Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in
pie- na italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin cipî
che il primo fascismo stabili quando provò a inte- grarsi nel campo
difficile della moderna civiltà europea. Alla stessa stregua e per
raggiungere gli stessi fini il futu- rismo piemontese trattò anche con
l’anarchismo e il co- munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una consi-
derevole influenza negli sviluppi dell’architettura. Il senso
altamente novatore di Fillia e la sua molte. plice attività (stupefacente
in una esistenza così breve) per: sonificano le forme coerenti e concrete
dei concetti più originali e più saldi delle imprese del futurismo
torinese. Figura rappresentativa dell’essere istantaneo, Fillia
non temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva come una
freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che per ordinarie ragioni
razionali ed estetiche militava in margine della Chiesa cattolica
apostolica e romana di quel l'epoca, egli affermava con rigare di logica
e con argomen- tazioni arditissime che la religione ha relazione di
somi- glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri dottri.
nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai nuovi
concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità, 171
la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'imme-
desimava con quello del futurismo in cui si cercava una forza di
liberazione, e la trovava in quel movimento, cie- camente.
Originati da una geometria astratta superiore, i suoi dipinti possiedono
quella qualità rara di non essere visà, e perciò non ricavati dal vero,
ma di sorgere senza sha- vatura alcuna dal proprio io, e come se
l'artista non vi fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta
con un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces- sava
di inventare e di portare sempre più avanti i perfe- zionamenti pittorici
del futurismo. Tuttavia, una continui- tà è discernibile nella sua arte
che è, innanzitutto, di una grande purezza, di una grande acconcezza, di
una grande serenità. T colori si oppongono l'uno all'altro e
si sovrappon- gono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo,
fan- tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contempla-
tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema dolcezza, e dalla
quale si spande una pace angelica che sembra invalidare, apparentemente,
taluni assiomi violen- ti della dottrina futurista. Ma è invece la prova
Iampante che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude
quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere. Si tratta di
fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di combattere ferocemente per
amare di un più grande amo- re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi
del sentimenta- lismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso
con- voglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che
invade la mistica futurista. Gli errori di pensiero che possono
insinuarsi nella men- te di un poeta come Fillia, che non può sempre
ridurre tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel
lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile, talvolta
irresistibile, porta oltre la matura e si perde in un mondo di realtà
fantasmagoriche. Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti
si nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione: vi
era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di poeta, troppa
felicità per i suoi amici, perché si possa at- tribuire un significato
ironico alle sue composizioni sacre come non hanno mancato di fare
borghesi indirozzabili e bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla mente
inceppata. Ho buona speranza per Fillia, per questo artista
pen- satore che fu anche un provetto artigiano; non mi rat- trista
la sua morte prematura. Un suo misterioso paesag- gio dell'ex raccolta
Ferrari di Ginevra mi scopre un ci- mitero e la scala rossa che lo
vincolò in eterno con gli eroi: quello stesso cimitero e quella stessa
scala di Sant'E- lia. Distinguo la luna bianca della sua grande dolcezza,
e le cose della terra non reggono, sono rovesciate su loro stesse.
Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo allo spirituale
puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che un tentativo di tal fatta
non deve giungere al disprezzo della cosa creata, dell’Incarmazione: ma
non è il caso di Fillia le cui forme della sua arte si disegnano, si
creano e si distaccano dalla loro causa prima. Tutto il
lavoro dell’opera si riporta ad una giornata ben definita della creazione
dove gli uomini non sono ancora che allo stato di abbozzo, ma dove la
macchina respira già, dove i fantasmi girano secondo una traietto-
ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione. Una
siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo pudore è un perpetuo
tremita davanti alla bellezza; essa sprigiona cdelicatezze insospettate,
scrupoli inauditi e non- dimeno una audacia che le viene soffiata dallo
spirito. Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia
è certamente un pittore spirituale. La bellezza intrinseca del. le
macchine corrispande ad un suo bisogno di esattezza sovrumana, di
perfezione nelle linee e negli spazi. E’ una dimostrazione pratica che
consente all'uomo di disinca- gliare la vera vita, di ricercare quegli
elementi universali dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed
imperiali delle Nazioni e ne rendono lo spirito eierno. Per
non spappolarsi nella struttura, per non sgreto- larsi alla radice, il
futurismo è lui stesso alla ricerca del- l'eterno. E’ ben vero che questa
eternità non è sotto i nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a
noi, In questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi,
diceva Fillia, perché meno legati degli altri uomini al passato e al
presente, e più ferventi dell'avvenire. Questo richiamo ad una tradizione
spirituale, questo allenamento {secondo la felice definizione di
Marinetti) non ha nulla di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte
ma stimo- la, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il
con- tributo molto importante di quella autentica tradizione che
serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je forze
novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo irragionevole del
passato e di ciò che la vera tradizione conserva pertanto di eternamente
vivo. Un rifiuto non controllato potrebbe anche andare a scapito del
progresso stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva
nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali dell’arte passata
perché non si possono negare quelli del- l’arte nuova.
L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso il progresso nel senso
più alto della definizione. Trasfor- mandosi da una pitiura all’altra
svolge senza contraddi- zioni la sua sincerità primitiva. Un futurista
non può dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel
la del suo movimento: egli porta il peso di un passato inventato che non
può rinnegare senza distruggersi. Questo passato inventato risale
certamente al di là del futurismo — che costituisce una specie di
dialettica dello spirito — e affre l’unica possibilità capace di
abbat- tere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come
se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio. Il
futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta a farle scoprire
senza remissione. Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era.
Dalla sua opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di
Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto, si stacca un’arte
pubblica universale che l'architettura fun- zionale rivela, contribuendo
efficacemente alla diffusione delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e
degli slanci del purismo di Le Corbusier. Nell’intento di realizzare ad ogni costo,
Fillia si ap- poggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci di
Ma- rinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera, ne lo
sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava sol- ranto dell’Italia
che amava. Le due idee rispecchiano gli scopi e i metodi creativi di quel
movimento indipendente di buona lega che fu il futurismo torinese.
SARTORIS per conto dell'Editore Volpe dalle Arti
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Bian- co e nero, Roma Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma Che cosa è
il futurismo, Astrolabio-Ubaldini, Roma Acquaviva, Le colonne d'Ercole della
modernità. Futurismo, Gastaldi, Milano Altomare, Incontri con Marinetti e il
futurismo, Corso, Roma Apollinaire, Lettere a Marinetti, All'Insegna del
Pesce d'Oro, Milano Benedetto, Futzrismo 100 x 100, Edizioni Arte Viva,
Roma Buccafusca, Studenti fascisti cantano così, Casella, Napoli
Paolo Buzzi, n e la Spirale, Edizioni fututiste di « Poesia », Ilano.
Francesco Cangiullo, Le serate futuriste, Ceschina, Milano, Carli, Fascismo
intransigente, Edizioni dell'Impero, Roma Corra, Sar; Dunn è morto, Einaudi,
Torino 1970. Fillia (Luigi Colombo), Il futurismo: ideologie,
realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Ttaliano, Sonzogno, Milano
Marinetti, Mafarka il futurista, Milano 1910. — Uccidiamo il chiaro
di luna, Milano La Battaglia di Tripoli,
vissuta e cantata, Milano Ll’aeroplano del papa, Milano. Guerra, sola igiene
del mondo, Milano. Otto anime in una bomba, Milano Democrazia futurista, Milano
Al di lè del comunitmo, Milano Lussuria velocità, Milano N tamburo di fuoco,
Milano. Gli indomabili, Piacenza. Futurismo e fascismo, Foligno Primo dizionario aereo, Milano Marinetti e il
futurismo, Roma Spagna veloce e toro futurista, Milano Il paesaggio e Vestetica
futurista della macchina, Firenze. Poemi simultanei futuristi, La Spezia. L'aeropoema
del golfo della Spezia, Milano. Il poema africano della Divisione «28 ottobre
», Milano. Mario Carli, proflo, Milano
Il poema di Torre Viscosa, Milano Patriottismo insetticida, Milano. ll
poema non umano dei tecnicismi, Roma L'esercito italiano, Roma. Cento uomini e
macchine della querra mussoliniana, Roma Quario d'ora di poesia della X Mas,
Milano Teoria e invenzione futurista,
Milano. La grande Milano tradizionale e futurista, Milano. Lettere ruggenti a
F. Balilla Pratella, Milano. Poesie a Beny, Torino. Gir RA l'esperienza
futurista Vallecchi, Firen- ze,Sanzin, fo e il futurismo, Istituto di
Propaganda Libraria, Milano 1976. Emilio Settimelli, Come
combatto, Edizioni d'arte e critica, Roma Ardengo Soffici, Primi
principi di un'estetica futurista, Vallecchi, Firenze Somenzi, Difendo il
futurismo, Edizioni A.R.T.E., Roma Tato raccontato da Tato, Zucchi, Milano. Futurismo
con e senza fascismo (A. Schiavo) 5 Soffici, Marinetti, Boccioni,
Russolo, Sant'Elia, Si- roni, Piatti, Futurismo e «guerra sola igiene
del mondo » 59 Carli, Bottai, Futurismo e socialismo 71
Tavolato, Volt, Marinetti, Futurismo e democrazia 87 Settimelli,
Marinetti, Futurismo e primo fascismo 97 Marinetti, Carli, Somenzi, « Secondo
futurismo » e fa- scismo-regime ili Corra, Govoni, Buzzi, Chiti,
Folgore, Futurismo di destra e di sinistra 131 Belloli, Benedetto,
Crali, Sartoris, Testizzonianze 145 Bibliografia 177 Armando
Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito
del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia
italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la
antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna
grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di
filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il
problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento
alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander --
According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.
Grice e Caro: l’implicatura
conversazionale dell’interpretare -- interpretante, interpretato -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Caro
likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s
Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact
that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say –
‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s
philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson
borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma. Si occupa di filosofia morale, di libero
arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta
" naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura
specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista
di Estetica e Filosofia e questioni
pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La
Repubblica, La Stampa e il manifesto. È
stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal al. È vicepresidente della Consulta Nazionale
di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo
RAI dedicato alla filosofia. L'asteroide
5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete.
La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari,
Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi);
Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una
vicenda filosofica” (Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il
mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre
tradizioni (Roma, Carocci). Bentornata
Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi,. Quanto siamo responsabili?
Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice,. Biografie convergenti:
venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine,
Mimesis). Cos’è il nuovo realismo [“What is the
new realism”], Mimesis, Milano, forthcoming.2) Azione
[“Action”] , Il Mulino, Bologna, Il
libero arbitrio. Un ’ introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ],
Laterza, Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth
edition 2011.4) Dal punto di vista de ll’int erprete. Il
pensiero di Donald Davidson [ “ From theInterpreter s Point of
View. Donald Davidson s Thoug ht”], Carocci, Roma Interpretazioni e cause [“Interpretations and
Causes”] , Doctoral dissertation, Università diRoma. Editor (with M.
Mori - E. Spinelli) of La libertà umana: storia di un’id ea,
Carocci,Roma, forthcoming.2) Editor (with A. Lavazza –
G. Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e
società, Codice, Torino M. Marraffa) of La filosofia di Ernesto De
Martino, special issue of Paradigmi, Editor (with L. Illetterati) of a
special issue of Verifiche on “ Classical German Philosophy. New Research
Perspectives between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition”,46,
2013.5) Editor (with S. Gozzano) of a special issue of
Rivista di filosofia on “The philosophy ofconsciousness,
” Editor (with M. Ferraris) of Bentornata realtà. Il nuovo
realismo in discussione, Einaudi,Torino, 2012.7) Editor (with S.
Poggi), La filosofia analitica e le altre tradizioni, Carocci,
Roma,2011.8) Guest editor, Naturalismo, special issue
of Rivista di Estetica, 44, 2010 (with C. Barberoand A.
Voltolini).9) Editor of The Architecture of Reason. Epistemology,
Agency, and Science, Carocci,Roma 2 (with R. Egidi).10) Editor of
Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio,Codice,
Torino 2010 (second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza and
G.Sartori).11) Guest editor of E’ naturale essere
naturalisti?, special issue of Etica e politica, 9,2010 (with C. Barbero
- A. Voltolini).12) Editor of Scetticismo. Storia di una vicenda
filosofia, Carocci, Roma ( E.
Spinelli).13) Editor of La mente e la natura, Fazi, Roma 2005
(Italian version of Naturalismin Question ) (with D. Macarthur).14)
Editor of the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy,
Fazi, Roma,2004.15) Editor of Normatività, fatti, valori,
Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et
alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16) Editor
of Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”], Meltemi, Roma,
2002(contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F.
Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17) Guest editor of “
Libertà e Deter minismo” [ “ Freedom and Determinism ” ],
specialissue of Paradigmi, Presentazione” del numero speciale di
Paradigmi (25, 2013) dedicato a La filosofia di Ernesto De Martino,
“Machiavelli e Lucrezio ”, postface to A. Brown, Machiavelli
e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del Rinascimento, Carocci, Roma, 2
“Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti,
“Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R. Chiaradonna (ed), Il
platonismo e le scienze, Carocci, Roma “Introduzione” (with R. Chiaradonna) to
R. Chiaradonna (ed.), Il platonismo e le scienze,Carocci, Roma
Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? ”, Vita e pensiero, Autonomia
della filosofia e neuroscienze,” Rivista di Filosofia, “ Libero arbitrio
e neuroscienze,” in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica,Il
Mulino, Bologna “ Filosofia della mente,” in Dizionario della mente
Treccani, Istituto de ll EnciclopediaItaliana Italiana, Roma “Ne
uro-mania e natura lismo” (commento, su invito, a ll articolo target di
CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A. Lavazza), Giornale italiano di
psicologia, “ Il migliore dei naturalismi possibili Etica & Politica
/ Ethics & Politics, (with A. Voltolini).14) “ Psicologia,
intenzionalità, scopi: un punto di vista filosofic o,” (invited
commentary to atarget article by C. Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale
italiano di psicologia, “ Libertà e responsabilità mora le,” in
Enciclopedia del Terzo Millenio, Istitutode ll Enciclopedia Italiana,
Roma “ Le neuroscienze cognitive e
l'enigma del libero a rbitrio,” in M. Di Francesco –
M.Marraffa (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura
dell ’ io, Bruno Mondadori, Milano “ Neuroetica e libero a
rbitrio,” in S. Bacin (a cura di), Etiche antiche e moderne, Il
Mulino,Bologna Introduction to the Italian translation of John Dupré,
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libero a rbitrio,” Quaestio “ Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei
cromosomi mora li,” Micromega (“ Almanacco di scienz e” ) “
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arbitr io,” in R. Calcaterra (ed.), Le ragioni del conoscere
ede ll’agire. Scritti in onore di Rosaria Egidi, Franco Angeli, Milano “
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10119), in Enciclopedia filosofica di Gallarate, Bompiani, Milano Nozick,
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with G. De Anna).24 ) “ Davidson sulla libertà umana,” Iride,
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translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma “
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Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll Utri - De Caro (eds.),
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radica le,” in M. De ll Utri (a cura di), Olismo, Quodlibet,Macerata
2002, pp. 17-36.29 ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma
filosofico?,” in P. Parrini (ed.), Conoscenzae cognizione, Guerini, Milano “
Teorie de l’int erpretazione e criteri di correttezza,” in C. Montaleone
(ed.), Parole fuorilegge. L’idiotismo linguistico tra
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“ Liber tà,” Paradigmi, 58, 2002, pp. 67-84.32
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Fenomenologia e società, “ Contro la
centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,” in
Atti della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio, Novecento, Palermo, Sui
presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche, “
Per un connessionismo non eliminazionista, ” Sistemi Intelligenti,
“ Varianti de llolismo. Aspetti della teoria analitica della traduz
ione,” Colloquium Philosophicum, “ Libertà metafisica e
responsabilità mora le,” Paradigmi, “ Prese ntazione,”
Paradigmi, “ Determinismo e
filosofia della mente contemporanea,” in M. Cini (ed.), Caso, necessità,
libertà, Cuen, Napoli “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,” Il
Cannocchiale, “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,” Lingua e
Stile, XXXI, “ Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da
vidson,” Rivista di filosofia, “ Il platonismo di Ga lileo,”
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per il relativismo epistemic o,” Paradigmi, Review of S.
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Iride, Review of L. Fonnesu, Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla
filosofia analitica,in Iride, Review of A. Massarenti, Il lancio
del nano e altri esercizi di filosofia minima, in Bollettino della
Società filosofica italiana, Review of M. De ll Utri, L’inganno
assurdo, in Epistemologia, Review of Carlo Montaleone, Don
Chisciotte o la logica della follia, in Bollettino della Società
filosofica italiana, Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B o (a cura
di), Pluralismo e libertà fondamentali, in Iride, Review of
Giacomo Marramao, Minima temporalia, Iride, in Iride Review
of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective, in Iride,
Review of Massimo Marraffa, Filosofia e psicologia, in Epistemologia,
Review of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in Epistemologia “
Wittgenstein su mente e linguagg io” [Review of R. Egidi (ed.)
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Internationale s d’ Histoire Des Sciences, Review of Marc De
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Development, in Archives Internationales d ’ Histoire
Des Sciences, 1Review of M. De ll Utri, Le vie del realismo. Verità,
linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, in Physis, Review of “ Il
naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine ” [review of:
W.V.O.Quine, La scienza e i dati di senso, Roma Tempo presente, Review of “ Scienza e
relativismo: un ossimoro? ” [review of: R. Egidi (ed.), La
svoltarelativistica nell'epistemologia contemporanea, Milano Tempo presente,
Review of “ E' ancora possibile una storiografia dell'arte? ” [review of:
H. Belting, La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, Torino
Tempo presente,: Università della Calabria, Conference of Italian Association
of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Tim Crane.May 16, 2006:
participant in the debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma,
Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of L Aquila. Lecture
on “ Free Will and Causal Determinism ”. Ravenna Scienza, “ Neurobiology
of Free Will: Is Our Will Free? ”.Invited speaker. Paper: “ The Philosophical
Mystery of Free W ill”. Roma, Auditorium “ Parco della Musica,”
Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will” (with
Rebecca Goldstein).: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “ Nature
and Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free
dom” (commentators A. Benini eS.F. Magni). Nature and Free dom”. December
2, 2005: University “ Ca Fosca ri,” Venice. International
Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ”; invited
speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ”.Sassari,
Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “ Freedom and Scien
ce”. Vita – Salute “
San Raffae le” University, Cesano Maderno (Milano), First Meeting
of the Italian Association of Philosophy of Mind ; organizer and
chairperson. University of Genoa, International conference, “ Mental Processes
”;relatore invitato per la sezione “ Action and Rationality ” Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA,
Trieste. Conference “ Neurophysiology and Free W ill”; invited
speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ”. University of Trento,
International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ”.
Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “
Vita e Salute - San Raffae le” University, Milano. International
Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”.
Discussant di Hughes.May 12, 2005: University of Florence, International
Conference “ Philosophy, Neurophysiology and Free will” On the
compatibility of philosophy and scienc e”.Istituto di studi americani, Roma,
International Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and
Interac tions” (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura
lism”. University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies.
Three lectures on Freedom and Nature. November 26, 2004:
University of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of
Naturalism. November 16, 2005: University of Pavia – Giason
del Maino College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will .
University "Vita e Salute – San Raffae le,”
Milano. Lecture on Freedomand Nature. University of Piemonte Orientale,
Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and
Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”. September 23-25: Genova,
VI International Conference of the Italian Society of AnalyticPhilosophy
(member of the scientific committee). Rome. International Symposium
"Questions on Naturalism"
Rome. “ Davidson on Human Free dom”. Conference on DonaldDavidson,
Department of Philosophy, Università Roma Tre (Rome. Discussant of Akeel
Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence. Paper: “
Metaphysical Libertarianism ”. Conference on Robert Nozick s philosophy,
Department at the University of Florence (speaker).September 15, 2003, Sassari.
Lecture on “ Logica e retorica ” [Logic and Rhetoric].Department of
Foreign Languages and Literatures, University of Sassari (invited lecturer).
May7, 2003, Siena. Paper on “ Naturalism and Free dom”. Workshop on
The Free Will problem. Department of Philosophy, Università di
Siena Sassari. Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self ,”
Department of Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12,
2002, Messina. Paper on “ Naturalism and Intentionality ”. Annual Meeting
of theItalian Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002,
Cosenza. Lecture: Memoria e identità [Memory and Identity].Department of
Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and
Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ”. Florence Rome. Lecture La
teoria della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth
Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome.
Paper on Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical
Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today,”
Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture
on Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “
Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur
t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker).October
30, 2001, Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use” [ “ Reasons and causes
” Calabria ( Padua. Lecture on “ Freedom and Naturalism,”
Department of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001,
Milan. Paper on “ Interpretations and Criteria of Correctness ”.Conference:
Interpretation and Correcteness, Università Statale di Milano (Bologna. Paper
on Causality and Naturalism. Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic
Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper
on Forms of Causation. Annual Meeting of the Italian Societyof
Philosophy, Università Roma Tre Siena.
What P.F. Strawson Hasn’ t Proved . Annual Conference ofthe Italian
Society of Analytic Philosophy (Rome. Paper on “ Freedom and the Self ”.
Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology,
Università Roma Tre Rome. Paper on “ Van Inwagen s Consequence Argument ”.Workshop:
Freedom and Necessity, Università Roma Tre Florence. Paper on “ What we should
mean with the Word Pe r son” (withS. Maffettone).
Conference Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto
Gramsci Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes ”.Workshop: Talking
with Donald Davidson, Università Roma Tre (organizer and speaker).December 20,
1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the presentation of the book M.
De Caro (ed.), Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav
idson’s P hilosophy, Università Roma Tre Rome. Paper on “ Against an
Alleged Refutation of Kripke sSkeptical Argument ”. Conference: Facts
and Norms, IV National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy,
Università Roma Tre Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ”.Conference:
The Linguistic Rule. Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage
Rome. Paper on Is Libertarianism About Free Will Scientifically
Acceptable?. Conference: Determinism and Freedom, Università Roma
Tre(organizer and speaker).September 23-26, 1998, Bologna. Paper on “ The Roots
of Epistemic Skepticism ”.Conference: Science, Philosophy, and Common Sense,
III National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna
(Rome. Lecture on Freedom and Necessity. Seminar of theInterdipartimental
Reasearch Center on Scientific Methodology (invited speaker).October 17-19,
1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the Mind-Body Proble m”.
Conference The Study of Mankind in George Henrik von Wright , Università
RomaTre Rome. Paper on “ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”.
Conference: Perspectives on Holism, CNR Roma (organizer
andspeaker).October 24-26, 1994, Rome. Paper on “ Galileo s method ”.
Conference: Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth
Century, Università Roma “ LaSapienza ” Rome. Paper on “ Davidson on
skepticism”. Davidson’s
philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ” Lucca. Paper on
Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives. Triennal Meeting of
Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker). November 30, 1991,
Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof
Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”Rome. Paper on “W ittgenstein and
the Philosophy of Mind ”.Conference: Wittgenstein on Mind and Language,
Università Roma Tre (speaker). Grice: “When we taught De Interpretation
with Austin, a tutee would ask ‘hermeneias’? Austin thought that Heidegger’s
attempt to link hermeneia (to interpret) with Hermes was far fetched, so we
left it at that!” Mario De Caro. Caro. Keywords: interpretare, Davidson,
Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers
like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice
– Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice
derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational
implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not
IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ –
Actions and Events --.- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Caronda: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean, one of
those who studied with Pythagoras himself. He achieved a repulation as a
legislator. It is said that when he found out he had accidentally broken one of
his own laws, he committed suicide. Whether he was ever a Pythagorean at all is
now widely questioned. Substantial portions of a work on laws attributed to him
survive.
Grice e Carravetta: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lappano).
Filosofo italiano. Moved to the New World. Note
Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera iawa-West welcomes Peter Carravetta and
Marisa Frasca on Saturday, February 14,
at Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open
Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa Frasca February 14, Filosofia Letteratura Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secolo Poeti italiani del XX secolo Poeti italiani del XXI
secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing
the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro
Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The
Swimming-Pool Library. Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum,
almost, of Grice – or Speranza. – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carulli: l’implicatura
conversazionale di GIANO -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari).
Filosofo italiano. Grice: “I like Carulli – he philosophises on things we do
not philosophy at Oxford, such as menstruation – or piegaturi, as Speranza
prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has
also philosophised on some anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his
‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I
philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are
negative implicatures – ‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of
‘negative reflections on unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play
with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I
prefer, a mere vehicle for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!”
– Grice: “Carulli knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just
that but a Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr.
Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”. Studia a Bari, una città
tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al
marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla
celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo
-- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta
critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai
moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un
Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in
“Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin”
(Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo
Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto
ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo),
dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per
riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna
in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di
Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il
cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in
grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la
verità ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai
all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’
“essente” come pure dai cultori dell'annientamento. La sua filosofia, centrata ossessivamente
sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice,
volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In
quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il
Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano,
Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti
“tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani,
Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De
contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e
le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio
Alessio Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide
D'Alessandro, Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il
foglio. Pier Francesco Corvino, Religio
Medici. Andrea Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo,
su scena illustrata.com. alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico
distruttore, in La Sicilia. Corriere del
Mezzogiorno, Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il
Mattino, Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in
Libero, Luca Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide
D'Alessandro, Cara “Italian Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio,
Introduzione a Sgalambro su rai playradio. Alessio Cantarella, su
alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno Sgalambro non isolato, tra Cacciari
e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole
verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena
illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del
Mezzogiorno. Giano (latino: Ianus) è il dio
degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle divinità più antiche e più
importanti della religione romana, latina e italica. Solitamente è raffigurato
con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché il dio può guardare il
futuro e il passato. Nel caso del Giano quadrifronte, le quattro facce sono
rivolte ai quattro punti cardinali. Busto di Giano conservato
presso i Musei Vaticani. Caratteristiche della divinità Modifica Etimologia
Modifica Quadrigato romano recante l'effigie di Giano. Circa 220 a.C. Già
gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e
Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire "andare", perché secondo
Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé
stesso ritorna[1]. Gli studiosi moderni hanno confermato questa relazione
stabilendo una derivazione dal termine ianua, "porta"[2], ma è con
Georges Dumézil che il senso si precisa: il nome Ianus deriverebbe dalla radice
indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il significato di
"passaggio" che, attraverso una forma *yaa-tu, ha prodotto anche
l'irlandese ath, "guado"[3]. In passato non sono mancate tuttavia
ipotesi alternative, come quella che voleva il nome derivato da una più antica
forma *Dianus, da mettere in relazione con la dea Diana e quindi derivato
anch'esso dalla stessa radice del termine latino dies, "giorno"[4].
Dumezil nota anche l'appellativo di 'mattutino' con cui Orazio si rivolge al
dio in modo semiserio (Serm.). Tale appellativo tuttavia deporrebbe
indifferentemente a favore di entrambe le ipotesi etimologiche esposte. Il suo
nome in greco è Ιανός (Ianós). È il primo a portare il naso con profilo
romano (il classico naso a becco d'uccello). Origini Modifica La figura
del Dio Giano, come appena accennato, è prettamente romana e la sua origine non
si può far risalire alla mitologia greca. Nella mitologia etrusca la divinità
più prossima a Ianus è Culsans[5], dio delle porte e dei passaggi[6][7],
anch’esso bifronte, con un nome simile ("ianua" significa porta in
latino, come "culs" in etrusco) e legato al concetto di passato e
futuro, ma con caratteristiche non del tutto sovrapponibili. Essendo pochissime
le informazioni in nostro possesso sui culti dell'Italia preromana non possiamo
far risalire con certezza Giano a qualche divinità italica. Una
possibilità da tenere in considerazione è che la figura di Giano sia stata
ispirata da quella di Ušmu, un dio sumero a due facce, altrimenti chiamato
Isimud o, in piena età babilonese, Ansar. Epiteti Modifica Asse con
l'effigie di Giano e la prora di una nave. Circa 240-225 a.C. Come tutte le
divinità romane, Giano era chiamato con diversi epiteti, che testimoniano la sua
particolare rilevanza all'interno del pantheon: Divum Deus (Dio degli
Dei) Divum Claviger (Dio Clavigero) Divum Pater (Padre degli Dei) Ianus Bifrons
(Giano bifronte) Ianus Cerus (Giano creatore) Ianus Consivius (Giano
procreatore) Ianus Pater (Giano padre) Pater matutinae (Padre del mattino)
Ianus Vicilinus (Giano Vigilante) Natura del dio Modifica Giano è una divinità
esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli Dei nazionali, gli Di
indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico
dio romano a non essere assimilato a divinità ellenistiche. Il suo culto
è probabilmente antichissimo e risale ad un'epoca arcaica, in cui i culti dei
popoli italici erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della
raccolta e della semina. È stato sottolineato da più autori, fin dal secolo XIX
(Vedi Il ramo d'oro), come Giano fosse probabilmente la divinità principale del
pantheon romano in epoca arcaica ed anche Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei
(VII, 9) ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum” e come perciò al Dio
competa “omnium initiorum potestatem”. In particolare rimarrebbe traccia di
questo fatto nell'appellativo Ianus Pater che permase anche in epoca
classica. Giano nell'epoca arcaica era semplicemente il dio legato ai cicli
naturali, poi con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più
complesso. Nei frammenti superstiti del Carmen Saliare Giano è salutato
con particolare enfasi come padre e dio degli dei stessi: «divum +empta+
cante, divum deo supplicate» (IT) «cantate lui, il padre degli dei,
supplicate il dio degli dei» (fragmentum 1) Tale dato è confermato dal
fatto che per i romani Giano non era figlio di alcun'altra divinità (ad esempio
Giove è figlio di Saturno), ma, proprio per la sua qualità di pater divorum,
egli era sempre stato, immanente, fin dall'origine di ogni cosa. Così è che
Giano, come lo stesso ci racconta per bocca di Ovidione i Fasti (I, 103 e
s.s.), era presente allorché i quattro elementi si separarono tra di loro dando
forma ad ogni cosa. A tal proposito Varrone riporta nel carmen anche
l'epiteto di Cerus cioè "creatore", perché come iniziatore del mondo
Giano è il creatore per eccellenza[8]. Il console e augure Marco Valerio
Messalla Rufo scrive nel libro sugli Auspici che Giano è colui che plasma e
governa ogni cosa e unì, circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e
della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e
dell'aria, leggera e tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza
del cielo a tenere legate le due forze contrastanti[9]. Settimio Sereno lo
chiama "principio degli dèi e acuto seminatore di cose". Giano
presiede infatti a tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e
immateriali, come le soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli
sovrastati da un arco, ma anche l'inizio di una nuova impresa, della vita
umana, della vita economica, del tempo storico e di quello mitico, della
religione, degli dèi stessi, del mondo, dell'umanità (viene infatti chiamato Consivio,
cioè propagatore del genere umano, che viene seminato per opera sua[10]), della
civiltà, delle istituzioni. Nella sua riforma del calendario romano, Numa
Pompilio dedicò a Giano il primo mese successivo al solstizio d'inverno,
gennaio, che con la riforma giulianadel 46 a.C. passò ad essere il primo
dell'anno. Una delle caratteristiche più singolari di Giano sta nella sua
rappresentazione come di un dio bicefalo, da cui l'appellativodi Giano
bifronte. Questa particolarità era connessa all'area di influenza divina che
Giano assunse in maniera specifica in epoca classica, dopo l'ascesa degli dei
romani "canonici": Giano era preposto alle porte (ianuae), ai
passaggi (iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in
mano, come i portinai, gli ianitores, una chiave e un bastone, mentre le due
facce vegliavano nelle due direzioni, a custodire entrata e uscita. Anche
in quest'epoca, comunque, Giano continuò a rappresentare il custode di ogni
forma di passaggio e mutamento, protettore di tutto ciò che riguardava un
inizio ed una fine. Miti Modifica Paolo Farinati, Giano bifronte
con una ninfa, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton di
Sant'Ambrogio di Valpolicella (Verona). Nel mito Giano avrebbe regnato come
primo Re del Latium, fondando una città sul monte Gianicolo e donando la
civiltà agli Aborigeni, suoi originari abitanti. Con la ninfa Camese avrebbe
generato inoltre numerosi figli, tra i quali il dio Tiberino, signore del
Tevere. È lui ad accogliere il dio dell'agricolturaSaturno, spodestato dal
figlio Giove, condividendo con lui la regalità e consentendogli di portare
l'età dell'oro. Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il
dono di vedere sia il passato che il futuro, all'origine della sua
rappresentazione bifronte. Numerose sono le ninfe indicate come mogli o
compagne di Giano: Camese, dalla quale il dio ebbe tre figli: Tiberino,
il dio del Tevere; Camasena, Clistene; Venilia, citata da Ovidio, dalla quale
avrebbe generato: Canente; Carna, dalla quale avrebbe ricevuto il potere sulle
porte; Giuturna, dalla quale sarebbe nato: Fons, dio delle sorgenti, venerato
ai piedi del Gianicolo. Culto Modifica Al culto di Giano, a differenza delle
altre divinità maggiori, non era preposto uno specifico flamen. Le cerimonie a
lui dedicate venivano invece amministrate dallo stesso Rex e, in età
repubblicana dal particolare sacerdote che suppliva alle antiche prerogative
regie, il Rex Sacrorum. Egli apriva dunque per primo le processioni e le
cerimonie religiose, antecedendo anche lo stesso flamen Dialis, sacerdote di
Giove. Nel suo tempio si sacrificava spesso per avere vaticinisulla
riuscita delle imprese militari. Santuari Modifica Arco di Giano o
Ianus Quadrifrons. A Roma i principali luoghi consacrati a Giano erano:
lo Ianus geminus, un passaggio coperto consacrato secondo la tradizione da Numa
Pompilio nel Foro e precisamente nella parte più bassa dell'Argileto secondo
Tito Livio, o ai piedi del Viminale secondo Macrobio, e che veniva aperto in
occasione di guerre e chiuso in tempo di pace[11]; lo Ianus quadrifrons, un
arco a quattro aperture situato nel Foro Boario; il Tempio di Giano situato nel
Foro Olitorio e consacrato da Gaio Duilio nel 260 a.C. dopo la vittoria di
Milazzo. Giano come simbolo di città Modifica Scultura lignea di Giano ad
Avezzano Secondo la leggenda, Giano fondò la città di Gianicola, e fu proprio
lui ad accogliere Saturno nel Lazio. Esisteva una frazione della città di Roma
denominata Gianicolo e secondo alcuni mitologi Giano sarebbe il fondatore di
uno dei villaggi di Roma. Da notare che il Gianicolo affaccia su un lato del
Tevere ove è presente un guado naturale, quindi un passaggio. Giano viene
assunto dal Medioevo a simbolo di Genova, in relazione al suo nome antico di
Ianua[12]. Come tale viene spesso accostato al Grifone, altro simbolo di questa
città. Troviamo effigi di Giano bifronte nel pozzo sacro di piazza Sarzano
(l'ermabifronte sulla cupoletta, proveniente da una fontana cinquecentesca
opera della bottega in Genova di Giacomo e Guglielmo della Porta);
rappresentazioni dei grifoni come ornamento dei pinnacoli delle volte vetrate
di Galleria Mazzini e nei lampadari ottocenteschi della stessa. Una
rappresentazione indubbiamente più moderna ed essenziale la troviamo nel
palazzo azzurro sito in Fiumara. Bisogna considerare Giano come dio adatto a
sostituire i riti celtici dediti alla venerazione del torrente, considerato
come luogo ove convergono le acque da affluenti che stanno a destra e a
sinistra dello stesso corso d'acqua, in quanto Giano aveva due facce ed era il
dio dei passaggi, oltre ad avere rapporti con le divinità delle acque.
Oltre a Genova, Giano è il simbolo di Tiggiano(provincia di Lecce), Subbiano
(provincia di Arezzo), Selvazzano Dentro (provincia di Padova) e Centro Giano
(provincia di Roma), San Giovanni Rotondo(Provincia di Foggia). L'immagine di
Giano è presente nel gonfalone di Tiggiano (provincia di Lecce)[13]perché
secondo un'etimologia popolare il nome del paese potrebbe derivare dal nome del
dio Giano[14] (in realtà il toponimo è un prediale costruito sul
gentilizioromano Tidius[15].). In Basilicata, presso Muro Lucano (PZ) è
presente il toponimo Capo di Giano e Varaggiano, mentre presso Melfi c'è
Foggiano. A Pescopagano, in una nicchia sotto l'arco di Porta Sibilla vi è una
statuetta raffigurante Giano bifronte. L'immagine di Giano è presente nel
gonfalone di Subbiano (provincia di Arezzo)[16] perché secondo un'etimologia
popolare il nome del paese deriverebbe dal latino Sub Janum condita
("fondata sotto [il segno di] Giano")[17], ma in realtà il toponimo è
un predialecostruito sul gentilizio romano Sevius[18]. Il nome della
città di Avezzano in Abruzzo stando ad un'ipotesi giudicata inverosimile da
storici ed archeologi deriverebbe da "Ave Jane", un'invocazione posta
sul portale di un tempio consacrato al dio Giano. Secondo la leggenda attorno
al tempio ebbe origine la borgata formata dai primi agricoltori stanziati
nell'area che originariamente circondava il lago del Fucino[19]. Il monte
Giano nell'Appennino centrale è situato nel comune di Antrodoco, in provincia
di Rieti. Il toponimo di Selvazzano Dentro di origine romana parrebbe
riportare alla presenza di un boschetto sacro al dio Giano (selva di Giano),
l'attuale stemma comunale riporta infatti un altare dedicato al dio.
Secondo delle supposizioni i toponimi di Vezzano, come Vezzano Ligure in
provincia della Spezia, deriverebbero dalla divinità romana. Il nome del
dio è invece all'origine dei due toponimi Giano dell'Umbria e Giano Vetusto, non
direttamente ma attraverso un nome di persona latino Ianus (al quale sarà
originariamente appartenuto il fondo sul quale è sorto il centro
abitato)[20]. A Reggio Emilia c'è un Giano su uno spigolo di Palazzo
Magnani in Corso Garibaldi. Nel comune di Maddaloni, in Provincia di Caserta,
esattamente dinanzi l'ospedale cittadino, sono ancora visibili i resti di un
tempio con l'iscrizione "Iano Pacifero". A Trieste vi è una
fontana con il volto bifronte del dio, posta all'inizio del Viale XX Settembre.
In quanto alla scelta del sito, va notato che nei primi anni dell'Ottocento in
quel punto si trovava un recinto con cancello, che segnava l'uscita dalla
città.[21]. Il toponimo di Camposano, in provincia di Napoli, tra le
tante interpretazioni, parrebbe derivare da un tempio dedicato al dio Giano
denominato Campus Iani. Nel pesarese, a pochi chilometri dalla città di
Fano, vi è la frazione di Monte Giano. Nei pressi del comune di Montieri,
tra Siena e Volterra, Alta Maremma, si trova una località chiamata Prategiano,
tradizionalmente legata alla divinità. Qui oggi si trova un prato collinare,
circondato da boschi. Vi ha sede un centro ippico di rilievo, dal quale partono
escursioni per numerose località naturali e storiche. La zona è ricca di
vestigia, tra le quali la Rotonda di Montesiepi, con la Spada nella Roccia, ivi
conficcata dal misterioso San Galgano nel XII secolo, oggi ancora visibile
sotto la cupola della rotonda. Note Modifica ^ Macrobio, Saturnalia, I,
9, 11 ^ ad esempio Herbert Jennings Rose in Dizionario di antichità classiche,
s.v. Giano. Milano, Edizioni San Paolo, Dumézil, La religione romana
arcaica, Milano, Rizzoli, Ferrari,
Dizionario di mitologia greca e latina, s.v. Giano. Torino, UTET, Simon
"Culsu, Culsans e Ianus" in: Atti Secondo congresso internazionale -
Tomo III - 1985 pag. 1271-81. ^ de Grummond, N.T. & Simon, E. (eds.)
(2006). The Religion of the Etruscans. University of Texas, Austin.. ^ Daniele
F.Maras, Monografie - La Religione Etrusca p.22, in Archeo Monografie, 27
ottobre/novembre 2018. ^ Marco Terenzio Varrone, Della lingua latina, VII,
26-27 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 14 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 16 ^ Tito
Livio, Storia di Roma, I, 19, 2 ^ Teofilo Ossian De Negri. Storia di Genova.
Firenze, Giunti, 2Stemma Comune di Tiggiano, su comuni-italiani.it. Notizie
generali sul Comune di Tiggiano, su japigia.com. URL consultato Marcato.
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Avezzano, su avezzano.terremarsicane.it, Terre Marsicane. Marcato. Giano
dell'Umbria e Giano Vetusto, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. ^ In Viale
una fontana con due mascheroni - Cronaca - Il Piccolo, in Il Piccolo, 19
novembre Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale
Mitologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di mitologia. Falacer
Saturno (divinità) divinità romanaell'agricoltura Carna Wikipedia Il contenutoAntonio
Carulli. Keywords: Giano, critica della cultura, Nietzsche, De Contemptu,
Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione, Aligheri sulla mestruazione,
ente, essente. Giano, e la religione, paganesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Carulli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casalegno: l’implicatura
conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia linguistica del
Novecento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
italiano Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me!
Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating
Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried
to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not
try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he
tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della
logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del
linguaggio, Carocci, Verità e
significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il
puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre
osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento
antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità:
problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema
concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano,
Bompiani, Normatività e riferimento, in
Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il
maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera,
Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P.
Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di).
Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento
oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello
Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri
di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia
di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica
del linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui
Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco
Santambrogio. I testi antologizzati consentono al lettore di farsi
un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche
inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in
ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in
cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti
chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e significato
di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi Le descrizioni di
Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato,
uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche
filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e
riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam,
Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice,
Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice
- è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono... Introduzione alla filosofia del linguaggio
Paolo Casalegno. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in
considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere una
proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus, 4.024).
Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti
hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la
nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana? Un
modo può essere questo: usiamo il
linguaggio per descrivere la realtà. Una
proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale,
della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata
altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le
circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata,
dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera.
Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo conoscere
le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo di fraintendere. Conoscere le
condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal sapere se essa
sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose.
Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere le condizioni
di verità di una proposizione equivalga a sapere
come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La tesi
wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più
immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve
essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si possono però
muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci
su alcune di queste. Le obiezioni possono essere, principalmente, di due
tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione equivalga a
conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di
verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni
per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro
lato, si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni
non può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.
Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più
tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a
quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle
quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere
o false. La prima obiezione si basa sull’ovvia constatazione che
esistono espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non
sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente
attribuibili condizioni di verità. Ci sono
espressioni sintatticamente ben formate che
non sono frasi complete, parole singole o espressioni
come ‘valigia pesante’. Che queste espressioni
abbiano un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni
di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In secondo luogo,
ci sono frasi complete come le interrogative e le
imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato
di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni diverse
da quella di verità. Sembra dunque impossibile
che proprio su questa nozione si fondi tutta
quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si
può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata
l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione
centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non
sono enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle
parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti
che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole
singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole
abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi
complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola,
comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al
significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli
enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere
nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una
parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del
significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle
parole singole (questo vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono
frasi complete) (MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che non
sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra
capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative
dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo,
il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non
lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso
di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’,
ciò è evidente: queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono
in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula
la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle
interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o
un’affermazione, e delle frasi imperative.
La centralità della nozione di verità
sembra così essere confermata. Della seconda
obiezioni esistono più varianti, potremmo
perciò formularla come segue. Concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il
linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di
informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente
arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli
enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per
concentrarsi in modo esclusivo sul loro ruolo di veicoli di
informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine
desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio
come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo
punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire
informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e
sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
tro-viamo, delle informazioni di cui i
nostri interlocutori già dispongono, delle
loro aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di
costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser
compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non
bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono
concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di
conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero
dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo
fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego
effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò che si può comunicare
con un dato enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La
risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra
semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio di Charles
Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro
sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La
sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro
interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la
pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti.
Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica.
Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad
una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di
circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia giustificato o
meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da altre
dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra
competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale, e possa
costituir una scelta metodica feconda. Due punti: né il filosofo del
linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi
pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che
potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo
la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di
partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle
condi-zioni di verità degli enunciati svolga un ruolo
essenziale anche quando sono coinvolti fattori che non sono
riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo
distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica
presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo 2 Questa
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cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito
da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una
proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un
“pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione:
il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine
e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel
caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero
che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è
logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente
così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben
altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche
filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare
del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e
dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si
riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono
immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una
proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in
quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il
pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù
della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una
“legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori
notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la struttura
del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein “completamente
analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna
ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere
esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia
logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge
dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che
sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si
fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che
ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime
i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […]
Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi
di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa
concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I nomi che
figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti
di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano
l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai
nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati
in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso
comune è il requisito della semplicità. L’oggetto
deve essere semplice, ma di questa semplicità il
Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in
parte la genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione
ricorrente di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire
degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli
oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere
che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I)
Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che
figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue
dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi
potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna
garanzia che ad un dato nome corrisponda davvero qualcosa.
Un’entità complessa consta di entità più semplici correlate in un certo
modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. 5
stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di
forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni
che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione.
Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di
un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è
il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale:
oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso
co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio
ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione
completamente analizzata dagli oggetti del senso comune è il
requisito della semplicità. L’oggetto deve
essere semplice, ma di questa semplicità il Tractatus
non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la
genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente
di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli
oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli
oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo
presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I)
Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che
figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue
dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi
potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna
garanzia che ad un dato nome corrisponda davvero qualcosa.
Un’entità complessa consta di entità più semplici correlate in un certo
modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto
contingente. Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità
complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione
abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N
potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N
corri-sponde davvero qualcosa, e quindi che P ha senso, solo se
fossimo sicuri che C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che
è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C
sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una
proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV)
Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve
essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di
una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una
proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di
un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non
potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non
saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono
corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. NB. In questo ragionamento,
la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta
coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed
entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che
un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in
comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta
appunto degli oggetti”. La proposizione (I) non è dunque un’immagine vera
e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose
perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici,
mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono
nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non implica che (I) sia
priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma
per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una
struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate. Si
può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo
avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege.
Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo
riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno
stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome
con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a
priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può
essere una descrizione dell’oggetto stesso. Vediamo ora cosa
Wittgenstein sostiene riguardo le proposizioni
complesse. La sua idea è che le
proposizioni complesse siano funzioni di verità
delle proposizioni elementari che figurano come
loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano nella
proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di
verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P dipende
esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione,
disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in cui il valore
di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo dipende
dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein propone un
artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’. Tavola di verità
della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1). Tavola di verità della
congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):
Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero
addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un linguaggio
artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra riportate
potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P ∨ Q). Se si seguisse questo
suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche
enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e
Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege ogni
connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di
verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe
dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per
descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi
non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso
consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false
dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le
proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per
Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi. A queste
considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la
concezione wittgensteiniana della logica. Né Frege né Russell avevano
saputo spiegare che cosa contraddistingue una proposizione logica da una
proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di
Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al
valore di verità di una pro-posizione complessa come
determinato dai valori di verità dei suoi costituenti
elementari, si può constare che ci sono due casi limite: quello in
cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione
complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità
dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la
chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che
Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero
di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una
proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per
via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice
nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il
loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del
linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni. Avevamo detto che il
senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione
rappresenta. Alle proposizioni complesse questa nozione di senso
non può essere applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è
una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa
ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha
ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di
verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa
dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò
che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle
combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per
le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨ QTTTTFTFTTFFF 7 Questa
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un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera
appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga a quattro
“massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI
DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE
SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA(alla base deve esserci la nozione
di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE
che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI
SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE
SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI:
CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE
E’ V O F Es: l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE
CONDIZIONI DI VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON
CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE
CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X
STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai tremila km=
CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL
DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE
DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi
se è v o f) = ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2
obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON
HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben
formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA
PESANTE”, FRASI INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il
conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL
SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E
FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON
E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI -
concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la
descrizione della realtà, ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO
PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE
GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui
ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro
aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO
CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA
E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE
IN UN CONTESTO CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI:
studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: - conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di
mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna +
alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es:
Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità
di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =
E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO
CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI:
studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo
QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce
alla nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato =
riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna
+ alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi
propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York
*descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di
Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi
differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato
in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione= E’
SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE
EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO +
DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA
CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E
SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e
DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di
COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE
CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO
OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI
(INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI
VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e
INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI
DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO /
SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa
sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato,
non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni
student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa
risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative
ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è
sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando
l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per
cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti
per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio
appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di
vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise
di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. -
le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a
sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte
solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano
CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi
non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben
formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la
prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex.
“Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa
obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la
nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono
enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in
cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la
NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV
nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si
può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può
convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed
imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere
il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno.
OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente
per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione
sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si
decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi
sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito.
Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono
molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto
della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del
discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono
considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo
degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In
realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:-
respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che
corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di
una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA
che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi
concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e
PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione.
Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il
problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo
due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del
linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la
pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce
dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una
conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga
a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant):
CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA
QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate.
FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE
CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed
ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica
e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo
punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di
GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i
partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ:
fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ:
non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI:
dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare
in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano
Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casanova: l’implicatura conversazionale
del desiderio omoerotico – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venezia).
Filosofo italiano. Grice: “It is fascinating to analyse what Casanova calls
‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my implicatura is a bit
like his piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a
philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal
fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore,
poeta, alchimista, esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e
agente segreto della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di
Venezia. Benché di lui resti una produzione letterariatra trattati e
testi saggistici d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi
interessi, perfino di matematica) e opere letterarie in prosa come in
versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente come un
avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata, come
colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e
libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato
"casanova". A questa sua fama di grande conquistatore di donne
contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma
vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima
franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni
abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi
innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale
scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione
dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e
parlata dalle élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si ritrovò a
vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della
storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che
avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti
ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze
dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia,
alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di
far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo,
per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo
di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si
possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang
Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di
Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia
(ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della
Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu
anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o
letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui
origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo
XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce
relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo
Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella
voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso
riapparso. Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al
battesimo del Casanova. «Addì 5 aprile 1725 Giacomo Girolamo fig.o
di D. Gaietano Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di
Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello
sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo
stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.» (Storia della mia vita, Mondadori)
Il padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote
origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova
all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di
Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice
veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del
marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue
Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente".
La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre
con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò,
seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio
naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero
derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di
lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione
e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle
persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe
conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente
piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la
sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista,
Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.
Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni
d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua
professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in
Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo
condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a
guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile,
l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui
stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei
confronti dell'esoterismo. All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove
rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove,
come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione
dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti
Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di
essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera
del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard
Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova,
docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il
Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si
era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a
compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo
a dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto
gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in
modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive
iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo
accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova).
Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del
titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del
veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai
registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro
dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli
constatò che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca
tarda, quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per
chiunque. Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a
Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale
ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. La nonna
Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo,
si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la
bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in
modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo,
togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu
rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di
Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di
una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il
carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per
la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la
diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di
povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove
nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna
presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua
condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza
ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa. Targa
commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove
era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era
stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto
una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla
sua.[E 9] Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che Casanova
ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante
castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo
dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il
castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo
Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva
passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della
Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di
Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti
incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva
successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo
periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele,
di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta prematuramente
(1733), avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo, avvalorando la
voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse il vero padre di
Giacomo. Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio veneziano Matteo
Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da
un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a
quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese
a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché visse, al suo
mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in
contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco
Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché vissero, lo
tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili attirò
l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin,
lasciò Venezia in attesa di tempi migliori. Nel 1749 incontrò Henriette,
che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo
nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse
Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i
"casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima,
come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie
sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche
piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate
con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata
per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con
donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le
persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e
riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno
confermato il racconto. Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al
fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano
passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con
diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni
tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose
e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro
contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità
del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in
molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di
aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti.
Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati
inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati
comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel
luogo e nel tempo della descrizione. Il caso più clamoroso è quello che
riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con
l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide
dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è
serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo.
Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente
tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura
fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier),
che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi
continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché
ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere.[E
15] Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo
decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano
Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta
della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla
Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni
ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili
appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non
vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei,
deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere
superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la
loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne
qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua
vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni
ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far
parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti
a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con
familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i
due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò
allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre
che, in molti casi, epistolare.[E 20] Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova
era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto
disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come
questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia
di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto
di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione
alla Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per
estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua
alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a
qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato
che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle
famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e
altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel
libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di
corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi
al ritorno a Venezia (17561774) Presunto ritratto di Giacomo Casanova,
attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo
allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo
shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo
fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il
1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di
allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente
verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava
un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della
scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a
Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e
quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della
mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua
specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale
potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna
ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione,
dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione,
soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici. Il
28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore"
il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una
missione segreta nei Paesi Bassi.[26] Al suo ritorno fu coinvolto in
un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la
scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese,
Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione
con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di
sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici
famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a
causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo
scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a
Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà,
la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e
che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è
stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge
a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto
dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il
messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate. Casanova si prodigò per
darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive,
presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio,
Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché
l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta
presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere.
L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel
convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria, Casanova
si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una manifattura di
tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione delle esportazioni
derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono lo condussero per
un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il provvidenziale intervento
della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse dall'incomoda
situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso continuo
peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera, dove
incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il maggior
intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire ed è
riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno più
felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il
suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più
onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale
della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi
rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il
patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione avrebbe
dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33]
Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il
soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762
ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla
marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni
presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di
pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo
poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più
favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34] Nella capitale
inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una
relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato
debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che
fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere
trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi
s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di
questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re
Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola
dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la
Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37] L'anno
successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38]
anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici
incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione
la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di
primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque.
Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della
curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi
delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che
in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma
Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.
Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il
duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della
ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone
veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao
II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura
politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso
pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato
in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile
conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un
duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia
in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne
avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di
Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza
da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne
l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza
seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La
buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove
fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia
della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per
Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da
una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di
lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della
marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le
pur cospicue sostanze di famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla
disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu
gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un
mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente
(gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette
che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un
ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli,
Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli
Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il
3 settembre 1774. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite
grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli
Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi
prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le
riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la
collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso
rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di
persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.
L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di
sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta
rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si
usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle
stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter
sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva
manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo
della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che
avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre
duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte
autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del
doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere
un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo
livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una
città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di
pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue
vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna
una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra
la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso periodo iniziò
una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che
per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia,
delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52]
utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti
tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima
relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche
quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di
Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di
Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata
13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di
proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete
a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti
i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi
incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di
fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era
quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile[54]. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne chiaramente
di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan Carlo
Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento della
madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian.[55] Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città
in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola
e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso,
era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo,
esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno
far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto
casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e
vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita,
di Giacomo Casanova".[56] Ritratto del 1788 Annotazione
della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e
si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore
veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto
di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì
trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata
per sempre. Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese,
alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno
di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo
conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo
tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della
Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue
energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una
morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita
assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario
collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che
la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del
castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di
sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non
ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate.
Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della
chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre
opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio
Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale
servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La
Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del
Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina.
Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia.
Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né
amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre
historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu...
Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le
deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition
raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà
le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla
Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac....
Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque
d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et
libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise
qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le
noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica
di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di
Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911.
1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre
vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans
l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de
Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de
Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de
l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme
deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie
de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en
Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au
sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10
Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de
Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue.
1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di
cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico
Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I
meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I
meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero
Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo
Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova
con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II
(1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani.
1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli.
Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e
Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a
Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom
Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie.
Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition
présentée et établie par Francis Lacassin.
2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto
a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita,
traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll.
« I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova.
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,
88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione
integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria.
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et
Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome III.
Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna
avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection
Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition établie
par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi,
Milano, Luni Editrice,,
978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni
Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana Presunto
ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da
alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica
dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado
gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e
addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto,
nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera
autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte
dell'autore. Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato
in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua
produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono
creati per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione
della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte
durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e
infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto
sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di
ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia.
Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario
dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto
dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e
varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico
e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal
racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto
nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la
narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era
brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de
Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su
altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo.
E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio
scientifico a cui ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti
di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione.
Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più
fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere
un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in
misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu
iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi,
che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu
pubblicata soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè
quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio
negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò,
in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni
prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età
mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia
vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva,
l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di
futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa
per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu
pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da
Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera,
sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando
anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle
oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché
di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un
fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario,
opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova
esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma
si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce,
indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non
appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]» Per
l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa
Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al
1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu
dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di
smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente
impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due
secoli dopo, modernità e realismo. Casanova è già uno scrittore di
costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni,
attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero
ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo
problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello
di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise
del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non
ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue
frequentazioni.[78] Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro
problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità"
dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini,
ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del
successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di
quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti
per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto.
Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando
dell'Histoire, scrive testualmente:... questa Storia, che verrà diffusa fino a
sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi,
richiede una risposta... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il
settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto
puntualmente.[79] Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi
fece riferimento nella prefazione:
«J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue
française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e
non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.» Certo
dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova
preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il
maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto,
le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero
divenute mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo
Goldoni, altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di
scrivere la propria autobiografia in francese. L'autobiografia del
Casanova, a parte il valore letterario, è un importante documento per la storia
del costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la
vita quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione
che, per le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori,
riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e
borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di
contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo.
Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano
degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di
ogni giorno. La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di
vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera
autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu
attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in
dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler,
Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio,
altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era
protagonista. Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna,
a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia
l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi
fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti
soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un
saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un
capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si
debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che
probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per
l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua
vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura[91] Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don
Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di
numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi,
benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando
dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista
puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e
soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle
vittime della sua seduzione. L'interpretazione del suo mito sarebbe
fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da
Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita:
Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue
snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che
alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato
sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e
Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la
sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre
1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto
limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera
mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori.
L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una
variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi
operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel
che è certo è che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno
ancora più grande, certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre
1998 Praga, Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia).
Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico
"Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo
Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998. 88-317-7028-4
Francia "Casanova for ever, 33 expositions
Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille
(dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France
“Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la
passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil,. 978-2-7177-2496-7 (BnF) 978-2-02-104412-6 (Seuil) Stati Uniti d'America "Casanova: The
seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art
Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The
seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. 978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova
Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia
di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con
Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und
letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia
di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René
Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo
Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947).
Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo
Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio
Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia,
1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo
Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing,
Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W.
Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi
Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro
(Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens,
Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei
personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico
Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi,
Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982).
Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna
Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A.
Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore
sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale
Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain
Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia
di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E.
Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di
Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi,
Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti,
2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin,
Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ).
Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas.
Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael
Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io
Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour
(Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova),
Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo
lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia
1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti
1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli.
Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod.
Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel.
Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini,
Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005).
Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura
Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino
per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo
l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e
il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia
vita, Milano, Mondadori 2001, II pag.
925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di
ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla
Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi,
senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata
effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore
burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso
periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart,
Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un
riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era
all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in
pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera
autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo
strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in
bibl.).[95] Note Esplicative
Casanova visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti
protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in
patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti
all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla
Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi
portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì
sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur
non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli
eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva
assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente
potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio,
Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr.
Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il
governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed
approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da
Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra
Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini,
Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.) Il cognome Casanova è attestato appartenere a
nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero Casanova afferma che dalla città
spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una
monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un
rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il
perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo
così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la
tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, pag. XL,
op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal
Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di
una sorta di parodia di ciò che facevano regolarmente i memorialisti
aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro
antico lignaggio, quasi a ricercare una legittimazione per il fatto di esporre,
in un'opera letteraria, le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno
quelle pubbliche, poiché le private rientravano nell'ambito dell'autobiografia.
La tesi appare fondata se si considera che la ricostruzione genealogica
proposta dal C. risale addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita
ed è relativa a un cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune. A conferma del fatto che la nascita
illegittima di Casanova fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de
La commediante in fortuna di Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia
un ritratto precisissimo di Casanova che chiunque era in grado di riconoscere
sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli
altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non
legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore olivastro, di
affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente il
riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie
fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele Grimani.
L'identificazione del Signor Vanesio con Casanova è pacifica, tra i tanti autori,
concordi sul punto, si veda: E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato
cit. in bibl. pag. 25. (Immatricolazione
29 novembre 1737 col numero 122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738,
fede di terzeria del 20 gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno
Brunelli, Casanova studente, in “Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2) Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in
qualità di testimone. Sull'ubicazione
esatta della casa natale di Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia
dal 1728 al 1743, anno della morte della nonna materna Marzia, si è discusso
moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova
non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella
affrontata, dal 1728 in poi, di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente,
dopo il matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a
casa della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole
il marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E
questa con ogni probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725
con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della
casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth
Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico
2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova
(Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical
distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17
e seg.). I coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia
al ritorno dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col
secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione
risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al
secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui
era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per
appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto
chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che
corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al
terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con
certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla
descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della
Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto
che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa
calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova"
senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di
rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura
originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha
pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e
seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette
"Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che
venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei
dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata,
in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a
ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà
e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni
contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta,
Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda,
che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era
di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la
residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche
urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza
l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali
precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la
casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata
designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico
che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto
di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova
abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di
proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna
Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H
Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della
Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto
lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente. Si è mantenuta la cronologia quale risulta
dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o
fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal
26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i
due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il
soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello
"Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare
solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico.
Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in
L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno pag. 711. In tale studio viene ricostruita la
situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con
le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici
adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata
dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un
giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert
Laffont, I, Cronologia, pag. XXX, cit.
in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio",
datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e
Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo
stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova. Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone
una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti
riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come
realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota
virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già
dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il
personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso
citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con
Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti
riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla
Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché
Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola,
le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con
Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova
che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra
gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè
pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi
derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi
ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non
demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e
seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di
un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino
androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La
tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente
stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre,
infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e
avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta
che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia
cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo
particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse
profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le
peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è
una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per
la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è
detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del
teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the
actress in Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes,
Genève, Année 2003 XX. Marco Barbaro (19
luglio 1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San
Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato
di sei zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore
Robert Laffont cit. in bibl. I pag. 997,
che rinvia a Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi,
Milano) Marco Dandolo, patrizio
veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di
Marco Dandolo 28 marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato
testamentario "...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo
Casanova, che mi fu in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla
mia persona, e che ha mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a'
miei pochi benefizj. Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono
nella stanza in cui dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio
orologio d'oro e le mie quattro possate d'argento" (Fonte:
L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.29 nota
104). L'identificazione di
"Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno
degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite
ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi
nella vita di Casanova. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle
Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le
identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere
a: John Rives Childs (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie
d'Albert de Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste
Laurent Boyer de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del
castello di Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella
di residenza di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di
Marie d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996),
che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786).
Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante
che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia,
topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione.
Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che
secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da
Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova
inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che
consenta l'identificazione certa. Molti
studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo
sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini
(R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266. Sul rapporto tra romanzo e autobiografia
nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova
Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in.
Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal
padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a
Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie
d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a
un passaggio delle Memorie di Goldoni)
Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su
presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del
piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).
L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14
dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di
Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno
Mondadori, 2005). Nel novembre del 1750,
Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di
Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in
Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti
maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la
permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli
“italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova
riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la
successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette
anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre
volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi
(Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori). L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755
Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo
Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo
fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova
condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di
StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)
Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di
Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia
Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una
commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si
fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne
Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista
Manuzzi, 22 marzo 1755....Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi
avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e
vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva
dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta...
Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755.
Secondo il casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto
di Casanova è da ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione
con Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti),
apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I
Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la
scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie.
Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag
1065. Bibliografiche Giacomo
Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon,
1960-62. Giacomo Casanova, Examen des
"Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin
de Saint Pierre, 1788-1789127. Carlo
Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.
Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de
ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in
bibl. G.Casanova,Storia della mia vita,
Mondadori 2001, I, pag. 502 cit. in
bibl. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia) (Fonte:
P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia
dell'Padova n°25, 1992) Aprile, maggio
1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie,
pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.
(Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit.
in bibl.) Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non
aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani
che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa
paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva
occuparsi della questione. Si veda di
Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova,
L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti. Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand
Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una cultura della mobilità
nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian
Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag.
LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.
cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl, Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl. Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano.
La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl. Riguardo alla paternità del quadro in
questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim
Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle
ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di
origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un
restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato
tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che
recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto
rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare
trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il fatto che
i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del
fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il
soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a
una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile di
vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro
passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe
Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes XI, 1994, pagg. 17-23. Il
mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998,
cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n°
3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana,
che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è
consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra
organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, pag.68-71 Marino Balbi
(1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una
casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni
ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti
barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ). Si trattava di un certo Andreoli, custode del
palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone,
"in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per
maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note
per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316. Sentenza di condanna a carico di Lorenzo
Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni
de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali
ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi
somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di
contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la
interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi
del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del
reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia
condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani
Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato,
Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus
de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed.
Mondadori 2001, II pag.1634 nota) G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2,
Volume 5, Capitolo 3 Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un
ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature
politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo
entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001 cit. in bibl. II,
Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori,
pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla
ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo
Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una
ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda
anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993
cit. in bibl. II, pag 21 nota 4
(con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.),
pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les
loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963,
pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio
di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit
Française 26469, fol. 198). Del viaggio
nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da
Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux,
rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode
(1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal
1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il
documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre
Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard
Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero
le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e
seg.). La lettera autografa di
Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre
1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere
l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut
Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25) «...siete filosofo, siete onesto, avete la
mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...» G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori, Edizione 2001, II, pag. 394,
cit. in bibl. Histoire, volume 15, capitolo XIX Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837, II pag. 91)
Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie, pag.
221. G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori 2001, II, pag. 1508 cit. in
bibl. Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta
La Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G.
Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001, III pag.117 nota). Un riscontro del soggiorno di Casanova a
Berlino deriva da una annotazione nel diario di James Boswell, datata 1º
settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da
Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove
anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove
Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di
dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un
perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the Private Papers of James
Boswell, London 1953, IV, pag. 67). Il
nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con un errore di grafia =
Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo cognome tradotto, con
diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge
come destinatario comte de Nayhaus de Farussi, Farussi era il cognome della
madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick, Casanova and Boswell, nota in
L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag 41). Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera russa a
Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX
pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie
volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato. Franciszek Ksawery Branicki, conte di Korczak,
(1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era un
rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente
nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la
voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno
in Polonia". Anna Binetti (cognome
di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il
ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò
all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia
vita, ed. Mondadori 2001, III pag.1183
nota) G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001, III, pag. 285 e
seguenti, cit. in bibl. La vicenda
sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei
fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la
veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe
Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e
spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed.
Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati
pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX
pag. 288. Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di
morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26
ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I.
Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre
1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il
terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti,
numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere
veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è
costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova
durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri
parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di
S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia
zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva
anni 40 Piggionanti Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe
fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni
46 L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna,
sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era
al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.) Si è a lungo discusso circa l'esistenza di
ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale
dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima
pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è
stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va
quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle
vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle
medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di contemporanei,
registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette. Alcuni autori hanno
tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando i documenti
disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo
le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla
felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le notizie
riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono enormemente
più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa l'attendibilità e
la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito è stato
amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la sostanziale
veridicità. Il viaggio da Trieste a
Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una notizia
apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua il
signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri da
lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra le
quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di
Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si
è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione
a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana”, Trieste, Deputazione di
Storia Patria per la Venezia Giulia, pag. 221-223). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco
assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere
sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero
Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.) Delle
lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che
coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono
state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà,
Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere
di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il
dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più
avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che
praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva
sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in
denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si
ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di
Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna
notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del
canone: A.Ravà, J. Marsan, Sui passi di
Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in
bibl. pag. 347 Fonte: G. Casanova,
Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il
testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata
Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani
abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il
libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma
manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue
memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).
Foscarini morì il 23 aprile del 1785.
Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più
acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del
maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La
diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher...
(vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le
persecuzionia suo diresubite. Il
concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della
mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il
Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII,
2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui
riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di
una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e
storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di
storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und
Kunst-Freunde (Dresda, 1805 I parte
seconda, pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur
en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux
en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le
Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon
son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno
del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno
di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente
dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza
alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario
ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo
mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso
dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi
più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna
e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo
scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente
verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova,
fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella
medesima opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo
della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa,
bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del
Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e
l'erezione del monumento. Edizione in
tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di
testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione
critica di riferimento. Archivio
Alinari, su alinariarchives. Archivio
GrangerNew York Opere di LonghiCasanovaUbication:
Firenze Miti e personaggi della
modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni
Bruno Mondadori,: «Nell'arte. Di Casanova esistono alcuni ritratti, tra cui un
dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura
all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile
a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici) Il quadro, conservato un tempo nella
collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero
in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato
eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia
dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni
sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti.
Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno
dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco
Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della
collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova,
la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro
Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca'
Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del
ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de
Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau
garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo
dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la
personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla
questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a
separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal
giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle
memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto
Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si
veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron
1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore
di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il
valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori,
come Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano
un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco,
un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può
rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la
Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori
del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della
modernità, citato in. Emblematico a
questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che
costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non
florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei
volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo
una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una
lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che
costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti
usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario
(Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e
seg.). Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi
della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle
autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che
avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente
appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava
compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova
si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali
molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere
aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad
ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di
patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda
Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.25, 26 nota 90. Si
veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del
1769, Epistolario di Giacomo Casanova,
Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.
Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De
Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema
obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere
consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise
Dupont et C. Parigi 1828). Su come
Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue
avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del
personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera
al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive:...V'è un certo uomo
straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano:
egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato
tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di
fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli
quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta
ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del
racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da
lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni,
ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa
infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova,
Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di Casanova, il manoscritto
originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini
che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria
Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a
Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e
i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio,
il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato
l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di
Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, I pag. 733, cit. in bibl. A questo proposito de Ligne scrive...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti,
pag. 189, cit. in bibl.), Illuminante, a
questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da
Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che
riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per
essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non
verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte
al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti
posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di
Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.) Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in
bibl. G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione
dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral
du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la
scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore
diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e
approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di
Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché
nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana;
perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi
a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello
italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle
vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un
problema di diffusione. Stendhal fa,
nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades
dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il
casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.
Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori
italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse
occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review
del giugno dello stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le
vicende narrate completamente inventate.
Balzac si ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi,
nomi ed episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di
Facino Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul
punto si veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs,
Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris
1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e
scrive al padre:..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare
un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia
L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con
postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).
Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra
cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova
(ed. Adelphi). Hesse scrisse il racconto
La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906. Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano
(ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero
veneziano. Salvatore di Giacomo
"Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922. Benedetto Croce "Aneddoti di varia
letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un
luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei
pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.
Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata
sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova,
Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.
Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e
posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere.
(Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209). Tra le altre si veda Margherita Sarfatti,
Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in. La tesi è esposta in modo articolato da
Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert
Laffont, I, Préface, pag. X). Di questo
avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187,, ed. Marsilio
1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad
Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono
probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G.
Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato
osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova
era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia
lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la
rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta
insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino
per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di
teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie.
Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare
varianti al testo del libretto per puro passatempo. Sull’argomento si veda lo studio di Furio
Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag.
21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza
esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il
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vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera
autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima
franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri
galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno
una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata
alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu
scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del
seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di
Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND
INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che
l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di
passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica
omosessuale che Casanova si... – Grice: “Casanova was what I regard as a
philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with him, Bellino tells him that his name was
Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years
before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she
added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather
she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman;
his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he
(Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s
favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo
Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione
sessuale, conversazione e conversazione” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casati:
l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero, dell’amicizia – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice:
“I like Casati; he is from Milano, and therefore, as the Italians say,
intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato
to explain that there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is
the thing, but the idea stands for the thing, and the expression stands for the
thing that stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the
case of Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in
sum, a typical Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a
Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso
Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di
fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di
questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità
(Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza). Buchi e altre
superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando
il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il
nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e
topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico
che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando
diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione
scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa
sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi si annoverano la
teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria
'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica:
la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione spaziale
immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti materiali,
la teoria del futuro "strizzato" nella metafisica del tempo
(cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro
contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta
di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che
appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o
prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat",
l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre,
le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non
materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è
stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento
geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra
linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in
questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una
sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei
"micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria
generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un
progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione,
La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta
dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39
storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici,
Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione
filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il
colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza);
Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina);
L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove
storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di
Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL'
IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione.
Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E
L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra.
Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la
nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE
DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine.
L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema
dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria
della somiglianza Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi
limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione
dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO
NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e
scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO
E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva.
L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro
ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni
esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di interpretazione.
Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e finestra. Cornice
ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE.
Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il fondamento della
rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e immaginare.
PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL PRIMATO DELLA
RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità. La geometria
dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo
rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE
E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica.
Riferimento e generalità. La teoria che Grice e Casati propongono può
chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma
‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di
Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale --
'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come
emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si
può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di
sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione
conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come
creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una
qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il
campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono
create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere
d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla
disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”.
L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto
conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di
suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che
le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una
conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare
oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe
caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione.
È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione
di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente
suscitata 4. Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo
presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria
della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima
compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale.
Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti
artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il
pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della
comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con
l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari,
devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi
che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in
cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono
riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti
poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare
l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una
conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
4 La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances
artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere
d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli
aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i
prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene,
questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con
l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del
tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di
suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa
o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra
capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche
quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il
prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la
possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione.
In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello
spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla
comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici
hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati
problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere
sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente
complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della
loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di
conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le
fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta
avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve
anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La
teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti
di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure
irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale
spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata
inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che
certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore
un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito
si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi
requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere
d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano
di espungere dal novero dell'arte.) 5 Riprendo nel seguito ed espando
alcuni elementi da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità,
e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri
(sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha
profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La
teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di
spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della
comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le
etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere
d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla
conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con
svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché
l’intenzioe che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle
routines (Bullot 2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire,
dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo
alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in
modo del tutto immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le
opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una
conversazione. La clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve
avere un’intenzione appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile
come... La clausola esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta
per lo scambio conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere
d’arte. Dove interviene lo studio della cognizione nella teoria
conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti sono riconoscibili come
creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione. Studiare i vincoli
normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare
interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti
astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della visita museale,
potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa dice chi passa
davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria metacognitiva dello
spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di rendere giustizia
dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto artistico di fronte
all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema varietà delle
risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si situa nella
regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della riposta
estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti
artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una
teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto
che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che
quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un
altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come
oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa
funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto
è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è
certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte,
si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare
predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera
d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste
predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei
meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno
pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e
come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s
national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan
warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos.
Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various
thematic functions and will have resonated in various ways for a roman readiership.
Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of
their relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest
about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview
of ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing
them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular
parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and
Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their
relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in
Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of
their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE
EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR
NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE
STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO
NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et
Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors
Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s
narrative of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic
functions and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I
focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their
relation Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5.
‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus
ammore pio pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First came Nisus and Euryalus:
Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his
deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a
questionably bit of gallantry: starting off in first place, he slips and falls
in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in
second place, in order the Euryalus may come up from behind an win first place.
Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not
forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used
of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil
himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics. Indeed,
Servius, ad Aen. writing in a different cultural climate, was worried by
precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS
CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI
TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his
earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY
SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as
PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear
in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an
effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a
number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus
first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself
upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair.
Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem
miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes
Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora
puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella
ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of Hyrtacus was the guard of the gate, a most
fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the
huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None
of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more
beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face unshaven. These
two shared one love, and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording
is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly
the absence of a beard on his fresh young face, as well as the comment that the
THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is repeated from
the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in Book 9 – is
noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217,
276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in death (433-7,
language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM
TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS
SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly
presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND
EURYALUS’S (235-6: Likewise the question
that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive
resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT
DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase
DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning
men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put
this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira
cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire
to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could
also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction
of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is
notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely
protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat Nisus nec
se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me, me, adsun
qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil iste nec
ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum infeliciem
nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his mind, unable
to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain, Nisus
shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me, Rutulians!
The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he could not have
done it. I swear by the sky above and the stars who know: the only thing he did
was to love his unahappy friend too much. There is, in short, good reason to
believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is described in
the circumspect terms befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his
Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called
SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their eromenoi in
fourth-century B. C. Greece. Note also that “meme … figis?” seems to echo
Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and
9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum
iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit
dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas loses Creusa a t
the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the story of Orpheus
and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas and Crusa in
Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. Pelop, Athen. and the
probable allusion at Pl. Smp. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon
his companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth
into a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus,
placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli
immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen.). Then he
hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and
there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any
power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he
house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the
Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death
ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their
‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET,
UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt
NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those
who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for
we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his
wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a
joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and
Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO
– SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE
491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR
QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA
RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC
IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too
Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can
immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for
Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an
immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil
promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even
bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist.
21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI
AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary
in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males
– and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus
and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the
company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS,
Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads
pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA
MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words,
although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed
with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him
to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his
older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the
pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s
epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence
for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused
with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather
elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of
the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and
the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong
in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s
erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details
about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily
killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret
references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical
model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later
Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck –
from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n.
49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself,
while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the
two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See
further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96,
Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’
Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen,
cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships
in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two
peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and
who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race.
Cf. Turnus’s rhetoric based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks,
ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and June where it is
agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found
pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal
gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which
same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But
is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans,
Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of
a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of
Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE
relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own
day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a
male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is
not. This tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a
relationship that in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here
the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance.
While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in
Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED,
they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And
perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic
past does not extend so far as to conceal the moral problematization of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship
that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship that
the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex.
Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s
relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences
are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment
to her first husband that makes her a prototypical univira, her involvement
with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework
poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus
does ot. This distintion revelas something about the relative degrees of
problematization of the two types of relationships in the cultural environment
of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall
ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells
upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds
sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina
Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the epitome of friendship
along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and Oreste e Palade. Luigi
Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Casini:
l’implicatura conversazionale de naturismo – il concetto di natura a Roma -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did
Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather
than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e
Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.
I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono
successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel
Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione
della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di
filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener
conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto
Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue ricerche
riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione
scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di
Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e
"antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al
darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza);
Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana,
Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza --
razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia”
(Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino);
“Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del
Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il
concetto di creazione (Il Mulino). La lista di autorità e
l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.
Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella
cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo
passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura
romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del
Sette-Ottocento. Giuseppe Bottai o delle
ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa -
La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo
Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico
dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e
instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla
ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia
(Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» -
Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la
sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi
retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore
dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e
nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola -
Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il
passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6.
Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche -
Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja –
Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be
- Anni di prova) - Indice dei nomi Order Zoogonia e
"Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia
Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina
Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual
Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of
Science 127. Dordrecht: Kluwer (review)
British Journal for the History of Science The "Enciclopedia
italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Like
Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British
Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark
10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques
Rousseau Like Recommend Bookmark 9 Il momento newtoniano in Italia: un
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend
Bookmark 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia Newton 1 citation of
this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de Voltaire,
Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and
W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation,
Taylor Institution, British Journal for the History of Science 17th/18th
Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e
la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia Lumi e utopie in uno studio
di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia The New World and the Intelligent
Design Rivista di Filosofia Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for
Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e del
Settecento Rivista di Filosofia Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di
Filosofia Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica,
astronomia, relatività: Boscovich a Roma (1738-1748).« Rivista di Filosofia Introduzione
All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend Bookmark
Newton e i suoi biografi Rivista di Filosofia Diderot e Shaftesbury Giornale
Critico Della Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di
Storia Della Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau
with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Toland e
l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia British Philosophy,
Misc L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia Rousseau, il popolo sovrano
e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici Il mito pitagorico e la rivoluzione
astronomica Rivista di Filosofia Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia
Rivista di Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark 13 Francesco
Bianchini (1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science
and Medicine History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza
Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans Like Recommend
Bookmark 16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista
di Filosofia La filosofia a Roma Rivista di Filosofia Vico's initiation into
the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia Pythagoreans Topic
Order Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo
Thomas Kuhn Rivista di Filosofia Il
problema D'Alembert Rivista di Filosofia Semantica dell'Illuminismo Rivista di
Filosofia Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della
Filosofia Italiana Newton's Physics and
the Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal
for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1 Diderot
and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie
Diderot Like Recommend Bookmark 6 "Magis amica veritas": Newton
e Descartes Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura
Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la
metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia
Rivista di Filosofia Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista
di Filosofia Il metodo di Foucault e le
origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia Rousseau e Diderot
Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de
la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia
Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di
Filosofia L'empirismo e la vera
filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Classical Mechanics Like
Recommend Bookmark 6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista
di Filosofia Freud Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A
study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana
Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia Newton: the classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984.
1 reference in this work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark
Diderot et le portrait du philosophe éclectique Revue Internationale de
Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista di Filosofia
L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. Bechler,
Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution.
Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer (review)
British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie de Newton
(review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton Like
Recommend Bookmark 6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of
ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in Italia:
un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e l'esercizio della
sovranità Rivista di Filosofia
Jean-Jacques Rousseau Topic Order 5 Newton
in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la
philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber.
The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor
Institution, (review) British Journal
for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French
Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who wrote and read
the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and normatively be
directed at either male of female objects. If this configuration is held to be
NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be represented as
NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played by the
discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This
question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell,
1Foucault, 1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is
clear: the ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices,
displays significant differenct from more recent discourses. Boswell, for
example, observes that while “what is supposed to have been the major
contribution of Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole
‘natural’ and hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common
belief of amny philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL
was applied eto everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts
between friends (Boswell, 129, 149 cf. 15: ‘The objection that homsosexuality
is ‘unnatural’ appears, in short, to be neither scientifically nor morally
cogent and probably represents mnothing more than a derogatory epithet of
unusual emotiona impact due to a confluence of historically sanctioned
prejudiced and ill-formed ideas about ‘nature.’”Thus, as Winkler notes, the
contrast between nature and non-nature, when deployed in ancient writings
simply ‘does not posess the same valence that it does today’ Winkler, p. 20 Moreover,
nearly all of the texts that offer opinions on whether specific secual practice
is in accordance with nature are works of philosophy. The guestion does NOT
seem to have seriously engaged the writers of texts that directly spoke to and
reflected popular moral conceptions (e. g. graffiti, comedies, epigram, love
poetry, oratory). For this important distinction between the morallyity
espoused by a philosopher and what we might call popular morality, see the
introduction and chapter 1. In short, as
Richinlin warns us, the question I ‘something of a red herring, since the
concept of nature takes a larger and more ominous form in our Christian culture
than it did in AAncient Rome, whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin,
p. 533. But it may nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary
exploration of how the rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN
PHILOSOPHERS to sexual practices, particularly those between males.In other
words. I would like to go a step or two beyond that ‘nature’ is generally used
by Roman moralists to justify what they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always
bearing in mind, however, that to the extent that it was mostly taken up by
philsoeophers, the question of ‘natural’ sexual practice seems not to have
played a significant role in most public discourse among Romans. Nonphilosophical
texts sometimes do deploy the rhetoric of NATURE in conjunction with sexual
practices, at least insofras they as they offer representations of ANIMAL
bheaviour, one possible component in arguments about what is natural.2-6, and
Win3, on Philo’s description of crocodiles mating. kler, 2See for example
Boswell, 137-43, 15 It will come as no surprise that Roman writers images of
animals’ sexual practices are transparetntly influenced by their own cultural
traditions. Thus in no Roman text do we find an explicit appeal to animal
bhehaviour in order to condemn sexual practices between males as unnatural.Such
an argument does occasionally appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c
(martua parag Omenos en ton therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux
aptomenon arena arrenos dia to me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To
Be sure, Musonius Ruffus’s condemnation of sexual practices between males as
para phusin might imply a reference to animal practices, and it is possible
that in some work now lost to us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps
in being explicit on the point. A Juvenalian satire does make reference to
animal behaviour in orer to condemn cannibalism (claiming that no animas eat
member s of their own species Juv. 15 159-68. And in a passage discussed later
in this appendix, Ovid has a character argue that NO FEMALE ANIMAL experiences
SEXUAL DESIRE for other females. These claims are as unsupportable as the claim
that sexual practices between males do not occur anong nonhuman animals.This is
obvious to anyone who has spent time with dogs. With regard to the
academic-study of the question, the remarks of Wolfe, Evolution and Female
Primate Sexual Behaviour, in Understanding behaviour: what primate studies tell
us about human behaviour Oxford, p. 130 are as illuminating as they are
depressing. ‘I have taked with several (anonymous at their request)
primatologists who have told me that they have observed both male and female
homosexual bheaviour during field studies. They seemed reluctant t publish
their data, however, either because THEY
FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my ccolleagues might thank that I am gay’) or
because they lack a framework for analysis (‘I don’t know what it means’). On
the latter point Wolfe insightfully comments that the same problem affects our
attempts to understand ANY sexual interactions among primates. ‘Because the
alloprimates do not possess language, it is impossible to inquir into their
sexual eroticism. In other words, homosexual and heterosexual behaviours can be
observed, recorded, and analysed, but we cannot infer either homoeroticism or
heteroeroticism from such behaviours (p. 131). But the fact that we do find
animal behaviour cited by Roman authors to CONDEMN such phenomena as
cannibalism and same-sec desire among females, but not SAME-SEX desire among
males, merely proves the point. These rhetorical strategies reveal more about ROMAN
cultural concerns than about actual animal behaviour. A poem in the Appendix
Vergiliana introduces us to a lover hhappyly separated from his beloved Lydia.
In the throes of his grief he cries out that this miserable fate NEVER BEFALLS
ANIMALS: A bull is never without his cor, nor a he-goat without his mate. In
fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST ILLA SUA FEMINA IUNCAT
INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS FACILIS NAUTRA FUISTI
CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The lover is
melodramatically weepy and that consideration partially accounts of his
ridiculous claim that male animals are never to be seen without their mates.
Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency to
shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for the
argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease one’s
angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human beings
and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars 2 461-92.
The poet offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked as a
POSTIIVE paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered
groups (2. 473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two
hundred lines later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM,
again in support of a characteristically human concern: discretion in sexual
matters. IN MEDIO PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE
PUELLA SUOUS CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT
VESTE PUDDAN LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE
ALIQUID LUCE PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to
a close, Ovid holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM
VEROS PARCE PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE 639-40.
And we are reminded of the strategies of this pasage’s broader context. If you
want to keep your girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument
in service of which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to
Ovidian passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just
look ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5. animals and see how far we have come.An
epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We
huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal
intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by
women are really no better than mere animals (A P 12 245 PAN ALOGON soon bivei monon
oi ligkoi de ton allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes hosoi de
guanxi kratountai ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends on the eye
– and rhetorical needs – of the beholder. OS it is that Roman writers show how
Roman they are through the picture they paint of sexual practices among animals
of the same sex. Ovid himself, in his Metamorphoses, imagines the plight of
young girl named Iphis who has fallen in love with another girl. In a torrent
of self-pity and self-abuse, she expostulates on her passion, making a
simultaneous appeal to NATURA and to the animals that is reminiscent of Ovid’s
sweeping review of animal bheaviour in the Ars amatorial just cited. But this
time the paradigm is an emphatically negative one. SI DI MIHI PARCERE VELLENT
PARCERE DEBUERANT SI NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM SALTEM ET DE MORE
DEDISSENT NEC CACCAM VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT OVES ARIES
SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA UNCTA FEMINA
FEMINEO ONREPTA CUPIDINE NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with Lydia’s lover,
so here we have the melodramatic expostulations of an unah[py lover, and similarly
her view of animal behaviour does not correspond to the realities of that
behaviour. Still, these arguments are pitched in such a way as to invite a
Roman reader’s agreement, and the sexual practices invoked as natural and
occurring among the animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to the sexual
practices and desired SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female never
leaves the male, heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable way
of unting different social groups, and females never lust after females), or to
specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and we
should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It cannot
be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the context of a
girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for another girl,
the mythic compendium in which this natrratie is found is peppered with stories
involves passion and sexual relations between males. Both Orfeo (after losing
his wife Euridice) and the gods themselves (whether married or not) are
represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting the BRIEF
springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met. 10. 83-5
ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE MARES
CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories that
Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once loved by
Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and Hyacinth
(Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy Athis
and his Assyrian lover Lycabas (Met. 5 47-72. A passage which echoes of
Virgil’s lines on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that
the stunning but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many
admireers of both sexses (Met 3 351-5.None of Ovid’s characters arever
questions the NATURAL status of that kind of erotic experience or invokes the
animals in order to reject it. Aulus Gellius preserves for us some anecdotes
that further demonstrate the manner in which animal bheaviour could be made to
conform to human paradigms. Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in
love with beautiful boys (one oft them even died of a broek heart after losing
his beloved) Gellius exclaims that they were acing “in amazing human ways” 606C-D
and Plin N H 8 25-8 for this and other tales of male dolphins falling in love
with human boys. Gell 6 8 3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS
FORMA LIBERALI IN NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET
HUMANIS MODIS ARSERUNS. Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more
about ‘human ways’ than about dolphins. The elder Plini, who alo relates this
story regarding the dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants
by observing that they are nonly the largest land animals but the ones closest
to human beings in their intelligence and sense of morality. In particular,
they take pleasure in love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way
of illustration of the ‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites
two examples: ONE MALE FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a
young Syractusan man named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he
tells of a MALE GOOSE who fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of
another who loved a female musician whose beauty as such that she alstro
attracted the attention of a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE
TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM
SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS
NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51 QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI
NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM
TEMPORE ET ARIES AMASSE PRODITUR. Plin N H 8 1. MAXIMUM EST EPLEPHANS
PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET
IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS
8 13Turing to the concept of NATURA as it applied to sexual pracyices by
ancient writers, we being with basica basic problem. The very term NATURA has
various referents in those texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the
way things are or to the INHERENT nature OF something, sometimes to the way
things SHOULD be according to the intention ordictates of some transcendent
imperative. Thus Foucault speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in
philosophical discourse. The general order of the world, the orgginal state of
mankind, and a behaviour that is reasonably adapted to natural ends.Fouctault,
p. 215-6. See also the discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes
between ‘realistic’ and ‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le
concept de nature a Rome: la physique, Paris). The first two of these axes are
evident in a wife-variety of Roman texts. Departures from what is observably
the usual PHYSICAL constitution of various thbeings could be called NONNATURAL
or UNNATURAL even by nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake
with feet, a bird with four wings, and a sexual union between a woman (the
muthis Pasiphae) and a bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA
NATURAM UT EST MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr.
176.113-5 snakes with feet, birds with
four wings. Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims
that breech births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we
should be born head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA
NATURAM EST RITUS NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian
argues that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some
dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE
CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself
opines that being carried about in a litter is ‘contra natural’a, since nature
has gives us feet and we should use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU
FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS
AMBULAREMUS. Finally, the belief that physical disabilities and disease are
UNNAUTARAL, and thus, implicitly, that a healthy body displaying no marked
derivations from the form illustrates what nature designed or intended,
surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’ mdical treatise to
Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to Quintilian, to a
moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA
NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED
BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM. Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are
retained in the body contra naturam. Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM.
Gell. 4 2 3 Labeo defines morbus asHABITUS CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI
USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1 1 7. D. 4Along the same lines, some
ancient writers also suggest that to harm a healthy body with poisons and the
like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the plaintiff refers to a substance as
a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen
Epist 5. 4. To torment one’s body and to eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As
for the third of the axes described by Foucault, anthropologists and others
have long observed that proclamations concerning practices that are in
acoordance with nature often turn out to reflect specific cultural traditions.
As Winkler puts it, for nature we may often read culture.Winkler p. 17. In the
same way Edwards p. 87-8 discusses a passage from Seneca (Epist 95.20=1)
discussed in chapter 5, having to do with women who violate their ‘nature.’ She
concludes that ‘Seneca was not reacting to naturally anomalous bheaviour. He was
taking part in the reproduction of a a cultural system.’ So too Veyne , p. 26.
‘When an ancient says that something is unnatural, he does not mean that it is
disgraceful (monstrueuse) that that it does not conform with the rules of
society, or that it is perverted OR ARTIFICIAL”. Roman sources of various types
certainly support that contention. Thus, for example, violations of traditional
PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND RHETORIC which are surely among the most intensely
cutlrual of human phenomeno are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art
Don. 4 4 4 PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM UNUM IN QUO VIS SUA
EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI. NAM VELLI ET
REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS
CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA
USQUE AD ULTIMUM TUMOREM PERDUCTA UT NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM
ESSENT. One legal writer invokes the rhetoric of NATURA to justify the
principle of individual ownership (joint possession of a single object is said
to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5 CONTRA NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID
TENEAM TU QUOTE ID TENERE VIDEARIS. Interestingly, another jurist argues that
the principle underlying the institution of slavery – that one person can be
owned by another – is actually ‘unnatural’ (D. 1. 5. 4. 1. SERVITUS EST
CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In
a Horatioan satire we read that NATURA sees it that no one is every truly the
‘master’ of the land that he legally owns, and Natura puts a limit on how much
one can inherit (Hor. Sat. 2. 2. 129-30, 2.3.178). Sallust describes the
violation of the cultural and more specifically philosophical tradition
priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. 2. 8. QUIVUS PROFECT
CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise, practices
violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as INFRACTIONS NOT of
cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s philosophical tratise
DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with some clarity functions
of the BODY that illustrates the relation between NATURE and MSASCULINITY with
some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are PERFECTLY DESIGNED to fulfil
their functions, and in doing so they are in conformance with nature. But there
are certain bodily movesmesns NOT in accord with nature (NATURAE
CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to walk backwyasds, he
would manifestbly be rejecgting his identity as a human and thuswould thus be
displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5 35. CORPORIS
IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA AD NATURAM
SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural nicely
illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric of
nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily moveents
not in accord with natura concerns correctly masculine ways of deporing
oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS, QQUALES
PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT ETIAMSI
ANIMI VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA VIDEATUR
ITAQUE A CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE CORPORIS
APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin 5. 35-6. Deemed ‘agaist natture’ are
certain ways of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat,
like walking on one’s hand or stepping backwards, clasi the with thvident
purporse of the body’s various parts. Implicitly then, nature wills men’s
bodies to move and to function in certain ways. Men who violate these
principles of masculine comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in
chapter 4, militia is a standard metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY.
Cultural traditions regarding masculinity – here, appropriate bodily gestures –
are identified with the natural order.Similar conddemnations of inappropriate
bodily comportment, marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching
the hair delicately wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see
Gleason for a general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How,
then is the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has
recently suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally
penetrated as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is
probably a misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS
DEVERTICULA VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO
AOBRTUS Plin N H 10 172. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might
translate (by-ways of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason
to think that it refers to specifically, let alone exclusively, to the practice
of being anally penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE
NATURAE, rather than ‘crime against nature,’ is most obviously transated as
‘crime OF NATURE,’ that is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the
way Plinio uses the phrase elsewhere, noting that we ought to call earthquakes
‘moracles of the eart rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE
MIRACULA POTIUS DICAMU QUAM SCLEREA NATURAE. See Beagon, p. 29. In other words
(pace Taylor and Rackham Loeb Classical Library translation, I take the
genitive NATURAE to be subjective rather than objective. I have not found any
parallels for such an objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In
any case, Pliny is not implying that all sexual desires or practices between
males are unnatural: in this same treatise, significantly called the HISTORIA
NAUTRALIS or Natural Investigations’ he reports the story of a male elephant
who fell passionately in love with a young man from Syractuse as an
illustration of the obviously natural power of love of love (amoris vis) among
elephants; likewise, he reports the story of a gosse who loved a beautiful
young man.Plin N H 8 13-4, 10.51More explicitly referring to those men who take
pleasure in being penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules
menwho have wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking
makeup, participating in women’s religious festivals, and even taking husbands,
and notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2
139 40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES
MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries
wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in
order to render them more suitable for playing the receptice role in
intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and
the natural standard they they violate is apparently the principle that mature
males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr.
10. 4 17. PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM
GREGES HABENT EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT
AMPUTANT. Firmicus Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA
NATURAL (5. 2. 11), and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the
assumption that men’s ‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be
penetrated.9 137. NATURALIA VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In
short, nature’s ditactes conveniently accorded with cultural traditions, such
as those discouraging men from seeking to be penetrated, or those deterring
them from engaging in sexual relations with other men’s wives: in a poem that
urges on its male readers the principle that NATURA places a limit of their desires,
Horace remocommends, as implicitly being in line with the requirement of
nature, that men avoid potentially dangerous affaris with married women and
stick to their own slaves, bh male and female.Hor. Sat. 1 2 111. NONNE
CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se chapter 1 for further discussion of
this poem. Cf. Sat. 1. 4. 113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI
POSEEM. In one of his Episles (122) Seneca provides a lengthy and revealing
discussion of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual
practices among males. He beings, however, by despairing of ‘those who have
perverted the roles of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed
down by the preceding day’s hangover, until night begins its approach. Sen
Epist 122 2 SUNT QUI OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT
OCULOS HESTERNA GRAVES CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are
objectionably not simply because of their overindulgence in goof and drink but
because they do not respect the proper function of night and day.Comparing them
to the Antipodes, mythincal beings who live n the opposite side of the globe,
he asks. Do you think these people know HOW to live when they don’t even know
WHEN to live? 122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI
NESCIUNT QUANDO?and this pervesion of night and say, is, in the end,
‘unnatural’. INTERROGAS QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET
TOTAM VITAM IN NOCTEM TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA
DEBITUM ORDINEM DESERUNT (Sen Epist. 122.5). He then proceeds to tick off a
serioes of bheaviour that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink
on an empty stomach ‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI
CONTRA NATURAM VIVERE QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET
AD CIBUM EBRII TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the
baths before a meal and work up a sewat by drinking heavily; according to them,
only hopelessly philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs
ignari) save their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS
HOC ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE
INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC
FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC
PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment,
with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry , is a
valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre
eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were
violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem)
of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next
practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM
VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI SPECTANT
UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS POTEST?
NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS
ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist 122. 7). The
concept of the proper order is very much in evidence here, and here again the
order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as those who turn
night into day or drink wine before they eat a meal are engaging in unnatural
activities, so men who wear women’s clothes live contrary to nature – yet what
could be more cultural than the designation of certain kinds of clothing as
appropriate only for men and others as appropriate only for women? Moving on to
his next point, Senceca continues to focus on extermal appearance. Men who
attempt to give the appearance of the boyhood that is in fact no longer theirs
also ‘live contrary to nature’. Again the order of things has been disrputed.
Boys should be boys, men should be men. But these particular men want to LOOK
like boys in order to find older male sexual partners to penetrate them. Such
is the thenor of Seneca’s decorous but blunt phrase, ‘so that he may submit to
a man for a long time’ (ut diu virum pati possit’). If we filter out Seneca’s
moralizing overlay, this detail gives us a fascinating fglimpse oat Roman
realities. These MEN scorned by Seneca acted upon the awareness that MEN would
be more likely to find them desirable if their bodies seemed like those of BOYS
(not men): young, smooth, irless. Moreover, the very fact that these men made
the effort suggests that th actual age of the beautiful ‘boys’ we always hear
of may not have mattered to their loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf.
Boswell, p. 29, 81. All of this is very much a matter of CONVENTION, of
CULtURAL traditions concerning the ‘proper order’ of things, but Seneca
insistently pays homage to NATURA.Cf. Winkler, p. 21. “Contrary to nature means
to Senea not ‘outside the order of the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the
simplicity of the unadorned life’ and, in the case of sex, ‘going AWOL rom
one’s assigned place in the social hierarchy’”. The importance of this order is
especially clear in the climactic illustrations of those who live ‘contrary to
nature’. These are people who wish to see see roses in winter and employ
artificial means to grow lilies in the cold season; who grow orchards at the
tops of towers and trees under the roofs of their homes (this latter proving
Seneca to a veritable outburst ofm moral indignation)., and those who construct
their bathhouses over the waters of the sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA
NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI
NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR. Finally Seneca returns to the example of
unnatural practices that sparked the whole discussion: those who pervert the
function of night and day aengage in the ultimate form of unnatural behaviour (Sen
Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME
IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR
NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the practice ofs of growing trees indoors,
of building bathhouses over the sea, and of sleeping by day and partying by
night should be considered unnatural makes some sense in relation to notions of
the ‘proper order’ of things. Plants should e outdoors, buldings should be on
dray land, and people should sleep at night. But that thes practices should be
cited as the most egregious examples of unnatural bheaviour – they constitute
the climax of Seneca’s argument – demontrastes just how wide the gap is between
ancient moralists and their modern counterparts on the question of what is
natural. With regard to mature men who seek to be penetrated by men, the third
of Seneca’s examples of unnatural behaviour, Seneca makes in passing a
surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS
QUIDEM ERIPIET? 122.7. The clear implication is that a nature man certainly
ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for
penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS
AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is
suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING
PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized
as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual
practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical
suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact.
He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly
(it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then instantly
moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to Seneca’s
suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’ from ‘indignity,’
the usual Roman system of protocols governing men’s sexual behaviour required
the understanding that A BOY is different from A MAN precisely because they
COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to masculine or
male status (see especially chapter 5 on this last point). But Seneca, waxing
Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first century A. D. Stoic
philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we find the remark that
sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’ (‘para-physical’) Muson,
Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be be put in the context of
Musonius’s philosophy of nature. According to Musonious, every createure has its own TELOS beyond the goal
of simply being aalive En a horse would not b e fully living up to its telos if
all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7 Lutz)., while the TELOS or
goal of a human being is to live the life or arete or VIRTUS. Thus, “each one’s
nature (phusis) leads him to his particular virtuous quality (arete), so that
it is is a reasonable conclusion that a human being is living in accordance
WITH nature NOT when he lives in pleasure, but rather when he lives in virtue” 108.1-3
Lutz). Elsewhere he opines that human nature (phusis – anthropine phusis,
natura humana, Hume, Human Nature) is not aimed at pleasure (hedone, 106.21.3
Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to be avoided in EVERY way, as being
the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By implication, then, eating, drinking,
and aopulating are not in themselves evil, but they can easily become sgns of a
life of luxury, and if those activities aconstitute the goals of our existence,
we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL AS A HUMAN BEING, namely, the practice
of virtue, or reason, and consequently, not living IN ACCORDANCE WITH NATURE,
but against her (paa phusin). Thus, as part of a regime of SELF-CONTROL
(MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not addictive behaviour or weakness
of the will) Musonius argues that a man should engage in a sexual practice only
within the context of marriage for the purpose of begetting children. Any other
sexual relation, even within marriage should be avoided. T”Those who do not
live licentiously, or who are not evil, must think that only those sexual
practices are justified which are consummated within marriage and for the
creation of children, since these pratcttices are licit (NOMIMA). But such
people must think that those sexual practices which hunt for mere pleasure are
unjust and illicit, even if they take place within marriage. Of Other forms of
intercourse, those committed in moikheia (I e. a sexual relation with a
freeborn woman under another man;s control) are the most illicit. No more
moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES, since it is a DARING
ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse with with females
apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of these are too
shameful, because done on account of a lack of self-control. If one utside to behave temperately (TEMPERANTIA,
CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a courtesan, nor with a
free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s own slave woman
(Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1, Musonius’s final
remark reveals the extent to which the sexual morality that he is preaching is
at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion that men should
keep their hans off prostitutes and their own slaves the only surprising
statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He elsewhere
aargues against the obviously widespread practices of giving up for adoption or
even exposing unwanted children (96-97 Lutz), of EATING MEANT (here he
explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather
than the other way around (118-18-20 Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz),
of using wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands
sexual freedoms not granted to wives (96-8 Lutz). Thus his condemnation of
sexual practices between MALES is issued in the context of a condemnation of
ALL SEXUAL PRATICES other than those between husband and wife aimed at
procreation (strictly speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating)
and also in the context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond
those relating to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual
relations between males as contrary to nature (the implication being that the
two sexes ARE DESIGNED TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE),
while sexual relations between malesand female outside of marriage are
criticized as ‘illicit (para-noma) and as signs of lack of self-control. Here
Musonius is obviously manipulating the ancient contrast between law or
convention (nomos) and nature (phusis) and interprestingly procreative
relations within marriage are ultimately given his seal of approval not because
they are more ‘natural’ than tother sexual practices, but because they are
‘licit’ or ‘conventional’ (nomima), just as adulterious relations are most
‘illicit’ of unconventional (paranomotatai). In other words, Musonius invokes
the rhetoric of nature only by way of secondary support.. A male-male relation
is no more ‘moderate’ than a adulterious relationa dn anyway, he adds, they are
‘unnatural’. But a relation between a man and another man’s wife, while
implicitly ‘natural’,is in the end more ‘illicit’ than a male-male relation.
Even for the Stoic Musonious, NATURA may NOT be the ultimate arbiter.
Interestingly, when he describes sexual practices between males as being
against nature, Musonius does not appeal to animal bheaviour as does Plato in
his Laws (836c). Indeed, such an argument sould have ill-suited Musonius’s
argument elsewhere that humans are different from other animals and should not
takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he argues that wise men ill not
attack in return if attacked – such revenge is the province of MERE ANIMALS –
78.26-7 Lutz) – and that, while among animals an act of copulation suffices to
procude offspring, human beings should aim for the lifelong union that is
marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important distinction to observe
between Musonius’s remark concerning sexual practices between males and later
Christian fulminations against ‘the unnatural vice’ which came to be a code
term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go so far as to condemn
such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think about the
implications of his words, relations between MALES do not even constitute the
ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are ‘the most
illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than relations
between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore Musonius’s
approach to the problem of sexual behaviour differs from later Christian
moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to Musonius,
‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach pleasure from
the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is in fact to debase
the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement is not in the
sexual act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate it from
marriage, where it has its natural form and its rational purpose” Foucault p.
170. Cicero ro in a passage from one of this major philosophical works, the
Tusculan disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca and
Musonius Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the extreme
suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan
Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that
the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who
describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero
notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem
liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS
AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI
RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET
LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy.
NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than
to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE.
Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in
perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion
which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM
FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO
CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO
NOMINE ALIO POSSIT APPELARI TANTAE
LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These
words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire
(QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with
boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion
with women, so that when men DO INDULGE
IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE –
that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour
and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In
fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural.
Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always
love, and would love the same thing: one person would not be deterred from
loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety
– ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM
AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s
remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more
than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration.
In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa
woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to
preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL
SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem
to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly
Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to
which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build
buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT
FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s
claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to
be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables 4 16
discussed in chapter 5 implies, whitout actually using the word NATURA, that
males who desire to be penetrated (molles mares) and females who desire to
penetrate (tribades) have A FLAWED DESIGN. When Prometheus was assuming these
people’s bodies from CLAY, he attached the genial organs of the opposite sex in
a drunken slip-up. But his more popularizing account only specifies that those
males who DESIRE to be penetrated are anomalous. It does not designate those
men who seek to penetrate other males as unnatural. On this model, a sexual act
in which a master penetrated his UNWILLING MALE slave is NOT UNNATURAL. By contrast, according the
philosophers discussed here (Musonius most expliclty) this act would be
unnatural. But on the whole very few
Roman writers seem to have taken this kind of argument to heart. In general,
ROMAN MEN’S BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for
purposes OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only
organ suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment
in an epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL
WITHIN with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS
GENITALS. This is objectionable because it will speed up the process of his
maturation and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries
to talk some sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO
NATURE. DIVISIT NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE
TUA Mart 1 22.9-10. The comment is of course a witticigm. Note the logical
contradiction that this playful invocation of nature creates. If the penis is
designed by nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s
anus in the way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same
time use his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl?
See chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with
Martial’s humorous invocation of the paradigm of nature with regard to
masturbation. but if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is
designed by nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to
Martial’s readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer
tha man onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona,
dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the
passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus,
reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and
NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover,
that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving
Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a
boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act
(SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited
in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS
MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE
FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM.
Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman
readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149
“Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the
‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean
by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and
women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic
particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to
them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident
in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things,
Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep
in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero.
These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of
love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and Musonius
arguing that men should engage only in certain kind of sexual relations and
only with their wives, the goal being the production of legitimate offspring
and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell u something about
the world in which these three philosophers who made them lived, and about what
men and women in that world were actually doing. Seneca for example is hardly
fulminating about imaginary fices) but they tells us even more about Cicero,
Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical allegiances We have every
reason to believe that comments like their rpersented a minoriy opinion.
Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed that A MASTER has
absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is precisel that man shoes
VOICE dominated the public discourse on sexual practice. Moreover, as Winkler (p.
21) trenchangly observers, Seneca’s condemnation of such ‘unnatural’ behaviour
as growing hothouse flowers or throwing nightime parties, ‘though articulated
as universal, is OBVIOUSLY DIRECTED AT A VERY SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE
WHO CAN AFFORD THE SORT OF LUXURIES Seneca wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It
is telling, too, that Cicero himself never makes this kind of APPEAL TO NATURA
in the SEXUAL INVECTIVE sscattered throughout the speeches he delivered in the
public arenas of the courtroom, Senate, or popular assembly (see chapter 5),
and that the argument appears NOWEHERE ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s
moral treatises. Likewise, it is worth noting that Musonius Rufus’s who makes
the most extreme case, not only wrote his treatise in GREEK rather than Latin,
as if to underscore its distance from he everyday beliefs and practices of
Romans, but as a philosopher omitted to stoicis in a way that Cicero and and
Seneca are not. As Haexter reminds us, Cicero proposes manydifferent rhetorical
and philosophical positions in his speeches, letters, and dialogues, and
Seneca’s epistles to Lucilius offer a tentative and experimental mixture of
Stoicism and other philosophical schools (many of his earlier letters end with
quotations from Epicurus, for example). In any case, Boswell, cp. 130 citing
ancient sources claiming that the very founder of stoicism, Zeno, engaged in
sexual practices with males (perhaps even exclusively) tnote that many ancient
stoics actually seem to have considered the question of sexual praticess
between males to e ETHICALLY NEUTRAL. Finally, It is worth noting that both
Seneca and Cicero were thought not to have practiced what they prached. In a
discussion of how Seneca’s behaviour often stood in contracition to his own
teachings, the historian DIO CASSIUS observes that although he married well,
Seneca also “takes pleasure in older lads, and teachers Nero do to the same
thing, too”. Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has praton gamon te epiphanestaton
egme kai meikarious exorois exaire kai tauto kai ton Nerona poietin edidaxe.
The historian goes on to insutate that Seneca fellated his partners,
speculating on the reason why refused to kiss Nero. One might imagine, Dio
notes, that this was because he was
gisuted by Nero’s penchant for oral sex. But that makes no sense given Seneca’s
own relations with his boyfriends (61 10
5 o gar toi monon an tis hupopteuseien hoti ouk ethele toiouto stoma philein
elegxketai ek ton paidikon autou pseudos on). The younger Pliny (Epist. 7.4) informs us that
Cicero addresses a love poem to his faithful slave and companion Tiro. Of
course neither of these pieces of information tells us anything about Cicero’s
or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem could have been a literary game
and the stories a out Seneca that constituted Dio’s source may well have been
unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see McDermott and Richlin. P. 223,
Canatarella p. 103 assumes that they actually ENJOYED A sexual relationship)).
On the other hand, is it not impossible that Cicero actually DID experience
DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the company of MATURE MALE SEXUAL
PARTNERS. And abovre all it is important to recognize that later generations of
Romans (the younger Pliny and Dio) were willing to IMAGINE THOSE THINGS
HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s comments on Cicero remind us of the cultural context in which a
philosopher’s allusion to NATURA must be placed. ( Paolo Casini. Keywords: naturismo, naturalismo,
natura, nazione, patto sociale, la legge naturale, l’uomo, contra natura. “antica
sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il
patto sociale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Casotti: l’implicatura
conversazionale del volere – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my
master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates
teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to
systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’,
which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in
Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto
Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica
della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina
gentiliana dell'attualismo. Dopo aver
aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un
rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale
in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da
lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino.
Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia”
dell'aristotelismo aquinista. Egli
avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della
«lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta
all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto
tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo
gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo
piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su
una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il
passaggio dalla potenza all'atto. Fonda
la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in
Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che
vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un
aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla
sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà
del contesto. Altre opere: “La concezione
idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia,
Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze,
Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini,
Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee
pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro.
Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino.
Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia,
La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue
basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia
generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La
pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La
Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e
l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La
Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti
e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico
degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale, in « L '
Educazione Nazionale », L ' Idea Nazionale », 18, 20, 21 e 22 aprile 1920 )
vedere M. Casotti, Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola », 1920,
nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli
insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la...
Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale
riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova
pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923.
Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola,
Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his
career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the
1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with
Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct
orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the
review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar
years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered
a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a
conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced
critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began
a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end);
anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINOSaggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125
Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri
nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un
periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e
soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.
Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active,
qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa
l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima,
che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e
superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo
riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di
autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo
naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo
denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San
Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua
critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va
meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità,
di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école
active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al
Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole
parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli
«attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S.
Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a
mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine
«spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico
vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella
scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico,
cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso
d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici
accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di
risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici
s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in
questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia
cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato
verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e
generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non
sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per
arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una
conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore
Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di
rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari
vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato
morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di
speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero di S.
Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e
l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle
scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia
cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo
illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come
teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere
della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia
conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono
nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche
questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli
di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S.
Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi
che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo
di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta
pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana
Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima
della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia
cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a
tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato,
anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo
ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina
al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi
a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge
colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di
sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in
quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in
ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma
c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
«De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto
quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile
l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo
rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna
cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi
tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è
offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte
quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi,
nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre
l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente
essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è
possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente
l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto
fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che
possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve
queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro,
cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non
significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti
pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate
cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la
ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua
rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più
moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il
problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni
volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi
note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia
dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come
è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo
scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato
che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile
che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa
riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente
caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto
materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi,
trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma
nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e
immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano
«trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la
loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto
di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro
soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che
costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si
tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà,
si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo
l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato
che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come
due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità
stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che,
invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria
antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può
ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di
stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della
reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo
ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito
di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro
consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi,
e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di
trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in
Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore,
la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione:
dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la
concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo
via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall'
insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir
meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua
essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che
potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne
aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto
diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una
profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso
il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema
panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in
pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero
moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso
atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle
due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di
quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti
fondamentali della pedagogia tomistica. Il De Magistro di Agostino è a
sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni
differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere.
Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà
poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della
didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia
dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno
di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo
principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione
tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il
linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con
tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è
accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se
così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la
mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può
rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva
(spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una
esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione
di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il
linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal
maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri
mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed
efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare
allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la
pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in
realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del
quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé,
quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa:
così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori
potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più
lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per
esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco devo ricorrere
alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare
una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se,
poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio
dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno
della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e
6]. Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto,
mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che,
quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose
ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non
inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci
dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad
esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che
saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già
l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché
già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e
gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse
nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me
conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op.
cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma,
al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro
che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una
scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine
alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo
quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva
comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro. Ed ecco
la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro
allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un
segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare
la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori
consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo
consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi
consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità?
«...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo
interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del
resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può
prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e
XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria
autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il
sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta,
una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e
si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del
platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della
reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro
al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra
soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto
l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può
insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità,
ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il
fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto
l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la
possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha
preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti
geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e
tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci
desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è
infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà
precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma
la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non
le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del
problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III
L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il
problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o,
meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a
noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora,
il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare
l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso
le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di
teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più
recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del
Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di
alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci
permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo
il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il
che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che
passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De
unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto
quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le
tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di
polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente
insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è
ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi
problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da
augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla
luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior
esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella
questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella
questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell'
altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra
maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro
uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale
quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica
intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa
domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa essere
lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci
si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe
dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima
umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la
notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal
vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un
ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem
numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si
cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso
Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...»
Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad
sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi
contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo,
ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che
questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema
della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla
polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate,
qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva
fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del
pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto
pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si
rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse
informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in
diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze
fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano,
cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su
un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e
propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero
[O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto
diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma
dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del
corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale
l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze
d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte,
ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più
evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono
trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema
dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è
uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due
soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma
allora ecco risolta quella tal difficoltà della «comunicazione» fra
maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più
bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che
l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso
lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del
maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo
scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa
theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella
scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto
unico. Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il
peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano,
anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera
rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come
Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché
quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già,
filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile
riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di
infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria
averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa
l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la
pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al
principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto
pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto
pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità,
riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare
una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé
con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio
non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo,
compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza
divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in
tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze.
La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si
svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro di S. Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art.
1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze
circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della
conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti
gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una
scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad
ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a
riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione
della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat
scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem
scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in
anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem
apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima
sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo,
e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo
soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del
pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o
allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito
solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così
dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o
all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo
scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno
abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e
due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta,
invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua
immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali
dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve
tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel
senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo
scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente
l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima,
ma era come adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la
sua chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare,
l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo
visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà
amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine
medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una
soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la
chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire,
«immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità
o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si
chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei
singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile.
Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa
alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur transfundere
scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro,
in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei
quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia
fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o
addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica
contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i
soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli
altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V Nel De Magistro,
invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al
problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema
metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che
l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della
Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere
metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il
solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a
tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale,
e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza
sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza
derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli
oggetti sia nei soggetti individuali. Accanto a questa dottrina S.
Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi
una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata
questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti
codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente,
nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e
degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti
nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista
rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per
exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae
naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma
nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio
Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano
soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle
Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad
susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem
specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo
alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso,
ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che
all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e
l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della
scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo
[De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che
è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della
autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte,
non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono
da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria
materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due
forme diverse di un medesimo idealismo. E, infatti, quanto
all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che
concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in
modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma
velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una
rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa,
al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che
differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie
dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due
aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo
scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un
grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico
compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso
punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione
dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a
sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra
mentalità, la pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e
all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in
questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma
che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere
sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le
altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro
e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come
potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento
fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il
linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi
significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a
insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni. A ciò S.
Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più
importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la
quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può
considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza,
dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché,
per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività
conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune
«forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la
sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità
e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo
il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica
della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di
Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci
quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai
minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale
distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in
parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza,
distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra «a priori» ed «a
posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori»
nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra
ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della
scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per
partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole,
nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente,
appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie».
Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile,
passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più
universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza
i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per
servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute,
in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per
escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia
contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è
nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del
pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza,
e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed
esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o,
meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo
il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non
sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli
insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed
implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto
possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando
»]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi,
mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di
S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato
origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente
contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della
conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei
primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività
dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto
loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è
risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone,
più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le
«categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli
idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè,
tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse
così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l'
«io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le
altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si
riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione
assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i
«principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo
aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun
filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato
quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza
intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di
un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E
ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi
si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità
meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi
debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso
deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come
l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e
che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge
immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre
cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi
principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e
deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare,
sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per
effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il
maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: «
inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per
seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma
il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume
intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o,
meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per
sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori,
disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza.
Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se
non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci
offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso
formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza
sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc.
dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il
concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso
descrive così: «Cum autem aliquis hujusmodi universalia principia,
applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum
accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non
basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le
cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo
descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver
luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è
scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza
sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col
quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o
proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al
lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed
esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse
[«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex
praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua
sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus
intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S.
Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del
maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e
strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile,
sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur
senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li
adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo
la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che
da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume
intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa
facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per
intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa
seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la
potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause
seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un
effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche
cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum
quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha
conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser
cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza
di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel
tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella
tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni
sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per rispondere a
queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni
tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa
parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un
oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso
oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando
sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa
scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e
contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del
maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra
loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre
anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come
due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto
unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza
passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri
come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo
animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla
scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche
oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo
sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno
dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti,
nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo
della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza,
anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una
scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e
basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale
apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del
modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol
dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né
uno di numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce
l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche
dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto
è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di
medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo
altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo
intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico
per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e
fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi
intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé,
tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo?
Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur
ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che,
come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia
identica alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo
riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che
l'arte imita la natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della
scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose
ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto»
[Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la
somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell'
insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte
non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal
problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la
natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma
anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla
sua? Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo
strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il
linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla
difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la
materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e
l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S.
Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se
vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo
attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie
sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e
al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado
più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici.
Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza
delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone
già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta,
perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una
«forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la
dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in
generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati
oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione
dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la
conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b,
c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della
dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi?
Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo
b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste
percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la
dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando
che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la
legge della dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di
questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei
singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione!
Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della
gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della
dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì
come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo
bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze
che ne seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione
qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste
precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con
segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili
quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza.
Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già
dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge
della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere
materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente
del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto
un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge
scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o
concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a
dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire
dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi»
(udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la
legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e
della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e
cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non
è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o
della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle
quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima
puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo
scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole
dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza
nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e
dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili".
Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano
scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori
dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De
Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta,
hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt
extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit;
quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam
sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium
intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da
vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza
materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel
linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente:
le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece
non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro
le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe
assumere dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente,
attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato
finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari
forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo,
è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e
sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo
scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli
elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli
elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può
anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce
se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del
maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e
farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al
nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del
maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che
la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e
valore. È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra
maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati
del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile
del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si
serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e,
insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza
nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro
- San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro,
ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale
scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già
ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così
formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale
consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea,
che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo
sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte
continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è
già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume
intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera
superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano
l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo
riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di
Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.
L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la
natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento
rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso
un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi
si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più
brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo
paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni
abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un
fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il
centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di
se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno,
siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua
dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha
fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene
attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente
simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol
dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se
non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i
primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla
esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad
accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme
che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto,
prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È
questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla
cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori.
Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione
della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si
oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento
e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente
illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura,
quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose
ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce,
per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire:
inventio. Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza»,
è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto.
L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che
suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora,
un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza
sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono
averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e
ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già
saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora
l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé
medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso
avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle,
dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e
come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me
stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non
soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il
che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed
esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se
già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla.
Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama
con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento
(doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma
appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti.
Abbiamo noi il diritto di estendere a una vera e propria azione qual è
l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e
naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di
considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente
e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di
guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso
sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione
del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione»
(azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in
sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De
Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per
colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale
(imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in
quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale
(perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già
in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se
l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta)
occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto
dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal
soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente,
tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La
autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non
vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi
principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto
(la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo
implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma
pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica
senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad
osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero,
portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un
valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel
far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben
interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che
abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente,
l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo
ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente
nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo
normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita
elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di
camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che
l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare,
uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per
doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente»,
sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie
moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è la
scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato,
ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre
facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo genere:
un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è,
insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come
atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser
causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo
può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il
seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra
pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di
un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il
supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero
in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come
supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla
«possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere
già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta
completa. Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo
moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura
potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio,
ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la
scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di
potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e
realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra
mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed
ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e
l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i
quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga
l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che
cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è
vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè,
scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che
cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà
la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure
forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire
come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la
scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il
valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento,
poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore
a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si
potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle
rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico
dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno,
non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della
scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo
atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre
vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in
una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e
concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di
dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria
della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve
saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume
Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui
ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si
ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della
scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in
cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda
disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina
piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba
avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore,
il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per
ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume
intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze
d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata
dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e
a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i
secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della
scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere
sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello
Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in
luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio
medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione,
oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche
per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e
dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto
l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De
Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi
della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e
nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla
quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e
possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della
Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della
Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare,
consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo
metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la
libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata
sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata.
Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra
teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero
che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui
vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi
dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare
le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna
cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi
come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per
essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù,
potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza
dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o
l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con
l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi
s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un
maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo
in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale
per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché
nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un
libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la
nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile
alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una
rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito
attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce
nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in
cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e
attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia
vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono
agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e
quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino
allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro
inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e
risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le
lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i
rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo
che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così
profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con
quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non
parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto
soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto.
Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e
neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi
limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe
abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto
trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli
studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero
umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in
un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che
tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso,
naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo,
in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi
colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa
stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come
l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata,
appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e
nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle,
l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la
verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra,
come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o
le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima
persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali,
tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia
cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del
cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui
attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato
come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento
del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando
«errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe
al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà.
Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté
mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue
Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare
intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi,
giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo,
una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé
delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto
spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non
è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie
moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario
all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha
nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento:
afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura
umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a
riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al
bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e
l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il
bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese
o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo
bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una
educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come
ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un
elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due
cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione
naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi,
sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti
gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli
uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene,
almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua
esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui
tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra.
Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo
ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità,
che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si
confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come
lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato
in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da
lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato
i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole
differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione
effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce,
almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza
del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei
santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini,
capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è
troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili
l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non
dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni
dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte
ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita;
la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure;
dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la
serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito
incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere
questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più
modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o
gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non
sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la
competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le
cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di
maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le
elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti
onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi
fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole
vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe
colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i
pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà.
Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da
tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori
maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale
poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si
potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana,
l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace
di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà
concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste
nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una -
una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato
sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile
sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che
non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri
sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un
tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i
mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui
ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato in
generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la
storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto,
per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso,
dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel
loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla
mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua
fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se
il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la
lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva
imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli
malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e
per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può
ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la
lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno
se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle
sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non
fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è
sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e
dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni,
appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia,
specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo
semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per
istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola,
infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa
trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e
chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto
interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone,
lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto
si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto
astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa
superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive
in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne
l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale
sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di
concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un
errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo
scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo»
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole»
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta
l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la
genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome
i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere
scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor
oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione
dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in
alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche
più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento
dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in
pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione
s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili;
supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo
rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a
taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno,
falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita
risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da
circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in
fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i
sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più
ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa
bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere,
formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza,
che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro
l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura
umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta
insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per
conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e
atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al
sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà
non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà
dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle
stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già
difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano
ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non
dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti
della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole
che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una
vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando
ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i
precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo
desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non
basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica
una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che
non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza
pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti,
esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati
moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella
educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti
predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la
virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo
necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta
costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo
dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che
l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi,
ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche
ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma questo tirocinio
effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si
tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la
volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi
difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la
volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica
questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per
la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe
allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che
l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze
dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile
proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare
benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua
sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i
telai della finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci
perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere
un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi
maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che
quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per
imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori
compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai
facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso
seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo,
quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di
corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male. È vero bensì, che
l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo
stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il
consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una
ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più
importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce
che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi
strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della
maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come
sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più,
esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba
sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il
primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si
dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una
educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto
problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze
imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale
educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori
geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci
sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente
geniali. Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo
ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli
educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il
bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che
tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora
s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le
passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della
filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a
gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando
si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte
merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più
cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini
hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a
mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che
di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi
di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può
mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo
fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi
è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del
mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro
singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi
oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col
fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla.
L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla
probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante
possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a
caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non
riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità
sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed
intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento,
secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere
qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze,
l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere
che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve
se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per
abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della
misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra
possibilità e realtà. La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui.
Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il
divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una
Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali
onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una
assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della
Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua
saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono
garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza
ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine
puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo,
irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione
naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione
intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione,
necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso
in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una
sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe
accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto,
arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la
forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La
natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente
educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso.
Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle
passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono
tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare
ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono
macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata
quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti
i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di
un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per
l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “
Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga
presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio
rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica,
che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.)
Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità
così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta
dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari,
dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e
docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore
che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa
davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più
sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non
avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi
perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in
paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla
condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In
particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in
Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a
gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser
poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da
un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima
linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad
esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è
il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose
scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo
permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta
necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare
alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse,
sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni
della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a
immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di
numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse
forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale,
informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività
legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio
il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della
dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora
riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli
impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di
quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste
nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare,
talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale;
eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi,
per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si
contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo
troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire,
ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti
pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo
imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che
è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori
spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio
d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più
svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a
finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti,
leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe
comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta
estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la
proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica
neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non
vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della
riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si
faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto
naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno
agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale
che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi
sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico
l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio
alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo
preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero,
che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere
solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in
Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali
nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso
Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con
una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore
che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e
dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno
spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il
pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali
idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante
dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla
coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del
quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un
presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito
dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia
scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la
vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici
fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei
diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi
quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina
promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé
come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di
Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare
insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri
abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente
nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono
gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le
classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima
umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono
coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per
conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e
l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo,
siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono
in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite
da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa,
giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le
realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in
pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di
secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo
lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva
partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci
sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma
solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico
che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si
assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una
tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno
Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi
personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una
classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore,
costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a
quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso
dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o
l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una
certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano,
i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le
proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario,
uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli
ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va
acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa
la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la
casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica
d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere,
poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche
difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima
vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e
di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che
accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si
tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè,
dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la
mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta
facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E
invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti
si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa
incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici,
industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni
— altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il
caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere
il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di
studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda,
frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una
meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli,
fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai
esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile
esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della
parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la
scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero
e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del
'20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a
vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe
costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro,
inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste
la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel
professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro,
invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione,
«va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le
physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente
che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il
dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano
fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e
modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che
gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi
trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali,
assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da
quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita.
Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla
coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui
necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica
d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di
pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi
ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e
dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi
problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari;
ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco
la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità
dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come
meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente
simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli
annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello
«stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla
discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se
non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per
esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e
feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri
pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e
democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di
famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli
trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo
denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese
fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più
andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste
del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in
primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano
già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto
messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete
voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al
muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti
bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile
della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli
e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un
problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per
altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La
gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia
importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e
ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da
anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra
razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri
provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità
del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita,
contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle
magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora
di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre
nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi
ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto
e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro
popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola,
l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già
bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete
in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel
conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli
ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima
linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta
come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun
carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze,
opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello
spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il
Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le
conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho
cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia,
essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello
alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi
annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora,
secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio,
miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato.
Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri
e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi
tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le
vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato...
Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella
scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella
scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che
agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni
civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone,
attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e
delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella
rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con
cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori
umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i
criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il
segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il
realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al
realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione,
della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel
proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui
metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti
denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica,
renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la
scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello stesso
carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non
più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una
concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo”
o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali
pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri
preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare
a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori;
anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno
all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di
sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non
se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi,
nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare.
L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso
parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura
scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche
tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più
caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est,
vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di
spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre.
Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un
circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una
realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro
forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini
v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in
un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una
cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni
frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni
frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del
mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per
la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per
cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona
infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha
sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana
avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala
infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo
multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità
d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire,
come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza
creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale
nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di
cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera
ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica”
alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può
andar mai disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più
facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le
innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla
società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che
poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i
bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad
occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte
ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i
mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare,
insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo
antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri
beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del
lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile
tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio
della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare
colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che
è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben
sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni,
interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior
ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un
cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei
cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il
Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo
pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col
quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e
fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la
tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio
dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo,
pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli
evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che
avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo
alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari,
nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo,
Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se
cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi,
naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in
sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate
dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte
d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio.
Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere
aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre
migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere
per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio:
siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo
propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini
naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è
da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale
dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa
distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state
già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da
meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione
della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il
presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro
manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione
intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché
cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo,
stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione
della libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste
di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente
osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo
di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei
giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo,
dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a
riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro
di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui
lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna
vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone,
lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei
così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più
adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha
sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare
come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza
plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non
potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta,
senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è
stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina,
ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la
partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura,
la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si
raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura,
si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal
Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del
lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana
che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del
pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come
tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della
Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro
opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire
collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti
accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché
i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia
razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi
pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il
compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le
contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato
anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti
dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i
Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro
collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione
clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo
spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si
consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una
larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare
sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in
quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene
che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario
e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi,
un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira
quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o
del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della storia,
quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal turbine che
sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi nemici
l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la burrasca sarà
passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare, è
altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo
discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così
bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne
dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno
dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro
comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa
conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della
pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la
vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di
smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra
le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha
insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima
moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più
raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà
veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie,
una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai
nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo
nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei
che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie"
nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle
scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale
la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di
ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e
insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo
Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e
nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano
discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal
vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando
riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando
tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri
che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella
singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non
potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto
magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È bene dirlo
subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici
e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della
scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo
trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro
discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora
deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro
aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente
chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che della
questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di
formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di
tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che
deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si
debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e
quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure.
Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi,
dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si
svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle
Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie,
senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote
formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual
differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio
del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di
pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza
cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un
unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel
suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e
un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo
moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare
nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben
lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla
scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la
libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre
alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo
implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di
remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre
superato. E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si
sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il
Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar
sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun
insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e
che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio
di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari,
tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose
di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non
le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò,
a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni
sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori - più o meno
irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa
tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i
timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni
filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di
oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e
sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile
meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste
accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di
sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non
vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni,
siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli
stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze,
la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine:
domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino
quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il
cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei
d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire.
Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il
consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non
arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è
possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci
segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di
dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od,
occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto
d'incappare. I. Cominciamo con l'osservare subito che la questione che
ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare
insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono
queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e
lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati,
la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si
capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici
veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla
scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale
verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come
un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a
modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza
di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant
ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o
scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della
filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o
“scolastico”, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere
oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o
di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i
personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che
le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”,
di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande
effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò
accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in
questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua asserzione,
e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a
quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e
libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma
dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di
spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il procedimento
adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei
cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e
non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso
che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non
scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste
parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che
vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale
procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero
per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente
quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E,
infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener
vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o
irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è
costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa
soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed
inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale,
qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o
naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti
coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere
di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le
parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per
esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai
dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa
considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che
mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie
dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una
dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché
concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si
possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e
le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza
della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle
parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai
ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si
costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente,
lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a
memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate
idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi
scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia
quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali
il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco
ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo
scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare
a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso.
Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei
libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n
positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino,
facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca
(nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano
essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a
conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà
della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver
nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero.
E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è
garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto
l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol
quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla
scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male
intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano,
essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero
ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi
non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale
ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica,
ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra
Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori
pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni
ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui,
con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo
udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere
altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è
partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare
col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur
di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il
concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano
vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale
di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non
d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così
com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e
ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e
respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la
dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è
sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli
avversari della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una
dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che,
naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per
forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché
colui che esamina la dottrina proposta non sia in condizione di passare
all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina
medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle
espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi
qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla,
imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità
immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi,
non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le
dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano.
Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un
primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè
colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria
idealistica o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor
più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto
perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e
colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo
seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o
scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si
vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del
pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra
dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari,
eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero,
e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole
si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede
infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più
oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché
l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che
imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che
in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una
via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e
in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente,
allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui
(salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è
ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la
scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere
per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è
ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva,
incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche
l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano
dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del
pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati
autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e
non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e
insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina
appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita
intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi.
Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non
credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un
sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo
simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal
quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente
definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi,
l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura quello di non
formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né
materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale
dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri
e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere
inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono,
dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la
filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da
ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così
come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una
dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o
arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono
trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito
e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
“scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi
ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che
non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della
Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di
questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la
ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare
filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del
discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne
occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che,
perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e
l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica
appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né
più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si
possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire,
nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è
soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità
delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo
avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre
riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché
solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della
persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle
quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione
e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per
la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del
pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una
sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre
un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora,
a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo
scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua,
il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia
della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il
discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame
più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si
rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo,
esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il
gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno
invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre
nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una
cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E
viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo
fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici
fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può
aversi dalla conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci:
il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la
vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la
verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte
le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata.
Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma
si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo,
allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i
principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a
questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti
differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di
esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e
la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono,
infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma
di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa
fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria
filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non
è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo
scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera
alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto
mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è
evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche
quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre
esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto
quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude
assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè
distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due:
o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli
al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie,
e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto
della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma
eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e
allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi
sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà
di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però,
non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi
il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o
almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la
verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo
spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza
possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti
del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti
sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito
ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della
verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar
libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo
con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria
intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar
l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in
un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno
alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato,
ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla
resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono
effettivamente il potere. Così la storia della filosofia che i pensatori
moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in
una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la
mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è
sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo
sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà
che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di
Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di
Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del
platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e
dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si
riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete
e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer,
sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del
filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista
consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora,
dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più
moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo
idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la
massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella. Ma che volete
farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che
la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti
sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi
escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per
forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro
che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi
credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà
(e sia pur questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il
diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di
diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che
cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte
le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in
quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e
fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici,
sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente,
consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non
configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza
filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e
pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza,
rifioritura ecc. della filosofia scolastica? Ciò posto, non si vede in
che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a
quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si
affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla
ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro
sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una
tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a
poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il
fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior
numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche
cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel
XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha
nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba
appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in
forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un
professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate
domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da
apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi
rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo
espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro
rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica,
materialistica, pragmatistica e così via. Supponiamo che qualcheduno
dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T.
Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è
arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad
oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte
d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci
farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse
scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo
un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai
progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e
nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo
del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile
applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia
della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema,
dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti
secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e
quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento
individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non
trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo,
mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che
può e deve, quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si dimentica che
progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso
filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo
puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni
umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni,
cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale,
intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da
individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere
espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi,
il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento
individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la
verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde
segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter
l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché,
nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e
la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non
ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai
grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe
saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi
filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche
che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione
cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le
sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di
filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e
che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo
capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E
può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della
filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo
scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la
vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo
la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta,
invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare,
senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico,
idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni
sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si
rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione
risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano
di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola
moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e
il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il
pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più
ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data
dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o
“giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina
e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla”
storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i
bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel
primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare
come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma
è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema
simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo
l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto
l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di
“giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il
gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono
stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi,
assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne
hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di
erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto,
diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità
molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi
moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante
informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro
questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la
conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte
storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché
tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la
discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o
quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media,
un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla
sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non
intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente
pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può
facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la
scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto
fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha
dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto
svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti
superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa
domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i
sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà,
poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che
solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile
minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i
contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono
effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro
sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante
l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso
coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende,
per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale
che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come
sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è
organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le
proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i
sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema
d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di
specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella
sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità
progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi
dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in
forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze
stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione
degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non
solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un
sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa
verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è
una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui
verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una
religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta,
seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la
maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una
azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e
sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non
meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che
sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del
mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di
Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno
conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata
sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua
vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che
in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver
affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il
cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema.
Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro
sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il
cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde
precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione
divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che
si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non
è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo.
Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli
avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed
operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi
dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica
un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come
religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di
“cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale
incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il
principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo. E dunque la
difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il cattolicesimo
è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che pur dite
buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche oggi, nella
società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza infinitamente
maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo significa
davvero ridurre tutta la storia a “storia d'errori”, ben più che non lo
fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa spezzare in
due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa ammettere,
irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi
bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa,
infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre
cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi problemi,
piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli errori di pochi
dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque
poi sia il modo col quale concepiscono tale rivelazione. Giacché la
differenza fra il pensiero della scolastica e il pensiero di quella filosofia
che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui:
nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la possibilità di una
religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, l'esistenza di un
Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione. Spregiudicata e larga come
pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in realtà, da una esclusione e
da una limitazione aprioristica quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie
e le libertà sono consentite al pensiero: purché, però, esso non si provi mai
ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità della rivelazione: questo è
severamente proibito. E non ci si accorge che, con tale gretta esclusione la
filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di
critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è più possibile alcun reale
progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non
sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica, che il pensiero umano
ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato
oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna
gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito
resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento
indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e
chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa.
Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una
privazione, e che il semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo
il pensiero umano, lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua
scontentezza, volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente
progredire che è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come
la storia di certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario,
la scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una
Rivelazione apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e
inesauribile, ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza
mai trovare, per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle
operazioni divine, niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi
stimoli ad elevarsi e progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater
vester coelestis perfectus est »: ecco l'unico programma - il programma della
santità cristiana - che consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un
progresso infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la
filosofia moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più
diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la
realizzazione di un suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di
conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come
abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di
essere una fede e una dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è
disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente,
essa solo rappresentante autorizzata della verità e della filosofia. Fede,
perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà
della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso
e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché
l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora
che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può
darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali,
destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha
scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica Credo che a parlare di
un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano
1921) di Filippo Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non
soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti,
bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere
pedagogiche del Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili
pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che
pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti
della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non
essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua
addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia
il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano
pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza
saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che
l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno
preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter
condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio! Noi, per
conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio,
di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche
maggiore. L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima
e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli
schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione
assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se
l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella
scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel
più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla
quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito
in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale
alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che
uomini come il Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione
alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che
loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più
acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e
quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per
trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico
spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il
mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e
pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre
cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori
sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o
meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione,
alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità
vivissima, aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i
problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi
tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver
raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti
è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli studiosi,
da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col
suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della parola,
ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni
educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così
giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni
intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi
della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza
europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso -
pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo
dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo agone.
Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso ragionatore
vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua incapacità a
mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua tendenza a
presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di far vedere
come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole questioni prese
in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare ogni valore di
filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo (quale
dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base ad essa
i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è esattissimo
come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni
e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere
pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far
toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire
alla formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato
in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto
immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per
lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme
nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare.
Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di
casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o
pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il
mondo circostante della cultura e della vita. Si direbbe anzi, più
precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a
quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al
filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di
mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni
snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande
importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un
villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a
ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi,
o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di
applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste
loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o
cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale,
pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso;
nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e
valore» (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il
Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica
rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i
sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge
di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia
l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo
sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del
romanticismo neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da
Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere appunto una
descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo
spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una
preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente
o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in
uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù”, definì or non è
molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio
rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le
umane passioni e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma
loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo
domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in
ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle
passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di
vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità
che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e
la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una
per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a
fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le
fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla santità
ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente dell'azione
virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca
di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il
Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia
pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della vita
cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore
semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è
un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza
che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre
dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma
che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la
coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione
cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a
tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti
discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso,
poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è
all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando -
verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono
coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono
pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a
prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le
sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran
maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da
abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo
l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che
per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno
dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale
manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di
qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il
“laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del
coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i
maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere
parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare
l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare?
Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor
divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in
certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi
convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente
a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don
Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi
che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle
minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza
dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di
esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché
il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo»
e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili
vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e
la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla
ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di
difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico,
l'educatore dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser
preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale
di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori,
con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche
improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser
battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in
questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei
rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p.
49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene
concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica
immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per
cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova
gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel
significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che
sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione
od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione
dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo,
debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro
carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza
di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché
presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro
esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di
contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che
non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta
ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque,
preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista
religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia
facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica
immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione
umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù
«umane» e perciò già in sé stesse «passionali». Conclusione di tutto ciò
è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal
disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a
facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime
eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè,
in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della
consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la
dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta
persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi
del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il
Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale
per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia
moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo non è già la formazione
del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha
l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari
all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene
osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica,
il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di
cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener
sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra
fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù
sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti
limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili
satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione
rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina»
cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case
dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello
religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia
cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana?
«Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo
della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa
diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia
cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia
ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che
e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico.
L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il
Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e
smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi
scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da
non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio
valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a
Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire
la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel
mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in
un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa
che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata
umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La
filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di
sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è
tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano
della umiltà. Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale
nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già
abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista
il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle
sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa
a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della
scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del
curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà
cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto
e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza
di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio»
pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che
solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché,
tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di
addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di
rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una
cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto
acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani
alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita
intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure
non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in
cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola
che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti
bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro
senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un
interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni »
(p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina
dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto
con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede
pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei
propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso
bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la
Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema
di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli
esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve
parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei
grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad
esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza
d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo
a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla
conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti,
culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non
può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La
religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti,
crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che
filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi,
vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col
catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare
l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto
nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto per la cultura
intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà
riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli
della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i
gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che
dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche
una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non
cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi,
poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La
ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere
o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno
sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio.
Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di
buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche
elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi
confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei
canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia
fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto
verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a
rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa
della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli
delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce (p. 163). Ciò è
quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha
bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può
dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo
estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero
moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si
pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente
ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte
a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica
moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto
opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle
convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti.
Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad
un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori
classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da
alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti
dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello»
(p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E
inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione
di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche
cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.):
talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici
della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta
riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è
affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante
nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a
maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma sopratutto
interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza
facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a
toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e
filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta
ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni
intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle
ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e
lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò
riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là
porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi,
scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche.
Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il
Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine
della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per
attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data
dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni
spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più
propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una
concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il
nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità
gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il
legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con
tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la
filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni,
egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza
approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo
fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che
in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi
immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare
le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate
ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di
partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue
parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia
l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello
dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il
mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia
pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti
giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una
letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della
pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e
ne sviscerasse bene le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente,
in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo
ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio
ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima
di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per
quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La
quale, perciò che il pensiero moderno ha proclamato, dopo il
cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza
spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un
problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili
che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che
si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore
non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto
nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella
delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti
dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver
preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti
scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei
femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è
pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto
nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con
un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone
solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri
domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco
con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio:
dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare
all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e
piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella
conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie
colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo
alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle
cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più
difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle
idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio
compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il
beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione
spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di
scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose
alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo
cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della
cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo
contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare
in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più
difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è
una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni
tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo
col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali
una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti,
e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo,
anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da
quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé.
La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale
della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa
cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze,
e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato,
ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre
filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro
donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per
esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro
attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte
pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto
suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E,
naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli
uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a
cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un
dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave
ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi
attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto
ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa,
che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali
e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita
pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e
degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non
pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma
si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine,
funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte
la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli
regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia,
nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del
problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto
risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va
bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico,
no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci
né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla
natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour,
d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla
scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o
addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera
pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che
siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione
storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi
stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica
e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio,
dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi
alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se
non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due
secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine,
là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni
temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi
che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi
nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di
grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo
meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che
aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito
in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica
accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e
lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio
italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica
come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle
doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia
difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si
sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma
ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle
grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un
singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi
personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente
individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un
sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte
che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano
nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto
esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della
retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito
europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica,
consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non
esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una
filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik,
dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le
possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei
puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano
istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse,
che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No
certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che
attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma
non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. Non è ancora spenta l'eco delle discussioni
suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto
fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi
(come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro
contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è
meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere
di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra
minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti
della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti della Scuola»
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come
pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del
gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben
diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma
«poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e
non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti
del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E
il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della
Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La
tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che
parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua
dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé
e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella
sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il
proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il
fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a
poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia,
nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo
catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal
sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre
il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come
la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e
forse non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo
rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono
state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che,
quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da
eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro
forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la
religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si
basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come
incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe
minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i
«dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo
«irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della
fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi
assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i
«sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui
egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o
«meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete
rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il
decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della
Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si
voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla
circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e
l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la
teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni
così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con
molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».
Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità
d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a
un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come
«canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più
difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua
opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano
a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale,
del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo
anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli
elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato
d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia,
quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste,
colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro
pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa
serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la
natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei
suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi
illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali
e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa
della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele
Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei
molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno
potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa,
che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le
panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario
a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro,
apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che
sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un
catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la
esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo.
Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di
non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti
puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e
anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei
mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e
praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in
fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di
anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di
sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque,
facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o
comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una
buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia,
cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che
tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza,
si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo
puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento
vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto
secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene
insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da
tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché,
nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni
nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento,
il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto
di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una
quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al
metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e
trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le
interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la
didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità
e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica
impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere,
la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società
come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi
didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno
sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche
per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli
esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti
o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni
catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per
avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e
perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non
nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino
della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il
decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso
ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al
fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle
cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni,
il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di
molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il
Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il
decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che
nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della
filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il
cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo
duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo
in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto,
la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante:
è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter
introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una
verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo
energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano
riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le
ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte
delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La
Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della
pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie
163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary.
Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere
soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee
(Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato
che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su
Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o
corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! XI suo soggiorno in Italia* Terminata la sua
opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel Nirvana, come torse si
sarebbe potuto credere; al contrario senza nem¬ meno aspettare le prove
di stampa, egli partì pel paese più bello e più ottimista che vi sia
sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il paese dei paesi, per
la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitu¬ dine di vedere la
vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo splendido d’im
paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso di¬ ventano Ja causa
d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pes¬ simismo che
persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto che Schopenhauer
non ismani il suo pessimismo è una prova convin¬ cente, se prova ci
vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo pessimismo era piuttosto
comprensibile nel freddo settentrione; ma é un altro conto ritenerla in
mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa c* invita a prendere con
leggerezza resistenza ed a gettare lon¬ tano da noi ogni cura, ove Paria
stessa respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far niente è il
programma di vita degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in
Italia sono tutt ? altro che blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio,
pili si rinchiudeva in se stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere
che possano colmare questa lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era
il suo espresso desiderio di sfug¬ gire alla pubblicità. Non voglio che
la mia vita privata formi mPesea « per la curiosità fredda e maliziosa
del pubblico », così rispose molti anni più tardi a coloro che lo
esortavano a fornire maggiori informa’ zioni su se stesso ai dizionari
biografici. I suoi notiziari presero il posto del giornale, ma siccome
contengono piuttosto riflessioni suggerite dagli avvenimenti senza
raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti del suo viaggio che
poca luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere
scritto una gran¬ d'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il
risultato. Non era tanto indifferente in quanto alla accoglienza della
sua opera quanto voleva far credere. Il trattato sulla
Quadruplice Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5
autore l’attenzione generale più di quanto sogliono farlo le
dissertazioni universitarie; era giustificabile che spe¬ rasse che la sua
opera maggiore dovesse suscitare almeno lo stesso in¬ teresse. Egli
corresse le prove di stampa che gii furono mandate ed a petto k
pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in linguag¬ gio
poetico. Unv er schami e Vers e. A us ] anggehegten,
tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s einpor aus meinetn innern Herzen,
Es festzuhaHen haMch lang gemngen, I>och weiss ich, dasz
zuletzt es mir gelungen. Mogi Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt,
gebar cleri, Des Werkes Le ben kòimt ihr nìcht gefahrden;
Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr vernichterq Ein
Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten. Nel frattempo visitava le
principali città <MP Italia settentrionale; frequentava i musei ed il
teatro, continuando a studiare la lingua ita¬ liana die egli già sapeva
assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì cosi profondamente della
musica di Rossini, di cui andava spesso a sentire le opere. Degli autori
italiani egli predilìgeva, -— ed è questo un fatto abbastanza curioso, —
il Petrarca, il poeta di Laura e dell 5 amore. « Fra tutti gli
scrittori italiani, preferisco il mio caro Petrarca. « Non vi e in tutto
il mondo un poeta che lo abbia mai superato nella « profondità e
nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno dritto a al cuore.
Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi e le sue can- a
zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle orrende contorsioni
di « Dante. Trovo il fiume naturale delle parole, che sgorgano dal
cuore, « molto più opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di
Dante, a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio
cuore. « Quello che concorre a confermarmi nella mia opinione è il
tempo a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa parlare con
disprezzo a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il confronto di
Dante e « Petrarca nel loro costume intimo e non ricercato, cioè in
prosa, eon- K frontando per esempio i bei libri di Petrarca, ricchi di
pensieri e di « verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu mundi, De
rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed asciutta
di Dante ». Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al
gusto rii Scho¬ penhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi
della cru¬ deltà. ed il penultimo canto come una glorificazione della
mancanza del sentimento d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun
affetto per Ariosto e Boccaccio; anzi più volte espresse la sua
meraviglia in quanto alla fama europea di quest’ultimo, il quale dopo
tutto non aveva scritto che Delle ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano
PAlfieri ed il Tasso, ma li considerava come autori tli seeoncVordine;
egli non riteneva il Tasso degno d'essere posto come quarto in una linea
coi tre grandi poeti italiani. Per quanto riguardava Parte,
egli si sentiva maggiormente attirato dalla scultura e dall'arekitettura
che dalla pittura. Ciò non potrebbe sorprendere e non sarebbe in
contraddizione coll 1 indole generale della sua mente* se la sua intimità
con Goethe non lo avesse fatto entrare nello studio dei colori.
Schopenhauer non volle mai ammettere che i due anni possati in
Italia fossero stati per lui due anni felici, sosteneva, che mentre gli
altri viaggiavano per divertimento, egli lo faceva per raccogliere nuovi
ma¬ teriali in appoggio del suo sistema, e nel suo notiziario scrisse
has- stoma di Aristotile : 6 TQ aAuTCtfO orò TU fiSìl.
Però ricordava con piacere questi due anni, dico con piacere e
s'in¬ tende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi
giorni della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua
voce tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era
inte¬ ramente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la
seguente nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce
qualche contentezza. « Appunto perchè ogni felicità è
negativa, accade che non ce ne « avvertiamo affatto, quando ci troviamo
in uno stato di benessere; la¬ ti sciamo tutto passare dinanzi a noi
liscio, e con dolcezza fino a che tf questo stato è passato. La perdita
soltanto* che ci si fa sentire con « chiarezza, pone in rilievo la
felicità, svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che
abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso « si aggiunge alla
privazione, b Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia-
In quel tempo vi era anche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili.
E J strano che essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel
genio di Byron la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi
sarebbero an¬ dati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè
Leopardi. Un dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il
giovane conte era¬ no confrontati, fu pubblicato nella rivista
contemporanea del 1858, e Schopenhauer non si diede pace prima che non sì
fosse assicurato di averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf
azione il trovarsi asso¬ ciato col giovane che egli ammirava così
profondamente (ed a cui, dicia¬ molo tra parentesi, Io scrittore De
Sanctis, non ha reso giustizia); gran parte della sua soddisfazione,
proveniva vinche dal fatto die egli vedeva elio la sua filosofia si era
fatto strada fino in Italia. Non avveniva spes¬ so che egli fosse
contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non tro¬ vava mai che lo
avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uo¬ mo, così
diceva, lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò
a Venezia per la prima Tolta, e pii scrisse : « chiunque si trova repenti
nani ente trasferito in un contrada « totalmente straniera, ove prevale
un modo di vivere e di parlare dif- « ferente da quello a cui e pii è
abituato, ha il sentimento di chi ina- « spettata mente ha messo il piede
nel F acqua fredda. Egli avverte su- « bito la differenza di tempera
tura, sente una forte influenza che agi- « sce dal di fuori e che lo
rende infelice; egli si trova in un elemento « estraneo in cui non sa
muoversi comodamente, A questo si aggiunga « che egli si accorge come
ogni cosa attira la sua attenzione e che teme « di essere a ne Ir e gl i
osservato da tutti. Ma dal momento che si è eal- « maio, che ha
incominciato ad assorbire la. nuova temperatura e ad « abituarsi al nuovo
ambiente, egli si trova bene come difatti si trova « un uomo nell* a equa
fresca. Egli si è assimilato a!1 J elemento, ed averir « do perciò
cessato di occuparsi della propria persona, rivolge la sua a attenzione
esclusivamente a ciò che lo circonda: ed ora, appunto per- « che lo
contempla con oggettività neutrale, egli si sente superiore al « suo
ambiente come prima se ne sentiva schiacciato, « Viaggiando le
impressioni dlogni genere abbondano, ed il nutria s mento intellettuale
ci viene in tale quantità che non ci rimane tempo c per la digestione. Ci
rincresce che le impressioni le quali si succedono a rapidamente non
possano lasciare una impronta permanente. In real- tà però avviene qui
quello che ci accade quando leggiamo. Quante «* volte ci lamentiamo di
non essere capaci di ritenere la millesima par- «te di quanto abbiamo
letto! W confortante però in ognuno dei due « casi il sapere che ciò che
abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra « mente un'impressione,
prima d'essere dimenticato, impressione che « concorre a formare e
nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a « memoria serve soltanto a
riempire i vuoti della testa con materie che « ci rimangono sempre
estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite; « il recipiente dunque
potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. » Schopenhauer era
d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce- re quanto areno radicate
le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il
modo di pensare d T un popolo, « Mentre cerchiamo d'evitare uno
scoglio, ne incontriamo un altro; « mentre fuggiamo i pensieri nazionali
di un paese, in un secondo ne « troviamo degli altri, ma non dei migliori.
Il cielo ci liberi da questa « valle di miseria! « \ i a gg
ian do veci i a m o 1 a v ita u ma n a s ot t o ni olle fori n e dive rs e
: « ed è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma,
ving- « g i a n d o, non v e d i a m o c he il lato esteriore del la v if
a u ni a n a ; cioè ne « scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte « non vediamo mai la vita interiore del
popolo, il suo cuore ed il suo « centro, cioè il campo in cui Vazione del
popolo si svolge, in cui il «suo carattere si manifesta,,., quindi,,
viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio dipinto con un orizzonte
vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non li a personaggi
spiccati. Di lì, nasce pure la stan¬ tìi ehezza del viaggio. »
Schopenhauer studiò profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la
loro religione. Di quest’ultima dice: La religione cattolica è un
ordine per ottenere il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo
doverlo guadagnare. I preti sono i me¬ diatori di questa
transazione. « Ogni religione positiva dopo tutto non fa che
usurpare il trono « che per diritto spetta alla filosofia ; i filosofi
quindi la coniti attera uno a sempre, anche se dovessero considerarla
come un male neccessario ed « inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior pur- « te degli uomini. a La nuda
verità non ha la forza di frenare le menti rozze e di co¬ te stringerle
ad astenersi dal male e dalla crudeltà giacche esse non san¬ ti no
afferrare queste verità. Di lì il bisogno di storne, di parabole e di «
dottrine positive. « In dicembre ièlS la sua grande opera vide la
luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò una copia a Goethe. Poi
nella prima¬ vera del 1819, egli si trasferì a Napoli; Goethe accusò
ricevuta del do¬ no per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle predilette
del vecchio poeta. « Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e cornili- « ciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi
mandò il biglietto qui unito, di- « eendomi che egli ti ringraziava molto
e credeva che tutto il libro .do- « vesso esser buono, giacche aveva
sempre la fortuna di aprire i libri « nei posti più notevoli; così egli
mi disse d'avere letto le pagine indi- « caie (pag. 22 e pag. 340 della
prima edizione,) ed egli spera di po- « ferii scrivere quanto prima la
sua opinione completa. Intanto egli « desiderava che io ti dicessi
questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi dis- « se che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa « fino allora non aveva
mai osservato in lui. Egli le Ka detto che ora ave- « va. un divertimento
per tutto ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo
e credeva che ciò lo avrebbe occupato per un « anno. Disse a me ch’egli
si sentiva proprio felice di saperti sempre « a lui devoto, nonostante il
vostro disaccordo sulla teoria dei colori. « Disse pure che nel tuo libro
gli piaceva sopra tutto la chiarezza della « rappresentazione e del
linguaggio, sebbene la tua lingua differisce da quella degli altri e che
occorresse prima avvezzarsi a chiamare le « cose come tu lo vuoi.
« ila, continuò, quando una volta si é pervenuto a queste, allora «
la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione della «
materia gli piaceva ; solfante la forma immaneggiabile del libro non a
gli dava pace, e si convinse che F opera dovesse consìstere di due vo- a
fumi* Spero di rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa «
di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il solo autore che Goethe «
legga in questo modo e con tanta serietà* » Nondimeno Schopenhauer
ritenne F opinione che Goethe non lo legasse con sufficiente attenzione ;
che il poeta avesse già speso il po~ co interesse che aveva per le
questioni filosofiche* A Napoli Schopenhauer fu principalmente in
rapporto con giovani inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante
tutta la sua vita, un fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano
quasi giunti ad esse)e il più gran popolo del mondo, e che soltanto
alcuni loro pregiudizi si opponevano, acciocché infatti lo fossero. La
sua cognizione della loro lingua ed il suo accento erano tanto perfetti
che anche gl T Inglesi stessi per- qualche tempo lo prendevano per un
loro cOmpatriftta, un errore die sempre lo esaltava* Tutto
quanto vide, concorse a confermare ed a sviluppare il suo sistema
filosofico * Rimase specialmente colpito dal quadro di un gio¬ vane
artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di questo quadro
illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime che, secondo il
nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé stesso* Il
quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse piange alla
Cor¬ te di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie sventure, «
Questa « è Fespressione più alta idi e possa avere la compassione di se
stesso. » Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto* & La ventina e la prima parte della trentina sono per
Fintelletto quello « che è il 'uose di maggio per gii alberi, questi
durante la stagione prh <t maverile emettono soltanto dei bottoni che
poi diventano frutti* » L’esteriore, di Schopenhauer doveva essere
caratteristico, ma la sua bel¬ lezza stava nell 9 animo e non nella
faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella
gioventù rischiaravano quella testa poten¬ te col loro sguardo acuto e
limpido. Verso quel tempo un vecchio si¬ gnore* a lui perfettamente
estraneo, gli si accosto in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer,
sarebbe stato un giorno un grand’uomo* An¬ che un Italiano, che pure non
lo conosceva, venne da lui e gli disse: € Signore, lei deve aver fatto
qualche grande opera; non so cosa sia, a ma lo vedo nel suo viso* » Un
Francese che alla tal)le cVhote, gli sede¬ va dirimpetto, ad un tratto
esclamò: « Je ooudrais savori- ce qu il penr- « se de nous autres j nous
devom par altre hien ■ petit s à ses yeiux ! ?> Un giovane Inglese
rifiutò assolutamente di cambiare posto con le parole: « Yoglio stare
qui, perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. » Nel riposo egli
rassomiglia va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma
il cranio di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la
misura elle ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò
pozioni straordinarie eli questa testa, E no¬ tevole la distanza che
correva tra un occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali
ordinari. Era di statura media, tarchiata e muscolosa , aveva le spalle
larghe ; In sua bella testa era portata da un collo troppo breve per
esser bello* Capelli biondi e ricci Liti circondavano la sua fron¬ te e
cadevano sulle sue spalle; quando era giovane, mustacchi biondi coprivano
la sua bocca ben formata, che coll'accrescersi degli anni perdette la sua
bellezza a misura che perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza
speciale e cosi pure le sue piccole mani* Egli stesso faceva una
distinzione fra la fisionomia, intelletuale e morale à- un uomo; cer¬
cava la prima nelPocchio e nella fronte, la seconda nelle forme della
bocca e del mento. Era soddisfatto della sua fisionomia intellettuale, ma
non della sua fisionomia morale* Vestiva sempre bene e con elegan¬ za,
il.suo contegno era aristocratico e leggermente altero. Portava Seni¬ li
re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano sempre dello
stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non pareva mai stra¬
no, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il popolo in
istra¬ da spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo esteriore
animato dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu fatto il
suo ri¬ tratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto
ci parla dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni virili.
Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline!
tro¬ viamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a
Roma. Allora era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione
della Germania, epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte
un Cornelius ed un Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal
loro console ad ornare la di lui villa sul monte Pine io, avevano
l'abitudine di riunirsi quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel
caffè Greco, diventato il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà.
Il poeta Ruekert ed il novelliere L, Schefer, ottimisti per professione,
frequentavano allora quella casa. Molti degli uomini più importanti della
Ger¬ mania allora viventi, si trovavano nella eterna città.
Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè Greco, ma pare che il
suo spirito mefistofelico fosse un elemento disturbatore per i visitatori
ordinari che desideravano che egli si allontanasse* Un giorno egli
annunciò alla società che la nazione tedesca era la più stupida di tutte,
ma che era in un punto a tutte superiore, cioè che era arrivata al pùnto
di poter fare a meno della religione. Questa osservazione suscitò una
tempesta ili disapprovazioni, ed alcune voci gridarono: fuori! alla porta
met¬ tetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il filosofo evitò il caffè
Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi rimasero inalterate. « La patria
tedesca * in me non si è allevato un patriota », disse un giorno ; e
spesso anda dicendo ai suoi compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si
vergoigmva di essere tedesco, piaceli è questo popolo era tanto stupido, a
Se « io pensassi così della mia nazione », rispose un Francese, «
almeno « non lo direi. » « Questo Schopenhauer è un sala
miste) (N&rr) insopportabile », scrive Bòhmer. « Questi filosofi
antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero « essere tutti quanti rinchiusi
pei bene comune, » Schopenhauer non menava una vita santa ed
ascetica, uè pretese die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le
donne; considerava ibi more sessuale come una delle manifestazioni più
caratteristiche della volon¬ tà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava
con Byron : «Più che vedo « gli uomini meno mi piacciono; tutto sarebbe
bene se potessi dire lo « stesso delle donne. » Egli differiva dagli uomini
ordinari, parlando di ciò che gli altri sopprimono. I suoi discepoli
troppo zelanti die cre¬ devano vedere qualcosa di divino in tutte le sue
azioni, trassero alla luce del giorno anche questi suoi discorsi e quindi
attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le idee di
Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; « Non v ? è
pas- « sione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa
nessun’ultra «merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di questa
forza, « per la carne non vi sarebbe più salute! » E di lì nacque senza
dubbio il timore di Sdì operili auer « di non poter raggiungere il Nirvana
», come egli disse con rincrescimento al dottor Grwinner. In
mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza femminile gli giunse ad
un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi e a, in cui era
implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di sua madre, era
minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in Germania; ia perdita
del suo avere era il male che Schopenhauer temeva maggior- mente., il
male che egli sapeva di poter sopportare più difficilmente, tenuto
calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a guada' gnarsi il.
pane; la sua intelligenza non era di quelle che si possono dare in
affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva ereditata gli parve
sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché s ! era tutto dedicato a
suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem was Einer hai , egli
scrive : Non. istimo indegno della mia penna di raccomandare hi cura
« della fortuna che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un van-
« faggio inapprezzabile il possedere fin da principio quanto occorre per
« vivere, sia anche solo e senza famiglia, comodamente ed in vera im.1L «
pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente
ed « immune dalla privazione e quindi dalla servitù universale, sorte
caie ninne dei mortali. Colui soltanto che dal destino fu favorito in
questo « modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr
j.arix, « padrone del suo tempo e delle sue facoltà e può dire ogni
mattina ; il « giorno è mio. Per questa ragione la differenza tra colui
che hn mille ai a scudi d’entrata e colui clie ne La
centomila- è molto minore di quella « che corre tra il primo e colui che
non La nulla. La fortuna ereditari si « acquista un sommo valore, quando
cade in mano ad un uomo il quale, « dotato di capacità
intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze in- « compatibili col
lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette da! « destino un
doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coni¬ ti pensa cento
volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando cosa « che nessun
altro potrebbe effettuare, e producendo qualcosa pel bene « ed anzi per V
onore comuni, TTn altro in questa condizione privile- « gìata con
tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la gratitudine d elee l’umanità.
D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che si tro¬ te va in
possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun modo, «
neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile all’umanità,
» a Questo ora- è riservato al più alto grado di perfezione iute
Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il genio solo si occupa
escili- sivamente dell’esistenza e della natura delle cose, per poi
esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la propria inclinazione,
per mezzo <* dell’arte, della poesia e della filosofia. Pei uno
spirito di questo ge- « nere il commercio non interrotto con sé stesso,
co’ suoi pensieri e colle « sue opere è un bisogno urgente. Ad esso è
cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene maggiore; il resto non gli è
indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di tal uomo soltanto possiamo dire
con ragione che « abbia in sé stesso il suo punto di gravità. Cosi si
spiega perchè queste « persone tanto rare, anche se hanno il miglior
carattere del mondo, « non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel
bene comune quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono
tanti altri; giacche « dopo tutto possono consolarsi d’ogin cosa finché
hanno sé stessi* In « loro vive un elemento d'isolazione tanto più attivo
quanto meno gli «altri possano dar loro soddisfazione; questi altri uomini,
essi non li « considerano interamente come loro pan; e dal momento che
corniti- « ciano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine
di « camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da
loro « diversi; nei loro pensieri ne parlano come di terze persone,
dicendo: « essi, loro , e mai noi. « Tln uomo munito di questa ricchezza
interiore non chiede al mondo esterno nulla, all* infuori d'un dono negativo,
cioè la libertà di svilappare e di migliorare le sue facoltà intellettuali, di
godere la sua « ricchezza interiore, vale a dire di essere interamente a
sé in ogni gioì « no. in ogni ora e durante tutta la sua vita. Quando un uomo è
desti- « nato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera razza umana,
« egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di vedere le «
sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere l’opera e
sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni altra, cosa «
è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi le menti più
*; elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il valore di
« quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri
Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la libertà è un cordiale
più fortificante del Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli
si portò con fretta in Germania, (tra zi
e alla sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì
a salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire non volle
prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa ed Adele
rimasero quasi senza un centesimo, Questo incidente dimostra die
Schopenhauer non era filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente
non avrebbe inciampalo, guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli
univa il senso pratico, una combina¬ zione molto rara, la cui origine
egli faceva risalire a suo padre nego¬ ziante. Ed è questa qualità che fa
di Schopenhauer il vero filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da
parte il -suo pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di
quegli studiosi che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni
e le richieste del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo
elevati per essere messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio
chiaro ed intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente
che pensa. Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,
Few use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy
oì thè tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they
do. Sfortunata incute il loro numero è infinito ed a loro non
occorre nè filosofo, nè poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella
vita una guida sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate
si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die
welt as will –volere – filosofia fascista -- la volonta di potere, un invento della
sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Castelli
Grice e Castrucci: l’implicatura
conversazionale del guerriero indo-germanico -- sul conferimento di valore –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Monterosso al Mare).
Filosofo italiano. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di
La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di
ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in
contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia
espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di
laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.
I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi
rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza
kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del
diritto. Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di
potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di un'antropologia
politica fondata su basi individualistiche (potenza come acquisizione di
spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che
però non trascura il serio problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore
dottrina costituzionale tedescadel radicamento materiale e simbolico del
singolo individuo nella comunità politica di appartenenza (potenza come
stabilizzazione, ossia radicamento individuale e comunitario nella spazialità).
Risulta evidente in tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung,
ossia localizzazione o radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo
quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già rinvenibile nell'antropologia
filosofica di Spinoza e di Nietzsche. L'analisi di Castrucci muove più in
generale dal proposito di riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle
idee proprio della critica della cultura, una serie di concreti problemi
teorici su cui la cultura europea aveva concentrato l'attenzione in un passato
non troppo lontano, per poi distoglierla "nell'inseguimento di una
discutibile attualità". Tra questi problemi particolare rilievo tematico
acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci, la ricerca di un'etica
fondata su basi epistemologiche convenzionaliste, l'approfondimento delle
implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori classici della filosofia
tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale
delle tesi di autori più recenti come Habermas, nonché infine la questione
cruciale delle linee virtuali di costruzione di un mito politico nell'età del
nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a
partire da uno pubblicato il 30 novembre
col quale si riferiva a figure storiche naziste come Adolf Hitler ritratto
col il cane Blondi e il commento di Castrucci "Vi hanno detto che sono
stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che
oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore
della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo tweet, ne sono stati
portati in evidenza altri, ritenuti di matrice filonazista, razzista e
antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del Presidente della Repubblica
Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica
affermando di aver semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi,
al di fuori della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero
e successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai
aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore,
sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e
paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande
speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver
"dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla
gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in
procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole
del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di
negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla
Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare
sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al
licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento
presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per
motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero
decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il
pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la
decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul
conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del
diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la
proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma
giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La
scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria
politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano,
Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione
di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi;
Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi
giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica,
Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in
costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il
Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica.
Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano,
Giuffrè); Ordine convenzionale e
pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno
nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma,
potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).
HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI
il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA
DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli
studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle
anti¬ che civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale
del pensiero religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune
radice indoeuro¬ pea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in
Sacerdoti. Guerrieri e Contadini che è presente nelle origini di
Roma così come nei miti iranici, germanici e celti, si rivela essere
lo specchio di un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così
suddivisi, clas¬ sificati e diversamente adorati. È la
dimostrazione di come, nelle ci¬ viltà tradizionali, anche l'aspetto
sociale e politico dipenda radicalmente dalla dimensione
mitico-religiosa. e il mondo del divino diviene l’archetipo che dà
forma a tutta la società degli uomini. DUMÉZIL è una
figura fondamentale nel panorama culturale europeo. Filologo
e storico, nel ‘900 ha riav¬ viato gli studi attorno alla civiltà indoeuropea
nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia, le
popolazioni celtiche e germaniche. Ha lasciato una bibliografia
sterminata, solo parzialmente tradotta in italiano, fra cui
ricordiamo almeno La religione ro¬ mana arcaica, Gli Dèi dei
Germani, Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli
Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS Dumézil L’ideologia
tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo
di RlES il Cerchio Iniziative editoriali L'idéologie
tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di
Mera. Walters Art Museum, Baltimora. II Cerchio Srl La
riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil.
Calmette rinvenne i primi due Li bri dei Veda, u n documento coni p
letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella
Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala,
Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza di una
lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della
riscoperta del pensiero indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo
Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬
piere nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti
dell’antica mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei
Germani al Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle
origini spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬ mente
due pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre
opera di Creuzer Simbolik
undMvlhologie der altea Vòfker , tradotto in francese nel 1825; infine
nel 1810 J.J. Gòrres pubblicò il suo Mythengeschichle der asiatischen
Welt, in cui questo precursore del romanticismo religioso cercò di d
imostrare che i miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una
dottrina co¬ mune su Dio, l’Anima e l’immortalità. Sulla scia
dei loro maestri i mitografi romantici si lanciarono alla ricerca delle
prime idee religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò questa corrente si
occupò dell’espressione e delle modalità di trasmis¬ sione del messaggio
religioso sin dalle origini dell’umanità. A questa corrente
romantica si oppose la ricerca storica e filolo¬ gica, rappresentata da
Karl Otfried Miiller (1797-1840), da Franz Bopp (1791-1867), da Antoine
de Chézy e da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che
studiarono scientificamente i testi dei Veda e dell’Avesta per
familiarizzarsi col pensiero dell’India e dell’Iran antichi. Tra questi
ricercatori Miiller occupa un posto di primaria importanza. Specializzatosi in
sanscrito, in grammatica comparata ed in filosofia del mito ad Oxford,
istituì una Cattedra divenuta celebre: egli credette che la filologia
comparata fos se la chiave che avrebbe permesso di aprire le porte della storia
delle religioni. Ai suoi occhi la lingua è un testimone autentico del
pensiero. Miiller sostenne che in origine l’uomo ha agito, e per
descrivere i suoi atti inventò il linguaggio. Da allora i miti non sono
altro che la personi¬ ficazione degli oggetti e delle azioni che 1 ’uomo
ha dovuto esprimere e descrivere. Continuando le sue ricerche
in direzione delle origini, Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva
di trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli
antichi Ariani. Così secon¬ do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero
la fonte del pensiero reli¬ gioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani.
La gemma tra le ricerche di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione
dei Sacred Books of thè Easl (che potè terminare prima della propria
morte, la¬ sciando così agli studiosi occidentali una vera summa dei
libri sacri dell’antica Asia. Il dossier indoeuropeo del XIX secolo
è già abbastanza ricco: scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario
delle lingue indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura
arcaica ariana come pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer
tentò d’intraprendere un vasto studio comparato at¬ torno al mito romano
della morte rituale ed al mito nordico del dio Balder. Tutta la sua
opera, The Golden Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma
le sue conclusio¬ ni sono deludenti. Dopo una prima
esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa
via della regalità sacra per volgersi verso la linguistica e la filologia
comparata. Le sue guide furono A. Meillet e J. Vendryes. In un articolo
intitolato Les correspondances de vocabulaire enlre l ’indo-iranien et
Titalo-celtique (in «Mémoires de la Société Linguistique»), Vendryes ha
sottoli¬ neato le corrispondenze esistenti tra parole indo-iraniche da
una parte ed italo-celtiche dall’altra. Si tratta di termini relativi al
culto, al sacrificio ed alla religione, c vi sono anche parole mistiche
relative all’effi¬ cacia degli atti sacri, alla purezza rituale,
all’esattezza dei riti, all’of¬ ferta fatta agli dèi, all’accettazione di
questa da patte degli dèi, alla protezione divina ed alla santità. Questa
scoperta fu molto importante, poiché dimostra l’esistenza di una
comunanza di termini religiosi presso i popoli che in seguito sarebbero
divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli Italici ed i Celti. La permanenza
di questo vocabolario religioso alle due estremità del mondo indoeuropeo,
in India ed in Iran, nella Gallia ed in Italia, è un dato molto
significativo, benché la scomparsa di questo vocabolario presso popoli
come i Germani e gli Scandinavi non abbia mancato di incuriosire
Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬ tato che questi termini religiosi
si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano di collegi
sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi, il Pontìfex
romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere questo
vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed alle
preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una fonte
importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo
indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic
veicolava grazie ad un linguaggio comune. 3. La scoperta
dell’eredità indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, G.
Dumézil ha compreso quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al
termine di vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di
penetrare gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La
pubblicazio¬ ne de L'idéologie tripartie des Indo-Européens nel 1958 è il
compi¬ mento di una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le
scoperte .successive. L’esame del problema flamen-brahman c dei
flamini maggiori a Roma condusse Dumézil ad una conclusione
decisiva: «/ più antichi Romani, gli Umbri, avevano portato con
toro in Italia la stessa concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su
cui noto¬ riamente gli Indiani avevano fondato il loro ordine sociale
»' Era la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità indoeuropea,
di una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità della quale
si trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla forza fisica
che s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa la
fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma
indispensabile al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia
di lettura lo studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la
documenta¬ zione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui
oggetto c il dato indoeuropeo. Durante il III c II millennio
a.C. delle bande di conquistatori si spostarono verso l’Atlantico, il
Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate erano fatte di diversi dialetti
provenienti da una lingua comune, il che suppone un fondo intellettuale e
morale identico, ed un minimo di ci¬ viltà comune. Popoli senza
scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti. Solo gli
Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II millennio a.C., hanno
adottato una scrittura cuneiforme che consentì loro di conservare degli
archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza del vocabolario religioso
legato all’organizzazione sociale, alle prati¬ che cultuali ed ai
comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppon¬ gono l’esistenza di
una religione che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo,
una concezione dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL,
Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les épopees
despeuple indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15 (Trad. italiana,
Einaudi, Torino 1982 - NdT) Volendo spiegare quest’eredità e la sua
struttura, Dumézil ha elaborato il proprio metodo comparativo, che lui
stesso chiama «gene¬ tico)} 2 . La prima fase del lavoro consiste nel
mettere in evidenza delle corrispondenze precise e sistematiche, che
permettano di tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati
logici ed articolazioni es¬ senziali. Questo schema viene proiettato
nella preistoria, al fine di comprendere la curva dell’evoluzione
religiosa. Possedendo delle corrispondenze precise, sistematiche e
numerose, lo storico delle ci¬ viltà e lo storico delle religioni
procedono per induzione in direzione delle origini. Utilizzando i dati
dell’archeologia, della mitologia, della filologia, della sociologia,
della liturgia e della teologia arcaica, lo storico giunge a comprendere le
grandi linee del pensiero di questi popoli e la loro evoluzione, sino
alle soglie della storia. Grazie a questo lavo¬ ro lungo ed arduo si è
riusciti a stabilire un’archeologia del comporta¬ mento e delle
rappresentazioni. Dumézil non ha preteso di resuscitare la
religione degli Indoeuropei come venne vissuta nei tempi preistorici. Si
è accontentato piuttosto di delineare lo schema concettuale delle società
collegate tra loro nello sviluppo della storia, e si è servito di questi
schemi per giun¬ gere a spiegare i testi ed i fatti che resistevano ad
ogni spiegazione. Nelle civiltà indoeuropee il nostro autore trova
una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono queste i tre varna
dell’India: i brdhmana, sacerdoti incaricati del sacrificio e custodi
della scienza sacra; gli ksatriya, guerrieri incaricati della protezione
del popolo; i vaisya, produttori dei beni materiali, del nutrimento.
Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre «caste» sono molto antiche. In
Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di uomini: sacerdoti o àQaitrvan;
guer¬ rieri, i radaci.star montatori di carri; gli
agricoltori-allevatori, chiama¬ ti vàstryò.fsuycmt. Una struttura
identica ha lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti, gli
Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro
aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L
’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi
delle origini di Roma condotta da Dumézil si è rive¬ lata particolarmente
illuminante. Queste tre funzioni sono attività fondamentali e
indispensabili per la vita normale della comunità. La prima funzione,
quella del sa¬ cro, regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la
garanzia degli dèi, determina il potere del re e traccia i limiti della
scienza, inseparabile dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda
funzione, quella re¬ lativa alla forza fisica, interviene nella
conquista, nell’organizzazione della società e nella sua difesa. La terza
ricopre un vasto ambito, quel¬ lo della sussistenza degli uomini e della
conservazione della società: fecondità animale ed umana, nutrimento,
ricchezza e salute. Dumézil ha dimostrato che la società indoeuropea era
governata in profondità grazie ad una mentalità fondata su una struttura
trifunzionale. La teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo.
Una delle grandi prove di ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni
trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa, capitale
dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa tavoletta contiene il
testo di un trattato con¬ cluso nel 1380 a.C. tra il re hittita
Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della
loro alleanza ognuno dei re invo¬ ca i propri dèi: il re di Mitanni
invoca gli dèi considerati i protettori della società ariana:
Mithra-Varuna, India e i Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che
ritroviamo in India ed in Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di
Zarathustra e la formulazione delle sei entità divi¬ ne - gli Immortali
Benefici - che illustra in maniera illuminante questa teologia
strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni. Dai
Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Ita¬ lia ove ha
rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in Umbria ed a
Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus. Questi dati
indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad una teologia delle
tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta un’associazione di tre coppie
di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra e Varuna, signori del
primo livello, si dividono la sovranità di questo mondo e dell’altro:
Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giova¬ ni guerrieri,
proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin sono distributori
di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armen¬ ti; si tratta dunque
di una teologia tripartita. Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci
mostra che questa teo¬ logia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa
parte della tradizione ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello
schema trifunzionale nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso
sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma
l’attacca¬ mento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i
sacerdoti che i popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si
rinviene anche in Italia, presso i Celti, i Germani e gli
Scandinavi. Conclusioni E stato necessario tutto il XIX
secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c
stato quello di aver consa¬ crato un 'intera vita all’interpretazione di
questa documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max
Miillcr c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica
relativa al dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze
all’interno del vocabolario del sa¬ cro, dei popoli indo-iranici da una
parte c di quelli italo-ccltici dall’al¬ tra, hanno fornito allo studioso
l’idea di studiare più a fondo i paralleli attorno alle divinità ed ai
sacerdoti, poiché questi popoli sono i soli tra gli indoeuropei ad aver
conservato per molti secoli i loro collegi sacer¬ dotali.
Questa nuova via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬ perta
di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia dei
popoli italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬
cheologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬ do
comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬ zioni c
del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce
dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio
egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -
della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale
che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei
della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:
classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo
secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del
mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della
civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬ giare di più
d’un millennio i lempora ignota. Julien Ries Università di
Louvaìn-la-Neuve Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà
menzione de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni,
della loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo
qui im¬ piegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non
interessa molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi
conside¬ reremo è quella dello spirito. Al pari degli Indiani
vedici, come ci vengono presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non
furono uomini senza riflessione e senza im¬ maginazione, tutt’altro.
Esattamente da vent’anni ormai la compara¬ zione delle più antiche
tradizioni, dei diversi popoli parlanti lingue in¬ doeuropee, ha rivelato
un fondo considerevole di elementi comuni, elementi non isolati ma
organizzati in strutture complesse delle quali non ci è offerto un
equivalente in altri popoli del mondo antico. L'esposizione, che ci si
appresta a leggere, è consacrata alla più im¬ portante di queste
strutture. L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente,
tramite una serie di riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una
mole di argomenti poco agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro
fra¬ zionamento. Nello stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori
già informati una prima e provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo
un ordine ma una messa a fuoco alla correlazione generale che solo uno
sguardo d’insieme può imporre ai risultati parziali. Un
problema che per anni è stato capitale e in primo piano - pen¬ so al valore
trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova qui limitato in
un secondo livello; al contrario, le numerose applicazioni ideologiche
delle tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano disperse nelle
pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io spero, potenza grazie
ad un parallelismo che farà risaltare il loro semplice riavvicina¬
mento. Questo doppio disegno non prevederànote a piè di pagina: si
è preferito costruire una sorta di commentario bibliografico
distribuito secondo i paragrafi del libro, indicando i testi affinché
ognuno riepilo¬ ghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c
datando su ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o
ancora, rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non
avreb¬ bero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale.
Non si è tenuto conto che dell’opera principale dell’autore e di un
certo numero di colleghi francesi e stranieri che, pur senza voler
formare una scuola, si dedicano da più o meno tempo alle stesse mate¬ rie
con metodi simili e che si tengono costantemente in contatto tra
loro. Altre visioni sul pensiero degli indoeuropei, incompatibili
con questa, non saranno qui esaminate, non per disprezzo ma perché le
di¬ mensioni del presente libro sono ristrette e l’intento è costruttivo
e non critico. Tuttavia, nelle note finali si troveranno
riferimenti a numerose discussioni. Il mio caro collega
Renard mi ha permesso di presentare nella collezione Latomus, poco tempo
dopo Les Déesses latines , que¬ sta nuova esposizione in cui il popolo
romano non interviene che prò virili parte. Egli ha così voluto
confermare, sensibilmente ai nostri studi, cd io lo ringrazio, la
necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi filologici e
comparativi, che ho sempre invocato con augurio. Uppsala. Parigi.
Le tre funzioni sociali e cosmiche 1. Le classi sociali in
India Uno dei tratti più sorprendenti delle società indiane
post-rgve- diche è la loro divisione sistematica in quattro «classi»,
dette in san¬ scrito i quattro «colori», varna, le prime tre delle quali
benché diverse sono pure perché propriamente arya, mentre la quarta,
formala indub¬ biamente dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle
altre tre ed è quindi irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe
eterogenea non si Lralterà qui ulteriormente. I doveri di
ognuna delle tre classi arya servono per definirle: i brdhmana,
sacerdoti, studiano ed insegnano la scienza sacra e cele¬ brano i
sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i guerrieri, proteggono il po¬ polo
con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya è affidato l’alle¬
vamento e l’aratura, il commercio e più in generale la produzione dei
beni materiali. Si costituisce così una società completa e armonica
presieduta da un personaggio a parte, il re, rdjan, generalmente nato e
qualitativa¬ mente estratto dal secondo livello. Questi
gruppi funzionali e gerarchizzati sono conchiusi tutti su loro stessi in
base all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoro¬ so
d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non
sia una creazione propriamente indiana posteriore alla maggior parte del
Riveda-, i nomi delle classi non sono menzionati chiaramente che
nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X libro della
raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale crea¬ zione non
è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di una
pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M. Apte,
fece una collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del
Riveda (principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai tempi
della redazione di questi inni la società fosse pensata composta da
sacerdoti, guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non erano an¬
cora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostanti¬
vi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini non sono che
i derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che definiva
di¬ stributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al
neutro) «scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti
del rea¬ le visibile o invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza»
o «habi¬ tat organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al
greco (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo
raggruppa¬ mento sociale e locale». È impossibile determinare
in quale misura la pratica si confor¬ masse a questa struttura teorica:
vi era forse una parte più o meno con¬ siderevole della società che
indifferenziata o altrimenti classificata sfuggiva a questa
tripartizione? L’ereditarietà all’interno di ciascuna classe non era
forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale più flessibile
c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente ci è accessibile
solo la teoria. 2. Le classi sociali avestiche Da un
quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie- gel, di E.
Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno nella sua forma
ideologica la tripartizione sociale era una concezione già acquisita
prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da una parte ed
Iranici dall’altra. In diversi passaggi VA vesta menziona i
componenti della socie¬ tà come gruppi di uomini o di classi (designate
da una parola che si ri¬ ferisce al colore, pistra): i sacerdoti,
àBuurvan o uBravun (cf. uno dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i
guerrieri, luBciè.star («guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto
del dio guerriero Indra) e gli agri¬ coltori-allevatori,
vàstryó.fsuyant. Un solo passaggio avestico e più notoriamente i
testi palliavi, pongono come quarto termine alla base di questa
gerarchia, gli artigia¬ ni, huiti, altri indizi (come il fatto che
raggruppamenti triplici di nozio¬ ni sono talvolta messi maldestramente
in rapporto con le quattro clas¬ si, cf. SBE, V, p. 357) ci portano a
considerarla una aggiunta a un antico sistema ternario. Nel X
secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele testimone della
tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo Yima Xsaéla dell’A
vesta) istituì gerarchicamente queste classi: se¬ parò inizialmente dal
resto del popolo gli *asravctn «assegnando loro le montagne per
celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio di¬ vino e restare
nella luminosa dimora »; gli *artesfar, posti dall’altra parte,
«combattono come dei leoni, brillano alla testa delle armate e delle
province, grazie a loro il trono regale è protetto e la gloria del valore
è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la terza classe, « loro stessi arano,
piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimpro¬ vera, non
sono servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo alla calunnia».
A differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito
questa concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un
modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare
l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideolo¬
gia in cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della
famiglia iranica, molto importante poi¬ ché si è sviluppato non in Iran
ma a nord del Mar Nero, fuori dalla mor¬ sa degli imperi, iranici o
altri, che si sono succeduti nel Vicino Orien¬ te, testimonianello stesso
senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a molte leggende ci sono
noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore antico - la cui lingua e
tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni grazie a un piccolo popolo
del Caucaso centrale, originale e pieno di vitalità, gli Osseti.
Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano l’origine
della loro nazione: 17 «Il primo uomo che
comparve nel loro paese, prima di allora deserto, si chiamava Targitaos,
che si diceva figlio di Zeus e di una fi¬ glia del fiume Boriysthene (il
Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬ gli, Lipoxais (variante
Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais. Quando erano in vita caddero
dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti d’oro: un carro, un giogo,
un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A
questa vista il più anziano si af¬ frettò a prenderli ma quando arrivò l
’oro si mise a bruciare. Così si ri¬ tirò e il secondo si fece avanti ma
senza migliore successo. Avendo i primi due rinunciato all 'oro
bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si spense. Lo prese con sé e i
suoi due fratelli, davanti a questo segno, abbandonarono la regalità
interamente all'ultimogenito. Da Lipoxa¬ is sono nati quegli Sciti che
sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh- atai; da Arpoxais quelle dette
Katiaroi e Traspies (variante: Trapies, Trapioi) e in ultimo, dal re,
quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si chiamano Skolotoi, dal nome
del loro re » Mi sembra certo che bisogna, al pari di E.
Benveniste, rendere yévoq con «tribù». Gli Sciti contano quattro tribù,
una delle quali è la tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la
stessa struttura: è chiaro infatti che questi quattro oggetti si
riferiscono alle tre attività sociali degli Indiani e degli «Iranici
deH’Iran»; il carro e il giogo (E. Benveniste ha analizzato un composto
avestico che associa queste due parti della meccanica dell’aratura)
evocano l’agricoltura; l’ascia era con l’arco l’arma nazionale degli
Sciti; altre tradizioni scitiche conser¬ vate da Erodoto, come pure
l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti, incoraggiano a vedere nella
coppa lo strumento e il simbolo delle of¬ ferte cultuali e delle bevande
sacre. La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà
alla tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli
amba¬ sciatori degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno
a non attaccarli: «Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un
giogo per buoi, un carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum
bovum, aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri
amici e contro i nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della
terra che ci procu- 18 ra il lavoro dei buoi;
con essi offriamo agli dèi libagioni di vino; quan¬ to ai nostri nemici,
li attacchiamo da lontano con la freccia e da vicino con la
lancia». 4. La famiglia degli eroi Narti È interessante
vedere sopravvivere questa struttura ideologica della società nell’epopea
popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n frammenti ma in numerose
varianti da circa un secolo e che una gran¬ de impresa folklorica
russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬ ticamente raccolto. Gli
Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i Narti, erano divisi
essenzialmente in tre famiglie. «/ Boriatee - dice una tradizione
pubblicata da S. Tuganov nel 1925 - erano ricchi in armenti; gli
Alcegatce erano forti per intelligen¬ za; gli /Exscertcegkatce si distinguevano
per eroismo e vigore ed erano forti per i loro uomini». I
dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due a due queste
famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni ’40, confermano
pienamente queste definizioni. II carattere «intellettuale» degli
Alaegatae riveste una forma ar¬ caica, non appaiono che in circostanze
uniche ma frequenti: c nella loro casa che hanno luogo le solenni bevute
dei Narti in cui si produco¬ no le meraviglie di una Coppa magica detta
la «Rivelatrice dei Narti». Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi
smargiassi ad effetto, è ri¬ marchevole che il loro nome sia un derivato
del sostantivo cexsur(t) «bravura», che è, con le alterazioni fonetiche
previste nelle parlate sci¬ tiche, la stessa parola del sanscrito ksatrà,
nome tecnico, come abbia¬ mo visto, del fondamento della classe
guerriera. I Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono
costante- mente e caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i
difetti della ric¬ chezza e in più, in opposizione ai poco numerosi
vExsaertaegkatae, sono una moltitudine di uomini. 5. Gli
Indoeuropei e la tripartizione sociale Riconosciuta così come
retaggio comune indo-iranico, questa dottrina tripartita della vita
sociale è stata il punto di partenza di un'inchiesta che prosegue da più
di vent’anni e che ha portato a due risultati complementari che possono
riassumersi in questi termini: 1) al di fuori degli Indo-Iranici i popoli
indoeuropei conosciuti in età antica o praticavano realmente una
divisione di questo tipo oppure, nelle leg¬ gende in cui spiegano le
proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti «componenti» iniziali fra
le tre categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo antico, dal
paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Li¬ bia e dall’Arabia agli
Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha esplicitato
praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è stalo dopo
un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto con un popolo
indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di que¬ sta
proposizione. Il caso più completo è quello dei più occidentali tra gli
Indoeu¬ ropei, i Celti e gli Italici, il che non è sorprendente una volta
che si c prestata attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose
corrispondenze che esistono nel vocabolario della religione,
dell’amministrazione e del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una
parte e quelle ilalo-celli- che dall’altra. Se si ordinano i
documenti che descrivono lo stato sociale della Gallia pagana decadente
conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci informano sull’Irlanda
pocoprima della sua conversione al cristiane¬ simo, ci appare sotto il
*rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito rcij- o del latino réf*-),
un tipo di società così costituita: 1) Al di sopra di tulli c forte
oltre ogni limile, quasi super-nazio¬ nale come la classe dei brahmani,
vi c la classe dei clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti, sacerdoti,
giuristi, depositari della tradizione. 2) Segue poi l’aristocrazia
militare, unica proprietaria del suo¬ lo, \a flciith irlandese (cf. il
gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propria¬ mente la «potenza», esatto
equivalente semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione
guerriera. 3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini
liberi ( ciirif.;) che si definiscono solamente come possessori di vacche
( bó). Non è sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R.
Thurney- scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che
questa ul¬ tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che
designa lutti i membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono
protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle
assemblee - airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato
in -k di una parola impa¬ rentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito
city a, àrya\ antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo»,
da *arya-ka-). Ma poco im¬ porta: il quadro tripartito celtico ricopre
esattamente lo schema reale o ideale delle società indo-iraniche. La
Roma storica, benché risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali:
l’opposizione tra patrizi e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è
l’effetto di un’evoluzione precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi
benché rivestila di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres,
Titienses - e ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci
suggerisce chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più
diffusa, Roma si e costituita da tre elementi etnici: i compagni latini
di Romolo e Remo, gli alleati etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i
nemici sabini di Romolo comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato
nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i secondi alla TRIBU II – i Luceres c i
terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora
costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA
TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU
II. Lucumone c la sua banda sono i primi specialisti dell’arte militare
arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è il semi-dio, il
rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y
urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente
etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo
c i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi
sacri e di guerrieri esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito
Livio (1,9; 2-4), “deos et virtutem” e non gli mancano temporaneamente
che opes (e le donne) che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro,
1,1) i Sabini riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum generis suis
a vitas opes prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il
dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La
ricca vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza –
“inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte
del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho
messo nel tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura di tuo
padre -- “patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione,
ciò che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di Alicarnasso che segue la
tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli stessi tre
vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di unirsi a questi nuovi venuti «
Che non sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese
(taupnpòv Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e
di depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari
di professione come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e
illustre in materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq).
8. Properzio iv, i, 9-32 Ma è Properzio, nella prima elegia
romana che da a questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre
razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le
tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le
correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere
i caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della
materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il
nome di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon
(Lucu- mo); TRIBU III. Tito Tazio. Il testo di Properzio
merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio
all’inizio di questa elegia è di opporre (c un luogo comune dell’epoca)
l’umiltà delle origini all’opulenza della Roma d’Ottaviano. Dopo qualche
verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati
in tre parti ineguali, seguite da una conclusione: -- sul pendio
dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo
focolare, immenso reame. La Curia, il cui splendore copre oggi
un'assemblea di toghe preteste, non conteneva che senatori vestiti di
pelle e dalle anime rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui,
gli antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro
senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna
scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a
cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al culto
ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che
con fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno
oggi giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e
trovava il suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche
scarnite portavano in processione degli oggetti senza
valore. Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti
crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le
interiora di una pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle
correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci
scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi
terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo
campo e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del
generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la
ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si
formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che
Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli Bianchi. Il percorso di questo
sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende
verso l’ultimo distico che prima di menzionare il «radunatore» Romolo,
nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i loro nomi le tre tribù
riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che
sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione
erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del
verso 30 e i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes
(v. 23, e 31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati
simmetricamente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto
di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al
verso 9, o insieme a lui in frotres al verso 10. In altre parole, prima
di mostrarli trasformati (hinc...) sotto Romolo, nei tre terzi della città
unificata, Properzio comincia col presentare successivamente, sotto i loro
eponimi e nella loro esistenza ancora separata, le tre componenti della
futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti di Remo e di suo fratello.
TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega
così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes, siano
quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e praticate già,
nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante
che le tre successive presentazioni delle future tribù siano caratterizzate
secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al verso 26, Properzio non evoca che
il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (v. 9-14;
semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora il senato e
l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi
stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a febbraio - dei
Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno sfarzo). TRIBU
II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le forme
primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto di pelle»)
anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel solo verso 30 («
Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA
primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e, in
conseguenza, delle intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto
nel distico 29-30 di Lucumo come generale e di Tazio come ricco
proprietario di armenti, mettono in risalto il fatto che, benché
concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di
epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente. TRIBU I: I
Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al governo
e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio
e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori. Le
divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi
ateniesi erano stati ini¬ zialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo
nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono
molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni
o, come dice Plutar¬ co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma questi
tipi sono molto probabil¬ mente sacerdoti o funzionari religiosi,
guerrieri o «guardiani», agricol¬ tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1;
cf. Platone, Timeo, 24 A). Plutarco 0 Solone 23), per una falsa
etimologia del nome ordinario ricollegato ai sacerdoti, omette i
sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori. È probabile che le tre
classi della Repubblica ideale di Platone - filosofi che governano,
guerrieri che difendono e il terzo stato che pro¬ duce ricchezza - con
ogni loro armonizzazione morale o filosofica, così prossima talvolta alle
speculazioni indiane, siano state ispirate in parte dalle tradizioni
ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in
GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pi¬ tagorici
che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o pre¬
ellenico. 10. La tripartizione sociale nel mondo antico
A questi schemi concordanti si è cercata invano una replica in¬
dipendente nella pratica o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o
siberiane, presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella
Mesopo- tamia sumerica o accadica, o nelle vaste zone continentali
adiacenti agli Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi
sono delle organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia
combat¬ tente che pastore; delle organizzazioni teocratiche di sedentari
in cui un re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una
massa spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure
ancora delle società in cui lo stregone non è che uno specialista fra
tanti altri senza preminenza, malgrado il timore che la sua competenza
suscita. Niente di tutto questo ricorda né da vicino né da lontano
la strut¬ tura delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi sono
delle eccezioni. Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico,
ad esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura
è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato vicino
a lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti,
Hittiti, Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse
lungo diversi percorsi. E il caso ad esempio dell’Egitto «castale»
in cui i Greci del V secolo credevano di aver trovato il prototipo,
l’origine delle più vec¬ chie classi funzionali ateniesi che sono state
menzionate poco fa. In re¬ altà questa struttura si è formata sul Nilo
grazie al contatto con gli Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in
Siria nella metà del secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono
agli Egiziani il cavallo e tutti i suoi usi. Solamente dopo
questa data il vecchio impero dei Faraoni si riorganizza per poter
sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai avuto: un’armata
permanente e una classe militare. Il più antico testo «multifunzionale»
del tipo di quello che sarà conosciuto da Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è
l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di aver fat¬ to un vasto censimento
per conto dei suo Faraone Thutmosis IV (J.H. Breasted, Ancient Records
ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty, 1906, p. 165): «M uste ring
ofthe whole land before his Majesty making an in- spection ofevery body,
knowing thè soldiers, priests, royal serfs and all thè craftsmen ofthe
whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle, by thè military
scribe, beloved of his lord Thaneni » Ora, Thutmosis IV (1415-1405)
è giusto il primo Faraone che abbia mai sposato una principessa arya dei
Mitanni, la figlia di un re dal nome caratteristico di Artatama. Sembra
che la differenziazione di una classe di guerrieri col suo statuto
«morale» particolare, unito ad una sorta di alleanza flessibile a una
classe ugualmente differenziata di sacerdoti, sia stata la novità degli
Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione e il mezzo della loro
espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi ci hanno trasmesso il
ricordo del terrore che causarono alle vecchie civiltà questi specialisti
della guerra, così arditi e impietosi come quei conquistadores che
tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬ do comparvero ai capi e ai popoli
degli imperi che schiacciarono. Essi li designavano con un nome -
marianni - che in effetti gli Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig
Wikander seppe riconosce- 26 re nel 1938 i membri
dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato da Otto Hofler presso i
Germani. 11. Teoria e pratica La comparazione dei più
antichi documenti indoiranici, celtici, italici e greci, se da una parte
permette di affermare che gli Indoeuro¬ pei avevano una concezione della
struttura sociale fondata sulla di¬ stinzione e sulla gerarchizzazione
delle tre funzioni, dall’altra parte non può insegnare grandi cose sulla
forma concreta - o sulle diverse forme - in cui si sarebbero realizzate
queste concezioni. Bisogna ora generalizzare ciò che è stato detto più sopra
a proposito degli Arya ve¬ dici. È possibile che la società
sia stata interamente ed esausti vamen- te ripartita tra sacerdoti,
guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la distinzione avesse
solamente portato a mettere in risalto qualche clan o qualche famiglia
«specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel
secondo delle iniziazioni e delle tecniche guer¬ riere e nell’ultimo,
infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento, mentre il grosso della
società, indifferenziata o meno differenziata, si affidava alla direzione
degli uni o degli altri, secondo le necessità o le occasioni.
Si è infine liberi di immaginare moltissime forme intermedie, ma
queste non saranno che punti di vista dello spirito. Certi
raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvi¬ venza di
formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumo¬ no una
società divina concepita ad immagine della società aryae sono talvolta
scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari; oppure, a
Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè 3 per 10)
riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce- res e
Titienses, completate da 3 àuguri. 12. Le tre funzioni fondamentali
Così, non è il dettaglio autentico e storico dell’organizzazione
sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di più il
comparatista, ma il principio di classificazione, il tipo di ideologia
che essa ha susci¬ tato, realizzato o formulato, e di cui non sembra
essere più rimasta che un’espressione tra tante altre. Diverse volte
nell’esposizione che si è letta è stata incontrata una parola importante:
quella di funzione, di tre funzioni, e bisogna così intendere certamente
le tre attività fondamentali assicurate da gruppi di uomini - sacerdoti,
guerrieri, produttori - per il sostentamen¬ to e la prosperità della
collettività. Ma il dominio delle «funzioni» non si limita a questa
prospetti¬ va sociale. Alla riflessione filosofica degli Indoeuropei esse
avevano già fornito - come sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis,
principi delle tre classi nella riflessione filosofica degli Indiani
vedici e posl-vedici - ciò che può essere considerato, secondo il punto
di vista, come un mezzo per esplorare la realtà materiale e morale o come
un mezzo per mettere ordine nel patrimonio delle nozioni ammesse
dalla società. L’inventario di queste applicazioni non
propriamente sociali della struttura trifunzionale, è stato intrapreso e
continuato, dal 1938, da E. Benveniste e da me stesso. Ora, è facile
porre sulla prima e sulla seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte
le sfumature: da una parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro
(culto, magia) c degli uo¬ mini tra di loro, sotto lo sguardo c la
garanzia degli dèi (diritto, ammi¬ nistrazione), e così pure il potere
sovrano esercitato dal re o dai suoi delegati in conformità con la
volontà o il favore divino e infine, più ge¬ neralmente, la scienza c
l’intelligenza, allora inseparabili dalla medi¬ tazione e dalla
manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza fisica brutale
e l’impiego della forza, uso principalmente ma non uni¬ camente
guerriero. È meno facile delincare in poche parole l’essenza della
terza funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali
intercorro¬ no dei legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro
ben de¬ finito: fecondità umana, animale e vegetale, ma, nello stesso
tempo, nutrimento e ricchezza, santità e pace (con le gioie c i vantaggi
della pace) e anche voluttà, bellezza c l’importante idea del «gran
numero», applicata non solo ai beni (abbondanza) ma anche agli uomini
che compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste delle
defini¬ zioni a priori ma insegnamenti convergenti di molte
applicazioni dell’ideologia tripartita. Gli indologi hanno
familiarità con questo uso straripante della classificazione tripartita
sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda, nel suo vigore e nei suoi effetti,
la tendenza classificatoria del pensiero cinese - che ha distribuito tra
lo yang e lo yin sia coppie di no¬ zioni solidali che antitetiche
-1’India ha messo le tre classi della socie¬ tà, coi loro principi, in
rapporto con numerose triadi di nozioni preesi¬ stenti o create per la
circostanza. Queste armonie, queste correlazioni importanti per l’azione
simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta un senso molto profondo,
talvolta artificiale e altre volte puerile. Così, ad esempio, le
tre «funzioni» sono distributivamente con¬ nesse ai tre guna
(propriamente, «figli») o «qualità» - Bontà, Passione, Oscurità - delle
quali la filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili formano la
trama di tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori
dell’universo, le si vede non meno imperiosamente collegate ai diver¬ si
metri e melodie dei Veda o ai diversi tipi di bestiame o a comandare
minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno con cui saranno fatte
le scodelle o i bastoni. Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione,
la maggior parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di
questo ge¬ nere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del
globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei.
Non si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.
13. Triadi di calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni
E. Benveniste ha individualo presso gli Ira¬ nici c gli Indiani delle
formule molto simili in cui un dio è pregalo di allontanare, da una collettività
o da un individuo, tre flagelli, ognuno dei quali si riconnettc a una
delle tre funzioni. Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli
(Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero
«r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e dall'inganno» (quest’ultima
parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la
ribellione po¬ litica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si
riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la menzogna).
Parallela¬ mente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c del
novi¬ lunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che,
diver¬ samente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per
esempio Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo
nucleo comune: «Conservami dalla soggezione, conservami dal
cattivo sacrifi¬ cio, conservami dal cattivo nutrimento».
L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con la riserva
che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il ritualista
vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad
evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più for-
maliste - delle religioni delle due società. Mi è stato possibile
dimostrare in seguito che i più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti,
i cui usi sono talvolta così sorprendente¬ mente simili a quelli vedici,
utilizzavano la stessa classificazione tri¬ partita delle maggiori
calamità. La principale compilazione giuridica dell’Irlanda, il
Senchus Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient Laws oflreland,
IV 1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il deperimento
del mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per epidemia o
per carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di guerra e
la dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così ripartiti fra
le tre zone della salute o del nutrimento, della forza violenta e del
diritto. I Galli non hanno inserito nei loro libri giuridici delle
tali for¬ mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe essere la
trasposizione ro¬ manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a
Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre «oppressioni» dell’isola
di Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise fine. Queste
calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬ pere» è tale
che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione, fosse anche a
bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬ porti umani; 2)
ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due draghi, il drago
dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col primo,
cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da
paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re
ac¬ cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di
vivande», fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte
seguente e porta via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta
come le tre oppres¬ sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita
intellettuale, dell’ammi¬ nistrazione della forza e infine del
nutrimento; in più, considerate in 30 base ai
loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬ ti:
abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.
Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬ se i
delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu- tio),
violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto {furtum)\
Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione C
Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬
stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,
violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha
raffrontato la classificazione avestica dei me¬ dicamenti ( Vidèvdàt ,
VII, 44: medicine del coltello, delle piante e del¬ le formule
d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui poteri medici
degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è cieco (male
misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e di chi ha una
frattura (violenza)». È lo stesso procedimento che nella III
Pythica di Pindaro il cen¬ tauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire
« le dolorose malattie degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o
droghe, incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti
paralleli si celi l’esistenza di una «dottrina medica» tripartita
ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬ chi testi germanici non applicano
questo schema classificatorio ai ma¬ lanni, ai delitti o ai rimedi, è
vero che l’utilizzano in altre circostanze: il Canto di Skirnir nell
'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore del dio Freyr costringe,
malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a cedere ai desideri amorosi
del suo maestro. Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il
suo amore con dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente,
minaccia di decapitarla (str. 23-25) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine
al suo terzo ten¬ tativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti
della sua ma¬ gia, bacchette ( gambantein ) c rune (str. 26-37).
15. Elogi tripartiti Quando un poeta indiano vuole fare
brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna le tre funzioni in
tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di
essere chiamato padre dei suoi sudditi « perché assicura loro buona
condotta, li protegge e li nutre». Con delle formule generalmente meno
concise, l’epopea irlan¬ dese procede allo stesso modo. In un bel lesto,
il Paese dei Viventi, cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti
immortali, è caratte¬ rizzalo dall’assenza di morte in base ai tre
aspetti seguenti: «.non vi è né peccato né errore...] vi si mangiano
pasti eterni senza servizio; l'in¬ tesa regna senza lotte ».
L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto è
buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero
dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbon¬
danza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata
come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massi¬
mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII, 1928, p.
195). In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar,
u n lesto del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi erano
«pace e tran¬ quillità, saluti cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del
mare», «con¬ trollo, diritto e buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus
irischen Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229): cioè il contrario della
guerra, della carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli
contro i quali il re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare
il suo impero. 16. Le tre funzioni e la «natura delle cose»
Si può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo naturali,
così troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile dispo¬ sizione
delle cose perché il loro accumulo e la loro somiglianza provi¬ no
un’origine comune c resistenza di una dottrina caratteristica degli
Indoeuropei. Una riflessione anche elementare sulla condizione
umana e sul¬ le risorse della vita collettiva non dovrebbe forse mettere
in evidenza, in ogni tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una
religione che ga¬ rantisse un’amministrazione, un diritto c una morale
stabile, una forza protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di
produzione, di alimen¬ tazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui
pericoli che incontrac sulle vie che si aprono alla sua azione, non è
ancora a una qualche va¬ rietà di questo schema che si riporta? Basta
uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per
constatare che, malgrado il carattere necessario e universale dei tre
bisogni ai quali si riferiscono, esse non hanno la generalità o la
spontaneità chesi suppo¬ ne: al pari della di visione sociale
corrispondente, non le si ritrova in al¬ cun testo egizio, sumerico,
accadico, fenicio e biblico, né nella lettera¬ tura dei popoli siberiani,
nè presso i pensatori confuciani o taoisti così inventivi ed esperti di
classificazioni. La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per
una civiltà, sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una
cosa; por¬ tarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi,
farne una struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta
un’altra. Nel mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo
cammino filo¬ sofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle
produzioni lette¬ rarie di tanti popoli di questa famiglia, che la
spiegazione più econo¬ mica, come per la divisione sociale propriamente
detta, è ammettere che il percorso non è stato fatto e rifatto
indipendentemente in ogni provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma
che è anteriore alla di¬ visione ed è opera di pensatori dei quali i
brahmani, i druidi e i collegi sacerdotali romani sono in parte i diretti
eredi. 17. Meccanismi giuridici triplici Una delle
applicazioni più interessanti ma più delicate è quella che in riferimento
alla concezione indoeuropea chiarifica presso i di¬ versi popoli (India,
Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole giuridi¬ che. Lucien Gerschel,
ricordando il diritto romano, ha dimostrato che questo, così originale
nei suoi fondamenti e nel suo spirito, conserva nelle sue forme un gran
numero di procedure in tre varianti a effetti equivalenti (che si
spiegano solitamente, ma senza prove, come crea¬ zioni successive dell’
uso e del pretore) che almeno qualcuna di queste sorprendenti
«tripartita» si modella sul sistema delle tre funzioni qui considerate.
Citerò unodei migliori esempi: un testamento può essere fatto con lo
stesso valore sia nell’assemblea strettamente religiosa dei Comitia
Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul fronte di una battaglia
davanti ai soldati; sia tramite una vendita fittizia a un «emp-
torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1).
Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un «diritto sacerdota¬ le»,
un «diritto guerriero» e un «diritto economico», o che i tre tipi
di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti
differenti, non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre
tricotomie giuridiche che si possono interpretare in questo senso.
Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade di
possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si
di¬ stribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori
del diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della
vita collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto
volen¬ tieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione
provenienti cia¬ scuno dal principio (religioso; attualmente o
potenzialmente milita¬ re; economico) di una delle tre funzioni ».
18. Le tre funzioni e la psicologia La stessa psicologia non
sfugge a questo schema. I sistemi filo¬ sofici indiani dosano nelle
anime, come nella società, dei principi come la legge morale, la
passione, l’interesse economico (dharma, kCimu, artha) \ Platone
attribuisce alle tre classi della sua Repubblica ideale - filosofi
governanti, guerrieri, produttori di ricchezze - delle formule di virtù
che distribuiscono e combinano la Saggezza, il Co¬ raggio e la
Temperanza; in un’espressione apparentemente tradizio¬ nale e legala
all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la mitica regina Medb,
depositaria e donatrice della Sovranità, pone come tripli¬ ce condizione
a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di «essere senza gelosia,
senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed. Win- disch, 1905, pp.
6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi brillante- mente
interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo per eccel¬
lenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione di
tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.
Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza anti¬
chissima; nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17,
9; Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole
concepire un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin
e a Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le
va¬ rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo
seguen¬ te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e
patrocinano la prima, la terza e la seconda funzione. Un’altra via
di sviluppo per il pensiero trifunzionale è stata quella del simbolismo:
tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre princi¬ pi sono stati legati
figurativamente e solidalmente a degli oggetti ma¬ teriali semplici, il
cui raggruppamento li evocava e li rappresentava. Sembra che dai tempi
indoeuropei questa via abbia principalmente portato a due insiemi: una
collezione di oggetti talismani e un venta¬ glio di colori. Ci
si ricordi della leggenda tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬ to,
spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro caduti dal cielo - carro e
giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o arco) come arma guerriera,
coppa cultuale - hanno dei valori nettamente classificatori secondo le
tre funzioni. Ora, questi oggetti non erano solamente mitici: erano
conserva¬ ti lutti insieme dal re e ogni anno venivano solennemente
portati attra¬ verso le terre scitiche. Anche la leggenda irlandese
attribuisce alla pe¬ nultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che in
realtà è costituita dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé
Danann, «Le tribù della dea Dana»), un gruppo di oggetti talismani: il
«calderone di Dagda» che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso;
due armi terribi¬ li, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore
invincibile e la spada di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la
pietra di Fai infine, sede della sovranità, il cui grido rivelava quale
dei candidati doveva essere scelto come re (V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D»
ZCP, XVIII, 1930, pp. 73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano
allo stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che
ve¬ dremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre
funzioni. 20. Colori simbolici delle funzioni presso gli
Indo-Iranici Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità
sono già segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o
quattro) gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola
sanscrita varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq
«screziato», russo pisat' «scrivere»), che con sfumature diverse
designano il colo¬ re. Di fallo è un insegnamento costante nell’India che
brdhmunu, ksatriya, vaisya e sùclru siano rispettivamente caratterizzati
(e le spie¬ gazioni non mancano) dal bianco, il rosso, il giallo e il
nero. 35 Di certo che vi è stata un’alterazione
in seguilo alla creazione delle caste inferiori ed eterogenee degli
sùdra, di un antico sistema di cui rimangono tracce nei rituali (Gobh. G.
S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV, 2, 6) e senza dubbio anche uno nel
Riveda («nero, bianco e rosso è il suo cammino » dice X, 20,9 di Agni, il
più triplice e trifunzionale de¬ gli dèi), sistema formato semplicemente
da tre colori senza il giallo e dove vi era il nero (o blu scuro) a
caratterizzare i vaisya, gli allevato¬ ri-agricoltori. In
effetti anche l’Iran ha mantenuto questa ripartizione: una tra¬ dizione
«mazdeo-zurvanita» che è stata progressivamente stabilita e interpretata
da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S. Wikan- der (1938) c R. C.
Zaehner (1938, 1955) descrive nella cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti
come bianca, quella dei guerrieri come rossa o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori
come blu scura. Altri Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V.
Basanoff ha intelli¬ gentemente i nterpretato in questo senso un rituale
hiltita di evocatio in cui i diversi dèi della città nemica assediata
sono pregali di lasciarla e di giungere presso gli assedianti attraverso
tre cammini - il che suppo¬ ne tre diverse categorie di dèi - avvolti uno
in una stoffa bianca, il se¬ condo in una stoffa rossa e il terzo in una
stoffa blu ( Keilischrifturk aus Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte
Orient, XXV, 2,1925, pp. 22-23). 21. Colori simbolici delle
funzioni presso Celti e Romani Tra i Celti della Gallia e
dellTrlanda il bianco è il colore dei dm- idi e il rosso, nell’epopea
irlandese, è quello dei guerrieri; a Roma un Albogalerus caratterizza il
più sacerdote tra i sacerdoti, il flamen diu- lis, mentre il paludumentum
militare è rosso come il drappo sulla testa del generale o come la trabea
dei cavalieri o dei sacerdoti armati che sono i Salii. Un
sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo s’incontra due
volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei
colori delle fazioni del circo che assunsero grande impor¬ tanza sotto
l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono si¬ curamente
anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità romane ricollegano
del resto alle origini stesse di Romolo. 36 Le
speculazioni esplicative di questi antichisti sono molteplici e intrise
di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste, conser¬ vata da
Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬ mane e
afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica erano
inizialmente tre ( albati , russati, viricles) in rapporto non solo con
le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparente¬ mente
sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovrani¬ tà,
guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes,
Lucercs e Titienses. A proposito di questi ultimi si è ricordalo
più sopra che erano, nella leggenda delle origini, sia componenti etnici
(Latini, Etruschi, Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c
governanti, da guer¬ rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un
altro passaggio {De magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come
paralleli alle tribù funzionali degli Egiziani e degli antichi
Ateniesi. Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi
anti¬ chi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade
di colori: quasi lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o
dai suoi confini, o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli
Indoeu¬ ropei e alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del
tipo qui considerato. 22. Le scelti- dei tigli di
Feridùn Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle
narrazioni mol¬ to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale.
Eccone qual¬ che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos,
il cui ulti¬ mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi
oggetti d’oro simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M.
Molé a una tradi¬ zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli
del l’eroe che V Ave¬ sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i
testi persiani Feridùn. Eccola nella traduzione data da M. Molé a un
passaggio dell 'Àyàtkar i JàmcispTk: «Da Frètòn nacquero tre
figli; Salm, Tòz ed Eric erano i loro nomi. Egli li convocò tutti e tre
per dire ad ognuno di essi: «Io sto per dividere il mondo tra di voi, che
ciascuno di voi mi dica ciò che gli sembra bello affinché io glielo
doni». Salm chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la
gloria dei Kavi (cioè il segno mira¬ coloso che distingue il sovrano
scelto da Dio) la legge e la religione. Frètón disse: «Che a ciascuno di
voi giunga ciò che ha chiesto». Ed egli donò infatti la terra di Rum a
Salm, il Turkestan e il deserto a Toz e l’Iran e la sovranità sui suoi
fratelli a Eric». Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la
stessa divisio¬ ne geografica con un altro criterio, anche se col
medesimo senso. Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un
dragone minaccio¬ so), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con
la propria natura e col proprio «livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si
precipita cieca¬ mente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza
combattere, con l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della
dignità regale della sua famiglia. 23. La scelta del pastore
Paride È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse
in¬ fluenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia
del «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle pesanti
conseguenze poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza
e il suo valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.
Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee
(che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio emi¬
nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300- 1307)
ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria
attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con
l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la
«potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troia¬ ne,
v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo un
dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vit¬ toria
e Afrodite la donna più bella. Paride sceglie male e assegna il
premio ad Afrodite, scelta che causerà ben presto il rapimento
dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di combattimento, la fine
di Troia, distrutta da una coalizio¬ ne di uomini e divinità tra le quali
Era ed Atena non saranno le meno accanite. 38
Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. L.
Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache
raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggen¬ da
greca, che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma ge¬
neralmente «bene») fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre
fratelli che si spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno,
quello della «prima funzione» assicura a chi lo possiede un destino
piena¬ mente «buono». Ecco per esempio la forma originale
rigorosamente ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche
sull’origine dello «Jodeln» (Johlen). «Res, il vaccaro di
Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre esseri sovrannaturali in procinto
di fare il formaggio: a un certo pun¬ to il latticello è versato in tre
secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è verde e nel terzo è
bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne il latticello;
allora uno dei vaccari fantasmi ag¬ giunge: «Se scegli il rosso sarai
talmente forte che nessuno potrà combattere con te». Il secondo vaccaro
disse a sua volta: «Se tu bevi il latticello di colore verde possiederai
molto oro e sarai ricchissimo». Il terzo infine spiegò: «Bevi il latticello
bianco e tu sarai Jodeln mera¬ vigliosamente». Res rifiutò i due primi
doni e si decise per il latticello bianco, diventando un perfetto Jodler
». Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse
va¬ rianti un effetto magico (tutte le bestie vengono incontro allo
jodler e. l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua capanna: le
vac¬ che si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la vacca più
selva¬ tica si addolcisce e si lascia mungere facilmente, etc.).
24. Talismani di Roma e di Cartagine Verso la fine delle
guerre puniche Roma ha senza dubbio orga¬ nizzato su un tale tipo di
schema la garanzia della sua vittoria finale: una testa di bue, poi una
testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di- done sul sito in cui si
ergeva, con Cartagine, il tempio della «sua» Giu¬ none) avevano, a detta
di loro, garantito alla città africana l’ opulenza e la gloria militare.
Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori di Tarquinio avevano un
tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del fu- 39
turo tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più alta
promessa, quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora
questa sor¬ prendente interpretazione, ha ricordato che presso gli
Indiani vedici uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori
delle vittime ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme
alle teste delle due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno
in apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare
l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico
la tripar¬ tizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò
un tema di grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato
in India, in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un
dio o di un uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel
III capi¬ tolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero.
Indra, il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei
Brahmano e nelle epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è
lun¬ ga e varia. Ma il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti
allo schema delle tre funzioni: Indra uccide prima il mostro
Tricefalo, morte necessaria poiché il Tricefalo c un flagello che
minaccia il mon¬ do, ma tuttavia morte sacrilega poiché il Tricefalo ha
il rango di brah¬ mano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio e di
conseguenza Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale, tejas
(1-2). Poi, es¬ sendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il
Tricefalo, Indra s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del
guerriero conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla
forza l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia (3-11).
Infi¬ ne, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del
marito, adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza,
rùpa (12-13). L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a
rintracciarne la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in
lingua scandinava - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr
(Starcatherus), guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e
devoto ai re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è
infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita prolungata
sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in ognuna di esse
egli commetta una penalità. Ora, il quadro di queste tre penalità
si distribuisce chiaramente secondo le tre funzioni. Essendo al servizio
di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a
uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano (VII, V, 1-2). Trovandosi
poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosa¬ mente dal campo di
battaglia dopo la morte del suo signore abbando¬ nandosi, in quest’unica
occasione delle sue tre vite, alla paura panica (Vili, V). Servendo
infine un re danese, assassina il suo signore procu¬ randosi per
mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo eccezional¬ mente per qualche
ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece altro¬ ve, in atti e
discorsi, professione di disprezzo (VII, VI, 14). Essendosi così
estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che cercare la morte ed
è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili, Vili). Il carattere e
le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle di Eracle. Nelle
esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamen¬ te tarde ma non
inventate - la vita intera dell’eroe greco (concepito da Zeus e Alcmene
durante tre notti) è scandita da tre mancanze che han¬ no un effetto
grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il ricorso
all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di Argo comanda
ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù di una
promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle commette
tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di Zeus e
l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbi¬ dienza
agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla
demenza ed uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente alla
ragione, si sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate da
altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle
attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con
l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere for¬
temente antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una ma¬
lattia psichica da cui non si libera: viene così informato dall’oracolo
che deve vendersi come schiavo e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo
di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente sposato
aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne
rapisce una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il
terribile di¬ sprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di
Nesso e i terri¬ bili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può
liberarsi, dietro un terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi,
col rogo (cap. 37-38). Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli
dèi; morte vile e perfida di un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale
e oblio della propria don¬ na: i tre errori fatali di questa gloriosa
carriera si distribuiscono sulle tre zone funzionali esattamente come i
tre peccali di Indra e con la stessa specificazione (concupiscenza
sessuale) della terza, alterando l’essere stesso dell’eroe. Ma queste
alterazioni, progressive e cumulative nel caso di Indra, sono invece
successive nel caso di Eracle: le prime due possono essere riparate
mentre la terza trascina alla morte. In una tradizione avestica,
senza dubbio ripensala e ri-orientata dallo zoroastrismo, un eroe di
tufi’altro tipo, Yima, è punito per un unico grande peccalo (menzogna o,
più lardi, orgoglio c rivolta contro Dio e usurpazione degli onori
divini) e viene privato in tre tempi dello x' arvnah , di quel segno
visibile e miracoloso della sovranità che Ahu- ra Mazda pone sul capo di
coloro destinati ad essere re. I tre terzi di questo x v arvnah
successivamente sfuggono per collocarsi nei tre per¬ sonaggi
corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore, del
guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart , VII, 1,
25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl XIX, 34-38). 26. Il
problema del re Questo rapido excursus è sufficiente per mostrare
le direzioni e i diversi ambili in cui l’immaginazione dei popoli
indoeuropei ha uti¬ lizzato la struttura tripartita; ancora una volta
dobbiamo ora volgerci, come per le altre applicazioni di questa
struttura, verso i popoli non indoeuropei del mondo antico per ricercare
se intorno a un eroe si è prodotto un tema epico o leggendario, la messa
in scena di una lezione morale o politica, la giustificazione colorita
immaginifica di una prati¬ ca o di uno stato di fatto. Al
momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga- mesh a Sansone,
dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della Cina, dalla saggezza
araba agli apologhi confuciani, nessun personag¬ gio storico o mitico ha
rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario
molte figure degli Indoeuropei. È dun¬ que probabile che questa divisa
sia solo indoeuropea e che solo in questa vasta partedel mondo, e prima
della loro dislocazione, gli Indo¬ europei abbiano intellettualmente
scandagliato, meditato e applicato all’analisi e all’interpretazione
della loro esperienza, e infine utilizza¬ to nei quadri della loro
letteratura, nobile o popolare, le tre necessità fondamentali e solidali
che gli altri popoli si accontentavano di soddi¬ sfare.
Terminando quest’esposizione molto generale vorrei sottoline¬ are
ancora che il riconoscimento di questo fatto così importante non ci
fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le
istitu¬ zioni (senza dubbio variabili da provincia a provincia) degli
«Indoeu¬ ropei comuni». Noi non possediamo che un principio,
uno dei princìpi e dei quadri essenziali. Una delle questioni più oscure
rimane ad esempio il rapporto fra le tre funzioni e il «re», del quale ci
è assicurala l'esistenza antichissima nella parte senza dubbio più
conservatrice degli Indoeu¬ ropei, cioè presso gli indiani vedici
(/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-). Questi rapporti sono
diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata una variazione nei luoghi e
nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬ ne nella rappresentazione e
definizione delle tre funzioni c notoria¬ mente della prima: o il re è
superiore, o per lo meno esterno alla strut¬ tura trifunzionale, e allora
la prima funzione è centrala sulla pura amministrazione del sacro, sul sacerdote
piuttosto che sul potere, sul sovrano e i suoi ministri; oppure il re
(re-sacerdote più che governato¬ re) è al contrario il più eminente
rappresentante di queste funzioni. Oppure si presenta una
mescolanza variabile di clementi presi dalle tre funzioni e in special
modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬ la classe guerriera da cui
solitamente proviene: il nome differenziale dei guerrieri indiani,
ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di ràjanya, derivato dalla
parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere
meglio for¬ mulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo studio
su ciò che fu l’armatura più solida del pensiero di questa società
arcaiche: il siste¬ ma divino, la teologia e i suoi prolungamenti
mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in thè age of thè
Rig Veda?», Bull, of thè Decenti College Research Institute, II, pp.
34-36. Per brahman vedi L. RENOU, «Sur la nolion de bràhman», JA,
CCXXXVII, 1949, pp. 1 -46. Questa interpretazione, facile da conciliare
con i fatti iranici segnalali da W.B. HENNTNG,' «Brahman», TPS, 1944, pp.
108-118, rende caduco il senso ammesso nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il
«Brahman» di P. THIE- ME, ZDMG, 102, 1952, non ha fatto avanzare
l’analisi e non altera il risultato dello studio di Renou. Circa i
rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia discussione con J. GONDA (
Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII, 1950, pp. 255-258 eCXXXIX
1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente la questione di questi
rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in vedico e
appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma la
concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare
l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito
nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e
infi¬ ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini
differenzialmente “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4),
garantisce che fin dai tempi indo-iranici questo termine fosse una
designazione tecnica dell’essenza del secondo livello. § 2.
DUMÉZIL, «La préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI, 1930, pp.
109-130. B ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave-
stique», JA, CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran»,
Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions
in- do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550;
H.S. NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL,
JMQ, pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45). § 3. L’interpretazione
è stata progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al
§ 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬ mier homme...
I, 1918, pp. 137-140. § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle
tradizioni degli Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il
risultato delle grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije
Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce ibid.
1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo «Klo takie
Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.
373. § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco
(1949), pp. 15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178. § 6. JMQ,
pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra,
T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a Stage
in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:
« Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f
society 44 among thepeoples concerned [Indiani,
Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class oflearned and
sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo- west thè ordinary
people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io credo che
bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬
landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in
conse¬ guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain,
1949. § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ,
pp. 129-1 54 (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp.
230-263); JMQ IV, pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode
L'heritage... pp. 127-130 e 190-209. Gli Umbri distinguevano nella
società i rappresentanti delle tre fun¬ zioni: «Ner - et uiro - dans les
sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp. 183-189. § 8. Delle
obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II
(= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e 229-23
1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum
Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare un
re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome
della gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi
tempi della Re¬ pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che
senza dubbio allude a un mito del Tricefalo); che il radicale di
Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir., Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in
altre parole in rapporti diversi ma convergenti con la fecondità,
l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento diffe¬ renziale di
ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato
delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti,
come componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ
IV, pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici
e quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità
della fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a
questa ma differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ,
pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬ riche sono
di un altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ it.). Un
recente studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults, myths,
oracles andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta delle difficoltà
che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬ posto di
riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei: TPS,
1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture,
Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica di Platone,
vedi JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più antiche
tradizioni degli Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale
quadripartita della so¬ cietà (sacerdoti, guerrieri, agricoltori,
artigiani), la città ideale di Platone non potrebbe forse essere, nel
senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬ pea? Essa è costituita
dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò (pu7.CXKlKÓV O
(3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV «CUStO-
45 dum genus, uuxiliarii, questuarti», come traduce Marsilio
Ficino, cioè i filo¬ sofi che governano, i guerrieri che combattono e il
terzo-stato, agricoltori e artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La
solidarietà dei primi due gruppi al di sopra del terzo è fortemente
marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce
conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia, evita la confusione
, 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita politica, è
assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una «formula di
virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov;
alla temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i
«guardia¬ ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare,
per quel po ’ che li si è praticati, i trattati politico-religiosi
dell’India: stessa definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà
dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬ ma contro la confusione,
varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬ nersi al modo di azione a
cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e delle virtù dello
stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco: none forse
perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si pensi a
tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto
di¬ scendere fino a Platone: non solo le tradizioni sulle origini degli
Ioni, ma i contatti molteplici con quel conservatore di dottrine, non
ariane, ma anche ariane, che fu l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo,
in cui deiframmenti del¬ la scienza dei sacerdoti traci e frigi si sono
depositati e in cui non mancavano le triadi; il pitagorismo, su cui Henri
Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non trascurare le componenti
«iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui sotto § 18, per le
applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e in
Platone. § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano
ma-ra-ya-na\ cunei¬ forme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto
Albrighl, dall’accusativo plu¬ rale arya mdrycin + la terminazione
hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN, «New light on thè Maryannu as
chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung, 1951, pp. 308-324. I libri
fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische Mannerbund, 1938 e H.
LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬ tare con O. HÒFLER,
Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una delle grosse differenze
tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬ ni consiste nel
fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il secondo a
Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guer¬
riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più
specificata- mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§
405-412. § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo
«33» fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ
it., pp. 389-405), L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono
ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE,
pp. 7-9) essi stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ
it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico dei «33 dèi» è garantito dalla
concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro- 46
tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp.
158-159(=JMQ it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE
ha per la prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in
cui il fatto era ben cono¬ sciuto, che l’ideologia tripartita supera
largamente l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non
come un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro
articolo, per riassumere l’insegnamento di questo («Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques» RHR, CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione
della societe'i in tre classi, sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un
principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬ scienza e che
presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬
turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo
indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni
esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529
e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono
fuori dal¬ la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione
di una totalità con¬ cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro
tripartito che organizza la società degli uomini. Da parte sua, G.
Dumézil, in una serie di brillanti stu¬ di ha riportato sino alla
comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬ zione, scoprendola
nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e
principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella
reli¬ gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto
alla tripar¬ tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les
classes fonclionnelles chez divers peuples indoeuropéens» che sarà
pubblicato quest’anno in Anna- les. Economies, Sociétés,
Civilisations. § 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les
classes sociales», JA CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de
calamités et triades de délits à valeur trifonclionnelle chez divers
peuples indoeuropéens», Ltito- mus, XIV, 1955, pp. 173-185. §
14. BENVENISTE, «La doctrine médical des Indo-Européens», RHR, CXXX,
1945, pp. 5-12; Dumézil, art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2.
§ 15. JMQ, pp. 114-115 (= JMQ it., p. 80) § 17. «Les trois
fonctions et le droit romain selon L. Gerschel», frammenti di una memoria
inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ IV, pp. 170-176.
§ 18. Per Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171
-172) «Dopo aver scoperto la formula tripartita della società,
Platone si volge sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo
ritrova gli stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni
di armonia comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista
della giustizia, non diffe¬ risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé
l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬ ri, degli uomini ricchi: questi
sono i principi della conoscenza, della flussione e dell ’appetito , xò
à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli subordina in
modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi dominino
insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze;
poi¬ ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi
spirituali che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso
modo l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e delle
formulazioni che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro
dell’anima, di tre guna al pari della società e dell'universo: queste
qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬ scolo e tenebra, sattva,
rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per la loro
combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso
della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha,
si uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro
equilibrio lode¬ vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta,
seguendo uno schema prettamente indiano, è la conoscenza serena,
l’attività inquieta o l’ignoran¬ za fonte di errori, che si disputano il
nostro effimero edificio e questa sempli¬ ce enumerazione disegna una
terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb vedi JMQ, pp. 115 -116 (=
JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commen¬ ta chiaramente la sua
seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬ roso in guerra
e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in questi
termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai stata
senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬
zioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella
lon¬ tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon.,
espone magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre
anime) c ritro¬ va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb
(ma col «timore» al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris
ira; seruitiipaliere iugum... - Per «Zoroastro tripartito» vedi K.
Barr, «Irans profet som xéXeioq avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich,
1952, pp. 26-36. § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi
JMQ, cap. VII (soppri¬ mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici
(la Vacca magica per il dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai
pcrlndra, ilearro a tre ruote che ser¬ ve agli Aévin per portare la loro
benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e scandinavi (P anello magico
per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per
Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp. 205-246. §
20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero
ai vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo
diversamente co¬ lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e
per un vaiéya, giallo secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8)
e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per
la tradizione iranica vedi in ultimo luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp.
118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart, pp. 321-336 e
374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, 1947, pp.
141-150. 48 § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili
(«Albati, russati, virides») e IV («Ve- xillum caeruleum»); J. DE VRIES,
«Rood, wit, zwart», Volkskimde, II, 1942, pp. 1-10. §
22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA, CCXL,
1952, pp. 456-458. § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans
quelques traditions grecques» Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L.
Febvre ), I, 1954, pp. 25-32, dove sono studiate in questo senso il
«Kroisos-Logos» di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del
Sileno; L. GERSCHEL, «Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de
légendes germaniques», RHR, CL, 1956, pp. 55-92, in cui sono esaminati
due tipi imparentati di leggende, una che com¬ porta l’opzione proposta a
un individuo fra tre «offerte funzionali» (es. l’origine di «Jodeln»
citata nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si spartiscono
tre doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del dono
della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT
D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon
esempio). § 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition
fonctionnelle dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77.
L’estrema antichità e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e
pratiche augurali di Roma (la parola augur è indoeuropea) sono state
stabilite in diversi articoli: «L’inscription archaique du Forum et
Cicéron, De divin., Il, 36», RSR, XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951,
pp. 17-29, prolungata da «Le iuges auspicium et les incongruités du
taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953, pp. 249-266; Rituels..., cap. II
(«Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè- res regiones caeli de
Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì),
1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬ doeuropea,
vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp. 126-151.
§ 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo anco¬
ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Feb¬
vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste
alle ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo
sacerdo¬ tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di
culto, ma cede alla terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano
i loro bambini - la «parte germinativa» di Roma - condotte dalla sua
propria madre e da sua moglie. § 26. Sulla diversità delle posizioni
del re in rapporto alle tre funzioni, vedi la mia comunicazione al Vili
Congresso Internazionale di Storia delle Religioni (Roma 1956), «Le rex
et les flamines maiores», riassunta negli Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul
re germanico nella prospettiva trifunzionale vedi J. DE VRIES, «Das
Kònigtum bei den Germanen», Saeculum, VII, 1956, pp. 289-309.
49 Capitolo secondo Le teologie
tripartite 1. Espressione teologica dell’ideologia delle tre
funzioni Le teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono
essenzial¬ mente degli accumuli incoerenti di dèi stratificati dai flussi
e riflussi fortuiti della storia. In ogni luogo su cui siamo
sufficientemente infor¬ mati è facile riconoscere un gruppo centrale di
divinità solidali che si definiscono le une con le altre e che si
spartiscono le province del sa¬ cro, secondo il piano spiegato nel
capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per lungo tempo, a seconda
dei casi, trascurati, negati o mal compresi. Il loro
riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬ co e mitanno di
cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire dal
1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi; all’origine
anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta penose, ma
generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei diversi
ambiti. 2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli inni e
nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India vedica, in un
certo numero di circostanze rituali importanti, associano (per delle
invocazioni, delle offerte o del¬ le enumerazioni classificatorie) i due
sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per eccellenza,
lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre designati al duale con un nome collettivo,
i Ncisatya o Asvin, guaritori, datori di discendenza e di ogni sorta di
bene. Talvolta al se¬ condo livello, evidentemente per analogia col
raggruppamento bina¬ rio del primo e terzo livello, Indra compare
associato a un altro dio, spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu).
Abbiamo già visto (I § 18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i due
ASvin, Indra con Agni o Sùrya), invocati per ottenere la formazione di un
feto maschio, obiet¬ tivo più importante in questi tempi arcaici che non oggi.
L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto, pri¬ ma
di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che è
propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordi¬ ne
che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce la
lista dei principali «dèi in coppia» invocali al momento culminante della
spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono Indra-Vàyu,
Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1, 3-5) ed è lui che
comanda il piano di un certo numero di inni del Rive¬ da ispirati da
questo rituale. Il contesto di questi inni è sovente istruttivo,
garantisce e illu¬ stra il valore funzionale di ogni livello divino: per
esempio in I, 139 Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a
loro c nella stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico
che designa il battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di
Mitra-Varuna (2) è riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè
dell’Ordine cosmico e mo¬ rale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono
invece presentati come i si¬ gnori delle due varietà di «vitalità»,
srlyah e prksah. Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu
sono qualifi¬ cati come nani, «Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna
(2, str. 8) è detto che «con l'Ordine, curando l'ordine, hanno
raggiunto un’elevata efficienza »; quanto agli Asvin, « donano gioia a
molti» (3, slr. 1). 3. Lis ti-: ascendenti e discenden
ti Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente
è rispettato. Ecco inizialmente due casi molto «puri» in cui Indra è
solo al suo livello. 52 Nel rituale
arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬ re del fuoco, al
momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono li¬ mitare l’area,
viene fatta un’invocazione alla vacca mitica, Kàmadhuk («quella che
quando la si munge dona ciò che si desidera»). L’invocazione contiene la
sequenza divina che ci riguarda, nel senso discendente, con un
prolungamento che ne garantisce i valori funzio¬ nali: «Produci come
latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a Indra, ai due Asvin, a
Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra), alle creature, alle
piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12). In una tale numerazione
ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed even¬ tualmente
degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non possono
patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corri¬ spondono
rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature. In un
sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi dèi sono
invocati nell’ordine ascendente con un complimento colletti¬ vo ed
esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli
dèi Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di
Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti gli Dèi!». Con Agni
associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬ va la stessa
sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬ sante ( RV ,
X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe):
è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬ naggio che è
senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il
supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste. La prima
strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con gli Àditya e con
Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬ tra-Varuna; sono io
che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due Asvin!». È degno di nota
che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬ pria polivalenza o, come
ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in cui «glidèi l’hanno
introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬ salto, come parti
della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6 =AV str. 4, 3,
5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli dèi e dagli
uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh- man, rsi),
infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c il
combattimento. È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale
(si è parlato in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema
utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya:
con la sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la
se¬ quenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin
riu¬ nisce i patroni e le espressioni teologiche delle tre
funzioni. 4. Gli dei arya dei Mitanni Talvolta
leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso possibile
comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in di¬ versi testi
dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a un documento
molto importante. È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo
parlante sia il futuro «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a
quelli che si possono chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso
Est, verso l’Indo e il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino
alla Palestina, in¬ correndo in un destino brillante ma effimero e
lasciando sue tracce in molti scritti cuneiformi. Mentrei
loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono alla storia,
questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬ tura, sono
localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro che hanno
fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino Oriente con le
loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più sopra,
quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni. Il
gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che,
inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella metà
del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei
Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare
da pari a pari. Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re
hittita, gli scavi hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un
trattato concluso da questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei
Mitanni, il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli
aveva inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo
benefattore nella debi¬ ta forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬ correre se mancherà alla
parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬ vocano come garanti tutti
gli dèi che i loro due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a
un gran numero di dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità
locali o babilonesi, s’incontra una sequen¬ za che è stata immediatamente
identificata dagli indianisti e su cui i fi¬ lologi hanno lungamente
lavorato, esaminando le particolarità grafi¬ che e grammaticali del
testo. Oggi renumerazione si può rendere con sicurezza nel modo
seguente: «Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il
dio Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu ...». Per più di
trentanni, senza aver preso in visione i documenti ve¬ dici principali
citati, si sono proposte per questa riunione di dèi delle spiegazioni
strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S. Konow, 1921 ). Il danese
A. Christensen ( 1926) con un’analisi serrata si è avvi¬ cinato alla
verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non compaiono a
Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come interessali di questa
o quella clausola particolare, ad esempio matri¬ moniale, del trattalo,
ma poiché erano «dèi principali» della società arya. Sfortunatamente egli
ha «pensato» questo stato maggiore solo nel quadro dualista
dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’I¬ ran, reale ma meno
importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artifi¬ cialmente,
contrariamente alle indicazioni del testo, in due gruppi, Mitra-Varuna da
una parte e Indra-Nàsatya dall'altra. E solo nel 1940, grazie a un
dossierve dico delle tre funzioni e ai testi vedici che associano gli
stessi dèi presenti nel trattalo di Bogaz¬ kòy, che è apparsa
l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in questi termini nel
1945: «A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che
pa¬ trocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi
suoi necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu,
rappre¬ sentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso
piano: a un secondo livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e dell’ari¬
stocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora inferiore vi
sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi insie¬ me
e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con se stesso
tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma rego¬ lare, ed
evoca le tre grandi province del destino e della provvidenza. Questo
corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni che accettu di attirarsi
in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla sua persona al suo
popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e oblio, odio generale da
parte degli dèi ». 5. Connotati degli dèi caratteristici delle tre
funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA Non sarà inutile, per
agevolare il lettore nelle analisi particolari che seguiranno, precisare
ora in qualche parola, nella prospettiva delle tre funzioni, gli
orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli ar¬ chivi di
Bogazkòy, confermando le formule degli inni e dei rituali in¬ diani,
comprovano essere un raggruppamento formulare pre-vedico. Ecco come
questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo libro Les dieux des
Indo-Européens (1952). «Non è un caso se il primo livello è spesso
rappresentato da due dèi: nella sovranità che questi antichi indiani
concepivano vi erano due facce, due metà antitetiche ma complementari e
ugualmente ne¬ cessarie, incarnate e patrocinate da due «re», Mitra e
Varuna. Se dal punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante,
terribile, possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme,
armato di nodi e di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e
irresistibili, Mitra, il cui nome significa Contratto, e anche Amico, è
rassicurante e benevolo, protettore degli atti e dei rapporti onesti e
stabiliti, estraneo alla violenza. L'uno, Varuna, dice un testo celebre,
è l’altro mondo; questo mondo è invece Mitra. Varuna è più despota, più
dio stesso se così si può dire; Mitra è quasi un sacerdote divino. Più
che della prima funzione, Varuna sembra avere maggiori affinità con la
seconda, violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla prospe¬ rità che
dischiude grazie, alla terza. L'opposizione è così netta che da tempo si
sono potuti sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna: non è forse
l’àsura per eccellenza ? E nelle forme post-vediche della religione, come
già in molte strofe del Rgveda, gli usura non sono for¬ se dei misteriosi
demoni? In Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni
zi, le necessità della forza brutale che applicate alla battaglia
producono vittoria, bottino e potenza. Questo campione vo¬ race, armato
di folgore, uccide i demoni e salva l’universo, per com¬ piere le sue
imprese si inebria di soma che dona vigore e furore. Egli è il danzatore,
nrtti; il suo splendido e ardente seguito è formato dai Marut,
trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani guerrie¬ ri, màrya.
Per lui e per essi si esprime una morale dell'exploit e dell'esuberanza
che si oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa, come alla benevolente
moderazione che si riunisce nel primo livello. Gli dèi canonici
dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono che una parte del
dominio complesso tipico della terz.a funzione. Sono soprattutto datori
di salute, giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli
infermi, degli amanti, dei figli senza fidanzata o del bestiame sterile.
Ma la terza funzione è molto più di tutto questo, non solo salute e
giovinezza ma nutrimento, abbondanza in uomini e in beni, cioè massa
sociale e ricchezza economica, attaccamento al suolo, a questa gioia
tranquilla e stabile dei beni, che si esprime in sanscrito con
l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso rinforzati al loro
livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti della terza
funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,
Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT ed altre dee
madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, tota¬
le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una classe parti¬
colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35
oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri bràh- man
e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme». Abbiamo qui
un buon esempio di struttura, una teologia artico¬ lata difficile da
pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e frammenti: l’insieme c
il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divi¬ no nel suo orientamento
proprio esige la presenza di tutti gli altri e non si definisce che per
rapporto agli altri, con la vivacità che solo l’antitesi produce. Il
riconoscimento di questa sequenza divina e del suo carattere prc-vcdico
ha permesso di compiere, nel 1945, un passo decisivo nell'interpretazione
delle religioni iraniche c di rendere con¬ to di un tratto importante
della teologia aveslica da tempo osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici
delle tre funzioni nella riforma ZOROASTRIANA Sotto il
nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che ha notevolmente
alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie di riforme
progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando il ri¬ sultato
storicamente attestato di questo processo riformatoree il punto di
partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente vicino allo
schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttri¬ ci
del movimento appaiono immediatamente. Nell’Ave.vra nongàthico,
dove è mitigato l’intransigente mono¬ teismo delle Gùthà e dove, sotto il
gran dio Ahura Mazda - senza dub¬ bio anche lui sublimazione dell’Asura
supremo, quello che l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure
mitiche di alto rango che portano i nomi dei principali dèi della lista
di Bogazkòy (MiGra, Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un
dio, mentre Indra (al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che
è in rapporto differen¬ te, ma certo, con la forza e la violenza) e
Nàr]ai0ya - enunciati ancora sempre in quest’ordine come nelle formule
indiane in cui i Nàsatya se¬ guono Indra - sono i nomi dei grandi demoni:
segno di una riforma che (operata da sacerdoti, uomini della prima
funzione, e destinata a im¬ porre uniformemente a tutta la società
mazdaica la morale elevata del primo livello purificalo) ha rigettato,
anatemizzato, demonizzato i pa¬ troni divini che tradizionalmente
rappresentavano e giustificavano al¬ tri comportamenti come lo
scatenamento guerriero c l’orgia, meno sanguinante ma certo non meno
libera, dei culti della fecondità. 7. Le Entità zoroastriane
Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella delle
Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il tratto
saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al Gran
Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo, ma sono
quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate in un ordine
fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Bene¬ fìci (o
Efficaci). Si è discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste Entità
siano già delle creature o delle emanazioni separate da Dio - una sorta
di arcangeli - o semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia
niente quanto al problema delle loro origini che qui ci inte¬ ressa. La
lingua e lo stile delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità
volontaria e raffinata, ma fortunatamente per orientarsi si dispone di
talune considerazioni che non dipendono dalle incertezze di parola per
parola. 1) Il senso e la struttura grammaticale dei nomi che designano le
Entità forniscono qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬ no
quasi tutti i nomi di una o più Entità sono assai numerose per per¬
mettere delle osservazioni statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬
tà, frequenza delle loro associazioni diverse - che rivelano dei tratti
molto importanti del sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e lo
stile di questi inni lirici non costringono il poeta a presentare le
Enti¬ tà in lista nel loro ordine razionale, come faranno più tardi i
testi rituali in prosa, tuttavia la tavola delle frequenze di menzione
delle Entità, prese separatamente e in conseguenza delle importanze
relative che i poeti le attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine
gerarchico che esse avranno in seguito sotto il nome di Amaste Spanta:
questa gerar¬ chia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento
d’interpretazione è for¬ nito dalla lista degli «elementi materiali» che
la tradizione associerà, parola per parola, alla lista delle Entità,
gemellaggio a cui gli inni stes¬ si fanno allusioni certe e precise. 4)
Infine, nell’À vesta non gàthico, ad ognuna delle Entità è opposto un
arcidemone che in molti casi le chia¬ rifica. Il quadro è il
seguente: Entità astratte Elementi materiali arcidemoni
opposti PATROCINATI 1) VohuManah bue (Il
Buon Pensiero) 2) Asa (l’Ordine) fuoco 3) XsaGra (la
Potenza) metallo 4) Àrmaiti (il Pensiero terra Pio)
5) Haurvatà( acque (l’Integrità, la Salute) 6)
AmarstàJ (la piante Non-Morte, l’Immortalità) 8.
Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti nelle
ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si
interpretino le Entità, questo quadro suscita delle domande: perché
questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero Indra
Saurva NàqaiOya La Sete La Fame
non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non
dispo¬ nendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in
qual¬ che modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con
rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa?
Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che
sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma? Un confronto
delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mi¬ tannica degli dèi
funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione d’insieme.
1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso
a poco inseparabili, ricordano per le nozioni così simili che esprimo¬
no, per gli elementi materiali associali c per il loro posto gerarchico,
i gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di salute e di vita,
ringiovani- tori dei vecchi, tecnici delle virtù medicali contenute nelle
acque c nel¬ le piante. 2) Prima di queste, la terza Entità è
la Terra in quanto madre, nu¬ trice e modello della padrona di casa
iranica: ricorda così la dea varia¬ bile (Sarasvatl, notoriamente) che si
vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬ le enumerazioni vedichc che segnalano
la terza l’unzione. Così il dominio delle tre ultime Entità zoroastrianc,
designate tutte da sostan¬ tivi femminili, mentre quelle superiori sono
nominale da neutri (cf. in vcdico vis, femminile, contro brahman c
ksutriì, neutri), è quello della terza l’unzione. In più, nella persona
di Àrmaili, è a una Entità della ter¬ za funzione che il sistema oppone
il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬ ne (ridotta a un unico personaggio)
delle due divinità canoniche della stessa funzione, i Nàsatya.
3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la stessa
pa¬ rola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che
lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda
l'unzione, come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta , }>
fornisce diffe¬ renzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il
«metallo» che gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma
dei lesti espliciti lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc
a lui opposto, Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra,
personaggio complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua
qualità di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda
funzione. 4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o
men¬ zionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi
signi- 60 ficativi: ASa è la parola avestica
(cf. antico-persiano aria-) che corri¬ sponde al vedico ria, l’Ordine
cosmico, rituale, sociale, morale, patrocinato dagli dei sovrani ma
principalmente (e negli epiteti che gli sono propri) dall’inflessibile e
terribile Varuna. Vohu Manah, il «Buon Pensiero», in una serie di
passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬ ra non gàlhica, è presentato,
al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del benevolo e amichevole
Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬ do», in opposizione a Varuna che
è «l’altro mondo». Yasna XLIV contiene a questo proposito due
strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e
il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto
come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di
cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a
Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo
riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la protezione
particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e
dell’arcidemone Indra ricor¬ da che molti inni del Rgveda inscenano delle
tenzoni tra i 1 sovrano Va¬ runa e il guerriero Indra, depositari di due
morali, la cui divergenza sfocia facilmente in un conflitto.
9. Intenzione di questa riforma zoroastriana Altri
particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma
questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬ blema delle
origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬ pato nel 1945
nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei Entità dello
zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬ sta degli
dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬ mente, da
una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬ que dèi
maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella terza
funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬ tura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»? Senza
dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬ la struttura
trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo
di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché
gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e
che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa
forma di pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto esatto di ciò
che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata la
lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come
si è visto, era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri
e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle
funzioni sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui
infieriva sino allora l’au¬ tonomo Indra, l’esemplare figura di una
«Potenza», XSaGra, devota alla santa religione, si portava ai sostenitori
dell’antico sistema un col¬ po più rude della semplice negazione del dio
pagano o della semplice soppressione di questa provincia della teologia.
In un certo senso si può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo
delle Entità, sia con¬ sistita nella sostituzione di ogni divinità della
lista trifunzionale con una equivalente, che conservava il suo rango ma
che essenzialmente era privata della propria natura e animalo da un nuovo
spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio
unico. Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli
stu¬ diosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi
nomi, questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili.
Si spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il
dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino
uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo in¬ diano
dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra e
Varuna sono i principali. Questa analogia, che è un fatto
incontestabile e che B. Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere
in risalto ampiamente, non ha comunque risolto il problema delle origini delle
Entità: esse non sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani
vedici, ma gli equi¬ valenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre
livelli energicamente ri¬ portati al tipo unico di una «santità»
esigente: dèi sovrani certo, ma an¬ che, sotto i sovrani, un dio violento
e degli dèi vivificanti che li completano. 10. Gli dèi
indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni CRONOLOGICHE
Questa spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente am¬ messa da
molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo
al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui limitarmi e sottolineare la
principale conseguenza del punto di vista comparativo. Riportando ai
tempi indo-iranici la lista canonica mitannica e vedica degli dèi delle
tre funzioni con la loro gerarchia, ci è precluso ogni ten¬ tativo di
spiegare questa lista e questa gerarchia con avvenimenti sto¬ rici o
della preistoria recente dei tempi vedici. Indra non è, non può più
essere considerato come un «gran dio» che, ad esempio, le condizioni
sociali e morali di un’epoca di conqui¬ sta sarebbero «in procinto» di
sostituire a un più antico «gran dio» Va¬ runa che in seguito avrebbe
sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più vecchio dio
Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa situazione,
effime¬ ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di
dèi che re¬ trocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso
stadio di evoluzio¬ ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando
per secoli allo stesso massimo il progresso di uno dei termini e allo
stesso minimo la soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei
Mitanni, negli inni e nei rituali propriamente vedici e ancora, nel
politeismo iranico che si lascia leggere in filigrana sotto la teologia
di Zoroastro? La «storia» non può essere stata in questo punto tre
volte identi¬ ca, aver avuto degli effetti intellettuali così simili in
queste tre società precocemente separate. La sola
interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora indivisi,
qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬ miti
delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬ porti
di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li ritroviamo
negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬ mento degli
dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di
avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una
sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come la
«destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone una
struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di
ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto
a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi
si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra
si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬
la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e la
funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne risenta
pienamente i benefici. I miti collegati ai signori divini delle
funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza la divergenza
delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e i compromessi che la
pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica
assoluta e la pura forza guerriera fossero portate agli estremi
sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti della vita
della società a causa di tali conflitti si producono usurpazioni,
anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei rapporti tra
Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande maggioranza dei casi
essi collaborano, ma in qualche testo dia¬ logato i poeti sono portati a
questo estremo, che i politici evitano sag¬ giamente e per meglio
definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬ no opposti come
rivali. Stando così le cose, si tratta di un esercizio retorico sicuramente
antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha scelto Indra
scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti- col are di Asa,
cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna. 11.
Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni Questa osservazione
deve essere completata da un’altra inver¬ sa. La definizione funzionale
dei tre livelli divini è statisticamente ri¬ gorosa (la letteratura
vedica è assai abbondante perché la statistica vi possa trovare un
appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali funzioni sono
intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate, ma anchenella
maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬ ca gli dèi di un
solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬ ne le
effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta
debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto vero
per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬
camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬
no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere
sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬
cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi
degli altri. In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è
sicuramente la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte
mistiche a cui può bussare, ma è anche e soprattutto la solidarietà e la
collaborazione di tutti gli dèi che gli rispondono. Infine,
nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli dèi, capita che
la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino interpellati da
degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio mag¬ giore è quello
della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce direttamente o
indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola, la salute
stessa, di cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa c
ottenuta grazie alla battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o
di vacche celesti agli avari demoni della siccità, e questo è il compito,
il gran compito di Indra c dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei
Marut. Congiungere il cielo e la terra e assicurare la
sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli dèi sovrani c
l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo specialista
Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre
questa giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c
quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero
Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma della sua
azione, in quanto donatore di fecondità e di ricchezza. Ma il
lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare il modo violento
che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per li¬ berare le acque:
egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cer¬ chia dei Pfisan o
dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra
gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia
tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora
c deve es¬ sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c
necessario ri¬ cercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei
antichi, c suffi¬ cientemente conosciuti, se delle équipes analoghe sono
attestate dagli usi rituali o da formulari. Questa ricerca,
intrapresa fin dal 1938, ha immediatamente portalo a risultati nei domini
italici e germanici. Ma allo stesso tempo, in questi domini in cui gli
specialisti, nella loro autonomia, avevano da lungo tempo costruito delle
maestose c dotte spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto
rimettere i n questione molti pseu¬ do-fatti, dimostrando la fragilità di
molte pseudo-dimostrazioni, in modo tale che spesso non è stata
considerata la benvenuta. In sintesi, le opposizioni sono
soprattutto nate dal fatto che le «filologie separate», sia scandinava
che latina, si erano abituate a pen¬ sare cronologicamente - secondo una
cronologia ipotetica e soggettiva - la preistoria, la «formazione» dei
quadri teologici complessi, presen¬ tati dai documenti antichi, mentre
questi quadri, guardati in base alla prospettiva comparativa che a grandi
linee viene qui ricordata, s’interpretano immediatamente, per
l’essenziale, come strutture con¬ cettuali che esprimono la distinzione e
la collaborazione delle tre fun¬ zioni esplicitate dagli
Indoeuropei. 13. Jupiter, Mars, Quirinus e Juu-,Mart-, VOFION(O)-
Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una umbra e l’altra
latina - sulle quali dei testi ben articolati ci informano, presenta¬ no
due varianti di una triade in cui i due primi termini sono identici:
Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus nella più
antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a non cer¬
care per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata sul caso,
sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia locale: com’è
possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti pos¬ sano
suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili? 14. La
triade precapitolina L’esistenza della triade romana, che si è
anche voluto contesta¬ re ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal
fatto che questi dèi sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti
da tre sacerdoti senza omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo
sacerdotum: Festo, p. 198, Lindsay) che sono, al di sotto del rex
sacro rum, erede ridotto e sa¬ cerdotale degli antichi re, gli alti
sacerdoti dello stato: i trej7 amines maiores, cioè il dialis, il
martialist il quirinalis. Questa triade capito¬ lina, vero fossile
nell’epoca storica, respinto dall’attualità di una tria¬ de differente
formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rima¬ sta legata a molti
rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche. 66
Una volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era
attri¬ buita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversava¬
no solennemente la città in uno stesso carro e facevano congiuntamen¬ te
un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che conservavano tra i
dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui era
stata attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et
Quirini (Servio, ad Aen., Vili, 663). Il tragico rituale
della devotio, con il quale il generale romano, per salvare il proprio
esercito, si immolava agli dèi sotterranei contemporaneamente
all’esercito nemico, era introdotto da una for¬ mula, da un’enumerazione
di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo trascritto esattamente e
che dopo Janus, dio di ogni inizio, nominava innanzitutto l’antica
triade: Giano, Jupiter, Mars Pater , Quirinus, poi Bellona, i Lari etc.
etc. Dopo la conclusione di un trattato, secondo Po¬ libio (III, 25, 6),
i sacerdoti feziali prendevano come testimoni prima Jupiter, poi Mars e
infine Quirinus. Il carattere comune di queste circostanze, in cui
la triade preca¬ pitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale
di Roma è inte¬ ressato nel suo insieme e nella sua forma normale:
mantenimento del¬ la fides pubblica, senza cui la coesione sociale è
impossibile; protezione continua o urgente; impegno diplomatico. Il
sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è la sola
circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme; ma
lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità
dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia
di Fides l’unità delle tre «cose» che Jupiter, Mars e Quirinus patroci¬
nano distributivamente; tre «cose» la cui sintesi o aggiustamento sono
essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste «cose»? 15.
Valore di Jupiter e di Mars nella triade precapitolina La risposta
non necessita di grandi sforzi, sempre che si preferi¬ sca il sentimento
dichiarato dai Romani stessi contro le ricostruzioni ardite, fatte da tre
quarti di secolo dagli epigoni di W. Mannhardt o da archeologi poco
coscienti dei limiti della loro arte; sempre che non si dimentichi che
questi dèi sono stati associati e gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché
rendevano dei servizi differenziati e complementari; e infine, a
condizione che si attribuisca un valore particolare, trattandosi di divinità
dei tre flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di questi
sacerdoti. Se si osserva questa regola, e queste precauzioni, si
riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius (nel
capitolo seguente si mostrerà il senso di questa sfumatura), onora¬ to
dagli atti del flamen dialis , e dal suo comportamento pieno di innu¬
merevoli precetti positivi e negativi, è il dio che dall’alto del cielo
pre¬ siede all’ordine e all ’osservazione più esigente del sacro, garante
della vita, della continuità e della potenza romana. Quanto a
Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegna¬ mento dei migliori
testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio com¬ battente di
Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al pari del
vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non di più)
dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno biso¬ gno di
essere forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o
invisibili, possono minacciare. Questa forza è sempre rimasta la
forza che dona la vittoria, sin dai tempi favolosi delle origini e fino
al declino dell’impero, nella schiacciante maggioranza degli impieghi
conosciuti. 16. QuiRINUS Per Quirino, l’unico
«invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica, gli eruditi antichi hanno
generosamente costruito, su dei pressapochi- smi etimologici allora
correnti, delle teorie contraddittorie che com¬ plicano il lavoro; ma
fortunatamente disponiamo degli uffici adem¬ piuti dal suo flamen e di
molti altri fatti cultuali, del suo nome e di qualche indicazione
oggettiva degli antichi. Queste diverse fonti informative
forniscono un quadro com¬ plesso ma coerente. I ) Siamo a
conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen quirinalis. Ai
Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei pressi di Roma
e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge Ovidio) la ruggine
che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto sacrifica sull’altare
sotterraneo di Consus, dio del grano messo in provvista ( condere ); il
23 dicembre sacrifica sulla «tomba» di Laren- tia, la cortigiana che
incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchez¬ za e la generosità
e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua fortuna a quella
del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio,
coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto dei Fornacalia, cioè delle
feste curiali della torrefazione del grano. Nelle altre due
circostanze rituali in cui appare, Quirino è asso¬ ciato alla dea Ops,
cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscri¬ zione ci insegna che
il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figura¬ no tra le divinità
onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L I 2 , p. 326). La leggenda
che giustifica l’esistenzadei Salii di Quirino, dimo¬ stra che il voto
fondante questo collegio è stato fatto per la stessa ra¬ gione del voto
che istituiva la festa di Ops e di Saturno. Tutti questi dati, che
costituiscono l’intero dossier cultuale del dio, attestano che la sua
attività è uniformemente e unicamente in rap¬ porto con le sementi (tre
feste, tra cui la sua), con le divinità agricole Consus e Ops, con la
ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si spiega il fatto che nel
390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava seppellire gli oggetti
sacri di Roma, questo compito non spettasse al rex o al flamen dialis,
primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe aspettato, ma al flamen
quirinalis. 2) Il nome di Quirino è sicuramente inseparabile da
quello dei Quirites, cioè dall’insieme dei Romani considerati nelle loro
attività civili in opposizione totale a ciò che essi sono in quanto
milites (un aneddoto ben noto di Cesare lo prova). P. Kretschmer
aveva proposto di spiegare Quirites con curia (volscio couehriu), come
«gli uomini riuniti nei loro quadri sociali», essendo QuTrinus (cf.
dominus da domus) il patrono di questa entità della «massa sociale
organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e prsé soddisfacente,
è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e in¬ dipendentemente
da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come il nome dell’omologo
di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars, Vofionus» possa essere
il compimento fonetico rigoroso di un *Le- udh-yo-no «patrono della
massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi, «massa di uomini liberi,
bambino di nascita libera» etc.), esatto paralle¬ lo e sinonimo dal
latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari della coltivazione
del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione. 3) Ma lo stile
di questa pace è marcato dall’impronta romana e contribuisce al
sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha conquistato e
romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e stabilisce il
pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si è mai trattato di
una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi erano deposte ma
conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabi¬ li, i
milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che l’
exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi
quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra. È
questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e che esprime
eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines minores, il
Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( por¬ tele ) delle
città, prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico di
ungere le «.armidi Quirino» (Festo s .v.persillum, p. 238, Lindsay), cioè
di compiere il gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali pos¬ sono
anche non essere utilizzate, al momento, ma verso le quali può
sopraggiungere improvvisamente l’esigenza di ricorrervi. Questa ambivalenza
Quirites-milites dei Romani, questa con¬ cezione militare della pax
romana , spiegano sufficientemente come Quirino possa essere stato
considerato una varietà di Marte e come i Greci, che concepivano
altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per tradur¬ re il suo nome quello
di un vecchio dio guerriero, differente da Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà
troppo inutile meditare in questo contesto su due note del commentatore
di Virgilio, Servio, giudicate un tempo «assurde», ma alle quali la nuova
prospettiva «trifunzionale» ha con¬ ferito pieno valore (ad Aen. I, 292;
VI, 859): «... Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum
saevit) quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma
possiede due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino,
cioè di guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),'
l'altro sul¬ la via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in
quanto dio guerrie¬ ro o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)...
Quirino è il Marte che presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo
culto dentro Roma mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo
tempio fuori Roma ». 17. Jupiter, Mars, Quirinus e i
componenti leggendari di Roma Questa rapida esposizione,
spogliata dalle innumerevoli di¬ scussioni che è stato necessario
sostenere su quasi tutti i punti, basterà a dimostrare qual è, nell’unità
armoniosa della triade precapitolina, l’orientamento proprio e
l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed essenza stessa della
religione come supporto di Roma; forza fisica e guerra; agricoltura,
sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste etichette definiscono
tre ambiti complementari che disegnano una struttura sicuramente
anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e quindi così vicina alla
struttura indo-iranica da dirsi risalente ai tempi indoeuropei.
Non sarà inutile ricordare qui i valori funzionali di cui appaiono
rivestite, nei racconti sulle origini di Roma, le tre componenti etniche,
base leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬
pagni sono i depositari del potere sovrano e degli auspici; i suoi
alleati etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli specialisti
dell’arte militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini, sono provvisti
di donne, ricchi in bestiame e in più detestano la guerra e fanno di
tutto per evi¬ tarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo
ricordata in I § 7) minimizza la componente etrusca e concentra le due
prime caratte¬ ristiche su Romolo e i suoi compagni. Sotto
questa forma la triade precapitolina si divide molto ade¬ guatamente tra
i due gruppi di avversari e futuri associati: Romolo è costantemente il
protetto di Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter
Stator in battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in sé i favori
dei due primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme leggendario
soltanto) è considerato come un dio sabino, il «Marte sa¬ bino» portato
in dote da Tito Tazio a Roma nella riconciliazione fina¬ le, allo stesso
modo del nome collettivo dei «Quirites» (ma questa pse- udo-sabinità dei
Qui riti e di Quirino, benché conf orme al carattere dei Sabini della
leggenda, portatori della terza funzione, si spiega col gio¬ co di
parole, popolare tra gli eruditi di Roma, «Quirites-Cures»), Si sa
che un’altra forma della leggenda, incompatibile con que¬ sta, fa di
Quirino il nome postumo di Romolo, riunendo così sul solo fondatore i tre
termini della triade divina in base agli auspici, alla filia¬ zione e
all’apoteosi. 18. Varianti della triade Jupiter, Mars,
Quirinus Della leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat., V,
74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto
importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e
dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa e in
via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre Ro¬ molo
fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un gran
numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita rurale, la fe¬ condità
e il mondo sotterraneo. Questa tradizione è molto interessante
perché sottolinea ciò che è stato già segnalato a proposito dell’India
(II, § 5); la molteplicità de¬ gli aspetti, l’inevitabile frazionamento
di questa «terza funzione» che Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché
tra gli «dèi di Tito Tazio» (che non sono certamente sabini ma romani, a
dispetto della colorazio¬ ne etnica della leggenda) molti f igurano in
terza posizione, nelle triadi che non sono altro che varianti della
triade canonica «Jupiter, Mars, Quirinus», come Ops (abbiamo già
segnalato i suoi rapporti con Quiri¬ no) o Flora. 1 tre
gruppi di culto della Regia, della «casa del re», che corri¬ spondono
senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano giustap¬ poste nelle
rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del più alto
rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen
dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3)
cul¬ ti del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza.
Questa collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensi¬
bilmente che la stessa forma di religione che si analizzava e che si dis¬
sociava nelle persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una
sua sintesi quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che
l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Ro¬ ma,
come gestore delle forze sacre. Quanto alla triade «Jupiter, Mars,
Flora» (rimpiazzata più tardi da Venere) sembra essere stata lei a
patrocinare i tre carri delle corse primitive (in relazione con le tre
tribù funzionali e i tre colori bianco, rosso, verde; vedi sopra I, § 21
). Flora meritava due e tre volte questo posto, per il suo potere sulla
vegetazione, per la leggendache faceva di lei un doppione della
cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma stessa, senza dubbio
più alla massa romana che all’entità politi¬ ca patrocinata da
Quirino. Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars, Romulus, Re-
mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla fondazione di
Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica in¬
do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la protezione
del terzo livello. 19. Gli dèi delle tre funzioni in
Scandinavia Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello
stes¬ so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente,
come ul¬ timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di
quella precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile -
se¬ condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e
sin¬ cretismi tra culti successivamente comparsi. Lacritica a
questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬ dono di basarsi
logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬ pongono arlifi
cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬ re fatta
poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri. Nel piano
ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬ derne ma dichi
arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946, 1953), da E. Wessén
( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬ tativi fatti per
dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬ cente (sostituito a
*Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio» è Pórr (sempre che
non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto dell’intelligenza,
dell’erudizione e del talento dei loro autori. Ci limiteremo dunque
ai fatti e quindi all’esistenza stessa della triade in quanto tale. E
questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha vi sto regnare
nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la de¬ scrizione del meccanismo
trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei
che appare dalle formule di maledi¬ zione come dai poemi eddici o dagli
scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si
sprigiona dal racconto della batta¬ glia escatologica ( Vòluspà , 53-56)
in cui ognuno dei tre dèi lotta con¬ tro uno dei maggiori avversari che
soccombe sotto i suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini
(Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in
cui le altre divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a
Freyr e Njòrdr e che li completa - sono come comparse che circondano
questi «primi ruoli» e che si definisco¬ no in rapporto ad essi. Ci
si ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬ dotta
spesso a due componenti, benché comprendesse tre tribù che rappresentavano
tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni, detentori di cleos
et virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il dominio di
Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano quelli che
apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e le ricchezze,
opes. Il quadro scandinavo della formazione della società
divina completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una
riconcilia¬ zione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono
due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più
eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù
eminenti e i soli nominati individualmente. La distinzione
funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costan¬ te. I Vani,
specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al massimo la tipologia,
anche se capita loro di essere o di fare altre cose, sono in¬ nanzitutto
dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e patroni del
piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della fecon¬ dità e
della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed
economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al mare
in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr). A questi
tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi. Né Ódinn né Pórr
certamente si disinteressano delle ricchezze del su¬ olo, ecc., ma da
quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro centri sono altrove:
l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo della società divina;
l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai quali peraltro
assomiglia (si pensi al suo «furore»); è il dio tuonante (nel suo stesso
nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e anche nel
folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellico¬ sità in
maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva. Il senso
da attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il pro¬ blema
centrale che domina tutte le interpretazioni delle religioni scan¬ dinave
c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni cronolo¬ giche c
storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni
strutturali e concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro
apportano un grande so¬ stegno agli strutturalisti: il parallelismo delle
teologie indo-iraniche e italiche ci fa precisamente attendere, presso i
popoli imparentati, una teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli
Scandinavi, che op¬ pone per meglio definirli e che ricompone per creare
un insieme vitale: 1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è
sotto il magistero degli Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità
da una parte, e la forza brutale dall’altra; 2) delle figure divine del
tutto differenti che patroci¬ nano ciò che è sotto il magistero dei tre
grandi Vani, la fecondità, la ricchezza, il piacere, la pace, etc.
etc. 21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei
Protoromani e dei Sabine formazione di una società TRIFUNZIONALE
COMPLETA La frattura iniziale, che separa i rappresentanti delle
due prime funzioni e quelli della terza, è un dato indoeuropeo comune: lo
stesso sviluppo mitico (separazione iniziale, guerra e poi indissolubile
unio¬ ne nella struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a
Roma, sul piano umanoenei racconto delle origini
dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi
canonici del terzo li¬ vello, gli Asvin, non erano inizialmente degli
dèi, ma entrarono nella società divina come terzo termine al di sotto
delle «due forze» (ubhe virye) solamente in seguito a un conflitto
violento conclusosi con una riconciliazione e un’alleanza.
Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende sono stati
scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le «funzioni» ri¬
spettive delle diverse componenti della società e i procedimenti speci¬
fici che queste «funzioni» attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬
lisi comparata della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e
Sabini e della leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo» degli
Asi e dei Vani (a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe
21-24 della Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e
conferito un senso sia all’una che all’altra. Ambedue sono formate
da un dittico, da due scene in cui ciascu¬ no dei due campi nemici ha il
vantaggio (vantaggio limitato e provvi¬ sorio poiché è necessario che il
conflitto finisca senza vittoria e con un patto liberamente consentito) ed
è debitore di questo vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una
parte i ricchi e voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società
(le donne!) degli Asi, inviando loro la donna chiamata «Ebbrezza
dell’Oro»; dall’altra parte Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di
cui è noto l’irresistibile effetto magico e di panico. Allo
stesso modo i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi la vittoria
occupando la posizione-chiave dell’avversario, non col combattimento, ma
acquistando con l’oro Tarpeia (in una variante, grazie all’amore cieco di
Tarpeia per il capo sabino); dall’altra parte Romolo, grazie a
un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che l’armata nemica
vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo, invasa dal
panico. 22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli
antichi Germani Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi
conseguenze che ha determinato ben presto, e non solamente presso gli
Scandinavi ma fra tutti i Germani, una deformazione della struttura delle
tre fun¬ zioni e della teologia corrispondente. Da nessuna
parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del primo livello,
Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è vero che non
combattono propriamente come Indra o Marte è anche vero che mettono le
loro magie al servizio della parte che favoriscono e sono loro, in
definitiva, che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in effetti
conquistata con la Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le sue
conseguenze. Non ci si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire
nelle battaglie, senza combattere molto, ma gettando sull’armata che
ha condannato un panico paralizzante, il «legame dell’esercito»
herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è certo che la
parte della «guerra» nella sua definizione è di gran lunga piu
considerevole che nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in
lui - e anche nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel
prossimo ca¬ pitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si
constata più di una osmosi, un vero e proprio ribaltamento e
straripamento della guerra nell’ideologia del primo livello. All’epoca in
cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e
Haraldr Den- te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e
nell’aldilà sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie
guerriere, che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in
certi luo¬ ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario,
ad averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli
uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popo¬ lari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato
Freyr dal la parte agri¬ cola della sua provincia. Questa doppia
evoluzione sembra essere sta¬ ta spinta all’estremo tra gli Scandinavi
più orientali, presso i quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i
tre dèi della triade di Uppsala. «Thor presici et in aere, qui
tonitrus et fulmina, ventos ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter
Woclan, id est furor, bella gerit hominique ministrai virtutem contro
inimicos. Tercius est Fritto (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens
mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur,
sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi».
Anche se si ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di
Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle brevi
osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio principale
poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un martello che
ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha as- similato a
Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo
scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento
inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne
comprende l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e
dove lo stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essen¬
zialmente vicini a quelli dei loro omologhi indiani e romani. Stato del
problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi Sulle altre parti del
dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬ gioni - cronologia troppo
recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬ giosi non indoeuropei - è
difficile constatare immediatamente le strut¬ ture teologiche
corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e
di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato di cose è
particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui
l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi. In
Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea, il
raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad
esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica
combinazione religiosa. In Gallia, dove la classificazione degli
dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé
Danann) ricorda per molti versi la struttura delle tre funzioni,
quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che suggerisce, suscitano
più problemi invece che risolverli. Quanto al paganesimo degli Slavi,
questi sono così poco conosciuti perché i tentativi di spiegazione
tripartitapossano essere altra cosa che brillanti ipotesi. Ma
la concordanza delle testimonianze sui tre domini, in¬ do-iranico,
italico e germanico, in cui le antiche religioni sono state de¬ scritte
in maniera sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente a
garantire che sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva dato
luogo a una teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge-
rarchizzate che esprimevano i tre livelli; e ad una «mitologia eziologi¬
ca» che giustificava la differenza e la collaborazione di queste
divinità. 24. Divinità che sintetizzano le tre funzioni
Ci limiteremo a segnalare nella teologia un altro utilizzo fre¬
quente della struttura tripartita, non analitico ma sintetico. Vi sono
in¬ fatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire, in
opposi¬ zione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come
onnivalenti, domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di
espressione si è prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per
esempio nelle civil¬ tà mediterranee, quando una divinità patrona o
eponima di una città ha assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o
di équipes divine: così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una
teologia tripartita (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse
innanzitutto le quattro tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri,
agricoltori, artigiani), è Atena che in epoca storica domina la
religione. Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian,
durante le pic¬ cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli
omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le
funzioni di sa¬ lute, sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo,
nello zoroastrismo si è prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte
dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in effetti trivalenti.
25. Dee trivalenti Tuttavia, tra queste figure sembra che
bisogni far risalire alla comunità indoeuropea un tipo di dea la cui
trivalenza è così messa in evidenza e che è intenzionalmente congiunta
agli dèi funzionali: que¬ sta dea, che per il suo stesso sesso e per il
suo punto d’inserimento nel¬ le liste è connessa alla terza funzione, è
tuttavia attiva in tutti e tre i li¬ velli e sembra che la sua presenza
nelle liste esprima il teologhema di una multi valenza femminile che
raddoppia la molteplicità degli spe¬ cialisti mascolini.
Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzio¬
nali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epi¬
teti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono
chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno
dall’altro, sia io (1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto di interpretare
come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa dea
indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico,
anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e triplice di
Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la
forte, l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublima¬
zione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro ab¬
bia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al
terzo livello (dopo XsaSra, «Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(,
«Salute» e «Immortalità») e benché non in possesso di una tripla tito¬
latura, porta un nome che significa «Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua
lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra nutrice dif¬
ferenzialmente associata. Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era
onorata sotto il triplice epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi
epiteti riportano alla teo¬ logia della Giunone romana (Lucina, etc.;
Regina) patrona della fe¬ condità regolata c dea sovrana; ma a Roma la
specificazione guerriera manca, mentre era in evidenza nella figura di
Giunone lanuvia e certa¬ mente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro
Seispet- (rom. sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati,
eie.). Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani conti¬
nentali, sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente),
*Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬
lato più sopra; se la specificazione guerriera non è attestata, il poco
che si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano
il nome dei Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»),
Presso gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è
raddoppiata in Frigg (esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa
sovrana del signore magico Ódinn, e in Freyja (nome rifatto su Freyr),
dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa. In Irlanda
un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬ nima del luogo più
importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani del 1 ’ Ulster
con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti- vamente questo
carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni, poiché è
sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei tempi. Una
Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med, «il Sacro»,
che muore per un’emozione profonda in seguito a una visione; poi una
Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo generalissimo e
che muore uccisa; infine una Madre che accresce meravigliosamente la
fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e che muore durante
l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬ bile determinare
quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬ schi della stessa
funzione. 26. Le teologie tripartite e i loro elementi
Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici in¬
do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre fun¬
zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per giustifi¬
carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea comune. Non è
che l’inizio: senza perdere di vista la struttura d’insieme,
l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre
termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se stessa,
poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la
comparazio¬ ne tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di
determinare come gli Indoeuropei concepivano, suddividevano e
utilizzavano ciascuna di esse. 80 Note ai
paragrafi § 1. Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di
non perdere mai di vi¬ sta e di riconoscere le strutture teologiche di
cui studia i frammenti, vedi prin¬ cipalmente L’heritage..., cap. I
(«Matièrc, objet et moyens de étude») - al quale rimando una volta per
tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II («Structure et
cronologie»), § 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico
«Milra-Varuna Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui
appaiono, sono state fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it,
pp. 38-39); NA pp. 41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in
dettaglio sei inni del Riveda fondali su questa struttura);
«Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons des trois fonclions
cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II, 1948 pp. 121-129; JMQ IV,
pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f onctions dans le Rg Veda et
dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni la divisione degli
dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello stesso
senso (cf. DIE pp.7-9). § 4. La discussione delle spiegazioni
anteriori e l’interpretazione nuova formano il primo capitolo di NA, pp.
15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il carattere indiano degli Arya di
Mitani è reso probabile dalla forma del nume¬ ro «uno» (aika: sanscrito
eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT ha interpretato senza
difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al vcdi- co (JAOS, 67,
1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in questi
nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel
trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare
di iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note 167, 170. § 5.
DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c stata
interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo Indra
(o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione mira¬
colosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et dieux vediques, à
propos d’un bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp. 18-37. Riprenderò
prossima¬ mente il problema a partire da una migliore fotografia (la
scena c le insegne di «Mitra e Varuna» devono essere spiegate altrimenti:
non vi sono degli altari ma un vaso raffigurante una lesta di leone) e
con degli altri documenti sui «gemelli» § 6-9. La spiegazione
degli Amai a Spanta costituisce la materia di NA, cap. II-V; la quarta
Entità, Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà, è stala spiegata
in seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ il.pp. 305-313). Questa in¬
terpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une
legende indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos de
Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J. DUCHE-
SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati, 1953, p.
23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi specialmente
pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto,
nota 81 al III cap. § 13); J.C. TAVADIA «From
Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology, aReviewofDumézil’sResearches»,
ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353; K. Barr, Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G.
WlDENGREN , «Stand und Aufga- ben deriranischenReligionsgeschichte»,
Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har- TMAN in molti articoli specialmente
«Ladisposition de l’Avesta», Orientatili Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e
inoltre da altri importanti iranisti. È stata inve¬ ce rigettata senza discussione
da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzio¬ nala nei libri di W.B.
Henning e R.C. Zaehner. § 10. Questo tipo di spiegazione è stata
estesa alle Entità già gathiche come SraoSa e ASi (considerale come
sublimazioni degli dèi prezoroastriani equivalenti agli dèi vedici
Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico Rasnu e
alla Fravasi (considerate come figure purificate corri¬ spondenti a Visnu
e ai Maj'ut): «Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc»,
JA, CCXLII, 1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come una
demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques,
1956, pp. 34-37. § 11. DIE, pp. 22-23. § 12. Gli
attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi- sta;
vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e Dé¬
esses latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in
generale preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una
gradevole discus¬ sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp.
347- 365; 78, 1956, pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle
obiezioni» si trovano dis¬ seminate nelle prefazioni, note e appendici
dei miei libri. Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore generale
sono; «Examen de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich», RHR,
CLII, 1957, pp. 8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino
dimenticano solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà
d’ipotesi. Perla triade umbra vedi «Remarques sur les dieux Grabovio -
d’Iguvium», RP, XXVIII, 1954, pp. 225-234 e «Notes sur le début du riluel
d’Iguvium», RHR, CXLVII, 1955, pp. 265-267. La triade romana è comparsa
proprio a fornire il titolo comune degli studi sulle tecnologie trifunzionali
indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948. § 14.
L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo
che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des
flami- nes majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito
JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101.
§ 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp.
191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76
(= JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima,
di tut¬ ti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei
summit): DIE, pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR,
CXXXVIII, 1951, pp. 209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia,
pp. 66-96. 82 § 16. La spiegazione del
complesso Quirino è stata formata in tre tempi: 1) JMQ, pp. 72-77, 84-94,
143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66, 101-104); 2°), NR, pp.
194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp. 176-179; 3°) JMQ, pp.
155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL,
«Saliens de Mars et Saliens de Quirinus», RHR, CXXXVIII, 1950, p.
145-151. Ho sostenuto numerose discussioni, special- mente: «La triade
Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123 (con V. Basanoff);
REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A propos de Quirinus», REL,
XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli); «Remarques sur les armes des
dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp. 1-10 (con A.
Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun conto delle
risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire
psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che
tratta anche della triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di
Jupiter Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le
considerazioni nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso
più profondo e una data più antica di quanto non si facesse generalmente
(vedi «La bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de
l’histoire romaine» Annales, Eco¬ nomie, Sociétés, Civilisations.VU,
1952, pp. 145-154). Sulle etimologie pro¬ poste per Vofionus, vedi RP,
XXVIII, 1954, p. 225, n. 4 e p. 226, n. 1; la spiegazione con *leudhyono-
sitrova in Pisani «Mytho-etymologica», Rev. desEtudes Indo-Européennes
(Bucarest), I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI- STE, «Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques», RHR, CXXIX, 1945, pp. 7-9.
§ 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non realtà di
una componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto
al no¬ stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti
storici, e in più, una risposta affermativa non genererebbe affatto
l’interpretazione funzionale delle leggende sulle origini, di cui
bisognerebbe solamente ammettere (la qual cosa è ordinaria) che
presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬ dro ideologico ed epico
preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬ sta
interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la
tesi dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra
diverse difficol¬ tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà
riassunta la lunga discussione del capitolo III di NR («Latins et Sabins,
histoire et myhte» non tradotta in JMQ it.: vedi p. 263), condotta
principalmente in funzione della tesi di A. PlGA- NIOL, Essai
surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da
quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte
affer¬ mazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina
lontana dalla fon¬ dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto
archeologico che non fosse già stato prima esaminato e che facesse pendere
decisamente la bilan¬ cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti che si
sono voluti demandare alla strana disciplina della «geopolitica») e RE
XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un curioso argomento che J. Paoli ha
creduto di poter ricavare dalla triade um¬ bra). Quanto a me, continuo a
trovare soddisfacente nel suo principio la spie- 83
gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da
T. MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35.
In una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome,
VIII-V siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus
de l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è
pronuncialo per l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo
secolo. § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi
JMQ, pp. 144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella
citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus, 1953,
pp. 109-110. Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs cultes de
la Regia, les trois fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII, 1954, pp.
129-139. Per la triade «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi Rituels...,
p. 54 e p. 60, note 37-40. Per Romolo-Remo come corrispondenti dei
Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre l’utilizzazione delle
tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di Martianus Capella è stata
esaminala in «Remarques sur Ics trois premières re¬ gione s erteli de
Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder- memn) 1956, pp.
102-107. § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue ricerche
a una visione strutturale delle religioni germaniche. Quando è uscito
MDG, 1939, egli av¬ vertì la parentela della mia concezione e della sua e
la complementarietà dei nostri argomenti. Da allora, benché divisi su
qualche dettaglio, siamo d’accordo, credo, su tutte le maggiori
questioni: che ci si riporti alle sue chia¬ re, obiettive c generose
esposizioni del suo Altgermanische Relìgionsge¬ stiti cht e. 2“ cd., I c
II, 1956-1957 c ai suoi articoli: «Dcr heutige Stand der gcrmanischen
Rcligionsforschung», Gemi. - Roman. Monatsschrift , N.F., II, 1951,
pp. 1-11 ; e «L’élat acluel dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬
gene, 18, aprile 1957, pp. 1-16; altri articoli che toccano le questioni qui
trat¬ tale: «La valeur religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314,
1952, pp. 18-27; «Die Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol.
Stand., 1952, pp. 172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR,
CXLVI, 1954, pp. 207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC,
VI, 1954, pp. 461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini
Aufriss, Miinchen, 1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col.
2467-2556), redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e
specialmente scan¬ dinavo, un’eccellente interpretazione, originale c
ripensata, nel quadro che io ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo
stesso schema: «L’élymologic du terme germanique *ansuz, dieu souverain»,
Études Germuniques, 1953, pp. 36-44 e «La religion germanique primitive,
rcflccl d’une slruclurc socia¬ le», Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1
miei MDG, oggi felicemente esau¬ riti, hanno sofferto di essere stali
pubblicati agli esordi delle ricerche sulla tripartizione indoeuropea:
non era che una prima vista d’insieme e un pro¬ gramma carico d'ipotesi
di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre no; presto
pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non ho qui ancora
il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali (specialmente
Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c
84 Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn
bisogna aggiungere l’importante confronto col polivalente Rudra
dell’India (R. Otto, 1932): vedi J. De Vries, op. cit., II, § 405.
§ 21. Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini
di Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in «giganto- machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la pre¬ sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.
§ 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23.
PerglidèigallidiCesaree i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti
(in ogni caso molto alterati) con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR,
pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33,
94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬ pretare nel quadro delle tre
funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art. «Slavic Mythology»
in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II, 1950, pp.
1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno
favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di
Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant
l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su
SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬ peia,
pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa-
rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp.
405-413. Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.»,
Eranos, LII, 1954, pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR. L’esplorazione
di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo indoeuropeo implica tre
compiti molto considerevoli, a tult’oggi pro¬ grediti in maniera assai
discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬ pidamente a risultati
sistematici che al primo livello. Se importanti aspetti del secondo e del
terzo sono stati determinati in breve tempo, essi non sono tuttavia che
un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬ profondimento. Non si è
potuto dunque fare altro che dare per essi de¬ gli orientamenti generali
e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna
e Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui
si organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è
già stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confronta¬ te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e
Varuna, che la rappresenta¬ no, ed c ancora questa coppia che presuppone
la coesistenza di due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli
corrispondono in testa alla lista delle entità sostituite da Zoroastro
agli dèi funzionali. Questa dualità è stata spiegata in molte
maniere dai commenta¬ tori indiani e dalle diverse scuole mitologiche
degli ultimi cento anni. Attualmente è stata fatta luce su ciò che in
parte si può dedurre dai loro stessi nomi: se la parola Veruna,
apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta oscura (la si è
interpretata con radici che significano «coprire», «legare»,
«dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato
Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬ mologia, il
Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei casi, tra questi
dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con una forma
grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non fanno
differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬ dali del
più grande potere, e quando non nominano che uno dei due, non si fanno
scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬ buti di
questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia della
funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬
stituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo piano
nella credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente, anche
nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il poeta o
il liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere i due
dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà. In tale
caso le diverse immagini che appaiono sono tutte dello stesso senso:
Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di coppie concettuali
e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due piani, ogni punto del
piano potremmo dire, richiamando sull’altro un punto omologo; e queste
coppie tanto diverse possiedono tuttavia un’aria di parentela così netta
che di ogni nuova coppia assegnata al¬ l’insieme si può provare a colpo
sicuro quale sarà il termine «mitria- co» e quello «varunjco».
Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà difficile
estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio questo
tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto meglio
procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi in
rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5).
Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è
vicino all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si
ri- 88 trova nettamente fra le Entità
zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°); passando al limile, dei
testi affermano che Mitra è questo mondo mentre Varuna Valtro mondo, come
è certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e Varuna la notte.
Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del fuoco,
mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto» e stabilisce tra gli
uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della
màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬ so dei «nodi» con cui
«afferra» i colpevoli con una presa irresistibile. Nondimeno essi
si oppongono per il foro carattere : l’ami¬ chevole Mitra è benevolo,
dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna è impietoso, violento, a
volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬ zioni illustrano questo
teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a
Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il soma
inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò che
è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc.. Tra le
funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha più affinità
per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬ ra e la
conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬ sto -
come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il potere
spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬
spettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.
II, 1956, p. 110) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di
Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬ ni
Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno
che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò
non avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza
maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬
mente, la specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬
ta all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬
minio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c
mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una
co¬ stante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora
indo-iranico, ha fornito la chiave per qualche difficoltà o enigma delle
mitologie occidentali. A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e
patriottico, in cui il cosmo e le sue diverse parti richiedono attenzione
e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe,
non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La
lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i
Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue
specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”,
“dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei
giuramenti -- non è più che un aspetto di Jupiter, è vero che sembra
esservi stata tutt’altra situazione nei primordi. Certo, i due dèi erano
strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius”
che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla,
nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la
direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia
romana -- come più propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo
stesso modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione
nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono,
mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,
“summanus”. È probabile che questa teologia complessa abbia
risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso
tempo, della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la
creazione del suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade
«Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars,
Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito
imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità;
ma forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati
nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè
il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono
questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia
vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel
mondo germanico che l’analogia indiana è particolar¬ mente illuminante.
Né «Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania 90
di Tacito, né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino
a loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e
interes¬ santi, chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr.
Que¬ sto dio, omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari
di questi due o del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso,
è generalmente considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un
dio «più antico», impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia
strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i
poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio
allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le
con¬ siderazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale
a questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a
causa dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra,
teori¬ camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti
e come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini hanno
più attenzione per la sovranità magica che per quella giuridica. La
grande originalità del mondo germanico è quella segnalata da Tacito con
la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa per¬ viene a delle
considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in cui abbiamo visto
il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guer¬ riera. La stessa
cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo de¬ finisce
(Gylfaginning cap. 25). «Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È
molto intrepido e co¬ raggioso, ha un grande potere sulla vittoria in
battaglia. Perciò è bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di
alcuni, che sono più co¬ raggiosi degli altri e che non hanno paura di
niente, si dice prover¬ bialmente che sono figli di Tyr » Questa
«marzializzazione» del sovrano giurista dei Germani non è senza analogia
con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio ca¬ nonico della terza
funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle opere di pace, una
varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale ha reagito sugli dèi:
dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i Quiriti hanno
coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo tra due
appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars tranquillus,
il Mars qui praeest paci aspettando di saevire. 91
In altre condizioni, meno formali e più violente, le società ger¬
maniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di pace i
quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guer¬
riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legisla¬
tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al
contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania , 11 -13) descrive il
Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite o
battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e
deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si
regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava
non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si
approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo. Non è
dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-
dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uni¬
forme dei suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e
costante, dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo
avessero considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia sono
rivolte a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato
indoeuropeo probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel
Tyr di cui è stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli anti¬
chi luoghi del Ping. Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri
popol i, gli antichi Ger¬ mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni
questione dell’apparalo guerriero, l’analogia profonda tra la procedura
del diritto - con le sue manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie
senza appello - e il combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è
un mezzo per essere il più forte e per ottenere vittorie che spesso
eliminano l’avversario così radicalmente come in un duello. Quando si
dice che Tyr, in segui¬ to a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la
sua mano destra come pegno di un’affermazione utile ma falsa, « è
divenuto monco e non è chiamato pacificatore di uomini», non si tratta
che della controparte, del completamento morale di un fatto materiale: la
riunione del Ping in armi, con intenzioni di potenza (più che di equità)
che vede la guerra in ogni luogo. Queste indicazioni molto
generali aiuteranno a comprendere come un
Tiuz-Mars abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeu-
92 ropeo il cui dominio specifico era il diritto e il cui
carattere si è purifi¬ cato e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione
progressiva. 5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e
Bhaga vicino a Mitra Ma negli inni del Rgveda il giurista
Mitra e il magico Varuna, benché sembrino dividersi equamente il dominio
della sovranità, non sono isolati. Essi non sono che quelli più
frequentemente nominati dal gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi,
la Non-Legata, cioè la Li¬ bera, l’Indeterminata. La consi derazione dei
nomi e delle funzioni de¬ gli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle
frequenze di menzione di ognuno, frequenze dei loro diversi
raggruppamenti parziali e del loro legame con altri dèi, hanno permesso
di interpretare la struttura che di¬ segnano. Non è qui
possibile beninteso riassumere molto brevemente queste analisi e questi
calcoli, i cui dettagli sono stati pubblicati in due tempi, nel 1949 e
nel 1952. Fin dalla letteratura epica è conservato il ricordo che gli
Àditya sono dèi che, come i due principali tra loro, van¬ no a coppie e
in seguito arriveranno sino a dodici. Nel Rgveda sembra che vi sia già
stata un’oscillazione tra un’antica cifra di seie una prima estensione a
otto, per addizione di due dèi eterogenei. Di questi sei, Mitra e
Varuna formano la prima coppia; di ognu¬ na delle altre due coppie è
facile vedere che un termine agisce sul pia¬ no e secondo lo spirito di
Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agi¬ sce sul piano e secondo lo
spirito di Varuna, di modo che è legittimo e comodo chiamare queste
figure complementari «sovrani minori». Ma questa cifra di sei sembra
essere stata estratta, per ragioni di simme¬ tria, da un sistema più
breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano «vicino agli uomini»
Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario nelle
sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di questi Àditya primitivi
sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna. Il principio della stretta
associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, pro¬ vato dalle statistiche delle
menzioni simultanee, è semplice: ognuno di questi dèi esprime e precisa
lo spirito di Mitra su ognuna delle due province che i nteressano 1 ’
uomo, quelle che il diritto romano ritroverà con un altro orientamento,
più individualista, distinguendo le perso- nae e le res.
93 Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il
tono e il modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo,
regolare, orientato verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la
società degli uomini ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui
nome si¬ gnifica propriamente parte, assicura la distribuzione e il
godimento regolare dei beni degli Arya. 6. Aryaman
Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no politi¬
camente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li protegge non
in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli aspetti
principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti: 1 )
Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrat¬ tuali tra
Arya. È il «donatore», protegge il «dono» (il che lo obbliga a
interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme
complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der
Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto di
farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il
resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matri¬
moni: c pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti
(subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciul¬ la
giovane o una donna per il celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬
zione per i cammini e per la libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui
il cui cammino non può essere interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬ re
negata o minimizzata come è stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c P.
Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di strofe di inni e da un
lesto liturgico che lo definisce come il dio che permette al sacrificante
«di andare ove e^li desidera» e di « circolare felicemente » ( Tait-
tir.Samh., II-, 3, 4, 2). 2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha
anche un aspetto litur¬ gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la
prima volta la Vacca mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si
tiene a fianco dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV,
1,139,7, col commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9)
di espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle
libagioni (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi
dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di un’altra forma di
servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea con¬ servi un
ricordo molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo Aryaman
presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiari¬ sce
abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli ante¬ nati
morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la
felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che porta
presso i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno
praticato esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è
chiamato «il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata , XII, 776 etc.). 7.
Bhaga Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a
lui che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una
par¬ te (RV , VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo
no¬ minano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha
per¬ messo di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste
alla metà dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è
regolare, prevedibile, senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di
gesta¬ zione (il bambino pronto perla nascita «rut> giunge Usuo
bhd^a»: RV, V, 7, 8); essa è il risultalo di un’attribuzione senza
rivalità, implicante un sistema di distribuzione (verbi; vi-bhaj-,
vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è acquisita e conservata
nella calma, è la retribuzione degli uomini maturi, assennali, seniores,
opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97, 44). L’altra
varietà della parte, imprevedibile, violenta, «varunica», che si
conquista con la battaglia o con la corsa, è designata da un’altra parola
che sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza combattiva e che ha
giustamente fornito ai teologi vedici il nome del «sovrano minore
varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa. 8. Trasposizione zoroastriane
di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i Abbiamo la certezza che
questa struttura era già indo-iranica: come in Iran la lista degli dèi
canonici delle tre funzioni è stala subli¬ mata dallo zoroastrismo puro
in una lista di Entità che gli corrispondo¬ no termine per termine (vedi
II § 8); così gli dèi sovrani minori asso- 95
ciati a Mitra hanno prodotto due figure complementari non comprese
nella lista canonica delle Entità, ma vicine, le cui statistiche dei
ruoli mostrano l’affinità esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di
tutte e due rispetto a Vohu Manah (sostituito di *Mitra); e anche nei
testi in cui questo dio ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo
lega ad Asa (sostituto di *Varuna). In più, per il loro nome come per la
loro funzione, queste due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina ,
e Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman
o da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile vedere punto per
punto che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che Aryaman era per
la comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la nazionalità.
1) H. S. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione
«derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore» sarebbe più esatto
ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è «capo nel mon¬ do
materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale» {Greater
Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria, 1957, XXVI, 45, p. 219) presiede
all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e già indo-iranico; cf.
persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando è concessa, si sa,
all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14 e 34). Se
non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze ma¬ trimoniali e
della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua azione sociale
sulle anime è precisata: egli è il patrono della grande virtù della vita
in comune, di quella che assicura la coesione, cioè la giusta misura, la
moderazione ( Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il me¬ diatore e il garante
del famoso patto concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14) e il demone
che gli è personalmente opposto è il terribile Aesma, il Furore,
distruttore della società ( Bundahisn XXXIV, 27). Rimane una
precisa traccia mitica della sostituzione di Sraosa a un dio protettore
degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è lui il signore e il re
del paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam vaèjò), quel soggiorno
degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli Iranici ( Vidèvdat ,
I, 3). 2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente
amplificato in Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a
sacrificare e cantare gli inni e tutto l’inizio del suo Yast (XI, 1-7),
unicamente consacrato 96 all’elogio della
preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti- fica per questo
ricordo. Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del
supremo combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote
assistente nel sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante
principale (.Bunclcihisn , XXXIV, 29). 3) Infine, come
l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della dimora in cui vanno -
attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti che hanno correttamente
praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬ lo decisivo nelle notti
che seguono immediatamente la morte: egli ac¬ compagna e protegge l’anima
del giusto sui sentieri pericolosi che la conducono al tribunale dei suoi
giudici, di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.).
Asi è sempre una «distribuzio¬ ne» come lo era Bhaga ma la nuova
religione, che conferisce più im¬ portanza all’aldilà che al mondo dei
viventi, gli domanda soprattutto di vegliare sulla giusta «retribuzione»
post-mortem degli atti buoni o cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle
Gàthà, c palesemente nei testi post-gathici, pur badando in avvenire al
tesoro dei suoi meriti, non di¬ mentica nella vita terrestre di
arricchire l’uomo pio c di riempire la sua casa di
beni. L’analisi di questa concezione, già indo-iranica, della
sovranità che non altera la grande bipartizione ricoperta dai nomi di
Mitra e Va- runa, ma dona solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano
a favorire il popolo arya, illumina una particolarità della religione
romana di Ju- pitcr che sfortunatamente è conosciuta solo nella forma
capitolina di questa religione. Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la
sovranità, sia quella «diale» che quella propriamente «gioviana» (vedi
sopra § 3), ospitava in due cappelle del suo tempio due divinità minori,
Juvenlas e Terminus. Una leggenda giustificava la
coabilazione singolare di questi tre dèi facendola risalire alla
fondazione del tempio capitolino, ma questa leggenda (che utilizzava del
resto un vecchio tema legalo al concetto di Juvenlas) non prova
evidentemente che l’associ azione fosse più antica. L’analogia
indo-iranica ci incoraggia a considerarla come preromana.
97 Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società
romana, Ju- ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli
compara¬ bili a quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas,
dice la leggenda eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la
sta¬ bilità sul suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la
du¬ rata e Bhaga la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse,
fuori da questa leggenda, le due divinità romane sono molto di più di
tutto que¬ sto: Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più
interes¬ santi per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va
della socie¬ tà; Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni,
dei beni sopratutto immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non
delle greggi erranti che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani
vedici costituivano la ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un
tale schema di sovrani minori non si è ancora lasciato identificare, al
momento. Non è che intorno a Ódinn non vi fossero degli dèi che, secondo
il poco che si sa di loro, non aves¬ sero avuto l’incarico di esercitare
dei frammenti specializzati della so¬ vranità, ma queste specificazioni e
l’analisi della funzione sovrana che suppongono sono originali e i loro
rappresentanti non hanno omo¬ loghi indo-iranici e neppure romani. Vi è
Hoenir, riflessivo e prudente e che secondo la fine della Vòluspó è
proiezione mitica di una sorta di sacerdote; vi è Mimir, consigliere di
Ódinn, ridotto a una testa che ri¬ mane pensante e parlante anche dopo la
sua decapitazione; oppure Bragi patrono della poesia e
dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili
e Vé, sicura¬ mente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si
allittera in scandi¬ navo che con una forma preistorica del suo nome
(*Wòt>anaz), ma si conoscono troppo pochi dati per interpretare questa
triade e tutt’altra soluzione sarà proposta più avanti. 11.
Condizioni dello studio teologico della seconda e TERZA
FUNZIONE I procedimenti di analisi e di statistica che hanno
permesso di dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente
e 98 poi progressivamente nell’organizzazione
intema della teologia della prima funzione - non sono applicabili agli
dèi delle funzioni inferiori e al momento non si è riusciti a trovare un
punto di contatto. Senza dub¬ bio questa differenza è propria della
natura delle cose; per i suoi stessi concetti (i nomi dei personaggi
divini sono in gran parte etimologica¬ mente chiari e molti sono delle
astrazioni animate) la prima funzione si prestava facilmente alla
riflessione psicologica e non bisogna di¬ menticare che i primi filosofi,
appartenenti al personale di questa fun¬ zione, erano dei sacerdoti e non
potevano evitare di applicarvi con pre¬ dilezione la loro analisi. La
controparte è che nel Rgveda questa teologia così ben sviluppata non si
raddoppia in una mitologia ricca in proporzione: di Mitra non è quasi
«raccontato» niente; di Varuna si dice molto di più, ma la lista delle
scene in cui interviene è ridotta e in generale si tratta di potenze e
qualità degli dèi sovrani più che della loro storia, del loro tipo
d’azione piuttosto che di azioni precise com¬ piute da loro.
Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e
prosperità si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichia¬
razioni di principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei
famosi benefici che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi
tauma¬ turghi. Così queste due province divine sono più adatte a degli
svilup¬ pi mitologici che a una messa a fuoco teologica; o forse è meglio
dire che la dottrina si abbellisce, si dissimula e si altera sotto il
rigoglio dei racconti. Per il comparatista questa differenza
comporta grandi conse¬ guenze. Senza che questo fatto capitale sia stato
ancora pienamente enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il
confronto delle re¬ ligioni vedica e romana il più adatto a stabilire o
suggerire, grazie al conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei
comuni, mentre la religione scandinava non interviene che a titolo di
conferma dopo che il percorso comune è già stato riconosciuto e
assicurato. Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione
romana pre¬ senta ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento
«Jupiter Mars, Quirinus» o nel raggruppamento trasversale di «Jupiter,
Juven- tas, Terminus», essa ha registrato coscientemente delle
articolazioni concettuali molto chiare. Sfortunatamente bisogna altresì
aggiungere che la religione romana non è più che una teologia: per un
processo radicale che caratterizza Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo
gli dèi sovrani, ma anche Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati
spogliati di ogni racconto e limitati asceticamente alle loro essenze,
alla loro pro¬ pria funzione. Se dunque (per la determinazione del quadro
generale tripartito e per l’esplorazione dei primo livello) il confronto
di una teo¬ logia vedica facilmente determinabile, e di una teologia
romana im¬ mediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti
coerenti, c sem¬ pre più completi che si sono appena letti, la stessa
cosa non avviene quando si passa ai due livelli seguenti.
India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della pro¬ pria
natura che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino non corrispondono,
se non per mezzo della loro scarna definizione c per ciò che è possibile
intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sa¬ cerdoti: i documenti
e i linguaggi delle due religioni che sono i princi¬ pali sostegni del
comparatista non si combinano più. 12. Mitologia ed epopea
La difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro
fallo, ancora più importante per i nostri studi, di cui i precedenti
capi¬ toli del presente libro hanno già discretamente fornito qualche
esem¬ pio. Le idee di cui vive una società non danno luogo solamente a
delle speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La teologia e
la mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche», dall’epopea in
cui degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che
gli dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da loro.
Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epo¬
pea di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei
suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale con
l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine dello stesso popolo.
Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa felice circostanza
gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è stata da me ricono¬
sciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio col¬
lega svedese Stig Wikander. Da una parte, la più grande epopea
indiana, il Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un insieme di eroi che
corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della
religione vedica e pre¬ vedrà, di modo che l’India presenta, con questo
enorme poema c col Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due
differenti bisogni e con sensibili varianti, alla sua «ideologia in
immagini». Dall’ altra par¬ te, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia
e ha ridotto i suoi esseri teologici alla loro scarna essenza, ha
conservato al contrario, per costi¬ tuirla in seguito, la storia
meravigliosa e ragionevole delle proprie ori¬ gini, un antico repertorio
di racconti umani, colorati e molteplici, pa¬ ralleli a quelli che
avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le raccolte mitiche degli
dèi. Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in
storia da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea prero¬
mana e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe per¬ duto
senza traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra tesi possono
trovare argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparati¬ sta
questa discussione non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito Livio
contiene una materia ideologicamente conforme al sistema de¬ gli dèi
romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla mito¬ logia
dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui dettagli
delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza fun¬ zione è
dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro
comparativo. 13. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S.
Wikander Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il
Mahàbhdra- ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo
di cinque fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti
notevoli pre¬ sentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti
c cinque, Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo
regime di poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya
ma attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito
per più di un se¬ colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito
la soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di
tutto l’intrigo del poema. In realtà i «figli di Pàndu» non
sono i suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo condanna a
morte nel momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si assicura una
posterità con un procedimento eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in
seguilo ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito:
le era sufficiente in- 101 vocare un dio perché
questo sorgesse immediatamente davanti a lei e le donasse un
figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque in successione
di¬ versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma,
«la Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio concetto
del giu¬ rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.
I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo
marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di
questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende
dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati i due
inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ulti¬ mi dei
cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò ben presto
che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin -
riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi
dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che
rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al
secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora
più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri
doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni
epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira è il re,
mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬ gli ausiliari; un re giusto,
virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù guerriere,
come si conviene a un rappresentante della «metà di Mitra» della
sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme.
Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori
dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la
grande vir¬ tù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente
le due classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve
immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza
aberrante ma della trasposizione epica della concezione vedica,
indo-iranica e pri¬ ma ancora indoeuropea, che completa la lista degli
dèi maschi, tra i quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni,
con una dea unica ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la
vedica Sarasvatl che comprende in se stessa la sintesi delle tre
funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due
gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125
formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl):
«Sono io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che
sosten¬ go i due Asvin», o che ancora si ritrova nella triplice
titolatura (con un’ulteriore specificazione della terza funzione) della
principale dea dell’Iran, «l’Umida, la Forte, l’Immacolata». Questa
scoperta è stala il punto di partenza di un’ esplorazione di tutto il
poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la grande battaglia) ed
è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi: per la sua
abbondanza, la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione epica
permette, partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e dalle
molte rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più avanzato
di quanto non lo permettesse l’originale mitologico cono¬ sciuto
sopralutto dalle allusioni dei testi lirici. D’altra parte, sin dal suo
articolo del 1947, Wikander ha stabilito un punto molto importante: la
struttura mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti più
arcaica di quella del Rgveda poiché conserva dei tratti sfumali in questo
innario ma che le analogie iraniche provano come fosse in¬ do-iranica.
Per tale ragione uno dei primi servigi apportati da questo nuovo studio è
stato quello di rivelare nella funzione guerriera una di¬ cotomia che il
Rgveda ha quasi completamente dimenticato a tutto vantaggio di Indra.
Infatti, come è già stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬
ola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di due
tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju- na,
rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una parte dei
caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a Vàyu per un
periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬ bili in
qualche parola. L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana
dotato di un vi¬ gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le
sue braccia, pro¬ lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la
clava. Non è bello né brillante, non è molto intelligente c si abbandona
facilmente a disa¬ strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso
da solo, fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per
cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei
geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo
compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle armi
perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno spe¬ cialista
delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprat¬ tutto
socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e generalissimo
naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è conosciuta
anche dall’epopea iranica, nel¬ la persona del brutale Kó>rasàspa
armato di mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più
seducente come ©raètaona. In Grecia ricorda l’opposizione
tipologica di Ercole e Achille, ma soprattutto permette di dare una
formulazione più precisa, in Scan¬ dinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr
e più in generale a quelli della pri¬ ma e seconda funzione. E stato
segnalato, nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una parte
importante della funzione guerriera. Vediamo ora che si tratta
principalmente (senza che la discriminazio¬ ne sia rigorosa: è Pórr che
al pari di Indra rimane il dio tuonante dello sconvolgimento atmosferico)
della parte che presso gli Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra,
mentre la parte di *Vàyu era piuttosto quella di Pórr, il brutale
picchiatore e l’avventuriero delle spedizioni solitarie contro i giganti.
Tuttociò appare ancora più chiaramente se si considerano nell’ epopea gli
eroi che corrispondono a ciascuno di que¬ sti dèi: gli eroi odinici come
Sigurdr, Helgi e Haraldr sono belli, lumi¬ nosi, socievoli, amati e
aristocratici, mentre l’unico «eroe di Pórr» co¬ nosciuto dall’epopea,
Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un gigante ridotto da Pórr a
forma umana, arcigno, brutale, errante e soli¬ tario, vera replica
scandinava di Bhlma o Ercole. 16. Caratterizzazione funzionale dei
Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente
consape¬ voli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle
rappresentazio¬ ni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro
diverse maniere di reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due.
Nel momento in cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto
esilio che avrà fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno
la loro rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il
volto col suo abito per non rischiare eli bruciare il mondo col suo
sguardo corrucciato». Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non
vi è uomo ugua¬ le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le
sue braccia, inor¬ goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare
contro i nemici un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna
sparge la sabbia «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce
scoccate contro i nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è
un’ altra: Nakula, il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le
membra di cenere dicen¬ do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia
strada il cuore di una donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo
si imbratta il viso (II, 2623-2636). All’inizio dei libro IV (23-71
e 226-253), i cinque fratelli scel¬ gono un mascheramento per soggiornare
in incognito alla corte del re Virata: Yudhisthira, eroe della prima
funzione, si presenta come un brahmano; il brutale Bhlma come un
cuoco-macellaio e un lottatore; Arjuna, coperto di braccialetti e
orecchini, come un maestro di danza; Nakula come un palafreniere esperto
nella cura dei cavalli malati, mentre Sahadeva come un bovaro, informato
di lutto ciò che riguarda la salute e la fecondità delle vacche.
Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono
interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬
ne nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato
l’importanza del criterio qui rivelato. Sempre restando prima di
tutto degli abili medici che ignorano l’agricoltura (il che ci porta a
far risalire indietro di molto questa con¬ cezione), Nakula e Sahadeva si
dividono le due principali province deH’allevamento, riservandosi
rispettivamente l’uno la protezione delle vacche e l’altro quella dei
cavalli, che nel Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome collettivo,
Aévin, un derivato di àsva, «ca¬ vallo». Abbiamo così il
primo modello delle formule che si osservano anche altrove a proposito
degli omologhi funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad
esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie
all’interno del genere «sa¬ lubrità», sotto le acque e le piante; così
pure, almeno parzialmente, tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la
distinzione nell’uniforme be¬ neficio dell’«arricchimento» si compie
secondo le due fonti della ric¬ chezza, il mare e la terra.
Si nota qui chiaramente come la considerazione dell’epopea metta in
risalto dei tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il
travestimento di Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è
arcaico e di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il
«danzatore» e i suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut che si
adorna il corpo di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da cavi¬ glia
che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti. Comune alle più
vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo tratto è certa¬
mente da riconnetlerc all’insieme del «Mànnerbund» indo-iranico. E forse,
nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia intrave¬ dere
un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda la
morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste sul
carattere «effeminato» del travestimento scelto da Arjuna. 18.
Pàndu e Varuna Progressivamente sono stale individuate altre
corrispondenze tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c
prevedica, sem¬ pre con lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione
ampia e continua, facilita in ogni caso l’analisi che, al contrario, c
infastidita dal lirismo degli inni c dalla loro retorica
dell’allusione. Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia
assente dalla trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore,
inattuale, morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina,
diviene re. Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del
suo figlio maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri
originali e im¬ probabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono
anche a Varuna; a uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu
significa «pallido, gial¬ lo chiaro, bianco», e infatti un incidente di
nascita, o meglio, del con¬ cepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la
pelle insanamente pallida o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi
rituali come sukla «bian¬ chissimo» e atigaura «eccessivamente bianco».
L’altro aspetto c di più ampia portata: Pàndu c condannalo
all’equivalente dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti
perirà) se compie l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze
diverse ( AV , IV, 4, 1 : rituale della consacrazione regale) è
presentato come uno divenuto momentaneamente impotente, devirilizzato
(evirazione che si fa a vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il
mito importante del greco Urano castrato dai suoi figli). Il
lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che Wikander speriamo di
estrarre da questa riserva importante del materiale abbon¬ dante e
abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e difficoltà che sono
ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per fornire alla rico¬
struzione indoeuropea degli elementi privi di ambiguità.L’epopea romana ha
utilizzato in altra maniera l’ideologia delle tre funzioni insieme alle
loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano non sono più dei contemporanei,
dei fratelli semplicemente gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e
progressivamente costituiscono Roma. Non si succedono però nell’ordine
canonico ma in un altro or¬ dine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2)
sovrano «gioviano» se¬ mi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione
del tipo di Varuna) e poi sovrano «diale», umano, pio, regolatore (prima
funzione del tipo Mi¬ tra); 3) infine, un re strettamente guerriero
(seconda funzione). In più, il sovrano gioviano non è altro che uno dei
due gemelli sopravvissuto alla coppia ma profondamente trasformato.
Questa doppia singolarità schiude nuove prospettive all’inchiesta
comparativa ma inizialmente considereremo i rappresentanti delle due
prime funzioni che non implicano problemi inediti. 20. Romolo
e Numa e i due aspetti della prima funzione Nella tradizione
annalistica i due fondatori di Roma, Romolo e Numa, formano un’antitesi
abbastanza regolare, sviluppata nello stes¬ so senso di quella di Varuna
eMitra nella letteratura vedica. Ogni cosa si oppone nel loro carattere,
nei loro fondamenti e nella loro storia, ma in un’opposizione senza
ostilità: Numa completa l’opera di Romolo donando all’ ideologia regale
di Roma il suo secondo polo, necessario quanto il primo. Quando nel
VI canto d t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬ senta tutti e due in
qualche verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e 808-812), definisce
Romolo come il bellicoso semidio creatore di Roma e, grazie ai suoi
auspici, l’autore della potenza romana e della sua Crescita continua (et
huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe- rium terris, animos
aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote portatore di oggetti
sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda Roma donandogli delle
leggi, legibus. Tutto si ordina intorno a questa differenza -
«l’altro mondo e questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha
l’iniziativa, equili¬ brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo
non fa che decifrare il linguaggio miracoloso di Giove. Si
verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di sovrani
ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e Mitra
(vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella
genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del
mondo. Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo,
quando spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del
regno, una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a
Romo¬ lo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è
stato nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione
particola¬ re della divinità; io, al contrario, sono di una razza
mortale, sono sta¬ to nutrito e allevato da uomini che voi
conoscete». I loro modi di azione non differiscono di molto e la
differenza si esprime in maniera sorprendente in ciò che si possono
chiamare i loro dèi prediletti. Romolo stabilisce solo due
culti che sono due specificazioni di Jupiter - quel Jupiter che gli ha
donato la promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius e Jupiter Stator
che si accordano nel fatto che Giove è il dio protettore del regnum, ma
relativamente ai combattimenti e alle vittorie; e la seconda vittoria è
dovuta a una prestidigitazione sovrana di Giove, a «un cambiamento di
vista» contro il quale nessuna forza può niente e che capovolge l’ordine
normale e consueto degli avveni¬ menti. Al contrario, tutti gli autori
insistono sulla devozione particola¬ re che Numa rivolge a
Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è sentimento
più elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che
nei rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità
Numa, il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides
Publica e istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli
delle altre divi¬ nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il
primo a costrui¬ re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più
grande giuramen¬ to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa
distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità sovrane
antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due
dèi si oppone allo stes¬ so modo: Romolo è un violento, descritto dagli
annalisti come un ti¬ ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con
dei tratti sicura¬ mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice
Plutarco ( Romolo , 26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa
della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto
quello che lui ordinava di arre¬ stare». A questo sovrano, così
materialmente «legatore» come Varu¬ na, si oppone il buono e calmo Numa,
la cui prima iniziativa una volta di venuto re fu quella di sciogliere il
corpo dei Celeres e come seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Tito
Livio, I, 20) i tre flamines maio- res. Numa è privo di ogni passione,
anche di quelle sti mate dai barbari, come la violenza e l’ambizione
(Plut. Numa, 3, 6). Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte
per la funzione guerriera, quelle dell’altro per la funzione di
prosperità. Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre
trionfi, prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16,
7). Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla
guerra (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del
suo re¬ gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo
una va¬ riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle
forme che im¬ pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso,
II, 72; Plu¬ tarco, Numa, 12, 4). Distribuisce ai cittadini
indigenti i territori occupati da Romolo «per sottrarli alla miseria,
causa quasi necessaria della perversità, e per spingere verso l ’ag
ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-,
divide tutto il territorio in vici, con ispettori e com¬ missari che lui
stesso controlla « giudicando i costumi dei cittadini in base al lavoro,
premiando con onori e poteri coloro che si distinguono perla loro
attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligen¬ ze» (Plut.
ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe comunque
proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli an¬ nalisti si
sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione tra i due re,
l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da que¬ sti)
senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto
piamente dai senatori, antenato di numerose genti. Delle pretese
gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno potuto introdurre più
di un dettaglio e in di verse epoche in queste «vite parallele inverse» e
sicuramente in quella di Numa. Ma è chiaro che queste stesse
innovazioni si sono uniformate a un dato tradizionale, la cui intenzione
era di illustrare due tipi di re, due modelli di sovranità, quelli stessi
conosciuti dall’India sotto i nomi di Varuna e Mitra. 21.
Tullo Ostilio e la funzione guerriera Dopo la funzione sovrana la
funzione guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise
presenta ad Enea ( En . VI, 815) come colui «che riporterà alle armi, in
arme, i cittadini divenuti casa¬ linghi e disabituati ai trionfi». Arma,
come auspicia e sacra per i suoi predecessori, segnala qui l’essenza del
suo carattere e della sua opera: militaris rei institutor dirà Orosio e
prima di lui Floro: «La regalità gli fu conferita in base al suo
coraggio: è lui che ha fondato tutto il siste¬ ma militare e l'arte della
guerra; di conseguenza dopo aver esercitato in maniera sorprendente la
iuventas romana osò provocare gli Alba¬ ni». 22.1 miti di
Indra e la leggenda di Tullo Ostilio È in questo caso che il
confronto tra l’epopea romana e la mito¬ logia ha dato ( 1956) i
risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo studio dettagliato
della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo confronto della
teologia esplicita non lasciava intravedere che i mag¬ giori aspetti:
nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi
solidali che costituiscono la «storia» di Tulio - la vittoria del terzo
Orazio sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salva¬ no Roma
del pericolo che correva il suo nascente imperium, uno per la
subordinazione di Alba, l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da
vicino i due principali miti di Indra che la tradizione epica presenta
spesso come conseguenti e solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita
sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è possibile qui che mettere in un
quadro schematico le omologie, pregando il lettore interessato di
riportarsi al libro in cui gli argomenti e le conseguenze sono lunga¬
mente esposti. A, a) (India). Nell’ambito della loro rivalità
generale coi demo¬ ni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a
tre teste che è tut¬ tavia il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il
cugino germano degli dèi (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre,
brahmano e cappellano degli dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il
terzo» dei tre fratelli Àptya, a uccidere il Tricefalo e Trita in effetti
lo uccide, salvando gli dèi. Ma quest’atto, morte di un parente, di un
alleato o di un brahmano, com¬ porta un’impurità che Indra scarica su
Trita o sugli Àptya che la liqui¬ dano ritualmente. Da allora gli Àptya
sono specializzati nell’eli¬ minazione delle diverse impurità e in
particolare, in ogni sacrificio, di quella che comporla l’inevitabile
messa a morte della vittima. b) (Roma). Per regolare il lungo
conflitto in cui Roma e Alba si disputano Vimperium, le due parti
convengono di opporre i tre gemelli Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno
dei quali è fidanzato a una sorella degli Orazi e che, anche nella
versione seguita da Dionigi di Alicar- nasso, sono cugini germani degli
Orazi). Nel combattimento ben presto non rimane che un Orazio,
ma questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a
Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini rischia di
produrre un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché i Curiazi
hanno accettato per primi l’idea del combattimento, la responsabilità
cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare è
ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel
racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto
per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare
quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio:
la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle
campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni
riguardavano (da là la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a
Roma, macchiati dalle inevitabili morti della battaglia. B,
a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude un patto di
amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di giorno né di
notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfit¬ tando a
tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato messo dal padre
del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi at¬ tributi: forza,
virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso gli dèi canonici
della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬ dono la sua
forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data pur
violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando non è né
giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca né umida). Indra
sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita in maniera bizzarra,
«burrificando» la sua testa nella schiuma. b) (Roma). Dopo la
disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani, Mezio Fufezio, si pone in
Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della convenzione. Ma
segretamente tradisce il suo alleato e durante la bat¬ taglia contro i
Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scopren¬ do il fianco
dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti alla divinità
della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché al corrente
del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e convoca al
pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là sorprende
Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella storia di
Roma, lo squartamento. 23. Rapporti della funzione guerriera con le
altre due Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una
filosofia della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione
guerriera, che si esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti
di questa l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio;
e con l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non rispetta
affatto e che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei
pericoli, come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi
questa azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di
Indra e Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della funzione
sovrana non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni
vedici in cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere
la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono
Ódinn e Pórr in un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno
scandalo vi¬ vente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la
ten ibile vendet¬ ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende
contro questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo
tempo. Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia
a continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una
lunga malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8): «lui, che
fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che
applicare il proprio spirito alle cose sacre, improv¬ visamente si
abbandonò a tutte le superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra
il popolo delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬ so consultando i
libri di Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬ greti in onore
di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia all’inizio che
nel corso della cerimonia commise un errore rituale, di modo che, invece
di veder comparire una figura divina, irritò Jupiter con un'evocazione
mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la sua casa»
Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬ ché
egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che
più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era
l’unica a onora¬ re, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei
tempi delle sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella
persona di Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re,
che abbia¬ mo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della
sua car¬ riera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus.
Questa differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione,
nella disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora
di es¬ sere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa di suo
fra- 113 tello, per diventare il re
prestigioso, creatore, terribile, tirannico e isti¬ tutore di quegli
uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte a «legare» nel senso
letterale del termine, al pari del suo omologo del pantheon vedico,
Varuna, armato di lacci. La corrispondenza tipologica dei gemelli
dell’epopea romana e degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la
lista trifunzionale indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da
Alba, e alla fondazio¬ ne dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori
allevati da un pastore, vivono una vita esemplare da pastori messa in
risalto solo da un gusto marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In
questa definizione pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione
romana (scomparsa del carro da guerra) ha eliminato la «parte del
cavallo» (in evidenza nella parola ASvin), non rimane quindi che la
«parte del bue e del montone», per si¬ tuare maggiormente Romolo e Remo
nell’economia rurale. I Nàsatya, come si ricorderà, sono
inizialmente tenuti a distanza dagli dèi perché troppo «mescolati agli
uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5, 14, etc.) e nella letteratura posteriore
saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più
basso e fuori-casta, in rapporto alla società ordinata. Così
vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi è in essi niente
di «sovrano», nessun rispetto per 1 ’ ordine. Devoti ai più umili,
disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del re
(Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta
sarà un gruppo di pastori (Tito Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬
genti o schiavi (Plutarco, Romolo , 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬
polazione dell’Asilo ( ibidem , 9, 5). Sono raddrizzatori di torti:
come i Nàsatya passano il loro tem¬ po a riparare le ingiustizie degli
uomini o della sorte. Essendo sempli¬ cemente degli dèi i Nàsatya compiono
le loro liberazioni, restaurazio¬ ni e guarigioni per mezzo di miracoli,
mentre Romolo e Remo non possono ricorrere che a mezzi umani per
proteggere i loro amici contro i briganti, ristabilire nei loro diritti i
pastori di Numitore maltrattati da quelli di Amulio e, finalmente, punire
Amulio. Uno dei più celebri ser¬ vigi dei Nàsatya, origine della loro
fortuna divina, è stato quello di aver ringiovanito il vecchio decrepito
Cyavana; la grande impresa di Romolo e Remo, origine della fortuna del
primo, fu allo stesso modo quella di aver riabilitato il loro vecchio
nonno che era stato privato del¬ la regalità di Alba. I due
Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬ sieme ma
tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬ da quella
dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬ glio di
un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma
considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua
carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬
no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬
tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II
395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex
illis iste vigoris habet ...» Certe azioni estranee ai Nàsatya -
mal conosciute come tutta la loro mitologia - sembrano ricordare dei
tratti della leggenda di Romo¬ lo e Remo, talvolta solo con una
inversione (protettori e non protetti) che testimonia come essi siano
degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬ ni. Uno dei servigi frequenti
dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità delle donne e delle femmine;
ora, Romolo e Remo sono i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è
di rendere madri le donne romane con la flagellazione (una leggenda
eziologica, che pone l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma
c il ratto delle Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far
cessare una sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un
essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei
Nàsatya: un giovane uomo ave¬ va sgozzato cento c un montoni per nutrire
una lupa e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera
della lupa i gemelli divi¬ ni resero la vista allo sfortunato. Nella
storia di Romolo e Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto
nutrita ma come nutrice che la lupa occupa il posto eminente che ben si
conosce. Nei riti e nelle leggende dei Luperci (Ovidio, Fasti, II,
361-379), nel racconto sulla giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco,
Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo considerevole; ugualmente le
corse in carro ncl4 mitologia degli ASvin. Un aspetto
sfortunatamente oscuro della festa rustica di Palcs (il «cavallo
mutilato», curtus equos), come pure il concetto stesso del¬ la dea
«Pales», così strettamente legato a Romolo e Remo e alla fonda¬ zione di
Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in for-
ze la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza
funzione e anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe.
Questo confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro
carriera «preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente
ai Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa
corri¬ spondono a Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo
muore verrà deificato sotto il nome del dio canonico della terza
funzione, Quirino, ritornando quindi al suo valore primigenio e, sia
dello di sfuggita, questa notevole convergenza spinge a rivedere l’idea
gene¬ ralmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino sia
secon¬ daria e tardiva. 25. La terza funzione, fondamento
delle altre due Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni
nell’epopea delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello
stesso Romolo da «Nàsatya» in «Varuna», queste non sono senza paralleli c
rivelano un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo
avuto occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto
cer¬ to che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno
essa è il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero
maghi e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella
leggenda iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e
eccessivo sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente,
nella primaparte della sua vita, un buon «eroe della terza funzione» dai
ric¬ chi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne
l’uomo né la bestia né le piante ( Yust , XIX, 30-34). Nell’epopea osscla
(vedi sopra I § 4), i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il
secondo uc¬ cide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la
famiglia degli i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri)
che sono usciti se¬ condo certe varianti dalla razza di «Bora», cioè dai
Boratae (una fami¬ glia di ricchi). È la stessa filosofia che
si esprime nei rituali indiani sulla stessa area sacrificale: devono
essere riuniti tre fuochi corrispondenti alle tre funzioni; un fuoco che
trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che difen¬ de contro i demoni e
un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo presenta i caratteri di un
«fuoco vatéya» che è il fuoco fondamentale acceso per primo e che serve
per accendere gli altri. 26. Sviluppo della ricerca
Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui
sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna
delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo si è
l'at¬ to penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si
batte ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure
or¬ dinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzio¬
ni, delle reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio
compreso e generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anterio¬
ri. Prima di prendere congedo la guida deve ricordare che, per impor¬
tante o centrale che sia l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi
dal costituire tutta l’eredità indoeuropea comune che l’analisi compa¬
rativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero di altri cantieri
più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi iniziali», sulla dea Au¬
rora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle
varietà del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti
fondamentali del pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la
comparazione dei fatti indo-iranici e romani, ha già permesso c
permetterà di ricono¬ scere delle coincidenze che è difficile attribuire
al caso. Note ai paragrafi § 2. La struttura bipolare
della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo III di NA studia i fatti
iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ulti¬ mi la critica di
W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz.., 1954, p.
963, non regge; non più dei poeti del Riveda per Mitra e Varuna, quelli
delle Gàthà avevano la preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte
circostan¬ ze, di caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa;
questo è vero per lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina
contemporaneamente le due Entità esattamente come RV, V, 69, in cui ogni
strofa nomina simultaneamente i due dèi senza cercare di distinguerli.
Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu Manah and thè
Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova prospettiva vedi
MV, cap. V, § v (da correggere dopo WlDEN¬ GREN, Numen, I, 1954, p. 46,
n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre , 1948, pp. 87-93; da S.
WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952, pp. 66-68 (sul Mesoromazdés di
Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon F
oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna , I ( Varuna linci die
Was- ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro
comparativo. § 3. MV, cap. IV. § 4. MV, cap. VII: si
hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, 1957,
§§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§ 19-20) «Die altgerm.
Religion», col. 2485-2498. § 5. Le troisième souverain, essai sur
le_ clieu indo-ircuiien Aryaman, 1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre
degli Aditya, in quanto «madre e fi¬ glia» di uno di essi, vedi Déesses
latines et mythes védique , 1956, cap. III. Ri¬ fiutando e caricaturando
in ZDMG, 117, 1957, pp. 96-104 la rettifica che avevo proposto alla sua
interpretazione (1938) di ari (non importa quale «Fremdling», ma già con
una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del mondo arya - alleato o
avversario), P. THIEME compie il tour de force di di¬ scutere senza
menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale di questa
rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo,
etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e
detta¬ gliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò
successivamente questa curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme
userà più fair play nello studio che sta preparando, mi dicono, su
«Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice). § 6. DIE, pp. 50-51,
riassumendo Le troisième souverain. § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli
Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58. § 8. DIE, pp. 59-67; K.
Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215. § 9. DIE, pp.68-75. Per
Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo celtico: come
Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬ re di Jupiter
O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio, così
l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio protettore della
gio¬ ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda
e si fa concedere «un giorno e una notte », poi arguendo che il giorno e
la notte fanno la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro
del luogo («Jeunessc, éternité, aube», Annales d’histoire économique et
sociale , 1928, pp. 289-301. § 10. DIE, pp. 76-77.
§ 11. Vedi la prefazione di Aspects... § 12-24.1 servigi che
bisogna richiedere alla pseudo-storia delle origini romane comparata con
la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben pre¬ sto riconosciuti:
JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces, 1942, pp. 65-70; Ser- vius et la
Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in
«Mythes romains», Revue de Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in
cui I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza
dubbio tra il 350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono
inseriti), vedi L’héritage..., p. 181, n. 49. § 13.
L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S.
WlKANDER in un suo articolo fondamentale, «Pandava-sagan och
Mahàbhàratas myliska fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947
pp. 27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp.
37-85; cf. WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la
Perse et de l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio germanico un
caso paralle¬ lo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr)
è stato studialo in La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du
mythe au roman, 1953. Mentre il presente libro era in stampa, in
Orientalia Sue vana, sotto il ti¬ tolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER
faceva considerevolmente avanzare l’analisi dei gemelli epici e divini
(vedi sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...»,
pp. 33-36; è il risultalo dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des
altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317; di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini
alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S. WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV
ha riconosciuto il dio indo-iranico * Vayu nel nome generico dei
«giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse- ti, weijug (da
*Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956, pp. 450-457, che io
ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des
Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352. § 15. Aspects..., pp. 9, 70,
80. § 16. JMQ IV, p. 56. § 17. «Pàndava-sagan...», p.
36; JMQ IV, pp. 59+60, 67-68. § 18. Pandu come trasposizione di
Vanina, vedi JMQ, IV, pp. 77-80. La trasposizione di un mito vedico
(duello di Indra c del Sole, la ruota del carro del Sole «infossata») è
stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna, fratello uterino e
nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli dèi delle tre
funzioni: «Karna et Ics Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do- num
natal. H.S. Nyberg), 1954, pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di
Visnu al servizio di Indra) è segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit
d’Arjuna», Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i
sovrani minori Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una
conferen¬ za fatta all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala
quest’anno nell’ Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux
souverains dans le Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà
ulteriormente studiato nella stessa prospettiva. § 19. Le
leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due croi che
ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio cieco monco
della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi
sono Orazio Coclite («il Ciclope») c Muzio Scevola («il Mancino»), i due
salvatori di Roma nella guerra contro Porsenna; la comparazione è stata
sviluppata in MV cap. IX e ripresa diverse volle, specialmente ne
L’heritage..., pp. 159-169 c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi redi Roma
vedi il riassunto degli studi anteriori in L’heritage..., pp. 143-159; un
notevole «ritocco» parallelo al «ritocco» zoroastriano degli dèi
trasporti in Entità della tradizione romana nel De Republica di Cicerone,
è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc et Ics rois romains de
Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463. 119 §
20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp. 146-154.
§21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..., pp.
154-156. § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste deTullus Hostilius
et les mythes de Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso libro, studio dell’Indra
vedico come «solita¬ rio» a dispetto dei suoi associati ( ekci -) e come
«autonomo» (sva-). La biblio¬ grafia degli studi comparativi
sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39 e completala in Aspetta..., p.
1. § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli
Nàsa- tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...»,
Orientalia Sueca- na , II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho
ancora pubblicato su questa interpretazione dei gemelli romani il libro
preparato nel 1951-1952; è comparso solo un frammento: «Le turtus equos de
la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV
(=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956, pp. 232-245. Altre corrispondenze tra
dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli indoeuropei sono state segnalale
in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130, 151-154.1 Dioscuri greci
sono solo parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti della terza
funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio;
piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio,
successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior Ancus») e
la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove impor¬ tanti
questioni di metodo sono toccate). § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi
iniziali», vedi «De Janus à Vesta», Tarpeia, pp. 31-113 (=JMQ it., pp.
287-353), DIE, pp. 84-105; in Rituels..., pp. 33-39, sono state rilevate
delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi- vasvat; in
Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno
chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas;
vedi anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les
Hymnes à l'Aurore du Riveda, pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65),
della silenziosa Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio
d’inverno (cf. Atri opero¬ sa con la preghiera silenziosa nella crisi del
sole), della Fortuna Primigenia prenestina, madre e figlia di Jupiter
(cf. Aditi, madre e figlia del sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti).
RITUALI in «Suouetaurilia», Tarpeia, pp. 115-158 (= JMQ it., pp. 355-388)
si è stabilito lo stretto parallelismo di que¬ sto sacrifico triplice,
offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di un loro, di
un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in-
doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali
resi chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca
dagli otto pie¬ di»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di
templi quadrati, orien¬ tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il
fuoco rotondo (di riserva e di accensione, «fuoco del padrone di casa»,
attaccalo alla terra) e il fuoco qua¬ drato (che dirige verso gli dèi le
offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve- dica; i rapporti rituali
degli equidi, c in special modo del cavallo, con ciascuno dei tre livelli
funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a Roma che
nell’India vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬
blicarsi in REL, XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei
120 Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco
durante i Volcanalia e la prescrizione bigarum victricum clexterior del
Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a
qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ): «Meretrices et virgines
dans quelques légendes politiquesde Rome et des pe- uples celtiques»,
Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8; «Remarques sur le ius feriale », REL, XXXIV,
1956, pp. 93-111; REL, XXXV, 1957, pp. 126-151, contiene uno studio su
augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: «A propos de latin ius». RHR,
CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112; «Ordre, fantasie, changemente dan les
pensées archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos», REL,
XXXII, 1954, pp. 139-160; in «Maiestas elgravitas, de quelques diffé-
rences entre les Romains et les Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28
e XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste sono invece due nozioni prettamente
romane che sono state analizzate contro la scuola primitivista; su
gratus, gratin emi¬ nentemente spiegate con un usovedico della
radicegurC^V, Vili, 70,5), vedi L.R. PALMER, «The Concept of Social
Obligation in Indo-European», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. M.
Niedennann), 1956, pp. 258-269. E. BENVENI- STE ha delucidato
comparativamente un gran numero di nozioni religiose e sociali, vedi in
special modo «Symbolisme social dans les cultes gré- co-italiques» RHR,
CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma di un dato importante nel mio
Rituels...)', «Don et échange dans le vocabulaire in- do-éuropéen»,
L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e «Formes et sens de pvaopai»,
Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrun¬ ner), 1954,
pp. 13-18. Storia degli Studi e bibliografìa
Dopo lo scacco del saggio intelligente ma prematuro fatto dalla scuola di
Adalbert Kuhn (1812-1881) c di Friederich Max Miiller ( 1823-1900) teso a
ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei, l’impresa fu per un
certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di Wilhelm
Mannhardt (1831-1880), gli studi si spostaro¬ no sui rituali e le
credenze agricole, popolari, di un tipo abbastanza uniforme per tutta
l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire
filiazioni né parentele particolari, un gran numero di culti e miti delle
diverse religioni e in special modo quelle dei popoli classici. Da
un’altra parte, per effetto della crescente settorializzazione delle
specialità, gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬
manico, etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono per
spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle
ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano
che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,
dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori
continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio A.
CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240. Tuttavia nel secondo
quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In Germania bisogna
citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig und Heiland
(1923); R. OTTO, Gotlheit und Got- theilen derArier (1932); F. CORNELIUS,
Indogermanische Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che
prosegue brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R.
Schroder. A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso
ho fatto un primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con
dei 123 mezzi filologici insufficienti e
rimanendo prigioniero, per la spiega¬ zione, delle concezioni
mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des
Lemniennes 1924 e qualche articolo di cui non vi sono grandi cose da
ritenere; il Leproblème des Centaures, 1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui
frammenti rimangono utilizzabi¬ li). Non è che a partire dal 1938 che,
inizialmente solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato da
altri ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti
importanti della struttura dell’eredità in¬ doeuropea comune, in una
coscienza più chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta.
Quest’inchiesta non si riporta ad alcun sistema preconcetto di
spiegazione, ma utilizza gli insegnamenti della socio¬ logia e
dell’etnografia, come pure il ricorso all’analisi linguistica dei
concetti. Essa ha due postulati: ammette che tutto il sistema
teologico e mitologico significa qualcosa, aiuta la società che lo
pratica a com¬ prendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del suo passato,
confidante nel presente e nell’avvenire; ammette anche che la comunità di
lingua, presso gli Indoeuropei, implica una misura sostanziale
dell’ideologia comune alla quale deve essere possibile accedere grazie a
una varietà adeguata del metodo comparativo. Una circostanza,
sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva at¬ tirato l’attenzione sin
dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricer¬ che: il vocabolario
religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello dei Celti e degli
Italioti dall’altra presentano un gran numero di con¬ cordanze precise e
che sono loro proprie. Un articolo-programma del 1938 «La préhistoire des
flamines majeurs», RHR, CVIII, pp. 1 88-200 ha dimostrato che
questa parentela prossima non si riduce al vocabolario ma si estende alla
struttura della religione. E dal 1938, in ogni tipo di materia, è in
effetti la comparazione dei dati vedici o in¬ do-iranici e dei dati
romani che ha fornito i primi risultati precisi sui quali è stato
possibile fondare delle comparazione più vaste. Così illuminati, i
fatti germanici (benché il vocabolario religio¬ so sia interamente
differente) si sono ben presto rivelati anch’essi no¬ tevolmente fedeli
al passato indoeuropeo. Benché conformandosi ai grandi quadri
indoeuropei, il domi¬ nio celtico pone ancora, in seguito allo stato
della documentazione, un gran numero di problemi irrisolti. La Grecia -
per effetto senza dubbio 124 del «miracolo greco»
e anche perché le più antiche civiltà del Mare Egeo hanno troppo
fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord - contribuisce poco allo
studio comparativo: anche i tratti più conside¬ revoli dell’eredità sono
stati profondamente modificati. Quanto agli altri popoli del mondo
indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi, non si è ancora
riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in cui è stata
progressivamente analizzata l’ideologia tripartita degli Indoeuropei che
il presente libro espone sono i seguenti': Mythes etdieuxdes
Gennains, essaid’interprétation compara¬ tive 1939 (citato MDG)
Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations indoeuropéen- nes de
la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV) Jupiter Mars
Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne de la société et sur Ics
origines de Rome, 1941 (citato JMQ) Naissance de Rome (=JMQ II) 1944
(citato NR) Naissance d'Archanges, essai sur la formation de la
théologie zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato NA) Jupiter
Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV) L ’heritage indoeuropèe !? à
Rome, introduction aux séries «JMQ» et «Mythes Romains», 1949
Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949 Les dieux
des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE) Rituels Indoeuropéens à Rome,
1954 Aspects de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens,
1956 Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus, XXV, 1956
Una traduzione italiana di una versione migliorata in diverse
parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ IV, è
stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars
Quiri- I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di
JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard.
Aspettando, l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle
correzioni giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte
sono da eliminare. 125 ìtus (citato JMQ it.) 2
. Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬ to, si trovano
discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬ bri e, più sistematicamente,
nel primo capitolo de L’heritage ... («Materia, oggetto e metodi di
studio»). 2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage
zur Geschichte der Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore
Fellows Communications; J A = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè
American Orientai Society; JP = Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle
Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et Asianique;
RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP = Revtte de
Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse; SBE = Sacred Books of
thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle Religioni ; TPS =
Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir Celti
sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen
Gesellschafl. 126 Appendice
Aryaman e Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo
libro (maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra
(nota al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue
speranze che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti
dell’articolo del JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme,
menzionato nello stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione
provvisoria su Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle
note di I e II i nu¬ meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P.
Thieme, Der Frem- dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième
Sauveraine, 1949; Z = P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp.
96-104. I Ma è soprattutto nei confronti del dio
vedico, e prima ancora in¬ do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme
rivela la sua debolezza. In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero»,
qualunque sia) c del senso che ne risulta per aryó («l’ospitale»),
Aryaman non può essere che il «dio dell’ospitalità)). È così?
E ancora, sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa
definizione si verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del
ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi è
un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di
127 Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia,
Aryaman non è né invo¬ cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un
visitatore. Non biso¬ gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia
curioso, se il concet¬ to di ospitalità è stato sentito tanto importante
da essere personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più
considerevole dopo Varuna e Mi¬ tra, che questa origine non abbia avuto
nessuna occasione per espri¬ mersi chiaramente. Mitra, il contratto
personificato, è certo come dio molto più del contratto, ma si trovano
dei testi in cui questo legame è manifestato e sottolineato con delle
parole senza ambiguità. Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo
corrispondente avesti- co Airyaman, intervengono in circostanze che,
salvo violenza, sono irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo
due. Prima di Thieme molti vedisti avevano notato, con delle
con¬ clusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra Aryaman e il
matri¬ monio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per
piegarli alla sua tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei
trattamenti poco racco¬ mandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei
documenti più chiari e più netti, altri più oscuri o più indeterminati.
Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio sui primi e con questi
chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si
ha, chiara e netta in A V, 1, 60, la formula destinata a procurare un
coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la prima strofa:
tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah asyci icchcinn
agruvai pettini utd jàyàm ajànuye «Ecco arrivare Aryaman con i
riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e una moglie
per chi non è sposato». Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1,
inno rituale del matrimo¬ nio, la strofa 17 che riguarda la giovane
donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti
sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp.
74-76, seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente
errata. «Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il
trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui (=
dalla tua casa di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale)».
V icino a questi testi ve ne sono altri che riguardano ancora siala
«ricerca della sposa» che diversi episodi precisi del rituale delle noz¬
ze, nei quali Aryaman interviene sempre, ma associato ad altri dèi e di
conseguenza con un ruolo non immediatamente identificabile. Ciò che in
questi casi incerti può orientare l’interpretazione è evidente¬ mente la
descrizione e la definizione che su di lui hanno dato i testi espliciti
del dossier: egli cerca da ambedue le parti gli elementi delle coppie
coniugali e fa delle buone alleanze matrimoniali. Thieme procede
all’ inverso cominciando dalla seconda cate¬ goria di documenti. Consacra
cinque pagine per citarli in esteso e per tradurli inserendo tra
parentesi, a favore della loro indeterminazione, la sua concezione di
Aryaman («die Gastlichkeit», «der Gott der Ga- stlichkeit», «der Gott
gastlicher Aufnahme») e in seguito, in dieci ri¬ ghe che conclude
allusivamente, pretende che ciò che dice sui testi meno determinati
permetta-infine! - di ridurre alla loro «vera» porta¬ ta questi testi la
cui precisione lo imbarazza 13 : «Von hier aus wirdes nun erst
mòglich, die Verse A V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan
die Spitze seiner Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen Aryaman und E
he gestellt hat, in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der
Genien des Hau- shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt, wird
Aryaman als «Gattenfìnder» (A V. 14, 1.17) und Ehevermittler (A V.
6.60.1) schlechthin in Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch
die Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin der Gesellschaft
des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken wollten.» Al di
fuori dello stesso procedimento che consiste nel masche¬ rare ciò che è
chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è ten¬ denzioso:
questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale del
matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente 12 F„
§§ 118-124; S. pp. 73-79. 13 F„ § 124. adatti a chiarire la
funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che Aryaman non vi
figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un « gran nome» della
mitologia, è una spiegazione che generalizzata permette¬ rebbe
all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le testimonianze im¬
barazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come «einer derGenien des
Haushalts», è stata utilizzata, pefitio principii, usando la libertà
fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di
questi testi resistono al senso che si vuole loro dare. Quando Aryaman ad
esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, «di ungere (forse la
novella sposa) fino alla vecchiaia» (o «affinché ella non in¬ vecchi»)' 4
, Thieme, ricordando che «in ogni paese del mezzogiorno» 15 il bagno di
ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepida¬ mente: «Mòge
Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich= die Braut ] inir der
Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =
inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa traduzione sono
leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità e il
dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile; come si
può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell 'ospitalità ti unga
con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »? Viceversa se si vede
in Aryaman il protettore del rapporto che si forma, è naturale che egli
sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o vigorosa vec¬
chiaia. E non è tutto. Thieme assimila costantemente l’ospitalità e
il matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e quella che riceve la
fi¬ danzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto del riferimento
a Mrs. Stevenson 16 , l’atto della donna che entra in casa di suo marito
per rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del visitatore che
dopo essere entrato straniero se ne andrà, benché incaricato del dovere
di contraccambiare, ma sempre straniero? L’accoglienza fatta alla
futura madre può forse essere più ospitale, nello spirito e nei riti,
delle ceri- 14 RV, X, 85, 43: a nati prajath janayatu
prujàpatir àjarasàya sùm anaktv aryamù... Geldner:
«Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli nns Arya¬
man verschinelzcn». 15 Nell'India vedica? 16 F., p.
125, n. 1. 130 monie che in seguito
legalizzeranno il neonato come membro della stessa famiglia? Se
bisognasse avvicinare ad altre cose questa proce¬ dura sui generis del
matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto all’adozione che
all’ospitalità? Le nostre parole «accoglienza, Aufnahme», creano
un’ambi¬ guità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non
rischia¬ va di sentire vivamente. Io resisto particolarmente
all’interpretazione datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre riguardo il rituale
nuziale 17 : aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm]
prdtiksante svasuro devaras cu. «Sie umschreite das Feuer des
Aryaman (der Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und
Schwager.» Sono certamente meno ben informato di Thieme sui rituali
ve¬ dici: quando un ospite entrava in una casa gli si faceva fare anche
que¬ sta circumambulazione del focolare, che trova il suo esatto
corrispon¬ dente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha
valore di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è
così m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo
di Arya- 17 F„ § 122. 18 Piuttosto, secondo la variante
«schnell». In S., p. 78, vi è una cantonata nella tra¬ duzione che dopo
dieci anni non so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza del mio
manoscritto o delle mie correzioni delle bozze: ,f vósuro devàsra.ica è reso
con «i suoceri e i cognati» invece de «i7 suocero c i cognati» il plurale della
secon¬ da parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal
tipografo, il plurale della prima. Questo testoche sotto la protezione di
Aryaman f a intervenire dopo la giovane sposa il padree i fratelli dello
sposo, prova che nel matrimonio Aryaman si interessa a ben di piti che
l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è interessata da questo nuovo
membro che le procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf. Aryaman
qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119
di S. ho commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei
pro¬ positi, considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della
moglie (possibile nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la
strofa in bocca al marito. E l’inverso. La moglie parla e si sorprende
che il padre di suo marito non sia venuto al festino preparalo, mentre
vi.ivo... anyó arlh «ogni altro ari, tutto il resto dell'insieme ari » (e
non facendo sparire la parola essenziale «altro», « jederunde- re,
niimlichjeder ari», Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di
questo testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente
a condizione che si rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere
moglie» con « prendere mari¬ to » e «ha scelto la jigliadel suocero» con
«è stato scelto dai figli del suocero»). man nel matrimonio,
l’espressione «fuoco di Aryaman» per designare eccezionalmente qui il
focolare intorno al quale si forma il legame mi sembrerebbe fare
semplicemente riferimento a questo ruolo. Sono queste le principali
ragioni per le quali non mi è possibile dedurre il ruolo di Aryaman nel
matrimonio a partire dalla definizione che esige l’ipotesi di
Thieme. L’Airyaman avestico è invocato ( Yasna 54, 1) per
sostenere «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon Pensiero; è
detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza,
vincitore dei nemici (ibid. , 2); la preghiera che è invocata dopo di lui
è onnipotente e guari¬ trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è l’eroe di
una scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è al primo
posto: quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le
99.999 malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la
«Formula Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina)
si av¬ vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che
doveva divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo
19 . Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non
tenta la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è
un’innovazione, un uso fuori dal dominio di un dio sentito come
importante: «Man hai also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der
AV von A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho
cita¬ to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare
un elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti
di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio,
strumento utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi
del mio Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far
capire che Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità.
Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei
matrimo¬ ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di
un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche
il matrimonio siano possibili. 19 F. § 126-128; S„
81-83. 20 V. qui sopra n. 13. 21 S., p. 141-149. Per il
trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F., vedi S., p.
137-139. 132 L’Airyaman iranico protegge in una
maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di uomini e donne della
«buona società», definita dopo la riforma zoroastriana solamente in base
alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello
detto da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è
possibile con alcun ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre
all’ospitalità comporta altre forme di lega¬ mi e in special modo
l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così costretti a introdurre
in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬ nalità.
II Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in
S p. 113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende
conto di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi
ai quali si adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di
Thieme, rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il
dossier di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente
impone una traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia
riconside¬ rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:
uta svàsyd ardtyd arir hi sa utdnydsyd ardtyd vrko hi
sah La costruzione e il senso sono limpidi:
«[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.
[Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.» Questi
versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti equivalenti,
quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono di
conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari : vi
è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è proprio,
imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬ riore,
straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo
che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comporta¬ mento è
selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di nemico
distinto da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al di fuori
del gruppo i cui membri sono degli svà\ positivamente ari è definito come
intemo a questo gruppo. La traduzione e il commentario fatto da Thieme a
questo passaggio devono essere citati per intero 12 : «/ Schutze]
vor eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was
die arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be- droht), sie istja
der Wolf... ». Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der
Spre- izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl
nurstili- stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in
Abrede stel- len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist
ja ein Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor
an- derer drdti-sie istja ein Wolf». La prima
interpretazione, quella che l’autore preferisce poiché sopprime le
difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e al rapporto delle
parole: mantiene come tale una delle due opposizioni equivalenti ma
sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e vrka a un’unità
(non essendo vrka che un rinforzo del «cattivo» ari) di cui svà e anyà
sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti. La
seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà in un senso
che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso me temporalmente
e accidentalmente senza essere a me, ma segna un le¬ game permanente ed
essenziale con me. In più, questa traduzione sup¬ pone, dalla parte
àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello dell’ospite che una
volta ricevuto in casa si comporta male e « minaccia la pace » come dice
Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma questi rischi si
realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del RV vi fa allusione:
sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di una preghiera e che, in
questa preghiera, fossero messi sullo stesso 32 P. 27, già II,
1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico («ariano»),
si concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella
di¬ rezione «élite», «capo», etc. 134
piano, in contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka
bar¬ baro e brigante. Questo testo è dunque decisivo contro
il senso troppo esteso di ari e impone un senso ristretto. Nei suoi
Etudes védiques et pàninéen- nes. III (1957), L. Renou mi sembra abbia
ben riassunto l’insegna¬ mento del testo nella formula: «.vrka il nemico
straniero, ari il nemico interno». Questo delimita ari, sia il buono che
il cattivo: amico, ospite, sposabile, correligionario, rivale, nemico,
Vari porta alla considera¬ zione di chi lo menziona, la nota svà, che
esclude la nota anyà n . Ili Mitra and Aryaman è in
gran parte un pamphlet contro di me: fornisco perfino il titolo di un
capitolo. Mi limiterò qui ad alcune os¬ servazioni che faranno vedere a
quale livello si situa il dibattito. Prima di entrare nella
materia, e per togliere ogni credito ai miei argomenti, Thieme incomincia
a dimostrare, secondo tre punti, che io commetto molteplici e grossolani
errori di grammatica utilizzando gli inni vedici. Lo credo volentieri, ma
vediamo che cosa mi rimprovera (pp. 12-16): a) Io
tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui si
incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovra¬
ni, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo
che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in un
solo personaggio mitico che chiama «Freund, Gasljreund» (nel 1938) e che
ora preferisce chiamare «The contract (God Contract) which is hospitality
(God Hospitality )». È nel riconoscere questo mo¬ stro, di cui non vi
sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono rifiutato, nel
1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato parere: è inverosi- 33
Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare
scar¬ tare il paragone etimologico con diana (l'opposto di svà) che è
stato portato in ap¬ poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur
Bedeutung des Ariernamens», KZ, 68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il
fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya
lùrusah, «il vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra che lo svà di
IX, 79, 3 non deve essere compreso in un senso stretto né senza dub¬ bio locale.
Il concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia con¬
dizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para. 135
mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una
coppia «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman».
Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman vdrsistham
ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ot¬ tenuto la più
alta sovranità». Perché si dice che il verbo è al duale? Il poeta vuole
sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è fondamentale
come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di modo che si debba
tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma la soluzione meno
accettabile è di fondere in un solo essere Mitra e Aryaman, poiché la
strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente i tre dèi al nominativo e
questa volta con due aggettivi e due verbi che sono correttamente al
plurale. Noto che K. Geldner comprende come me: «ihr habt die hòchste
Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A rya- man» - i tre vocativi essendo
esattamente paralleli, come Thieme mi rimprovera di avere detto.
L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me
asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd. La prima parte non è ambigua:
«Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai- yasva e
conoscete questa [parola] mia». La seconda è meno chiara, un aggettivo al
duale (sajósusà, «in accordo») precede i tre nomi di¬ vini.
Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò che
segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet aufden
Vyasvasohn, ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und
mit euch) Varuna Mitra Aryaman». Non so se ha ragione o se si può trovare
una giustificazione più sottile, ma come lui penso che gli dèi
dell’ultimo verso, qui come altrove, siano ire. b) Tratto dei
plurali come dei duali. Si tratta di RV, III, 54, 18, aryamd no dditir
yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono] degni (plurale e non duale!) dei nostri
sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman, ad Aditi». Thieme consentirà
forse a credere che ho consultato la tradu¬ zione di Geldner: «.Aryaman,
Aditi sind uns anbetun^swert», con la nota corrispondente: « Den Plur.
yajnfyàsah, weil der Dichter an die iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che
più m’interessava perii mio argo¬ mento (S., p. 68) è che in questo lesto
della «terza funzione» (la fine della strofa domanda abbondanza di
bestiame e di bambini), il gruppo degli dèi sovrani distacca, in qualche
modo come i suoi soli delegati espliciti, la loro madre e Axyaman.
Non prevedendo Thieme non ho preso la precauzione di ripetere in termini
di grammatica una precisa¬ zione che ogni vedista conosce. Il mio
commento si è limitato a dire: «Sembrerebbe che ancora qui sia
l’iniziativa di Aryaman che orienta l'azione collettiva degli Àditya
verso questa grazia speciale». Non è abbastanza chiaro? c)
Tratto un singolare come un duale. Si tratta del lapsus segna¬ lato più
sopra (n. 18) che, in A V, XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11 ) mi ha fatto
scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece del «suo¬ cero»,
come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io abbia pensato
ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter cre¬ dere che io
abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un
nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è forse
correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S, v. 1
19)? La spiegazione che mi parrebbe più plausibile è che, essendo poco leggibile
il mio manoscritto, il compositore abbia congetturato i «suoceri» secondo
i «cognati» che seguono immediatamente, o che meccanicamente abbia messo
allo stesso numero queste due parole così analoghe [pères e frères nel
testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il lapsus risalga al mio manoscritto.
Mi dispiace molto ad ogni modo che nella sovrabbondanza di correzioni che
ho dovuto fare sulle bozze quello mi sia scappato e che l’errore mi sia
saltato agli occhi solamente qualche mese dopo la pubblicazione. È in
maniera sleale che Thieme orchestra questo scandalo in due pagine e anche
il mio errore su svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito.
Nondimeno Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio
argomento la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V,
XIV, 1,39 e quella del suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari»
in X, 28, 1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è
stato mostrato qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel
matrimo¬ nio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti
per l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa
ammessa da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si
com¬ piono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida
«all’in¬ terpretazione errata!» per mascherare il gioco di prestigio
altrimenti grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi
che stabilisco- 137 no il vero ruolo di Aryaman
nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è in seguito infiorito di notae
censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste ed utili e ne terrò conto,
senza che nessuna cambi niente alle figure e ai rapporti degli dèi. Molte
sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché Thieme denuncia come
antigrammaticale, errata o sprovvista di sen¬ so, una traduzione
possibile ma che non ha il suo favore 2 , caricaturan¬ do le mie
esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un motivo di
risentimento in più 4 , etc. etc. 1 L’obiettivo di questo triplo
assalto grammaticale si scopre a pagina 17: «IJ'eel il my duty to warn
especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè me¬ riti of
Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation oflhe
Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal only his
"expla- naiions" need be discussed». Non ho questa pretesa.
Domando solo senza grandi speranze che latinisti o indologi, di St.
Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬ mi lo facciano lealmente.
2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X,
89,9; ctc. p. 67, in RV VII, 82, 5, Thieme rende correttamente duvasyatil
Ha sicuramente ragione, ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S., p.
40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬ nirla), in cui ho esagerato la
frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La religion védique, III, p.
138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna sono del resto
esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al secondo come il
sacer¬ dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl icementc
«rendere gli onori do¬ vuti»; bisogna correggere in que.slo senso Les
dieux des Indoeuropéens, p. 42, 1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come
un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho detto
dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna', 1948, pp.
79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho
semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i
sociologi hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli
semi-civilizzati. Allo stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti
tra i diversi dèi sovrani si è de¬ formata: che si confronti il capitolo
II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia dei nomi divini (Varuna,
Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo quando è evidente
(Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset mythes
védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬
to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente,
l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure
divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P. es., p.
74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e 136,
a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà facilmente che essa
non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo così futilmente in
contraddizione. P. 86, n. 60, sono accusato per due parole di
«mislranslations, wich might have been avoided by looking up thè PW or
any other good dictionary » ; Thieme vorrà rifarsi a A.B. Keith, HOS
XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi sono ragioni
per preferire questa interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non
tiene conto della differenza d’intenzione tra Mitra-Varuna e Le Troisième
Souverain. A dispetto del suo titolo in¬ diano il primo libro non tratta
un soggetto indiano 1 ; si propone di di¬ mostrare che presso gli altri
popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germa¬ ni in special modo, esistevano
delle coppie di dèi o di eroi della prima funzione la cui articolazione è
omologa a quella che A. Bergaigne ha scoperto per Mitra e Varuna nel RV e
che i Bràhmana illustrano con una campionatura abbondante. Non avevo
dunqueintenzione di stabi¬ lire «gli insegnamenti degli inni stessi» e
dei Bràhmana - che altri (dopo Bergaigne e H. Glintert) avevano
sufficientemente stabilito. In Le Troisième Souverain, al contrario, con
Aryaman abbordavo un pro¬ blema specificatamente indo-iranico e poco
trattato: ho dunque dovu¬ to riprendere tutti i testi, discuterli e
organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul mio libretto da scolaro,
di questo scolaro che sono felice di essere e di rimanere, né
contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a dei bisogni
diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno corrisposto
dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di Thieme, le
esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi sforzerò di
rispondere con un’argomen¬ tazione serena a questa scherma da gladiatore.
Enumererò gli apporti positivi poiché ve ne sono. E dimostrerò come sotto
le apparenze del rigore filologico Thieme misconosca costantemente le
prospettive, ignori i dati statistici più evidenti e distrugga i rapporti
più probabili e sulla via così sgombra si avanzi con una sovrana fantasia
verso le pagi¬ ne sorprendenti che terminano il suo libro. In
attesa, a coloro che sarebbero impressionati da questo mec¬ canismo, non
posso che consigliare di rileggere, circa i grandi Àditya, l’ammirevole
esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia su molti punti, ma
attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture del pensiero,
onesta e intelligente. I J.C. Tavadia si era inizialmente
sbaglialo ma fece in seguito I a più leale riparazione. L’editoria italiana ha accolto con favori e
fortune alterne l’opera di un autore tanto discusso, controverso e
innovativo, quale fu Georges Dumézil, persona acuta, intelligente e
ironica, spirito polemico e non di rado pungente ma sempre pronto a
rimettersi in discussione, mano a mano che l’inchiesta scientifica
progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai colleghi che
accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà di
piacevo¬ le lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto
dì immortalità. Conversazioni con Didier Eribon , Guanda, Milano
1992. Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges Dumézil nel panorama
edito¬ riale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola”
che non sen¬ za travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il
carteggio C. Pavese - E. de Martino, La collana viola. Lettere Bollati
Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha contribuito a diffondere autori
importanti come C.G. Jung, K. Kerény,L. Frobenius, G. van derLeeuw, M.
Eliade. Il libro Ju- piter, Mars, Quirinus, Torino 1955, è una traduzione
di parti dell’originale, più capitoli di altri volumi come Naissance de
Rome, Naissance d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus IV, 1948. Il
catalogo della Ei¬ naudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli
’80, a rioccuparsi di Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra
alleviata, 1982 (= Mythe et epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei,
1986. Spetta alla Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri
tradotti, a cominciare dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso:
// libro degli Eroi. Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili
economici della Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974;
Matrimoni Indo¬ europei, 1984; Le sortì del guerriero. Aspetti della
funzione guerriera presso gli Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di
questo libro, condotta sulla precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier,
1969, si deve ai tipi della Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura
del guerriero,Tonno 1974). E infi¬ ne bisogna ricordare anche «...Il
monaco nero in grigio dentro Varennes», 141
1987 che è però un divertissement enigmistico-letterario sulle profezie
di Nostradamus. Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è
arricchito di due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come
La religione romana arca¬ ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II
Melangolo (Genova) ha tradotto due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste
romane, 1989. Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto
La saga di Hadingus. Dal mito al romanzo. Fra le poche opere italiane su
questo autore ricordiamo Rivière,
Dumézil egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo,
Roma. Per una bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil cf. la
rivista Futuro presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero
monografico “Georges Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un
dibatti¬ to su Dumézil in base alle aree storico-geografiche consuete
nella sua ricerca (Roma, Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un
interessante articolo di Grisward sulle persistenze del modello trifunzionale
nella società medioeva¬ le - suddivisione in oratores, bellatores,
laboralores - e la traduzione di un ar¬ ticolo di Dumézil in risposta
alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia
germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni Storici, ristampato in Id.,
Miti, emblemi, spie, Einaudi, Torino) su un argomento, le presunte
simpatie per la cultura nazista, già affrontato da A. Momigliano, Rivista
storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi
indoeuropei cf. A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica
”,/Quaderni di Ava/lon e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in L
'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato
delle istituzioni sociali, religiose, economi¬ che, amministrative,
giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi indoeu¬ ropei, cf. E.
Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II, Ei¬ naudi,
Torino 1979 (e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità
indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue
indoeu¬ ropee, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L
'uomo indoeu¬ ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991.
Un argomento dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬
tica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle diverse letterature
- Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una
fraseologia co¬ mune ed ereditaria) è stato di recente affrontato in un
libro eccellente di G. Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea,
Leo Olschki, Firenze. Ries La riscoperta del pensiero religioso
indoeuropeo L’opera magistrale di
Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le teologie tripartite. Le
diverse funzioni nella teologia, nella mitologia e nell 'epopea
Storia degli Studi. Aryaman e Paul Thieme Bibliografia italiana di Dumézil.
Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: sul conferimento di valore, il guerriero indo-germanico – Pound, conferire
valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di
speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Catalfamo – metafisica della
libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo
italiano. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than
anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’!
Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the
concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a
few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical
personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della
corrente del "personalismo storico o critico". Si laurea in Pedagogia e in Scienze
Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce
unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si
era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo
collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e
infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di
Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero
si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed
antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu
Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi",
fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico,
concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione
anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la
storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi
aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie",
" il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come
«storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in
costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona
al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e
stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà
oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente
impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in
essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una
realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa
riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita
nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo
per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel
mondo". Catalfamo è stato fondatore
e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta;
fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al
1988. È stato anche Prorettore
dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la
Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la
Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi
dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta
una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa
commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato
intitolato un Istituto Comprensivo. Altre
opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e
filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia,
"Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio,
Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa,
Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea
e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I
fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia
dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di
psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente,
Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze
Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad
Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo
Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in
collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La
filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina
Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M.
Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento
(in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo
spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età
evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma
Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS,
Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della
socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella,
Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia
L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione
della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento,
Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" D.U.E.M.I.L.A.,
Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di qui ap- punto si può anticipatamente scorgere, che
le dif- ficoltà più profonde incluse nel concetto di liberta, si
potranno risolvere coll’ idealismo in sè preso, tanto poco quanto con
qualunque altro sistema parziale. L’ idealismo invero porge, della
libertà, da un lato il concetto più generale, dall’altro quello
meramente formale. Ma il concetto reale ’e vivente è, che essa consista
in una facoltà del bene e del male. Questo è il punto della
difficoltà più grave, che, in tutta la dottrina della libertà, è stata da
lungo tempo avvertita, e che tocca, non solo questo o quel sistema,
bensì, più o meno, tutti 1 : nel modo più spiccato di cerio il concetto
dell’immanenza; poiché, o si ammette un male reale, e allora è
inevitabile collocare il male nell’ infinita sostanza o nell’ originario
volere stesso, con che si distrugge interamente il concetto di un essere
perfettissimo; o bisogna negare in qualche maniera la realtà del
male, e con ciò svanisce insieme il concetto reale di libertà. Non minore
è l’intoppo, anche se inten- diamo nel modo più esteso la relazione tra
Dio e gli esseri mondani; poiché, dato pure che essa venga limitata
al cosiddetto concursus, o a quella necessaria cooperazione di Dio all’
agire delle crea- ture, che dev’ esser accettata grazie alla
essenziale dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto
affermare la libertà: in tal caso però Dio apparirà innegabilmente come
cooperatore del male, giac- ché il permetterlo in un essere in tutto e
per tutto dipendente non vai meglio che il contribuire a produrlo;
o anche qui, in un modo o nell’altro, dovrà esser negata la realtà del
male. La propo- sizione, che tutto il positivo della creatura venga
da Dio, anche in questo sistema dev’essere affer- mata. Ora, se si
ammette che nel male vi sia al- II sig. Fed. Schlegel ha il merito
di aver fatto valere questa difficoltà specialmente contro il panteismo
nel suo scritto sugl’ Indiani e in parecchi luoghi; ma è a
deplorare soltanto che quest’ acuto erudito non abbia creduto
oppor- tuno comunicare la sua propria veduta sull’ origine del male
c sul suo rapporto col bene. cunchè di positivo, anche questo positivo
deriverà da Dio. Qui si potrà opporre: il positivo del male, in
quanto positivo, è bene. Con ciò il male non viene a sparire, benché non
venga neppure spie- gato Infatti, se ciò che nel male sussiste' è
bene, donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente è, la base,
che forma propriamente il male? Tutta diversa da quest’affermazione
(sebbene spesso, anche di recente, confusa con la prima) è 1’
altra, che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di positivo, o,
per usare un’espressione diversa, che esso non esista affatto ( neppure
con e in un altro elemento positivo), ma che tutte le azioni siano
più o meno positive, e che la differenza tra loro consista in un semplice
plus o minus di perfezione, con che non si stabilisce alcuna opposizione,
e però il male svanisce interamente. Sarebbe questa la seconda
possibile ipotesi in rapporto alla propo- sizione, che tutto il positivo
scaturisca da Dio. Allora la forza, che si mostra nel male, sarebbe
sì, al paragone, più imperfetta di quella che appare nel bene, ma, considerata
in sé, o fuori del para- gone, sarebbe una perfezione pur sempre, la
quale dunque, come ogni altra, dev’ esser derivata da Dio. Ciò che
noi in tal caso chiamiamo un male, è solo il minor grado di perfezione,
il quale però solo per il nostro bisogno di comparazione appare
come difetto, mentre nella natura non è punto. Che questa sia la vera
opinione di Spinoza, non è possibile negare. Qualcuno potrebbe tentare
di sfuggire a quel dilemma, rispondendo: che il positivo derivante
da Dio sarebbe la libertà, la quale è in se stessa indifferente verso il
male e il bene. Ma, se egli concepisce questa indifferenza, non in
modo puramente negativo, bensì come una 1 Nel testo: « Seietide.
» vivente e positiva facoltà di determinarsi al bene e al
male, non si vede come da Dio, che vien considerato come pura bontà,
possa mai seguire una facoltà di eleggere il male. È evidente da
ciò, per dirla di passaggio, che, se la libertà è real- mente quel
che in conformità di questo concetto deve essere (ed è immancabilmente),
non si può essa giustificare con la già tentata derivazione della
libertà da Dio; poiché, se la libertà è un potere di far il male, essa
dovrà avere una radice indipendente da Dio. Così incalzati, si può
esser tentati di gettarsi in braccio al dualismo. Ma questo
sistema, se dev’ esser concepito effettivamente come la dottrina di due
principii opposti e tra loro indi- pendenti, non è se non un sistema del
suicidio e dello sconforto della ragione. Se poi il principio cattivo
è pensato come dipendente in un certo senso dal buono, tutta la
difficoltà della deriva- zione del male dal bene è certo concentrata
in un solo essere, ma viene così ad essere accresciuta anziché
diminuita. Anche supponendo che questo secondo essere fu dapprincipio
creato buono e per propria colpa si staccò dall'essere originario,
resta sempre inesplicabile in tutti i sistemi, che si son avuti
finora, la prima facoltà di un atto di ribel- lione a Dio. Perciò, anche
se noi finiamo col sopprimere, non solamente l’identità, ma ogni
le- game degli esseri mondani con Dio, considerando la loro
esistenza attuale e quella del mondo con essa come un allontanamento da
Dio, la diffi- coltà è solo spostata di un punto, ma non tolta.
Infatti, per potere scaturire da Dio, essi dovevano già esistere in un
certo modo, e non si potrebbe menomamente opporre al panteismo la
dottrina dell’emanazione, presupponendo essa un’originaria
esistenza delle cose in Dio e quindi naturalmente il panteismo. A spiegare
quell’ allontanamento, si potrebbe solo addurre quanto segue. O esso
è involontario da parte delle cose, ma non da parte di Dio:
e allora, siccome esse da Dio furono get- tate nello stato d’ infelicità
e di malizia, Dio è 1’ autore di un tale stato. O è involontario da
ambe le parti, cagionato forse da esuberanza dell’ essere, come
alcuni affermano: rappresentazione insoste- nibile affatto. O è
volontario da parte delle cose, uno svellersi da Dio, dunque la
conseguenza di una colpa, alla quale segue una sempre pivi pro-
fonda caduta: e allora questa prima colpa è già per se stessa il male, e
non dà alcuna spiega- zione dell’ origine di esso. Senza un tale
espe- diente poi, che, se spiega il male nel mondo, estingue
viceversa, e interamente, il bene, e invece del panteismo introduce un
pandenionismo, sva- nisce precisamente nel sistema dell’ emanazione
ogni proprio contrasto di bene e male; il Primo, si perde per infiniti
gradi intermedii, mediante un graduale attenuarsi, in ciò che non ha più
alcuna parvenza di bene, suppergiù allo stesso modo in cui Plotino,
1 con sottigliezza bensì, ma senza lasciar appagati, descrive il transito
del bene ori- ginario nella materia e nel male. Invero, da un
costante processo di subordinazione e di allonta- namento, vien fuori un
Ultimo, di là dal quale il divenire è impossibile, e questo appunto (ciò
che è incapace di produrre ulteriormente) è il male. Ovvero: se
qualche cosa è dopo il Primo, dev’ es- serci anche un Ultimo, che del
Primo non ha più nulla in sè, e questo è la materia e la necessità
del male. Dopo tali considerazioni, non sembra giusto
rovesciare tutto il peso di questa difficoltà su di un solo sistema,
specialmente se ciò che di più alto si pretende di opporgli, è così poco
soddi- 1 Ennead. I. L. Vili, c. 8. sfacente. Anche le
generalità dell’ idealismo non ci possono dare qui alcun aiuto. Con dei
concetti lambiccati di Dio, come /’ actus purissimùs, del genere di
quelli che stabiliva la filosofia antica, o di quelli, che la moderna
cava fuori pur sempre, con la preoccupazione di tenere Dio a gran
di- stanza dall’ intiera natura, non si riesce a nulla di nulla.
Dio è qualcosa di più reale che un sem- plice ordinamento morale del
cosmo, ed ha in sè ben altre e ben più vive forze motrici di quelle
che P arida sottigliezza degl’ idealisti astratti gli attribuisce.
L’orrore per ogni realtà, quasi che lo spirituale possa contaminarsi in
ogni contatto con essa, deve naturalmente produrre anche la cecità
per l’origine del male. L’idealismo, se non ha per base un realismo
vivente, diviene un sistema altret- tanto vuoto e lambiccato, quanto il
leibniziano, lo spinoziano, o qualunque altro sistema dogmatico.
Tutta la nuova filosofia europea dal suo principio (con Descartes) ha
questo comune difetto, che la natura non esiste per essa, e che le manca
un vivo fondamento. Il realismo dello Spinoza è per- tanto così
astratto, come l’idealismo del Leibniz. L’idealismo è l’anima della
filosofia; il realismo n’ è il corpo; solo tutti e due insieme fanno
un tutto vivente. Il secondo non può mai offrire il principio, ma
bisogna che sia la base ed il mezzo, in cui quello si realizza, prendendo
carne esangue. Se ad una filosofia manca questo fondamento vivo, il
che d’ ordinario è segno che anche il principio idea'e aveva
originariamente in essa una debole efficacia: essa verrà a perdersi in
quei sistemi, i cui distillati concetti di aseità, modificazioni
ecc. stanno nel più acuto contrasto con la forza vitale e la
pienezza della realtà. Dove poi il principio ideale è fornito davvero e
in alta misura di forza operativa, ma non può trovare una base di
conci- liazione e di mediazione, produrrà un torbido e selvaggio
entusiasmo, che finirà nella macerazione di se stessi, o, come accadeva
ai sacerdoti della dea Frigia, nell’ evirazione, la quale in filosofia
si compie abbandonando la ragione e la scienza. È parso
necessario incominciare questo trattato con la giustificazione di
concetti essenziali, che da lungo tempo, ma in particolare
ultimamente, sono stati ingarbugliati. Le osservazioni fatte si-
nora debbono perciò considerarsi come semplice introduzione alla nostra
indagine vera e propria. Noi l’abbiamo già dichiarato: solo con i
prin- cipii d: una vera filosofia della natura si può svolgere
quella veduta, che dà completa soddisfa zione al tema che ci proponiamo.
Noi non ne- ghiamo perciò che una tale esatta veduta sia stata già
da lungo tempo anticipata da alcuni intelletti. Ma erano anch’ essi
appunto quelli, che senza te- mere gli epiteti ingiuriosi di
materialismo, pantei- smo ecc., usuali da un pezzo contro ogni
filosofia realistica, cercavano il principio vivente della na-
tura, e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea- listi astratti, che li
respingevano come mistici, erano filosofi naturali (nell’ uno e
nell’altro senso). La filosofia naturale dei nostri tempi ha per la
pri- ma volta introdotta nella scienza la distinzione tra l’essere,
in quanto esiste, e l’essere, in quanto è semplice fondamento di
esistenza. Tale distin- zione è vecchia quanto la prima esposizione
scien- tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in questo punto
essa diverga nel modo più reciso dalla via di Spinoza, pure in Oermania
si è poiuto fin adesso affermare che i suoi principii metafisici siano
tut- t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella distin- zione
appunto porti nello stesso tempo la più recisa 1 Si veda nella
Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II, Heft 2, § 54 nota, [IV, S. 146],
inoltre nota 1 al § 93 e la spiegaz. a p. 114 [S. 203). distinzione
della natura da Dio, ciò non ha im- pedito che la si accusasse di
confondere Dio con la natura. Poiché sulla medesima distinzione si
fonda la presente ricerca, sia detto quanto segue a fine d’
illustrarla. Non esistendo nulla prima o fuori di Dio, con-
viene che egli abbia in se stesso il fondamento della sua esistenza. Cosi
dicono tutti i filosofi; ma essi parlano di questo fondamento come di
un puro concetto, senza farne alcunché di reale e di effettivo.
Questo fondamento della sua esistenza, che Dio ha in sé, non è Dio
assolutamente con- siderato, cioè in quanto esiste; poiché esso non
è se non il fondamento della sua esistenza, esso è la natura in Dio; un
essere inseparabile, è vero, ma pur distinto da lui. Questo rapporto
si può chiarire analogicamente con quello tra la forza di gravità e
la luce nella natura. La forza di gravità precede la luce, come suo
eternamente oscuro fondamento, il quale per se stesso non è actu e
si dilegua nella notte, mentre la luce (l’esistente) sorge. 11 suggello,
sotto cui essa è chiusa, non è sciolto interamente neppur dalla
luce. ' Appunto perciò essa non è nè l’ essenza pura nè l’essere attuale
dell’ assoluta identità, ma non fa se non seguire dalla sua natura;* * o
essa è, considerata in altri termini nella potenza deter- minata:
poiché del resto, anche ciò, che relati- vamente alla forza di gravità
appare come esistente, in se stesso poi appartiene al fondamento, e
la natura in genere è pertanto ciò che rimane di là dall’essere
assoluto dall’identità assoluta. 3 Per quanto del resto concerne quella
precedenza, essa non è a concepirsi nè come precedenza di tempo, nè
come priorità di essenza. Nel circolo, da cui ogni cosa deriva, non v’ è
alcuna contradizione ad ammettere che ciò, da cui 1’ Uno è
prodotto, sia alla sua volta prodotto da esso. Non v'è qui un primo
ed un ultimo, perchè tutto si presuppone a vicenda, nessuna cosa è 1’
altra e tuttavia non è senza l’altra. Dio ha in sè un intimo
fondamento della sua esistenza, che in questo senso precede lui
come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il Prius del fondamento,
giacché questo, anche come tale, non potrebbe essere, se Dio non esistesse
actu. Alla medesima distinzione porta la riflessione
scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare affatto in disparte
il concetto dell’ immanenza, in quanto esprima per avventura una morta
compren- sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo piut- tosto, che
il concetto del divenire sia l’unico ap- propriato alla natura delle
cose. Ma queste non possono divenire in Dio, assolutamente conside-
rato, mentre sono tato genere , o per parlare più giusto, infinitamente
diverse da lui. Per essere staccate da Dio, occorre che divengano in
una base differente da lui. Ma nulla potendo essere fuori di Dio,
la contradizione si scioglie solo am- mettendo, che le cose abbiano la
loro base in ciò che in Dio non è Egli stesso ', ovvero in ciò che
è base della sua esistenza. Se vogliamo accostare maggiormente
quest’ es- sere all’ intelletto umano, possiamo dire : che egli sia
il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di generare 1 È questo
l’unico vero dualismo, cioè quello che nello stesso tempo concede
un’unità. Più su era in questione il dualismo modificato, secondo cui il
principio malvagio è, non coordinato, ma subordinato al buono. C’e appena
datemere che qualcuno confonda il rapporto stabilito qui con quel
dualismo, in cui il subordinato è sempre un principio es- senzialmente
cattivo, e appunto perciò rimane totalmente incomprensibile nella sua
origine da Dio. se stesso. Non è l’Uno stesso, ma pure è coeterno
con lui. Vuol generare Dio, cioè l’impenetrabile unità, ma in questo
senso non è in se stess’o an cora V unità. È dunque, considerato per sè,
anche volere; ma volere in cui non c’è intelligenza, e però anche,
non autonomo e perfetto volere, perchè l’in- telletto propriamente è il
volere nel volere. Tuttavia esso è un volere che si dirige all’
intelletto, cioè desiderio e brama di esso; non un conscio, ma un
presago volere, il cui presagio è l’intelletto. Noi parliamo dell’essenza
del desiderio in sè e per sè considerata, che dev’essere ben tenuta
d’occhio quantunque sia stata da gran tempo sop- piantata dal principio
superiore, che si è elevato da essa, e quantunque non possiamo
afferrarla sensibilmente, ma solo con lo spirito e col pen- siero.
Secondo l’eterno atto dell' auto- rivelazione, tutto invero nel mondo,
come lo scorgiamo adesso, è regola, ordine e forma; ma nel fondo c’è
pur sempre l’irregolare, come se una volta dovesse ricomparire alla
luce, e non sembra mai che l’ or- dine e la forma siano l’originario, ma
che qual- cosa di originariamente irregolare sia stata solle- vata
ad ordine. Questo è nelle cose l’inafferrabile base della realtà, il
residuo non mai appariscente, ciò, che, per quanti sforzi si facciano,
non si può risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel fondo
eternamente. Da questo Irrazionale è,- nel senso proprio, nato l’
intelletto. Senza il precedere di questa oscurità, non v’è alcuna realtà
della creatura; la tenebra è il suo retaggio necessario. Dio solo —
egli medesimo l’Esistente — abita nella pura luce, poiché egli solo è da
se stesso. La presunzione dell’ uomo si ribella assolutamente a
quest’origine, e anzi va in cerca di principi! morali. Tuttavia non
sapremmo che cos'altro po- tesse maggiormente spinger l’ uomo a tendere
con tutte le sue forze verso la luce, che la coscienza della
profonda notte, da cui egli è stato tratto al- l’esistenza. I lamenti
feminei, che in tal modo si ponga F inintelligente come radice
dell’intelletto, la notte come principio della luce, si fondano in
parte su di un’equivoca interpretazione della cosa (in quanto non si
capisce, come con questa ve- duta la priorità dell’intelletto e
dell’essenza secon- do il concetto possa tuttavia sussistere); ma
essi esprimono il vero sistema degli odierni filosofi, che
volentieri produrrebbero fumum ex fulgore, al che non basta la
potentissima precipitazione fich- tiana. Ogni nascita è nascita dall’
oscurità alla luce; il seme dev’essere profondato nella terra e
morire nelle tenebre, affinchè la bella e luminosa forma vegetale si
aderga e si spieghi ai raggi del sole. L’uomo vien formato nel corpo
della madre; e dal buio dell’irrazionale (dal sentimento, dalla
brama , 1 splendida madre della conoscenza) germo- gliano i luminosi
pensieri. Noi pertanto dobbia- mo rappresentarci la brama originaria, come
diri- gentesi verso l’intelletto, che essa non ancora conosce, così
come noi nell’aspirazione aneliamo ad un bene ignoto e senza nome, e
agitantesi pre- saga, come un mare che ondeggia e ribolle, simile
alla materia di Platone, secondo una legge oscura ed incerta, senza la
capacità di formare qualcosa che duri. Ma, rispondendo alla brama, che,
quale fondamento ancora oscuro, è il primo segno di vita
dell’essere divino, si genera in Dio stesso un’ intima riflessiva
rappresentazione, mercè la quale, poiché non può avere altro oggetto
che Dio, Dio contempla in una immagine se stesso. Tale
rappresentazione è la prima forma in cui si realizza Dio, assolutamente
considerato, benché solo in lui stesso ; è in Dio inizialmente, ed è
Dio 1 Nel testo: « Sehnsucht ». stesso generato in Dio. Tale
rappresentazione è ad un tempo l’ intelletto — il verbo di quell’
aspi-, razione,* e l’eterno spirito, che sente in ih il verbo e
insieme l’infinita aspirazione, mosso dal- l’amore, che è egli medesimo, esprime
il verbo, che oramai, accoppiandosi l’intelletto all’aspira- zione,
diviene volontà liberamente creativa e onni- potente, e nella natura,
dapprincipio sregolata, pro- duce come in un suo elemento o strumento.
11 primo effetto dell’ intelligenza in essa è la separa- zione
delle forze, potendo egli solo così dispie- gare l’unità che vi è
contenuta inconsciamente, quasi in un seme, eppur necessariamente, a
quel modo stesso che nell’ uomo la luce s’ insinua nel- l’oscuro
desiderio di cercare qualcosa, per il fatto, che nel caotico tumulto dei
pensieri, che tutti s’intrecciano, ma ognuno impedisce all’altro di
sor- gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità, che è nascosta
nel fondo e che tutti li comprende sotto di sè; o come nella pianta, solo
nel rapporto del di- spiegarsi e propagarsi delle forze, si scioglie
l’o- scuro vincolo della gravità e viene a svilupparsi l’unità
nascosta nella materia distinta. Poiché in- vero quest’essere (della
natura primordiale) non è altro che l’eterno fondamento dell’esistenza
di Dio, perciò deve contenere in se stesso, benché chiara,
l’essenza di Dio, quasi un lume di vita risplendente nell’oscurità. II
desiderio poi, eccitato dall’ intelligenza, tende ormai a conservare quel
lume di vita che ha accolto in sè, e a rinchiudersi in se stesso, per
rimanere pur sempre come fon- damento. Quando perciò l’intelletto, o il
lume posto nella natura primordiale, spinge alla sepa- razione
delle forze (all’abbandono dell’oscurità) il desiderio che si ritira in
se stesso, facendo sor- 1 Nel senso in cui si dice: la parola
dell’enigma. gere, appunto in questa separazione, l’unità
in- clusa nel distinto, il nascosto lume di vita, nasce in tal modo
per la prima volta alcunché di com- prensibile o di singolo, e in verità,
non per via di rappresentazione esterna, bensì di vera imma-
ginazione , ' poiché quel che sorge nella natura è figurato di dentro; o,
più esattamente ancora, per via di un risveglio, in quanto che
l’intelletto fa sorgere l’unità o l’idea occultata nel fondamen-
tale distinto . 1 2 Le forze separate (ma non comple- tamente staccate)
in tale distinzione son la materia, onde poi è configurato il corpo;
invece il legame vivente che nasce nella distinzione, e però
dall’imo fondo naturale, come centro delle forze, è l’ani- ma.
Siccome l’intelletto originario trae l’anima, come elemento interiore, da
un fondo indipen- den e da esso, rimane perciò anch’essa indipen-
dente, come un’essenza speciale e sussistente di per sé. È facile
vedere, che nella resistenza del desi- derio, necessaria alla perfetta
nascita, il legame strettissimo delle forze si scioglie in uno
svolgi- mento che avviene per gradi e, ad ogni grado della
separazione delle forze, sorge dalla natura un nuovo essere, la cui anima
sarà tanto più perfet- ta, quanto più contiene distinto ciò, che
negli altri è ancora indistinto. Mostrare come ogni suc- cessivo
processo venga ad avvicinarsi sempre più all’essenza della natura, finché
nella massima separazione delle forze si schiude il più intimo
centro, è ufficio di una perfetta filosofia della natura. Per lo scopo
presente è essenziale quanto segue. Ognuno degli esseri, sorti nella
natura 1 Nel testo ; Ein-Bildilng, onde un gioco di parole
intra- ducibile nella nostra lingua. Alla lettera; « nel fondamento
distinto »; in dcm geschie- denen Grande. (N. d. T). secondo la
maniera indicata, ha in sè un doppio principio, che è uno e identico in
fondo, ma si- può considerare sotto due aspetti. Il primo prin-
cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio, o per cui sono nel solo
fondamento; ma, siccome tra ciò, che è esemplato nel fondamento, e
ciò, che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo una originaria
unità, e il processo della creazione tende solo a trasmutare internamente
o a rischiarare nella luce il principio originariamente oscuro
(perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella na- tura, cerca in fondo
propriamente la luce affine, rivolta a loro): così il principio tenebroso
per sua natura è appunto quello, che è insieme rischia- rato nella
luce, ed entrambi, sebbene in determi- nato grado, son uno in ogni essere
naturale. Il principio, in quanto nasce dal fondo ed è oscuro, è il
volere individuale della creatura, il quale però, in quanto non è ancora
assurto (non comprende) a perfetta unità con la luce (come principio
del- l’intelletto), è mera passione o brama, ossia vo- lere cieco.
A questo volere individuale della crea- tura si contrappone l’intelletto
come volere univer- sale, che si serve del primo, subordinandolo a
sè come semplice strumento. Se infine, proce- dendo la trasformazione e
separazione di tutte le forze, è messo in piena luce il punto più
interno e profondo della primordiale oscurità in un es- sere,
allora il volere di quest’essere è bensì, in quanto esso è un individuo,
egualmente un vo- lere particolare, ma in sè, o come centro di
tutti gli altri voleri particolari, è uno col volere origi- nario o
coll’intelletto, cosicché di entrambi si fa ora un unico insieme.
Quest’elevazione del più profondo centro alla luce non accade in
nes- suna delle creature a noi visibili fuorché nel- l’uomo.
Nell’uomo è tutta la potenza del principio tenebroso e ad un tempo tutta
la potenza della luce. In lui è il più profondo abisso e il più alto
cielo, o entrambi i centri. Il volere dell’uomo è il germe occultato
nell’ eterna brama di un Dio esistente ancora nel fondamento; il divino
lume di vita chiuso nel profondo e che Dio vide, quando concepì il
volere di crear la natura. In lui soltanto (nell’ uomo) Dio ha amato il
mondo; e la brama accolse nel suo centro appunto quest’immagine di
Dio, quando entrò in conflitto con la luce. L’uomo per ciò, che egli
scaturisce dall’ imo fondo (è una creatura), ha in sè un principio
indipen- dente per rapporto a Dio; ma per ciò, che sif- fatto
principio — senza cessare tuttavia di essere tenebroso nel suo fondo — è
chiarificato nella luce, si schiude insieme in lui qualcosa di più
alto, lo spirito. Infatti l’eterno spirito esprime l’unità o il verbo
nella natura. 11 verbo espresso (reale) poi è solo nell’unità di luce e
tenebre (vocale e consonante). Ora in tutte le cose vi sono bensì i
due principii, ma senza piena conso- nanza, a causa della manchevolezza
di ciò che è elevato dal fondo. Solo nell’uomo dunque è piena-
mente espresso il verbo, che in tutte le altre cose è ancora arrestato e
incompiuto. Ma nel verbo espresso viene a rivelarsi lo spirito, cioè Dio,
esi- stente come actu. Essendo poi l’ anima identità vivente dei
due principii, essa è spirito; e lo spi- rito è in Dio. Ora, se nello
spirito dell’ uomo l’identità dei due principii fosse altrettanto
indis- solubile che in Dio, non vi sarebbe alcuna diffe- renza, cioè
Dio, come spirito, non si rivelerebbe. Quella medesima unità, che in Dio
è inseparabile, deve essere adunque separabile nell’ uomo, — ed
ecco la possibilità del bene e del male. libertà Capacità del soggetto di
agire (o di non agire) senza costrizioni o impedimenti esterni, e di
autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli.
La l. può essere definita in riferimento a tre elementi: il soggetto o i
soggetti di l. (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai
vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti che si è liberi di
perseguire (che cosa si è liberi di fare). Come vi sono vari tipi di agenti che
possono essere liberi (persone, associazioni, Stati), così vi sono molti tipi
di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono
liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte l. diverse (morale,
giuridica, politica, religiosa, economica, ecc.). Di conseguenza, quando
cerchiamo di definire stati di l., abbiamo a che fare con questioni relative
all’identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il
riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli,
entro quale campo di azione e significato sociale. La riflessione sul tema
della l. accompagna tutta lo storia del pensiero filosofico, dall’antichità
all’epoca contemporanea, con accenti e approcci diversi. Il tema
della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero di Socrate hanno un grande
rilievo i due motivi, strettamente connessi tra loro, della involontarietà del
male e dell’attraenza del bene. Socrate è convinto che nessuno fa il male
volontariamente, cioè per il gusto di fare il male, e che ognuno agisce sempre
in vista di quello che egli crede sia il bene e il meglio per lui. Se per
questo verso Socrate resta all’interno del cosiddetto soggettivismo dei
sofisti, nel senso che anche per lui non è mai possibile uscire dall’ambito
delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali, tuttavia questi
vengono continuamente giudicati, criticati e discussi attraverso il διαλέγεσϑαι
(«il disputare») e ciò permette di ritrovare criteri comuni e validi
universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire seguire un bene apparente
invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il bene, lo farebbe anche,
perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la
volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è preferibile. Di qui
l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente connessa all’eudemonismo
che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui, implicitamente, una
concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa
concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di una prospettiva
escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il guerriero che ha
passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha visto. L’anima,
che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i peccati che ha
commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può scegliere fra vari
«modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della propria scelta, «la
divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla nella sua
vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione, non ci
sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa
riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è
possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in
Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza. Secondo
l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie sono quelle
operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la costrizione ha
luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente,
o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle azioni commesse per
ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni malvagio ignora ciò che
si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare dunque, conclude
Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova nell’agente che
conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In questo modo
Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria.
Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino nelle
Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra
libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci
domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che
nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del
volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta
tendenza»; è necessar io, insomma, che «la ragione e la conoscenza si
rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a
un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che
sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi
Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che
agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi,
invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità
del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza». Cristianesimo e
Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del
cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e
l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i
Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è
realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese,
ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della
filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova
idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo
come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è
destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che
questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà.
Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché
senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe
senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi
strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e
indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana
e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere
umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che
certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene
che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello
stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino
risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero
arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole,
ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino,
l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso
possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta,
sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto,
non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti
diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della
l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo
appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel
quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa
accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con
maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure
dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la
questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono
le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio
umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più
rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor-
matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione
la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a
un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l.
cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei
privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione
ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il
concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo
della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola
di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o
secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il
rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua
sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla
concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato
politico-giuridico. Il dibattito su libertà e necessità. Nel
Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il
concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero
arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della
necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant,
con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni
dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l.
morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che
la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire
la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla
legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il
nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro
essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si
presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina
teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece meccanicamente
causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande
concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da
alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere,
immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o
anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria
indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un
concetto più concreto della l., quello della l. come autodeterminazione e
intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le
filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale.
E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni
dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza
di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l.
d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l. come processo
speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero di Marx, che
identifica la l. con un processo di liberazione economica, politica e sociale
volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le
condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per
tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo,
per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità,
piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia
dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere
con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha
altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza
inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla Sartre sostiene che
l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è
la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta
di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le
scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive. Il
dibattito contemporaneo. Il significato politico-giuridico del concetto di l. è
al centro del dibattito contemporaneo. Particolarmente influente è stata a questo
riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra
l. da e l. di: la prima concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe
essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza
interferenze da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area in cui si
situa la fonte del controllo e dell’interferenza che può determinare che
qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. La l. negativa
corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che ne definisce appunto il
senso e il valore nella celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’;
essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto della l.
negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è circoscritta da un
confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera
‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da quella collettiva.
L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come
assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima,
che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile l’autonomia
individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l. si è
espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o, meglio,
il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive
che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile,
compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di
Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria
rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto
principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della
distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni
sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità
dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella
distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non
ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un
ordinamento fra l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul
principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la
l. e un altro valore sociale quale l’uguaglianza. A questa prospettiva, e ai
suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone
radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. In
partic., Nozick ha confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di
proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa
sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto
distributivo è inaccettabile perché non può che violare la l. individuale
stessa. Nella più recente controversia nell’ambito della teoria normativa, il
conflitto distributivo ha finito per lasciare spazio ad altro tipo di
conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E
questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così connesse a
questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a
questioni di inclusione in o esclusione da comunità di ‘pari’ dai differenti
confini.Elzeviro Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe
Catalfamo. Keywords: metafisica della libertà, il concetto di persona, la
transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale, il concetto
di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Catena: l’implicatura
conversazionale della logica matematica -- logica arimmetica – la base
arimmetica della metafisica – filosofia veneziana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venezia).
Filosofo italiano. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an
Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa
loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist –
consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’
an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale, indaga
i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in
seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore
pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei. Pubblica a Venezia “Universa loca in logica
Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere
aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere
matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca
mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi
mobilis motus deprehenduntur canones” (Padova, Fabri); “Oratio pro idea
methodi” (Padova, Percacino). Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi
illustri, et eminenti dell'inclita e marauigliosa città di Venetia, per E. Deuchino.
Domus Galilæ Biografia universale antica e moderna; ossia, storia per alfabeto
della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere,
azioni, talenti, virtù e delitti; Catalogo breve de gl'illustri et famosi
scrittori venetiani (Rossi); Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle
radici della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra
matematica e logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject, Catena writes two works, in one of which,
Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas (Venezia), he
tries to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of
demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Dizionario
biografico degli italiani. Della sua vita si
conoscono pochissimi elementi: nacque a Venezia nel 1501; nel 1547 fu nominato
lettore di matematiche presso l'università di Padova (la stessa cattedra che
occupò più tardi Galileo Galilei). Morì di peste a Padova nel 1576. L'importanza
storica del C. consiste nel fatto che egli fu uno dei primi, nel sec. XVI, a
porsi il problema della valutazione formale ed epistemologica della matematica
euclidea, naturalmente dal punto di vista della logica e della filosofia
aristoteliche, inserendosi in tal modo autorevolmente nella quaestio de
certitudine mathematicarum che a metà del Cinquecento impegnò noti autori
dell'università padovana, come Francesco Barozzi ed Alessandro Piccolomini,
nell'ambito del più vasto dibattito europeo sulla methodus delle scienze.
ADVERTISING A questo riguardo assumono particolare importanza tre sue opere:
Universa loca in Logicam Aristotelis in mathematicas disciplinas (Venetiis
1556); Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis
(ibid. 1561); Oratio pro idea methodi composta nel 1547(Patavii 1563). Nelle
prime due il C. svolse un'analisi formale della matematica euclidea attraverso
la quale concluse per una sua differenza strutturale, e quindi per una sua
autonomia logica ed epistemologica, nei confronti della logica sillogistica
aristotelica, basandosi principalmente sulla constatazione che le dimostrazioni
matematiche non appartengono al genere tradizionale delle cosiddette
demonstrationes potissimae, e giungendo ad affermare decisamente che la scienza
matematica si differenzia nettamente da qualsiasi scienza di tipo aristotelico.
La differenza metodologica che distingueva la matematica euclidea dalle
restanti scienze in uso nel Cinquecento venne posta in rilievo dal C. nella
terza opera, ove affermò chiaramente il legittimo costituirsi della matematica
come metodo scientifico autonomo, intervenendo così costruttivamente nel
dibattito sulla methodus, che ancora si trascinava in quegli anni, e
contribuendo soprattutto alla creazione di un clima culturale favorevole alla
rivoluzione scientifica galileiana con l'ampliare notevolmente la prospettiva
gnoseologica tradizionale. Oltre alle citate, il C. scrisse diverse altre
opere: Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones (Patavii
1549),che costituisce una correzione ed un aggiornamento di un'altra opera
anonima, che fu pubblicata a Venezia, e che tratta dell'uso pratico del noto
strumento astronomico; Sphaera (Patavii 1561), un trattato di astronomia,
redatto probabilmente ad uso degli studenti, in cui viene esposto il sistemato
tolemaico, e che, pur basandosi naturalmente su trattati analoghi, allora
notoriamente numerosi, rappresenta l'opera astronomica più compiuta del C.;
Procli Diadochi Sphaera (Patavii 1565),traduzione del noto trattato del matematico
e filosofo neoplatonico; De primo mobili librum singularem; Ephemerides annorum
XII; De calculo astronomico libros II; queste tre ultime sono citate dal
Papadopoli e dal Poggendorff senz'altra indicazione e non se ne è rintracciato
alcun esemplare. Nel corso della sua attività accademica, il C. trattò
successivamente del primo e del settimo libro degli Elementi di Euclide, della
Sphaera del Sacrobosco. della teoria dell'astrolabio, della geografia di
Tolomeo, dell'astronomia del sistema tolemaico, e, probabilmente delle
"meccaniche" di Aristotele, come viene affermato da Bernardino Baldi,
che fu suo allievo, e da lui stesso in una sua opera (Universa loca, cit., p.
81). Fonti e Bibl.: N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, Venetiis
1726, I, p. 325; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., Venezia 1735, p.
114; P. Riccardi, Biblioteca matematica ital. dalla origine della stampa ai
primi anni del sec. XIX, Modena 1870-1880, I, col. 13; II, coll. 113-114;
IV,col. 200; V, col. 45;VII,col. 22; A. Favaro, I lettori di matematiche
nell'univers. di Padova…, in Istituto per la storia dell'Università di Padova,
Memorie e docum. per la storia della Università di Padova, Padova, Giacobbe, La
riflessione metamatematica di P. C., in Physis, XV (1973), 2, pp. 178-196; Id.,
La riflessione epistemologica rinascimentale: le opere di P. C. sui rapporti
tra matematica e logica, con riproduzione dei testi originali, Pisa 1978; Ch.
G. Jocher, Allgemeines Gelehrten-Lexicon, ad Indicem; Nouvelle Biogr.
Universelle, ad Indicem;Biogr. Universelle, VII, p. 202; British Museum,
General Catalogue of Printed Books XXXV, col. 350; J. C. Poggendorff,
Biogr.-Lit. Handw. z. Gesch. d. ex. Wissensch., ARTIVM ET THEOLOGIAE DOCTOR,
PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO PATAVINO, SVPER LOCA
MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis Ariſtotelis nunc & non
antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO, LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud Cominum
de Tridinum Montisferrati. PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL
song CO EXCBLLBN TISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum Ariſtotelis quædamloca
obſcuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara,
& per ea co tera loca maiori difficulta ti inherentia declaraban tur, ob id
autem illis con tingit, quod veritatis amatores & philoſophiæ principes
videri apud exteras nationes cupiebant, quod & re ipfa tales
exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id
autem, alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam
auaritiæ fine præſtituto(latinos hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis,
vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus explicant) philoſophiæ extremis
partibus ita incumbunt A vt ſemper lutuoli,verlantesin excrementa naturæ
appareant, quod quidem laude dignum effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú
boni viri faciunt aliqui egros inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non
erat conſilium,ničí Reuerendus domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia
foſca. rena Canonicus Veronenſis, virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione
& auaritia immu nem oftenderet, cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis
declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco pum attigerint, vt exiſtimo & tibi
fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon
piger animus noſter erit, quod fi minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc
noftra expoſitio,interimmegratum habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI
TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic modus differre à dictis ſyle logiſmis
nequeenim ex veris, &primis ratioci natur pſeudographus,neque ex
probabilibus, nem in deffinitionem non cadit; neque enim quæ omni. bus videntur
accipit, neque quæ plurimu i,neque qnæ fapientibus, & his neque omnibus
neque plu. rimum, neque probatiſſimis; ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie
fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit,nam vel.eo quod femi circulos
deſcribit non vt oportet, vel eo quòd lineas aliquas dicit non vt ducendæ ſunt
paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, & Latini vſque ad locum
illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo. metrico,ad quem locum pręclari
expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris, & funibus
reliquerunt Ariſtotelem, vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui
illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci notitia priuati fint,
quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine, vt amatores Ariſtotelis
eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte
inu liles, line Geometria logiculos, legantfine liuore & vafricia expo
fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes non quidem criſpis
naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö fuit, ficut in
cæteris ipſe Ariſtoles, hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim, quiſquevt
intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur pariterque eorum
indocta audatia, fufcipiatur igitur recta linea, a bquę feccetur quomoçunque
contingat in puncto c, & ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī
petitū docet, facto d centro vnius & e alterius deſcribatur perperā
ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū
huius ſemicirculiah cipſum d, illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur
d; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ lineæ ad h contactum, & intelligatur
Triangulus d he, quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad
circunferentiam ipfæ per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per
eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt æquales, duæ igiturdc & ce
duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli
dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem
triangulidh & e h,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum
Euclidis,duo enim latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta, ſunt maiora
reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur
proteruus,hocau. cem vitium non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con
fectus,quia ex veris, & immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex
definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus affectus eſt,ſed error atque
peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit
nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum
fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet
femicirculos diſcriben tes, fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd
& circa vtranq ac, &db, rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem
tangentes in puncto e alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g,
&a centro fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta,
tunc triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod
fic perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad
circunferentiam, fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione, fi igitur c d
linea addatur lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus
trigoni fe gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi
clemcntorum,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum
facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g, illa non tranfibit per
contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per
punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe
contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur linea illa de
neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit
Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho, qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo.
Situs eft. Similiter vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod
ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum
fignificat. RES duorum generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen
generis remoti &analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine
continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem,effe magnitudinem duorum
cubitorum, &quid, quando dicit magnitudinem, et quantum, quando
dicit,cubitorum duorum, hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri
quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum, quomodo
vnum accidens,vt duorum,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere
magnicudini,quod ad Geometriam attineta. QVAEDAM enim statim &nominibus
alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem, acuto,
obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat
Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem, # US Angulus accutus
rectominor & contrarius eft obruſo, &voxac cuta graui vociopponitur, et
graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed
dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium, quo pacto acuto angulo obtufus
contrarius fit? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan.
titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa
pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta, fed no eſ
pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero
queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile, nihil.
DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus
declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe
quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam
atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu,
ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui
tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro,
vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius
dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem
incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia
quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria,Pręterea & li opponanturcommenſurabi
liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non
tamen ratione ſubſtractorum,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria
effe dicuntur, potus enim fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio
autem, quæ ex potu prouenit opponitur contrarie triſtitiæ, quæ prouenit ex
fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita
ſeorfim, incommenſurabilitas autem relatio eft; quæ indiſcriminatim funda tur
in coſta,ad diametrum & in diainetro ad coftam. CON SIMILITER autem et
acutum,nam non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox,quemad
modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco
conſiderandum, a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum, ſed
pro ſono, qui quidem fita cordulis inſtrumentorum, nam gratilior corda fitan
gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula, fiea dem vi
moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad
percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam,diapaffon, fi
fefqualteram, diapente, fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici
continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro
quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex
proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha.
gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia
Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri
videbantur. ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero, nam vtrun. que eft
principium. PRÍNCIPIV M lineæ punctus, principium autem nu merivnitas eſt, ſed
punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus
demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque
componunt, principium tamé lineç atque finis,punctus eſt ex cuius fluxu linea
fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui,
non tamen linea ex punctis conſtat, VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne
eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto
allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum,niſi cuius ſit
duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC
autem non ſemper faciendum, fed quando non facile pojumus communem in omnibus
vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos
isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha
beat tres angulos duobus rectis æquales, ſed illud dubium eft,an id quod
rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid
horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed
vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an
potius triangulum effe, ad quam dübitacionein, dico quod duobusrectis pates
habere angulos, eſt quid communius, quam efſetrigonum, id autem inanifeſtum eſt
de pentagono, cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat latera,
id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per fecundam
partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft,
& fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen
habere om nes angulos equales duobus rectis,conuertitur cum effe trigonuir.
Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi
trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex reliquis latera, habet
tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres duobus rectis pares funt,
& fic figuramihabentem B omnes angulos duobusrectis pares communius eft,
quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio trianguli neque angulorum triangu.
li, fed quid communius trigono, vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius
proprium,quod videturfoluere dubium fuper textu mo tum,fed affectio trianguli
eft habere tantum tres equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis,
conuenit tribus angulis figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle
çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt
fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re b Etis æquales habeat tres
angulos, ſecun. dum accidens autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit
triangulo,& qui. laterum effe trian gulum, perhocco gnoſcimusquòdduo bus
reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele,
quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero
Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed
per accidens, fic vt hæc predicatio, Iloſcheles habet tres duobusrectispares,
ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo
modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt
ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft
&inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo,
inferioriautem, per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus,
primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé &
per accidens, vtpura circa triangulum, per fe quidem fic, tri angulus habet
tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles;
vbi aduertendum,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius
ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur
inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. SIQVIS infecabiles
ponens lineas, indiviſibile genus earum dicat eſſe, nam linearum habentium
diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum
ſpecicm, indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes.
TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati donatus quem
Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe
dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem litteræ
affequendam, me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum,vt Ariſtotelis
decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius
habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi
de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit,
quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft
indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id, quia,diuiſibile,genus
eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien.
tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit, vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei,
& genere fint diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas
aliquas, genus effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis
infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur (fal ſo tamen ) ad illas eſſe
genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum
etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter
contradictionem, ET ſi differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem,vt im par
quidem numerum, Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque
videtur participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties,
vel indiuiduum eſt, differentia autem, neque fpeties, neque indiuiduum,
manifeftum igitur quoniam non participat genus differentia, quare neque
imparopetieserit, fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV
S quieſt ex vnitatibus profuſa multitudo,paro; titur in numeruin imparem,
&in numerum parem, vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas,
& imparitas, quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri
ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale
accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto,
qux eſt hominis conſtitutiua differentia,eodem modo, & numerus prædi catur
de pari in concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles
illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt
numerus,quodquia oinnia manifeſta, & nora Ariſtoteles cíle vo. luit,
exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt
contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem, non enim neceſſariuin contingui.
tatem continuitaternelle, led e conuerſo, continuitatem contigui tatem non enim
omne contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum
effe dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem
terminus elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam
actu, &opere, vt linea lineæ continuatur per punctum, qui non actu exiſtit,
ſed tantum potentia inter illas duas lineas, velinter duas partes linex, quod
& de partibus ſuperficiei, quæ per lineam in potentia copu lantur,
&corporis partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe
dico, quod alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia
exiſtens,fed per mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de
cæleſtibus orbibus, concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem
defferentis, & fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due
ſuperficies actu exiſtēres inedia, per quas continguantur adinuicem illi orbes,
non tamen continu: antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, &
con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis
actu exiſtentem,non tamen fequitur, primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera,
igitur continuum eſt cum nona iphera,quemadmodī non fequitur, quinque digiti
adinuicem funt contigui, igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur,
quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt
quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui,vel
aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas, vel etiain cirotececontiguantur,
& ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur, ne
vacuum daretur in natura. CONSIDERAN DV M autem eſt, fi quod translatiue.
dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam, confonantiam, nam omnegenus
proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia,non proprie,fed
translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium
vocum acuti gra. uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris
percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue
dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat, non quidem a ſo no, quæ eft aeris
percuſsio, fed illa quidem eſt, quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem
non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia, quæ nil
aliud eſt, quam coeleſtium motuumdiuerſorum,in vnam munditotius conſeruationem
apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in
libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de
quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin. no Scipionis nomen indidit,
docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam
libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles. AVRSV
M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus, vt fi duplum
dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit
multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om. nia
fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes
omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant, vt duo,
cenarius eſt abundans, quia 6,4, 3, 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent
maiorem numerum duodenario, de quo quidem abun. danti, qui eſt fimilis
centimanugiganti, non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft,
quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem, & ſuperparrienrem,
abundans præterea,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de
multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus
ſub illis contentis, dicitur,duplum igitur triplum,quadruplumque cummultiplun
lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non
eritmultiplum,neque etiam duplum, itaque abundans vniuer lale magis quam
multiplum eft. 1 era QVONIAM autem muſicum, qua muſicum eftfciens,elle muſica
ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit, nõ quathenus cantorem,
qualitas eſt de prima qualitatis fpecie,quathenus autem ſcientia eft,
&fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in
prædicamentis determinatum. NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam
diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam
numero conuenit, non tamen omni numero, ſed numero tantum pari,impari autem ob
vnitatis interuëtum nequaquam, Veletiam melius erit dictu, diuifibilitas in duo
æqualia, numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni
numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo
æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur, fic vtdiuiſibilitas in
partes integrales cuilibetnumero conueniat, non diuiſibilitas in partes
aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte
etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili. bilitas in tot partes, quot
vnitates habet;in plus igitur ideft,quod diuiſibile eft, quam id,quod numerum
eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum, quod in partes aliquotas
&in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum,ſequitur igitur
recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id,
quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo, vt
diui fibile eft, igitur numerus, LOGICVM problema. PROBLEMA apud Euclidem eſt
propoſitio,in qua vnum datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper
datamrectam li neam triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au
tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam datam, ſem per enim problema
verſatur circa praxim,quapropter, problema Geometricum,eftpropofitio practica,
Theoremavero Geometri. cum,eſt ſpeculatiua propoſitio,modo Ariſtoteles non
ingnarus hu. ius duplicis fignificationis problematis Geometricc, &
logice,pro pofitionem dubiam ad vtráque partem, dixit problema logicum,
&non Geometricum debuifTe intelligi, inquit enim, logicum au tem eſt
problema,ad quod rationes fiunt, &crebræ quidē, & bong ERIT enim
ſecundum hoc bene poſitum humidiproprium, vt qui,qui dixit humidiproprium,
corpus quod in omnem figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium, o non plura,erit
fecundum boc bene pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore
locante humidum,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit,
ſuſcipit quan cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue
etiamarti ficis opere introducta fit, in illo vaſe locantehumidum, accipere
igitur hocmodo figuram a re locante, proprium eft ipfius humi di, & non
alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile extra ſenſum faftum,immanifeftum eft,
latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem
verum hoc,in his, quæ non ex neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui
pofuitſolis proprium, aštrum quod fertur fuper terram lucidiſſimum, tale vſus
eſtin proprio (ſuper terram in, quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique
erit benefolis af fignatum proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol,
si adhuc ferratur fuper terram, eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium. CECVS enim
huius quod eft, folem fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem,ſed videns,
illius ſenſationem habet quan do folem ſuper terram in die artificiali
conſpexerit, quam primum autem fol occiderit, & fub orizonte conditus
fuerit, definit ſenſus percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud
proprium eſſet folis, illo deficiente, (quod contingeret nullo conſpiciente ſo
lem ferri ſuper terram ) proprio, & Sol, effe defficeret, quod quia
abſurdum, non igitur proprium eft folis eum videri ferri fuper terram, licet
femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam, haud folis proprium eft, cum
fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat, id autem quod proprium eſt,
conuenit omni foli & femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non
conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis,
conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram, & fi proprium ſolis ef
fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum,perceptibile,vel
intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum, ipfi tantum foli
conuenit, CONSTRVENTI vero, fi tale aßignauerit proprium, quod non ſenſu est
manifeſtum, aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc
benepoſitum proprium, vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum
coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale
quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum
fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt, ſub.
ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum,etideo corpus co loratum eft,
quia ſuum extremum eft coloratū, extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo
corpuscontinetur ſuperficies eft, in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud
autem proprium,non ex natura ſu perficiei profluit, fed extrinſece aduenit
color ipſi ſuperficiei, quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas, fed
cum ſenſibili per fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat
exiſtimatio, et quia ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte
pro prium afsignabit ſuperficiei, fiquis dixerit eain effe coloratam & erit
proprium ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura
ſuperficiei. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque
eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc
quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud
cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium,quod pofitum eſt elle
proprium, vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione
(nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro
prium, non decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles
determinauit de Geometra primo poſteriorum,vbi ait Geometram non mentiri
concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed
fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit, fed vtera quelocorum
mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī
interne concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé
prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id
ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed
linguæ ſæpe etiam contingit, quis enim id in feipfo non eft expertus. vt quan
doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius
conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam
ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet (vt interiusprius mente
concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin,non tamen id
proprium eft Geometræ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat, ſed raſo
etiam vni accidat. SIMPLICITER igiturnotius, quod prius eſt poſteriore, vt
punctum linca, o linea ſuperficie, & ſuperficiesſolido, quem admodum vnitas
numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra
determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi
determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea
contenta: pro cuius loci huius &illius intelligentia, fcire debes
deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio
per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod Euclides,vbilineam
rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum explicuit,quiin deffinitionem
lineæ ponere, tur, vt furt declaratum capite de per ſe,primopofteriorum fubinde
lineam per punctum, & fuperficies per lineam, & tandem libro 11, corpus
per ſuperficiem deffiniuit, quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea
ab eo modo, quo vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit
manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur, quo nam modo corpore ſuperficies, &
fuperficie linea, &linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud
Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum
abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in
puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de
circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali
con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro
no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe,
vtduplum, line dimidio. ID notandum euenit hoc loco, quod Ariſtotiles capite de
ad ali quid poft multa examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non eft,
cuius effe fit elle alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo refferri,
vt dupli efTe, fic eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft duplum minimne
poflit percipi, licet non cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed
tantum quathenus duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa
duplatione duplum eft. OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem,
vt quod, dies, eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem (qui
incipit ab emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in
definitione lationem ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui
die vtitur & ſole vei neceffe eft, acquiſolem deffinir, ſtellam in die
apparentem dicit, in qua deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea,
quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur, id quod e
diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare, fimul
enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem &
parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia. PRETER eas quas Euclidesin
elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari
numero dederunt,hęc Vna eít,qua in comparatione & non abfolute
imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi
que at, & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par, vnitatem
imparem feptem ſuperet, & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat.
Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in
deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur
& non abfolure, SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora
deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur, name bipartite ſuma ptumest à
duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus
tamen fa. cilis eſt, ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius
fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt
par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi
arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio,
neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro
numerato, vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in
pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro
quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus
profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin
deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt
ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius
inferioreſtad numerum parem,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint
pares numeri,modoqui in deffinitione nu. meri paris vtitur bipartiri, ille
quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore, AVT rurſum qui deffinit
noĉtum umbram terra. TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof.
funt illud ingredi & vltra progredi (quod in traſparenti aericone tingit,)
ſed impediuntur a parte terræ, quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ
parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox
appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft
priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens, fimiliter terram quis
deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto
&ter am in deffenitione noctis, & noctem in deffitione terræ &
vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis verba
in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio, quæ
quia alias declarata ſunt pretereunda duxi, fed id no. tandum eft quod in
deffinitione priuatiui, vtputa noctis, ponitur poftiuum, vtputa terra, quod
etiam in multis eft aduertendum, quia non ſolum ponitur pofitiuum,fed etiam
priuatiuum, vtly pri uatio lurninis. Si autem aliquurum complexorum aßignetur
terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum, quæ comple & tuntur
ora tionem, fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non,manifeftum quonia, neque
tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis
finis, cuius medium ſuperaditur extremis, ſi finalis linca ratio est,finis
plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur
extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est,
quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus
deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu
Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem, le
gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur extre mis, vbi legi debet,
cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic
interpretatur,cuius inedium non occu. lit duo extrema, & videtur afſentiri
ipfi Platoni deffinienti rectă, recta inquit linea eſt, cuius medium non
obumbrat extremna, cæ, terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum
deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua
deffini tio, fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri
bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo, nempe, homo gram
maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal
rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt
aniinal rationale mortale, &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens,
peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod
Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum,) planum
efle infini tum ſecundum longitudinem tantum, finitum ſecundum latitudi. nem,
quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet,
modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis (ſecundum
latitudinem ) fines,cuius (quidein finis) medium non relultat ab extreinis,hæc
particula, fi nes plani habentis fines, in definitione pofica recte conuenit
lineæ finalis, fed hæc particala, cuius medium non reſultat ab extremis,
nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta, velly linea,
quia non conuenit niſi recrę lineç finicę, & non infi nitę, quęinfinita, vt
fupponebatur, non habet medium, neque ex. trema,ideo deffinitio ipſius
totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in
deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti, non fic reliqna particula
deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem
differentia terminum alignauit confiderandum, fi eg alicuius numerun comunis
est aſſignatus terminus, vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit,
deter minandum est, quo pacto medium habentem, nam numerus qui dem, comunis in
vtrique rationibus eſt, imparis autem coaſſum pta eſt oratio, habent autem
&linea & corpusmedium, cum non fintimparia, quare non vtique erit
deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in
teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa
vnitasıncdium eft, linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem
punctum medium, quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur, &
fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media,vt nec punctum lineam,neque
linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea, quoruin media ſunt,
determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea
atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium
interduas partes æquales,vnitas eſt, & non de pari, ficut etiam Ariftoteles
ait in textu, ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex
fiant; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli
dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur,
pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur, vt ex ſeptimo
elementorum manifeftum eſt, non tamen idem prouenit per additionem, quia linea
lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris
adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem
addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu.
merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in
prædicamento quantitatis fuit declaratum. Avr fi eodem ab vtroque ſublato, quod
relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi, co multiplum dimidij idem
dixerit elje, fublato enim ab vtroque dimidio, reliquu oporteret indicare, non
indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de
duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud
conſiderandum eſt, quod a nega. tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis
argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum
multiplum ipfo duplo, vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, &
duplum ad dimidium, &multiplum ad ſubmultiplum. VIDET V R autem &in
diſciplinis quædam ob definitionis deffe &tum, non facile deſcribi, vt
quoniam quæ ad latusſeccat planum linea,fimiliter diuidit &lineam
&locum, definitione au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam
eandem ablatio nem babent.loca d linea, eft autem definitio eius orationis hac.
DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis
pofitæ ab Ariſtorele, definitū eft ly linea fec cās planum, definitio eft ly
linea fimi a Jiter diuidēs lineam &lo ct, fic enim Jittera ordi netur,
linea quæ ad latus ſeccat pla num, eft li. nea diuidens lineam et locuni
terminatum ab ipla linea recta, fieri enim non po teft, vt linea ſecet planum
terminatum linea, quin il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem
feccante linea, id autē manifeſtum g eft ex fecunda, tertia, & quarta
definitione tertń elementorum Euclidis, & alisexipfo tertio elemen forum,
& xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies
orationem in hocloco, vbi ait, oautem: deffinitio eius orationis, hæc, id etiam
dignī notatu cum deffinitio per genus, & differentiam detur,loco generis in
hac definitione, eſt ly linea diuidens lineam, inodo cum linea prior fit plano,
manife, ftum eft,quodde genere dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER
autem prima elementorum, pofitis qui dem definitionibus (vt quid linea vel quid
circulus) facillimum oftendere, verum non multis ad vnumquodque eorum eft
argumen tari, eo quòd nonſunt multa media, ſi autem non ponanturprinci piorum
definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco,non
ſunt intelligenda princie pia, quæ definitiones,petita,& animi conceptiones
ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt propoſitiones,quæ in probleniata &
theoremata diui duntur, quæ prima elementorum, ideo dicunturcum per ipfa, quæ
proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo
illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet
figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo care proponit prima, primi
elementorum, & pofita definitione cir culi per ipſam probatur triangulum
ſuper datam lineam colloca. tum effe æquilaterum, & folum perilla media
videlicet definition nem circuli 17 & primam animi conceptionem primi
elemento rum, quæ definitio, & animi conceptio fi prius non ponantur diffi
cile erit oftendere, fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus
fuper datam lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ
funtcirca orationes Je habe nt; non igitur latere oportet, quando difficilis
argumenta bilis eft poſitio,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A
quidem, atque circulus ſunt quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide
deffinitione tertia & 17 primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat
planum, fiue linea ſeccans planum ad latus, id totum complexum eft,atque
compoſitum, & licut fieri non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum
trianguli, abſque definitione incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit,
vt quippiam de quopiam demonftretur, quando in demonſtratione ingreditur
aliquod extremum complexum, quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio,ly
linea leccans ad latus planum, nifi prius ipfius complexi atque orationis
præierit deffinitio, quę eſt,ly linea fimiliter diuidens lineam terminantem
locum &locum, ita vtpar. ticula illa circa orationes non intelligatur yt
gramatici, & rhetores intelligunt orationes, fed oratio, pro quodam
intelligatur comple xo indiſtantitamen, hoc eft fine copula, & verbo
principali,parti cula illa, pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis
eſt pofitio, non intelligitur pro petitione, feu petito, quia petitum non eft
argu mentabile,hoc eſt per argumentum probabile,neque difficile, ne facile, cum
ſit primum principium &non probetur, fed petitio in hoc loco accipitur pro
ipfa propoſitione, quæ probanda venit, ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit,
feu problema, vel etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile
argumérabilis eft, quando inter probandam ipſam,contingit aliquod deffiniendī,
quod com plexum fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo
ſitio, & fortaffe omnino inpoſsibile, quando id quod dictum eſt
contigerit,videlicet quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem
omnino impoſsibile in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis
particula accipienda eſt. VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque
ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium, quod
octaua pars milliaris eft,pertranfiri non polle, inter genera menſu. rarum quæ
magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo
Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. OPORT ET autem eum quibene
transfert diale &tice,& non contentioſe transferre, vt
GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit; quod concludendum eft.
DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad
illam remi fecundumquam trallatio facta eft, & non debet effe
dubia,contentiofa, & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ errat
aliquo pacto circa ſuam materiam er formam, vt primo poſteriorum declaraui, vel
etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et quadratum a
nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum vel æquicrus
a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia latera, quæ vt
gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua ſequuntur ſeinuicem
ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle diametrofi oportet dia
meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum & demonſtratū quo pacto
diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis, quantum autem ad hunc locum
attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur immediate,probatio fieri debet,
fed medium debet effe aliquo modo idem cū extremis,&aliquomodo diuerſum, vt
in 10 clemë torum de diametro, &cofta eftmanifeftū,Prçterea,non eft proban
dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius
probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO,
POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla tas vfurpare dicendo non
eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit
vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui
calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis characteribus
caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur, ficut per voces
in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam
quinqueſuntduo et tria, fieri vt paria fint imparia, & maius fit æquale. SI
diuiſim ſummas3.& 2. nunquam, quinque faciunt, ſecue autem fi coniunctim,
&ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium, & binarium, quia due
ſpecies numeri, non componunt terº tiam fpeciem numerorum,ſed quinque vnitatcs
pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum. IN primo
pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum,proportionem
proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis pPomba
proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto vitioſe.
IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum, & non duplum, duplum quidem
in longuni, non duplum antem inlatum. CVM dederic eiufdem ad diuerfa: vt duo ad
uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem fecundâ diuerfa tama,
Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft,no autem dú pla in latū
immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in potentia, quod manifeſtuin
eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft, id autem manifeftum eft ex 46
primi Elementorum, Eucli dis, vel dicas ab duplam ad a cin longitudine, non
autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1: 6 . NEQYE ſi triangulusduobus
rečtis tres æquoshabet, & ei. velfigură,del primum,vel principium eſſe
dicit;quod velfigura, del primum, vel principium eſt triangulus eft, nam non
quathe nusfigura del primum pel principium, ſed quatbenus triangulus
demonftratio erat. TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea. sum prima
eſt,ita vt fic & figura, & prima, & principium,vt qui buſdam placet
omnium figurarum rectilinearum,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum;
vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie
ſupra porphirit, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat
quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales, ratione corum
quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura,vel
primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm
principium inferunt triangulum efle, arguere. tur enim ex conſequente ad
antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad
inferius, figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs
multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus,
& his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant
ex triangulo ſape ſumpto, Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens
quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem,elle flauum of melse album ege
cygnum,quod autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni
& eidem funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea
quæ propter conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum, viſifit
album ſecundum accidens, nam &nix cygnusalbedo idem,autrurſum Melyſji
oratio, ide elle poftulat,fa &tum eſſe, &principium babere',
autæqualisfieri Geandem magnitudinem accipere,quoniam enim principium ba bet
quodfa &tum eft.co quod factum eſt, babet principium,fa &tum elle
postulatstam quam ambo eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc
habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem
magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem
dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin
falatia conſeguentis adducit philofa phus, primade accidente, ve de
albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft,igitur album eſt, &
econuerſo,album eft,ige tur cygnus eft,determinat Ariſtoteles, quod album
elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum, a magis comune ad minus comuneargud do
cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in
niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly
factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum
Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt,
principium enim habere, vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim
principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam, attamen, non eft factum,
quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim.comune
eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle, in
tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis,
Tertio loco, aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo, &æqualis
magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis
igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo
'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis
quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus
triangulis eft, fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum
vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam (quæ duabos lineis ali
comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi
idem, vipatet, in 1.. tertia primi, Elementorum,cuin de longiori æqualis
breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio,
ne 11.propoſuit probandum,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod
fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt
equalia, non propoſuillet illud in quinto eile probandum,quod Ariſtoteles
confiderauit. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt
&veræ quidem,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui
contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra
pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium oportet
efle, nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque concluſiones
&cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar, guitur ab
Euclide lib, 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum campanuin, per
illam demonſtrationem, quæ ibi adduci. tur,quæ demonftratio,redargutio eft
ipfius proteruiafferentis con. trarium, fic vt pro declaratione huius textus
fatis fit, quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel
afferendi a proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt
fecunlum Geometriam Geometricus, " VIDETVR ex hoc textú quod geometra
paralogizet quod oppoſitum eft ei, quod determinatum eſt in poſterioribus,
Geometram videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico
fyllogiſmo in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit, fed de
fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux
fignifica tioni a Geometra pofita, vt quod triangulus pro circulo accipia
tur,vel error paratur in conſequentia,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis
clauditur, & vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus, vt fi
quis pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum
commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin
potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico, hic Ariſtoteles
Intelligatur, & non de Geometrico, vt in pofterioribus determi, nauit
philoſophus, & per me fuit declararā, quo modo Geometra non paralogizat lad
ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft, quod in prioribusde
prima figura dictum fuit, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE.
ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram
de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius
difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li. neis
contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod
habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus
aliquid aliud fit, a tali figura (qui triangulus eſt ) propter id quod omnes
anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs, vtoninesanguli
pentagoni,cu. ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro
fecto non diſputabit de triãgulo, quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed
ad aliud, vt ad talem pentagonum, no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos
duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares,
fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus
eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic
infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt
æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes
vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt
æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus
binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime
coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur
concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima, fed fecunda confequentia
interris matur, fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian,
tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa, & les
cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin, & conſequentia fequi tur, &
conſequens etiam falſum eſt. NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt
Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua,
drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus
est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt
contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit
lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram
rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram,
ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe
reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt
ad cir. culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad
exagonum, & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti
circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo, &
fic preudographus factus eſt, Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo
& infcribens circulo quadratum,vterque fo phiſtice proceſsit,et
fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero
in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia, &
quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice,
tamen non fecun dum rem, vt non per principia propria, neque per
deſcriptionetti diagramatum,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum,nec ex
neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis
principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo
fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera,vt quæ Brilonis,
non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra. cis,vti Ariſtoteles inferius in hoc
capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam
habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam, namex eiſdem, diferendi
modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt
contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte
pſeudographa facit,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia
quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem, quæper lunulas
non contentio Sa, Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit
vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex
principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in
quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis &
theorematibus Geometriæ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria, fed
etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia
inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ
ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft,
pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat
principium Geometriæ, quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis,
& negat etiam li. neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe
curuum, & cur uum rectum, & dari duo puncta inmediata in linea
circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui
conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea. VT
impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus,
numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im
minutione, vt quinarius a quaternario, & ſenario, in his igitur vo cibus,
ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in
his quæ ad aliquid dicuntur, vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic
ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium. Sed numerus eft
impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur
in concluſionc, inaniter factum. ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis
confia gurationibus, vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non
queamus. OVADRATVM, penthagonum, & cæteras figuras re. etilineas reſoluimus
in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta
in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ,
vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum
effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris, quod non ea facilitate idem
componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo
metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura
rectilinea in triangulos refoluatur, fecus auteminri athmetica de mente
pythagoræ, tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum
ſpecies, componitur ex præcedenu fpecie et triangulo,vt eo loco demonftratur,
vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus
triangulorum, vt illis declaratur locis. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв
LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas
f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI,COLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum
limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum
eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena
Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino
Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique
publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI
GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel
ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim
indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti
funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly
aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in
Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ
Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus
imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum;
ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ
Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano:
LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius
ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe
fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena
Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino
Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique
publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK
PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO
LAVRETANO EPISCOPO NONENSI AC PATRONO S V O COLENDISSIMO. S. P. மரா
NTER munera,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura
nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes, ad poftremum haud
quaquam adducitur ipſa ratio, nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur
ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit
ipſum naturæ aduerſari, atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt,
quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum
rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat, hac de caufaconſiderans hominum
mentes eodem effe quo arua fato, quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala
perfe runt germina,uidiſſem multos, qui philofophi nominari uolunt prepoſteris
imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra, quibusuellicandisne unus
quidem Herculesſatiseffet, uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius
in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que
stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis, fimiles
factifunt oculo, qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij
decreuiquoingenijuires,etiam fi exignas(nam apprime noui quàm fitmihi
curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro, id autem tam
comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem,
quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi
cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam, ad huius etiam
clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD..
Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis
opus imprimeba tur, hortabaturque me ille, ne opus hocpermiterem ex ire in ho
minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac
tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa, autoppoſita
his effent que interpretati ſunt. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui
& Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes
Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia
il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur,
curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci, qua in reſi effe cerim quod
uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo
nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres
noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras
beneficijs, eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem; neque ob
aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum: Vale præfulum decus. ed
RE agat, ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris, uel inmatricem, { OTS
PORPHYRII DE GENERE PETRI CΑΤΗΕΝΑ PRESBITERI VENETINOVA INTERPRETATIO. IcetVR
& alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus, tam ab co, qui genuit,
quám a loco in quo eft quiſ piam ortus. Dicitur quòd locus, os pater cauſe
funteffè &trices genis ti, diuerfimodetamen,quippe pater aétiua fit caufa,
locus uero conſer uatiua tantum,que ad cauſam effe's Etricem non immerito
reducitur,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod,
& locusnedum conſeruatiuum prin cipium est, fic ut genitum folummodo
conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum,ſed etiam adiuuin
principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est
ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo
obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones, folis igitur, e
planetarum aliorum lumine, ac motu, affectus locus, aštiue agit hoc pacto
adgenera = tionem, atque parentes, fi fecus quis audiuerit, tunc sol, &
pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae
étis alterando aerem agatin ipſum, ca in contentum, quo autem pacto age
quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia, o interræ
fuperficie plantas. PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies, debita
parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors
phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur., ut Facies priami dignaeſt
imperio, ad cuius fi militudinem, ill. est, quefub aßignato generepoa nitur,
curus pulcritudo, est differentia fpecifica, qua pulcritudine informe genus
contrahitur, atque pulcrumfit. Et Trianguluun, figuræ fpetiem ſimili modo
ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum, non figura in uniuerſum
quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam, que una
clauditur linea, & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus
Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est, claudi
tantum tribus reftis, qua etiam differentia pula crum redditur figure genus.
Indiuidua funt'infinita. Non intela ligas hoc uelim, niſi potentia,qua
infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur; ſed modo quodam diverſo,
numerus enim, quicunque fit, aexiſtat, finitus eſt, terminatus,ſic pariter
indiuidua on nia, quæ exiſtunt finita funt, sed que preceſſerunt omnia,o que
futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum
statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu, o deſcenden do,uerum
indiuidua duobus modis dictis funt infinita, unico autem modo ut quæ
præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS. DE QVANTITATE.
ENARAI numeri partes, ut quinque, & quinque. Animaduerſione dignum exemplar
hoc in loco pofuit Ariſtoteles, cum dixit quinque,& quin que partes eſe
denarij numeri, non enim dixit quis narium, oquinarium denarium numerum compone
re, quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam
ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel
quaternis, ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex
unitatibus tamen quinis o quinis que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari
fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis, Nichomaci, atque Boetij. Similiter
& in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun
potes, quo partes corporis copulantur. Punctum esse lincæ terminum, or lineam
ſuperficiei, e ſuperficiem corporis nemo neſcit, niſi qui Euclidis doctrina
dignus est, ſed illud unum maiori egeret indagine, quo nam pa&o
lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus,ne id Ariſtoteles aſſerens,
quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi
Elementorum inquit ille, corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia
nem ocraßitudinem habet, folidi uero terminus fuperficies est, uide ergo quod
ſolidi terminusnonſit linea ipfa, ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea
terminusfit corporis manifeſtum est, fi idquod Euclides ait deffinitione nona
undecimi elementorum non ignores, solidus (inquit) angulus est, qui ſub
pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano, ad
unum ſignum conſtitutis, plurium linearum igitur contactus (nulla ſuperficierum
habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur
lineis angulusfox Tidus contentus, terminusest illius folidi, ville lineæ
termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium, quin etiam
inmediati terinini funtillius corporis, cum linea continentes illos angulos in
puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod
fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi
Elementorum, & in fequentibus quatuor problematibus idem uit,in quibus
docet conſtruere corpora regularia, queſuis angulis tangant ſu perficiem
concauam circumſcribentis pheri, qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad
minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus
continentur, &punctus ille, nedum est linearum terris minus, fed etiam
regularis corporis finis,cum ſit terminus omnium linearum, quo termino tangit
fphærum,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem
habere, ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis
ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie, quòd non tantum lineis, ſedetiam
ipſis pun tis terminata fit, fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat,
øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur,
hocquod dictum est in telligatur. Adid uero, quod Euclides primo Elementorum
ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima, refponde, quod
uerum dicit, figura rectilinea, inquit, contineturfub lineis reftis, enon die
cit contineturfub punctis, agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab
terminari punctis. Ariſtoteles hoc uidens, dixit corpus lineis termia narinon
tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum. Vel etiam
reétè dices, fi ita fenferis, quòd figura in uniuer. ſali, linea claudatur,
neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie
claudatur, neque itidem una aut pluribus, o neua tra deffinitio fic in
uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam,cum autem ad circulum uel ſpherum
defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias
elſe claufum,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula
exclufiua abEuclide,vel di cas, quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met
interpretatio, ubi enim dixe rit, in corporefumere aßignarequelineam comunem
terminum, statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis
et Euclides non dixit quòd punctus, ſed quod angulus tangat fphærum. Rurſus in
pago quidem, multos homines, Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt
illis plures, & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem
& ipfi multo funt illis plures.Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o
paucos & multos dixiſſe, comparationem faciens hominum ad loca in
quibusfunt, non habens rationens hominum ad homines, ut fimile exemplun daretur
ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca, @mule ti in crumena, fi in crumena eſſent
tantum fex, decem in arca, DE HIS QVÆ AD ALIQVID. VADRATIONIS enim circuli,
& fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis
ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit,
quia ſi non ignoraſcet eam,habuiſſet illiusſcientiam, o non dixiſſet (niſi
forſan mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus
adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit, nequecitra ad
hanc ufq; horam,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu,et ipfa non
minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio,fedquidper iftud exemplum
utilitatis Ariſtot. attulerit, illud effe puto, ut ammoto fcibili, oſcien tia
ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt, ut putacaufa nunquam cauſante
nuſquam effectus erit, quadratio igitur circuli cum non ſit, nequefcientia de
ip. fa quadratura circuließepoteft. Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint
in fractionibus Mathematicis declarabitur. DE QVALITATE. VARTVM qualitatis
gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma, & in fuper
rectitudo, & curvitas, & quicquid eſt hiſce fimile. De figura fcias
Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de
figura in re figurata exiſtente,ueluti in fubie & o, idem de forma,
rectitudine, atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam
feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit, à ſimpliciori ad magis
compoſitum. Primo enim defi gura,quæ linea, uel lineis clauditur, fecundo de
his, quæ ſimplici bus lineis, aut ſuperficiebus uniformibus, nempe uel tantum
re tis, aut tantum curuis, uelſolummodo conuexis,aut etiain tantum concauis
continentur, modus iſte ſecundus à primo non nihil differt, in hoc differentia
est inter utrumque, quia primomodo de co quod planum eft, ueluti ipſa papyrus,
ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons, ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut
papyrus) planum uocat, quod autem eft ualde craſſum, corpus appellat, ut
montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium
cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ, non
uidens tur talem rationem ſubire. Ariſtoteles parum ante dixit, que: nam ſint
et, quæ magis, minufue ſuſcipiunt, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt
intenfionis,modo uides quod neque trianguliis,nequequadras tum,qualia ſunt, fed
quanta, que intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem
circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter, aut circuli ſunt oinnia. Senſus
huius eft, quòd triangulus. quilibet, uel omnia que triangula ſunt, niſi id
quod tribus clauditur lineis,aliud non eſt, a circuli omnes, nil aliud funtquam
und çlaudi linea, in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma.
nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc
nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN
PREDICAMENT A culus triangulus eft, neque utrunque aliquid unum eſt, licet
utrunque figura ſit,ſed hoc æquiuoce, & non uniuoce eſt. Neque te turbet
hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo, « quadrato propoſuit,c finit ſena
tentiam de triangulo, e circulo, & non de triangulo, quadrato, quia de
triangulo o quadrato dicens, ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă
intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero, quæ rationein
hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum
ma gis quàm altera parte longius circulus elt, quippe cum neu trum circuli
fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit
comparatio rationem, alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur.
Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt,cum
igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat, neque quadratum circulus
eft,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est, idem
age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito
Ariſtot.ſententiam hanc eſe, o ſi quadratum, &altera parte longius circulus
eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum, atque circulus, non
eft qualis tas, fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas
gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id, quòd Aris ſtoteles
determinauit in capite de quali oqualitate, quo loco ait quara tum qualitatis
genus eft figura,ad quodfoluendum, dicas figuram capi uno, atquealtero
modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque,
cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quarto qualitatis
genere, alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale
eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat. Neque
musica, cuiuſpiam musica, niſi generis ratione ad aliquid, & ipsa dicatur.
De uniuersali Aristoteles,& non para ticularimuſica loquens, ſiue humant
uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur, biffariam
eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et
quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt, primo modo ad fubie &tum quod
genus uocat, tan quàm ad effectricem caufam reffertur, ut ad ſonum numeratum,
non due tem ad Platonem in quo recepta est, relatiue dicitur. Vel etiam dicas,
quòd refertur rationefuigeneris, ut quatenus scientia adfcibile. ARISTOTELIS.
IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONTSRATIVIS scientisprius eſt nimirum atque
pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt. Scito
elementa, ut deffinitiones, petita, animi conceptiones precedere ipfis
propoſitiones in ſcientijs, id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem
ſubſequitur expoſitio, quam expoſitionem statim deſigndz tio
diagrammatisconſequitur, hancdeſignationem (que beneficio petia torum tantun
fit) determinatio, determinationem demonſtratio, ſexto loco epilogus, ſiue
propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa,ipſatana tum eſſe petita reſpectu
deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia,utdeffinitiones,petita,
& conceptiones animi, reſpectu propoſitionum, que per ea probantur
dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ, quatenus ad alias fequentes
propoſitiones probandas fumuntur, dicuntur elementa, hac de caufa, quidam
uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa, alij nero non ob id,
quindecim libri dicuntur elementa,ſed quia fingulis libris fua affiguntur
principia, ut apud Campanum, ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea
menta dicuntur oinnia, quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter
deffinitiones, petita, Oʻanimi conceptiones,ut iſti, neque prou pter hoc, quòd
alique prime propoſitiones, que demonſtratæ funt, fint pro alijs
propoſitionibus fequentibus probandis principia, &elea menta,ut illi dicunt,
quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam, cum ipſa ultima
eſſet, ſed elementa, atque principia omnia illa dicuntur, reſpectu omnium
propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim
libros. IN PREDICAMENTA DESPETIEB.V.S. MOTVS. i bЬ & CRET 10 ', alteratio
non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co (quod etiam multis
modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem,ut in fecundo clementorum
deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum,compoſi ta ex uno quadrato
conſiſtente circa diametrum, « ſuplementis duobus, quefigura ab Euclide primo
elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6, quam fi huic
addideris quadrato a, quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio
quantitatis, ſic ut in hac figu ra ab, quod una diuerfa peties alteri fpetiei
addita non uariet fpes tiem,exempla plus centum in tabule Pythagora, apud
Nicomachum, Boetium,in numeris inuenies, ut pu ta ex duobus longilateris
altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato, quod fit, quadra =
tumest,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus, fex, vbis quatuor, ut ofto,
ſexdecim exoritur,qui etiam quadratus eft, pari modo,ex duo bus quadratis, er
bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem,bisfumptoſenario
longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i. 13 est, que
intelligas uolo ex in ateria primi quadrati, atque longilateri, ut ex ipſis
unitatibus, ego non de numeris tūlis formaliter fumptis, cum prius
corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in
aliam petiem maioris quas drati, qui ex illis oritur, acretio. igitur ubique
facta eſt, nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati, licet e
gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio. Aduertas tamen, ad
id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum, ſic,
utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio, in Geometria uniuerſali
ter ueritatem habet, fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris
de fpetie ſubalternāte,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties
ſubalternata, oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim,addus
gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim, fit impariter
par, uidelicet triginta fex, quorums uterque, o fifit quadratus, diucrfarum
tamen fpetierum funt, ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft,quod
exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem
intelligas de quadrati, quatenus quadratum eft ', Apetie, hoceſt de fpetie
quadrati in uniuerfum, non de quadratiſpe= tie ppetialifsima. vel etiam dicas
quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non
autem uniuerfaliter fimpliciter, hoc oft non in omnibus difciplinis. 11 14: IN
PRIMVM LIB. IN PRIMO PRIOR V M AN T E SECVNDVM SEC.TV M. n A M fine uniuerſali
nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur
enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de
ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin, ſintadcentruin ductæ a,b,
fi igitur æqualem accipiata, c, d, angulum, ipſib, d, c,non omnino exiſtimans
æquales, qui ſemicirculorum, & rur. fus c, ipfi d,non omnem aſunens eum qui
ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus, totis Angulis, & ablatorum, æqua les
eflc reliquos e,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus
æqualibus demptis,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet
uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli
ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt
æquales per primam deffinitionem tertij elementorum,peripheria eiuſ de circuli
uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas
circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes
recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur,
quod duo anguli a, c, d,cb, d, c, ſemicirculorum eiufdem circuli a, b, c, d,
ſint ad inuicem æquales, hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat
æquales, qui ſemicirculorum, rurfus inquit c, ipſi d, angulus uidelicet uterý;
minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo
ſemicirculib, d,c, e a cd, quod ſic perſuadetur, árcus c, d, eiuſdem est
peripherie, que unir formis eſt, c, d, eſt unice, om eadem re&ta,ſi igitur
utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis
detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus
igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos,
quod demonſtratum fuit,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia
aufferantur, reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECTV M.
ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere, ut de bono,aut fcientia,priuate
auten fecundum unamquainque, funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum
unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem,ut Aſtrologicam
experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ, acceptis enim apparentibus fufficienter,
ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c. Compertum eſt aſtrolabio
ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam
à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft,
propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum
medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile
eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina,
prima principia hiſtoria data, &dereli Eta ſine probation funtpofteris,
quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis (hiſtoriæ enim proprium eft
ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat
demonſtratio,illam « impro priain, a poſteriori, feu à ſigno eſſe, nemoeſt
quineſciat. ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM. On oportet autein
exiſtimare penes id, quod exponimus, aliquid accidere abfurdum nis hil cnim
utimur eo, quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra, pedalem, &
rectam hanc, fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo
pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit
ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam, fub fenfu
fuerunt? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe,
intelligit intellectus, quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit.
Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem
habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem
abſtraftam, quætamen kon eſt, niſi indeterminatis, ſingularibus hominibus, fic
etiam li ncam ſuperficie?n intelligit, que tamen non ſunt, niſi in linea atrd.
mento picta, o ſuperficie, in corpore naturali, IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE
PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod
propofitum eſt, contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud
mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi,a, monftretur per
b,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita
ratiocinantes ipſum a,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas
putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt
poſsibile monſtra: re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans
tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque, ſed ita omne erit per
feipfum cognoſcibile, quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare, quod e
ſit a, &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (e est b,
beſt a, igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc, e eſt b,
fit per hoc medium f, ut in hoc Syllogiſino (e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b)
Cuius minor, uis delicet hæc, & eft c,fiprobetur. Tunc reſumitur prima
concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc
Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a,quia e eſt a, Ofic
error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c,
oper a, propoſitio uero que probanda proponebatur, hæcuidelicet,e eft a, per
tria media per b., perc, & per a, probatur, ſimiliter errant illi, qui
nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales
duobusreftis, quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a, b, c. cuius
latusbc, ſi protendatur,caufabitur augulus d, c, d, exterior equalis duobus
angulis a, b, intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N
catis, ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis,
à punéto c, parallela dua catur ipſi b, a, quæ fitc, e, patea bit per ſecundam
partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum, - quòd triangulus a, b, c,
habebit tres duobus re&tis æquales. Si aus tem fumatur probandum quod b, a,
uc, e, fint parallelæ, per hoc medium, quia triangulus b, a, c, habeat tres
duobus re&tis æqua. les, ideo ipſe parallelæ ſunt, ſic, exterior æqualis
eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis, qui exterior angulus a, c, d, in
duos pars titur angulos in a, c, e,we, c, d,, c, e æqualis eſt b, a,, ere, c, d,
eft æqualis a,b, c; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut
per uigeſimamnonam primi elementorum,feques retur igitur, quod a,b,oc, e,
parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b, a,oc, f, parallelæ funt,quia
triangulus a, b, c, habet tres duoc bus rectis equales, fed a, b, c, triangulus
habet tres Angulos duos bus reftis equales, quia a, b, & c,e, parallelæ
ſunt,igitur a, b,a col, parallele ſunt,,quia parallelefunt, quod uanum eft,
oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius, quod pofterius æget illo
priori adſui probationem. Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec,
d, queſit parallela ipſi a, b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat
angulus e, c, d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea,quod d, 0,4, ſit
æqualis angulo b, a, 6, quod eſſe non poteſt, niſi b, d,egu c, d,"
parallele fupponantur, fic b connectatur inductio, quia Trian gulus a, b, c,
habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a,b, c,d, &quia paralellæ funt,
ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis, igitur paralella funt, quia
parallele fit. a: í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM
idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue
niens, ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco,
& fi triangu lus haberet plures rectos duobus. Quod autem parallela a, b,
c, d, coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e, 8, 6, maior eft
angulo intrinſeco g, b, d, (quod quidem ſummitur falfum, pe nes quodſequitur
impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales
duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam
igi tur communem fententiam, ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que
ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis,
illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi
protrahantur. Et fi triangulushaberet plures rectos duobus. Duo Anguli g, h, k,68,
k, h, ſuntmaiores duo. bus re&tis, multo magis igitur b, h, k, d, k, h,
ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a, h, k, k, h, ſunt minores duobus res
a. h b & is, quia omnes quatuor 6, h, k. a, b, k. d, k, h. @c, k, h. og
ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam,igitur
b, a, d, c, f adpartem a, c, protracte concurs rent, per illam animi
conceptionem,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una
parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte
neceſſario concurrent. ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT
SECVNDVM SVSPITIONEM. ELVTI fia, ineft omnib, buero omni c, a omni c inerit, fi
itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni, cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil
prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b, triangulus,in
quo uero c, ſenſibilis triangulus, fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c,fciens
quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit
idem. Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea, quæ
ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur,
omne b eft a, omne c eſt b, igitur omne ceſta, uel omnis triangulus habet tres
duobus rectisæquales, qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus, igitur qui
conſtitutus eft in tabula habet tres: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o
charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis
æquales, omnec fen. fibiletriangulum eſt triangulum, igitur omne c ſenſibile
triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis. Cum teneret quis hanc
uni uerfalem, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum
fciebat, quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi, quòd han beret tres,
uidelicet duobus re &tis æquales, niſi potentia, non autem actu; quàm
primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore, statim intua. lit, «cognouit, quod
ſenſibilis triangulus, tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait
ſuſpicarinanque poſſet aliquis, non eſſec, non eft intelligendum, ſic ut Græci,
o omnes exponunt, quaſi quod ignos retur an fit c, fed hoc non uult Ariſtoteles
dicere,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c, hoc
intelligas modo, quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat
tres duobus re &tis equales, licet non ignorauerit c effe, fed ignorabit c
eſſe huiuf modi, utputa, quod habeat tres duobus rectis æquales; ſcietigitur po
tentia in uniuerſali propofitione, Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat
fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto,feu fa & ainduftione Geos trica de qua
inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus
duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi. Cij 20 IN SECVN.
RIO. ARIST. mulſcire, ignorareidem ſecundum diuerſa, ut ſcire potentia iniſud
uniuerſali, & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter, ut pus ta in
particulari. DE ABDVCTIONE. UT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb, c, nanque
& fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e,re
etilineum, in quo uero z circulus, fi ipfius é z ſolum eſſet medium,hoc, quod
eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum
cognofcere. In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit
determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem, e de quadratura
fuſius in fragmena tis noftris, fuper Logicis, multa declarabo, quo ad
preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum, cuius minor, cumſit dubia e
oba ſcura, dicit unum eſſe medium ad probandam illam, arguit e, rectilis neun,
d quadratur, ſed z, circulus fit reetilineum, igitur circulum quadrari,poſſet
quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho, Hypocrates chiusprobare
per id medium, quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere,
diuerſis tamen medijs, alio enim mos do tentauit Antipho, o aliter Hypocrates
chius, qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum, eo artificio,
quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum, oſyllogiſmus connectatur ſic, ut
fimul dicam characteres, me terminos Ariſtotelis, e, rectilinea figura, d
quadratur, fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d,
quadratur. IN PRIMVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA
INTERPRETATIO. TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere,
alia nanque, quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft, quod dicitur
intelligere oportet, quædam autein utraque, ut quoniam omne quidem, quod eſt,
aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt, Triangulum autem quoniam hoc
fignificat; ſed unitatem utraque, & quid ſignificat, eſt quia eft, non
eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis. Græci omnes, pariter
& Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem, nedum
qui ſcripſerunt, fed etiam recens tiores, quihac tempeſtate eum interpretantur,
& priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum
pofteris omnis bus prebuit. Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus, ſuper
hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis
ſententiamfcripſit, qua decaufa, ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ
logicorum utilitati conſulens, lucidum, facilein, atque clarum Aris stotelem in
hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in
futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan
rißimiPhilofophilabefactetur, ſcito in primis, tres eſſe modos pres
cognofcendi, quos Aristoteles ponit, in hoc Textu, unicuique hos rum modorum
aptißimum,atquefacilimum exemplum poſuit, feruans exemplorum ordinem cum ordine
modorum precognofcendi, ſic, ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet,ſecundo
modoſe cundum, atque tertium tertio. Nequete perturbet, quod Ariſtoteles IN
PRIMVM LIB. ait, dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem
dixes rim ego, primo autemmodo, opus eft præcognoſcere, quia eſt tantum, alio
autem modo, quid eft id, quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos
ab inuicem ſeiunctos, in tertio modo in unum aggregat uerum methodum
compoſitiuam ſeruans. Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in
parte oſeparatim, reliquus uero in totum, oin parte quidem biffariam. Vnus
tantum quia eft,reliquus uero tans tum quid ſignificet, in toto uero ille eft
modus, qui horum utrunque in ſe comple &titur. Exempla Ariſtotelis multos
Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt, qui ab Apoline reprehenfi,
&fpreti à Platone, uagantes fomniauerunt, hoc in loco, tria attůlliſje
Ariſtotes lem exempla, in ſcientijs diuerſis. Nempe Methaphisica,Geometria, O
Arithmetica, quod chimericum eſt, ex ipſa uunitate magis uanum, fi enim
ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie, & Arithmetica, prima limina
attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim, quod
artificio, id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum
uniuerſale est, tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus
fpeculatiuis, &uniuerſalißimis attuliffe, ſic, uttandem concludant in ſua
expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere,
&uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere, ut tandem tria formoſa,
&pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione, datum
eſſet unitas, queſitum triangulus, e principium Methaphiſicum, ualeat pereatque
cim ins terpretibus hæc interpretatio. Non est Ariſtotelis confuetudo, exeine
pla afferre (aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi,ut
do&trina, que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura, atque diffi cilis,
fole clarior, atque perfacilis omnibus reddatur, quid rogo cons fufius, quàm in
una re logica explicanda, tria exempla mutila, o tim diuerfa afferre? ut in
unotantum quia,in alio exemplo,folum quid,c. in tertio exemplo, ey quia,
&quid, ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico, omnia tria
exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte; uel diſciplina
Geometrica, quicquid Niphlus fentiat & fequaces, ex nulla eſt alia ueritas
in hoc Ariſtotelis Textu, neque uerus fenfus, qui ad Ariftotelem faciat preter
hunc, quem fubfcribo, uelint nolint omnes atque uniuerſi, qui philoponifena
tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito
primum, quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis
POSTERIORVM ARISTOT. Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non
equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum
est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia,uel
in terſe nonſunt æqualia, uerum est dicere quia eſt,ſed alteram partem hu ius
diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum, cum Similiter
alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi
elementorum, &hoc est uerum, quia est linearum à centro ad circunferentiam
protractarum, ut adinuicem ſintequales, « prima ani mi conceptionis,utſiab
æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum
poſitum est,quid hæc uox, Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra
deffinitione xxi. primi Elemen torum, ex ſignificatfiguram tribus re &tis
lineis contentam,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit, Quatenus tamen
quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem,quæ
quidem unitas, a quid ſignificet, quia eft,utrunque habet. Hanc ego unitatem
contra oma nes loquentes, « ad Ariſtotelis ſententiam aio, eſſe non eam, qua
unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab
illa unitate, quæ eſt principium numeri dicitur, nempe una linea recta data
ſuper quam triangulum collocare oportet, ſiue ille fit æquilaterus, ut Euclides
proponit, uel iſoſcelesaut gradatus, ut Arisſtoteles querit in uniuerſum, quod
quidem Proclum diadocum,& Cam panumfuper primum primi Elementorum, non
latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi
Elementorum, tàm quàm queſitum, in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni
hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur, quæ
linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis, de qua lineæ
unitate precognoſcitur, quid, utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per
diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum, precognoſcitur etiam, quia est,cum
ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum. Ab Euclidis igitur
methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique
locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio
eft, alia, ut dixi nulla, fomnia igitur quæcunque diluantur, putas ne Arie
ftotelem afferre illud Methaphiſice principium, nullo modo ad artem ali quam
peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo? ubi Methodus? que
maior ordinis peruerſio? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius
Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam, IN PRIMVM'LIB. 2 tate
plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas. De unitate aus temdicit
Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere, ſicut docet Euclides pros
poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum, fi unitas numeret quemli bet numerum,
quoties quilibet tertius aliquein quartum, erit quoque, pernutatim,ut quoties
unitas numerabit tertium, toties ſecundus quar tum numerauerit, datum inquit
Ioannes, eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid, &
quia eft, o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere, licet non
ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, &
quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri,
fit datum,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum, fed
unitas cum refpeétu ad numerum aliquem, quem numerat, eſt datum, que = ſitum
autem eſt, ut ipfa tertium numerum numeret, ut ſecundus nus merus numerat
quartum, quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa
uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt
duodecinaſeptimi Elementorum, que probatur per precedentes, onon eſt immediatum
principium,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem, quæ non
procedit per immediata prin cipia, quod non eſt imaginandumin hoc propoſito,
preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ, quia ibifit deductio per immediata
principia ut per xv.deffinitionem,& prima animi conceptionem primi
Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis.
Die co igitur datum, eſſe unam rectam lineam, quæſitum, ut ſuper ipfarn
trigonum conſtituatur, &quod, id conſtitutum, ſit trigonum, probas tur per
decimamquintam deffinitionem, vprimam animi conceptionem primi elementorum.
TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem. Aliorum
vero, & fimul notitiam capientem, ut quæcunque, con= tingunt eſſe ſub
uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem; quòd quidem omnis triangulus habet
tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit, quòd uero hic, qui in ſemicirculo
cft, triangulus fit, fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM
ARIST. ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles, primus, qui eft per reminiſcens
tiam,de quo nondubitarunt antiqui. Alter uero, es ſecundus est, quo de nouo
aliquid ſcimus, qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo,
ſit noſtra expoſitio. Ioannes Grammaticushanc para ticulam, fimul inducens
cognouit, interpretatur fic,ut per inducen tem intelligat eum, qui habens
triangulum in ſemicirculo pićtum, ofub penula abſconſum, oftendat eum triangulum
eſſe, quaſi abijciens penus lam, ey aperiens manum obijciat ipfum
triangulumoculis uidere uolens tium, &Latini omnes fimiliter,& Aueroes
fequuntur ipſum in hac interpretatione. Non poſſum non mirari hominisiftius
alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium,que quidem interpretatio,
fi ads mitatur,statim uidetur, quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus, id do
ceat, quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti
textu,Nemoaccipit talem propofitionem,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle
triangulum,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd
neſciebant eameffe parem, quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas. Ioannes
&omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa
littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus
fit, fimul inducens cognouit;cognouit quidem quodfit triangulus, per
induétionem, id eſt per oſtenſionem ad oculum, aperta manuin qua abfcondebatur,
ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul, quod ridiculum est, o uſque
ad hæc tempora, falfum pro uero habitum,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam;
non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum
ſit, neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd
trigonum ſit, quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium, ſed has bita, hac
uniuerſali,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis, dubitatur an
qui in ſemicirculo eft triangulus, &qui quidein a &tu uideturſit
huiufmodi, utputa, quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis, quod quidem
manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem, quia per illam oftenditur
tantum quòd fit triangulus, ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id
oftenditur per inductioncm Topia cam, que à particularibus ad uniuerfalem
procedit, ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui, quifit ab uniuerſali ad
particularia, rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur
Ariſtoteles, quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam, aliter tamen ſenſitiuam quàm
loans nes Grammaticus intelligat, dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1
D IN PRIM VM LIB. couptatur in Syllogiſmoſic, omnis triangulus habet tres
angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo, eſt triangulus,
igitur hic qui in ſemicirculo, habet tres duobus rectis aquales,ecce
inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua, quia ponitur illud pronomen oftenfiuum,
isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes, putant eniin quod illud
pronomen, &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum, quid igitur dicendum
erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius,
huic Apolini coronam Papus, iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum;
ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat, non ne omnia
ifta pronomina oſtenfiua, funt ad intela lectum, & ſi quandoque per
accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua? ideo pronomen in iủa minori, ſiper accidens
oftendatad ſenſum, oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum, aliter cecus
non poffet illum Syla logiſmum efficere, quòd manifefte falfum eft, ueritas non
eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes,quod ila inductio
nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris, fed hic qui inſemicirculo est
triangulus, fub illa uniuerſali nota, omnis triangulus habet tres angulos
æquales duobus reétis, illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra
&modo, uocant inductionem, hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis
litteram; quia ante quam inferatur concluſio, neſcitur de triangulo conſtituto
inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia, poſt quam
autem illatafuerit concluſio,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd
uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus,
fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula,habet tres æqua, les duobus rectis.
Agamus igitur & nos,o. Ariſtotelis litteram prius diſponamus, ſubinde
ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul
inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem
trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis, &hoc,inducens, uerbum
hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam,reliquam
ſyllogiſticam, quæ etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis,antequàm
in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus, quæ duo uerba, non ſunt fynow nima,
ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum, inductum ſit, uel fa&
usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis
ſynonymis,neque Ariſtoteles multiplicat uoces, terminos ean dem rem
ſignificantes. Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam
ifta uox,fyllogiſmus,ſignificat, non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM
ARISTT. prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit, relinquitur igitur, ut
inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui
infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm
Geometrica induétio. Ila autem huiufmodi est, fuppofita deſcription per
trigeſimamprimum primi Elementorum, Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c
b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum Euclia dis,
&Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem uigeſimenone
primi elementorum, totus igitu * cbe, eſt æqualis duobus angulis cøa, fed cbre,
cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis, igitur angulia,
cum eodem c b a, funt equales duobus reétis,quod inducendum erat, de triangulo
ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon fus immo ante
oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles
intelligit, quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin &tus litteris
dicet, unum eſſe fyllogifmum? quofyllogif mounico (it inferius declarabo)
poteratidemfyllogizari, neque enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint
conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft, quòd neque Topica,
inductio, patet; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac
autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum,quæ
uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per
quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto. Neque mi reris quod in
hacinduétione non fumitur illa maior, omnis triangulus habet tresangulos
æqualesduobus re&tis, quia illa fumiturin inductione fyllogiftica, in
inductione uero Geometrica, fumitur decimatertia,cui gefimanona primi
Elementorum, in utraque induktione cumGeometri ca,tum etiam fyllogiſtica fit
proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica
uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit,
quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum
partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna,
pero expoſitione Tex.clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum, & alibi,
habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales duobus reétis,fatur
modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo, ſimpliciter autem non
fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur, quod qui in
femicirculo eft triane gulus, ſit huiuſmodi, ſicut ſcita
decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia, quod qui in
ſemicirculo eſttriangulus, duo bus rectis tres habeat pares,licet nefciat, an
qui in ſemicirculo,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem,
o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem, quæ ſemper ex ueris, primis,
caufis ila latiuis conclufionis, ex magis notis procedit, non autem ex immediaa
tis ſemper, nequc ex cauſis quedant eße, fed ex his tantum, quæ dant propter
quid iŪationis, tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est
una conſequentia, fed plures, ut plurimum, neque per immediatafemper procedit,fedalternatim
per immediata, oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem, uoco
propoſitiones per fe notas, etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ
immediate proz bant fequentes, de hoc quidem toto inſtrumento non aliter
Ariftoteles traftauit, nifi per particulas illas, utſupra commemoratas, ut ex
ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut de enthymemate, quòd pluries
fumitur in tali induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis
inductio,non tamenadunun tantum,ſed ad pluresfyllogif mos, neque uelim dicas
propter hoc, quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi
deLogica,que natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft,
& non per inedium ultimum cognofcitur, ut quæcunque fingularia jamelle
contingit, uec de fubiecto quoppiam. Hunc locum Ariſtotelis extorquent
penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur,
primus eft, quod interpretatio non est ad propofitum, fecunduserror, quia id
quodaiunt contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis, inquiunt enim, quod per medium,
ſcitur ultimum, hoc est, quod ultimum. Nempe maior extremitas concluditur per
medium de ipſa extremitate minori. V.ideas quanta fit horum hominum uanitas,
Ariſtoteles negatiue loquitur. Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi
autem uani exponunt, per medium ultimum cognofcia tur, aduertendum quod medium
in propoſito intelligit Ariſtoteles,quod non tantum fitu,medium intelligas,
quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam,
quodquid eft ipſius rei, ut POSTERIORVM A R IST. fparfim in primo poſteriorum,
e in ſecundo manifeftuin eſt, in pri moenim, Textu 201. Juxta partitionein
philoponi, uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem; ait Ariſtoteles,
quod uniuerſale mon ſtratur per medium, &non particulare; uerbi gratia,hic
non per mea dium,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt
riſi bilis, ly enim hono, non eft quodquid est, ſed eſt ſubiectum, hic uero per
medium, omne animal rationale eſt riſibile, omnis homoeſt aniinat rationale,
ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium, fi inftes
fic,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale,igitur
Socrates est riſibilis. Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate, quòd
fit animal rationale, nec etiam riſibile per ſe, & immediate,argués igitur
fic,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis,fed qui in ſemicirculo,
eſt triangulus, igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis. Ibi
enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum, feu genus,
ibi igitur non eſt demonſtras tio, licet fit fyllogifmus, &fi adhuc
inftetur,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd
qui in femicirculo, ha beat tres equales duobus rectis, igitur ei qui in
ſemicirculo eſt, non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam
euigeſimamnonam pris mi Elementorum. Dico quod in inductione Geometrica, qua de
triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos
bus rectis per decinătertiam (uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit
triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus, fed ut trian. gulus eſt, ut
oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum,fecundoautem,
&per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur
ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto,
quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo, ut in pre dicamentis
determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est, non per medium, ultimum
cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe
minori,fedhoc non permedium, id est non per quod quid est. Si vero non eft ita,quæ
in Menone contin. get dubitatio, aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ
prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum
eft particula illa. Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab
uniuerſali ad particulare progre diendo; tunc, quæ in Menone eſt, contingit
dubitatio, particuld illa: Non enim iam. Yerbum illud iamfuturi temporis eſt,
fic utfit ſens I N P R IM VM LIB.ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos
fcire de nouo,quod id addiſcimus, quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas
poſt hac, eo modo, quo illi nitebantur foluere, fed eo palto ut predocui, it de
omni dualitate fciens quod par ſit, de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea
fcis potentia, quodſcit par. Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt.
Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil
fcia rede nouo,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos, qui dices bant
quod de nouo fcimus, &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem,hoc
argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe
parem, nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire, ita eſſe, ſübinde
atulerunt Platonici dualitatem dicentes, igitur fciebatis etiam hanc dualitatem,
quam manu tegebamus eſſe pas rem, quod tamen effe non poteſt, quia nefciebatis
ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio, prius fatebantur ſeſcire
omnemdualitatein eſſe par rem, &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe,
quod manifeſtum contradictorium eft, reſpondebant autem illi, qui dicebant
nosfcire de nouo, quod interrogati de omni dualitate, an par effet,
reſponderunt non de omni dualitate abſolute, fed de dualitate quam utique dualitatem
effe ſciebant, modo de illa, quæ abfconfam tenebant, oque non erat fibi nota,
ut eſſe dualitas, non fatebantur illam eſſe parem, quia neſciebant illam effe
dualitatem, ita ut hec expoſitio, eotendat, ut Ariſtoteles res prehendat illos,
qui dicebant nos ſcire de nouo, quia male foluebant Argumentum Platonicorum,
xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expositio autem mea, e directo
opponitur, huic omnium expofie tioni, ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male
foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo, & contra hos dicentes,
quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles. Pro cuiusfententia
declaranda, Queritate, est in primis aduertendum, quod in hoc textu, quoſdam in
telligit Ariſtoteles dicentes, quòd de nouo nos fcire contingit aliquid, quod
tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant
intentum contra tenentes, quòd ron ſcimus quippiam de nouo, quorum negantium de
nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum, peccant og
errant in perſuadendo id, quod probare nituntur, quem errorem, &peccatum
dicentium nos de nouo ſcire, non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas,
altera est, quia eft adeo manifeftus, ut fine reprehenſione à quolibet
cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil, habita intelligentia primi textus
huius primi, reliqua caufa quare: non eos redarguit est, quia primo textu
feclufit fuam perſuaſionem, dicens omnis doétrina, o diſciplina intellectiua a
diſcurſiua, ex præexiftens ti fit cognitione, ex preexiſtenti non quidem
ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem, hæc uero poſterioriſtica
e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit, ideo eos non reprehendit
Ariſtoteles, quia, quifq; per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo
errabat ilii inter arguendum. Inquiunt enim arguentes, noftis neomnem
dualitatem effe parem necne? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam
dualitas tem, quam non exiſtimabant eſſe, quare neque parem, en dicebant iſti
arguentes, ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par, otas hoc,
ideſt paritatem de hac dualitate, qua manu abſcondebatur neſciebatis,
quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud, autnihil,
« nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis, in particulari
hanc determinatam, & particularem dualitatem eſſe parem, ecce quomodo ab
uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis, quod prius
dubium apud uos erat. isti ſic arguentes peccant contra primum textum, utſupra
dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire, putabant autem isti ars
guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam. Quia tamen
cum Ariſtotele in intentione, quod de nouo fcimus, & quia etiam error in
perſuadendo manifeſtus eft, ut predocui, de intelle &tiua quidem &
diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in
Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos,tam quàm non
concludentes propoſitum, quodfatebantur, & diuertit ſe ad Platonicosmale
foluentes argumentum,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de
nouo addiſcere, uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic,
non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem, neque dixerunt
ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem,ſed dixeruut dualitatem, quam utique
nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id, quod manu tegebatur
effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem,quiaſic
aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted,an parfit,uel etiam
impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë
uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire, quam quidem dualitatem
eſſe nouerant, uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant,
nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant IN PRIMVM LIB. 3 idem
uno modo, ut in uniuerſali de illa dualitate,quòd effet par, u idem ut quod
effet par ignorarent in particulari, atqui ſciunt cuius des monſtrationem
habent, & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique
nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit, ſed fimpliciter acceperunt;
illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c. Similiter
reſponderunt illi, quod ſciebant omnem dualitatem efle parem. Verba hæcfunt
Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat, aut
nulla propoſitio accipitur talis, quòd quem tu. noſti eſſe numerum dualem,
nofti ne eſſe parem? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum, quòd
habeat tres æquales duobis reétis? ſed accipit de omni numero duali, ede omni
figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio
fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit,autnon?ines
ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens
quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam
arguentes; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id, quod potentia
ſciebamus epylogando dicit, Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit
aliquis ſic in particula ri, ante ſciuiſſe in uniuerſali, & in particulari
priusignos raſſe, abfurdum enim non eft,fi nouit quodam modo, quod addiſcit,
ſed ita eſſet abfurdum, ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus
&expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum, in capitulo de Deceptione
ſecundum fufpitionem, qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo
philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem
dualitatem eſſe parent nec ne? annuat quod ſic, o ſi offeratur abfconfa in
manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet
neſciat a & u, quod dualitas ſit,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in
hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam
eſſe pres ftantiorem prima?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo
fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem
Ariſtotelis interpretantium, fecunda uero interpre tatio noua est, o hominis
uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam
preclariſsimosphilofophos, quihæc uerba, &fimilia proa ferunt ex Macrologia
loquuntur,non ualentes intelligere nifi ea, que auctoritate proponuntur, fpreta
ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. neruditus est,
quipPomba Platonicos, qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia,
argumentari contra Peripateticos, niſi a Peripateticis prouocati ſint?
&quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur? quo pa &to excitabuntur,
nifi co argumenti modo, quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde
quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos, qui
conueniebantfecum in concluſione, quàm illos, quie diametro cpinabantur contra
ipfum? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit,
uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum, & erit,fifecunde interpretationi
be rebit, primafpreta, &neglecta omni ex parte. TEXTVS NON VS. ERA quidem
oportet eſſe,quoniam non eſt fcire quod non eft,ut quòd diameter fit fie meter.
De diametro, coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus,
& in Methaphy: ficis, quapropter, hoc loco declarabo eius fententiam, ut
poſteafit omnibus in locis clara, primoſcire debes, quod uera eſſe oportet ea,
quæ fciuntur, ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in
concluſione, &non pro ueritate, quæ in prins cipijs est, a hoc probat
indire & te, quia fi falfum ſciremus, utputa quod diameter eſſet
commenfurabilis coſte, tunc imparia æqualia paribus fierent, o e conuerſo, ut
ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis,
quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris, fed
pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris,
quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem.Diametrum
igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus, quia impar pari æqualisnon eſt,in
qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum,
qua ducitur ad hocincommodum, pofita iſta, quòd diameterſit commenfurabilis co
ftæ,fequitur, quod numerus impar eſſet par, quod eftcontra primum principium ab
Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam
nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum. In quare demonftranda fit
diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi
Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum, quia illa
communis, mene Б IN: P R I MVM LIB. b Cee '. fo... h............. g k.... ei6
fo L. m 64 kıż8 h 81. a. fura,fehabebit ad illas duas lineds, diametrumfilicet,
&coſtam a bigo á c, ficut unitas ad unum atque ad alium numerum,unitas enim
ut duos numeros illos metitur, ſic illa communis menſura diametrum, o coſtam
dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte, quòd quoties continebitur in uno ats que
altero numerorum unitas, toties illa communis menfura, quæ linea eft,
continebitur in diametro, atque coſta, fint ergo numeri e @ f, qui ſint minimi
in fua proportione, eritque ob hoc, alter eorum impar, quod fic probatur, fi
enim uterque eorum effet par, non eſſent iammis nimi in fua proportione, ſi
enim par uterqueſit,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius
ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum,quorumfunt
medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor,
& qut tuor, atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua
tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra
aſſumptum, quia fuæ medietates effent minores, quadratiigitür illorum minimorum
e « f, ſint ge h, ſi ergo e eſſet impar, a f par, erit quoque per trigeſimam
noni Elementorum g impar, fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex
deffinitione prima noni Eleinentorum, quia igitur a b ad a c, ut e -ad f, erit
per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum, quadratum ab ad
quadratum ac, ut g ad h, eſt itaque g duplus ad h, ſic enim est quadratun a b
ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum, quia ita k, etiam dupluseft
ad h per affumptum,ſequitur per nonam quinti Elemen torum, ut g numerus impar,ſit
equalis K numero pari. Quod fi e fit par, f impar, erit proportio f ad dimidium
e, quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIST. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad, o ideo
erit quadrati a c ad quadratum a d, ficut proportio numeri h, quieſt impar per
trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L, quifit m, cui K poa natur
effe duplus, eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia
quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum,
erit h duplus ad m. Cumque Kſit etiam duplus ad m, erit per nonam quinti, impar
b, aequalis K nus mero pari, quod impoßibile à principio proponebatur
demonftrandum C f............ go!" k...... A Et ſi diceretur, quòd uterque
eorum, quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar, ut quinque ad tria, ut
ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b, eritigitur utraque
eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum, ſit itaque K duplus
ad h, eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum,quia igis. tur a bad a
c, ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam
octaui,quadratum ab ad quadratum a c, ut g ad h, eſt. itaque g duplus ad h, fic
enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum, &
quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur, per nonam quinti
elementorum, ut g numea rus impar ſit, æqualis k numero pari, quod est
impoſsibile. Illatum, ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft,quod
impar par ſit, Ariſtoteles autem dicit, quòd diametrum effe comenſurabilem
coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum, wnor af
fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est. Vt autem fiatconcluſio
Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id, quod aſſumptum fuit, aduertendum, quod ut
Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat, fed
tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet,
cs.com cludit,nequeinquit, parallogizat Geometra, ut textus 62 probat Arift.
ſubinde aliud etiam eſt aduertendum, ut in Topicis determinatAri ſtoteles,
oſparſim in Logica fua, quod illa formalis eſt conſequentit, quando ex oppoſito
confequentis infertur antecedentis oppoſitum, mos do cum ex contradiétione
poſita, ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem,ſequutum fit quòd impar
numerus fit par, exoppoſito igitur con ſequentis, ut per numerus eft æqualis
impari, igitur diameter coms menſurabilis ex coſte, id autem fequitur ex falfo
poſito, ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur, non eſſèt ex
ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe, igitur manifeſta eſt
contradi&tio,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta
commenſurabilis, eft igiturfalfum, igitur nonſcitur, quia uera effe
oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem, quæ quidemeſt utram
libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe,
fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio
eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem,
lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein
eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte
reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft,
ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa
deffinitio,poft quam intellecta ſit,etiam poſitio,cõmuni uoce diéta,et legatur
textus fic paulatim,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis
interroget, an unitas fit, uel non fit? annuat quòd ipſaunitas fit,indiuiſibilem
autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio, os exponitur
àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad unitatem, ex qua
numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam reperitur, ut poſito
quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque parteſuper ſe
numeri,esſuper illos, alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq; ad
unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im
deuentum erit,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper
hos,quinq; c unum,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2 345
signum eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut
Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem,unitatem
fupponere, oipſam deffinire, quæ deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque
unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo
tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam
indiuifibilium fecundum magnitudinem, quæ indiufibilianon componunt diuiſibile
ali quod. Age igitur,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio
nem procedere ex fuppofitionibus, etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex
immediatis dignitatibus, que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo
in precedenti declaratione concludebatur,numerū imparé eſſe parë,quia ex
poſitione, quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non
ex dignitate &deffinitione intelle &ta,atque poſita. TEXT. DECIMUS
ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere
& ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum, quē 110 cainus
demonſtrationein. Eft autem fic, eò quod ea ſunt,ex quibus eft
fyllogiſmus,necef ſe eſt, non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain
ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus
rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII. ey xxIx. primiElementorum actu,
non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda,
omniaautem prima cognofceremus,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que
illius XIII. XXIX. primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio
tamennosafficeret, fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio,
fedfatis,quod hoc fieri poßit,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere
prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum, ut declarabo fuſius
Tex. 108. huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft,
quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa
concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta, quam conclue
fionis notitia,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB.
trigeſimeſecunde primi Elementorum, ſunt magis nota, oſcite,quàng illa fecunda
pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt
credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni. Aduertendum
quòd magis credere,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam aliud eft, à
credere per demonſtrationem, & propter quid, fe ptima, atque octaua
propoſitiones quinti Elementos rum, primo intuitu quando inſpiciuntur, facilius
eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ,atque o
&taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs credimus
primointuitu, quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis, ideo
Ariſtoteles ait, aut: quibuſdam, non ſemper omnibus primo intuitu. Debentem
autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet principia magis
cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur. Sed &
cete. Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur diſtantior
intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri intellectui
concluſionis notis tia,niſi per notitiam principiorum,quæ uidebatur ab intelle
&u remotior, ut in illis concluſionibus, &principijs que precedenti
comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum finiliter eſt.
Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu punéta habet
terminantia, ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari intelligi poßit
quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri expoſitio
uideturfuperftitiofa, aliena à nas tura exempli, quia exempla per
magisfaciliadantur, ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea
recta, de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T.
TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt,
quæcunqueſunt in co, quod quid cft, utTriangulo ineſt linea, &: punctum
lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft, & quæcunqueinſunt in ratione di
cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu, uel étiam id
quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum, uidetur enim quod
tex. his contradicat que: determinat Ariſtoteles contra Platonem, uidelicet
quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum, primo de
generatione, tertiometaphiſice,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex
punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras
dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate, uerba aus tem
illa, quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea
terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo
modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant, nec etiam
linea triangulum, tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter
textus hic concipiatur, ftatim fequitur, utſi linea ex punctis componeretur,
quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles, quod textu nono,
eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram
dimetiretur, nempe per pū &tum, quod eft contra Ariftot. sententiam, &
contra Euclidis ſcitum. Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro,
&ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro, pro cuius indu
&tione, ſit quadratum a b cd, cuius diameter a d, Cofta uero a c, in qua
fuſcipiantur duo puncta e, f, immediata ſi poßibile ſit, ut aduerfarius
ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e, of, pun &tis duæ
lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum
e regione pri me coſte collocatam,certü eft, quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam
diame trum in duobus pun &tis, quæ etiam puneta in diametro immediata
erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate, igitur ſi
recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam,quot pū &ta fue
rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë
linee, nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua
fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia
tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera IN PRIM VM LIB. diata
alterius coſte, ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic
etiam &, ipſih, ſi l, fit immedias tum ipſi m, patet propoſitum,fi au tem
interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum
excitetur paralles lus K, o, ipſif, 8, uel ipſie, he tunc ipſa cadet inter gb,
ut in pun Eto, o, igitur g h, non erant imme diata,quod eſt contraaſſumptum,uel
extra utrumqueg,oh, uerſus b, ueld, & tunc k o, neutri linearū f8, web,
erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem, patet igitur quòd tot eſſent in
diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non
componatur ex pun ftis, fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum,
fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor, ocirculus bc, maior,ficira
cunferentia maioris componatur ex punétis,duo immediata puneta fi gnentur b @c,
&per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c,
hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur
circunferentiam in uno,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in
minori circulo, ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex
partibus æqualibus numero, ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium
punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in
maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars
æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee
a, b, 4, C, ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto, fit ille d, ſu =
per illam a c, erigatur linea recta perpendicularis per xi.primi Elea mentorum
ſecansſilicet eam in pun. &to d, quæ fit d e, que erit contina gens minorem
circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum, iftad, c.cum linea 4 b, ex
xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 2 d IN Elementorum conftituit duos
angulos rectos, aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos
rectos ex conftru &tione, duo igitur anguli a de, obde, funt æquales duobus
angulis a de, cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis, dempto
igis tur communiangulo a d'e, reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit
æqualis angulo c d é, &pars toti, quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret
aduerfarius, quod db, odc, non includunt ali = b. quem angulum; quia poſſet
tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c, quod est oppoſitum po
ſiti, quia b c, poſita ſunt ima mediata, quando igitur diceretur, quod angulus
c de, estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c,
nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat, e in concurſu bdoc
din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na,
negandoangulum, ubi duæ rectæ line: bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem
ſuperficie, oapplicantur non directe, o fit contra deffinitionem anguli,
deffinitione ſexta primi Elementorum, negando etiam à b inc poffe duci lineam,
neget primum petitum primi Elementorum, tamen quia aduerſarius non putaret iſta
inconuenientia, quia ſequuntur ad id, quod ipſe dicit, ideo contra reſponſionem
aliter ar. guo, angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun
Aum ſuper b de, o ſiproteruias quòd non addat angulum, & puns Etus per te,
eſt pars, igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam, igitur c d e eſt totum
adb d e. Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e, quia ſi angulus
dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles
concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua, tunc pun &tus primus
lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde, o eſt aliquid
anguli c de, igitur c d e maior est b de, a probatum fuit, quòd æqualis, igi
tur aperta contradi&tio, fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie
neas,includat lineam includentem,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra
circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0
th I N PRIMVM LIB. guli c d e, addit, igitur utroque modo angulus c d e punctum
fuper angulum b de, patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis
bus ad inſtantias, quod linea non componatur ex punétis, neque recta; neque
circulari, ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue, o non
compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe,
oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe, vel etiam dicas, quod punétus,in
deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata. TEX. X X. ALIAS
I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum. Verbum il lud rotundum legit Aueroes
circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic
ut pro uerbo rotundum,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est
proprium,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens:In
primis enim lineæ illi, que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem
contraris quodam modo ineſſe apparent, concauum ſilicet,&conuexum. Rotondum
uero proprie corpori conuenit, non lineæ, ut etiam placet Ariſtoteli libro
fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni
Grammatico, &quodſit iſta mens Ariſtotelis, utfic legatur manife ftum eſt,
per ea, quæ textu decimo ait, non enim, contingunt non ineſſc aut fimpliciter,
aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum,capiens ob liquum pro circulare. TEXT
VSvs X. T par & iinpar numero. Par quidem ille eft, qui ab impari unitate
differt cremento uel diminue tione, ut quinque à quattuor, uel à fex unitate,
Vel par eſt, qui biffariam ſecatur, impar uero, qui ne in duo æqualia
diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus. POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ.
XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico, quòd cum fit de omni, & per ſe eſt,
& ſecundum quod ipfum eſt. Ioannes Grammaticus & fequaces determinant,
ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id, quodper ſe eſt inſit abſque eo,
quod fecundum, quod ipſum eſt, 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales
duobus reétis,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum, quia
fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina (qua
etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus
reftis non tamen ſecundum quod ipſum. Alio autem modo per fe,id dicitur alicui
conuenire, quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum, ita quod, id quod non
conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe, niſi quodam modo, fic
quod perſe non immedia = te, oſecundum quod ipſum, diſtinguntur tanquam magis
&minus uni uerfale per fe autem immediate, &ſecundum quod ipſum, hec
quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem, Peccauit
igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter
uerum est, uniuerfaliter autem falfum, Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o
ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les, quodam autem
modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis. Vt
Ariſtoteles ſententia, hæc ſit, quòd per ſe immediate, ſecundum quod ipſum,
idem fint, neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum,
“ſecundum quod ip fum, hec duo uere diſtinguuntur, ut Ioannes ſuisexemplis,
immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat. HET luben 10a TE X. X X VI. ALIAS
XI I. ## ling PORTET autem non latere, quoniam fæpe numero contingit errare,
& non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur
uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil
ſit accipere ſuperius,peti fingulare, aut Fij 44? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia.
Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes, ſiue
Greci, Latini, uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis
Textum, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele, quòd
litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt. Circa
Ariſtotelis litteram, an tequim ad eius interpretationem acMilani, falſit as
loannis, oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum,
loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus
declaratione, ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil
fit, neque uox quidem, utputa nomen aliquod fictitium,& acceptum,cui tamen
in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re
conuenit,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod, ita ut nulla
ſit res, neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens. ipſe autem loannes
explicat Ariſtot. litteram cirs ca illud, cui eſt accipere fuperius, &circa
illud, cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra,' Sol, øMundus, &triangulus,
horum omnium ex tant nomina, ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua
indiuis dua, nempe ad hancterram, ad hunc Solem, ad hunc mundum, ad -Scalenonen,
perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de
eo, cui ſit accipere fuperius, cui nomer impofitum eſt, Textus autem
Ariſtotelis dicat, cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid
eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat
Cees loo.fequentes ipfum, circa litteram e doctrinam Ari stetelis,textusfic
habet. Si quid eft,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus.
Ioannes inquit, non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente, prebet exempla
deexiſtentibus, contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus petie
rebus, contra Ariſtotelis textum, ait enim Ariſtoteles. Sed innominatum ſit in
differens tibus fpetie rebus, exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui
nominatur, eft in pluribus fpetiebus differentibus, ut in Iſopleuro Iſoſcele,
Scaler.one, o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes, quod nedum nomen
habet, fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. par A @
etiam in pluribus generibusdifferentibus eft, neque mireris uelimſi Joannes
ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint
&iuerit uſque Gorcie inficias, obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis. Ut
contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te,
ineft quidem demonſtratio, & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi
uni uerfalis demonftratio, dico autem huius primi, ſecundum quod huius
demonſtra tionem, cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim
Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og
fequaces multi fimiles ſine nomine, pleni nominis bus, quos in interglutiendam
uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit, cū ad exempla
deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi
circa univerſale dixit, loan nes (eg peius cæteri) circa finem comenti huius
textus fic ait,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non
utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum
ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi
cum exemplis, ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare
exemplum, ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale,
tria exempla, ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo
errandi modo, fecundum exem plum; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo
modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte
conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi
fuæ giens, in primis ſuo artificio, modum errandi &exemplum fibi corre
fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis, ſe cundus
errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum
demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi
coherente, concernit totam demonftrationem, feu arguendi mo dum qui dicitur permutata
proportio, errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut hucufque
dixi extorquent Ariſtotelis textum, non intelligentes. I N P R I M VM LIB. Pro
declaratione igitur uigeſimi fexti textus, fit hæc noftra prima ina ter
expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat, dicas eam eſſe ſecundam,uel etiam
millefimam. Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis reétis,
tanquam de ſubiecto, concluditur hec paßio, nempe quod non intercidant;
uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc, tanquam per medium,
quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor
angulis rectis, ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium, quod
cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos
quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c. d les, uel
alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes,
iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas
fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ
paraller le ſunt, &adhuc per iftud medium, ut fi linea recta cadens ſuper
duas rectas lineas, fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis,ut
probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee
parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum
mediorum di&torü,eſſe uniuerſalem,erraret primo errore circa uniuerfale,quia
nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft
cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad
intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos, et ad duos intrinſecos ex
eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad
omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum
equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium,ul tra
quodfit falfitate plenum, eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non
ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum? ut puta in
his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas
rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1. per quas cadit, caufat
uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb,
ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. ternis angulis
intelligenda eſt illa equalitas, ut natura illa communis tantum ſit equalitas
coalternorum, hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca, uel
dicas analo gam, ad equalitatem retorum, acu torum, obtuforum angulorum, @etiam
dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta
naturd,una abſoluta (utputa) eſt unus atq; alter angulorum, reliqua natura eſt
reſpectiua et ad aliquid, ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur
pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per
æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě
talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt,
ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos
intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re
& tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum, igitur non eft aliquid
accipere ſus perius ad hæc omnia, igitur petimus tunc ſingularia media in
propoſito concludendo, &ſicerramus, ſi nobis uideatur uniuerſale
demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium
demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit, fingularia media
peti mus, ſimile habes huic per XXVII (XXVIII primi Elementorū, Euclidis per
quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum. Itidem fimile per quintam, fextam, a
ſeptimum fextiElementorum,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia,
o non per unum uniuerſale medium, triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in
Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx,
quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ,in dire&tum
cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non
eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio,
immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem, quam Ioannes grammaticus, neque nouus
aliquis, ſiue antiquus etiam interpres, non percepit, hoctextu affert
Ariſtoteles les cundum errandi modum, à primo modo errandi longe dißimilem,
atque diuerfum, in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur IN
PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in
hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen. ei
impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe=; cies, ideo
illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus,
innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum, quiail Leſpecies non ſunt,
ut folis, terre, mundi natura, eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre, quia
plures ſpecies terre nonſunt, fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo
tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet
ſuademonſtratio uniuerſalis, quia no eft aliud primum cælum,erraret quia non de
hoc cælo, primofitdemöſtra tio, fed de natura coeli, ut eft quid uniuerfalius
ad hoc primum cælum, ſeu de cælo, fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam
doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis, fole
cans didiorum reddit; inquit enim in exemplo fecundo, quod quidem fecundo
errandi modo correſpondet, oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles,
ſecundum quod Iſoſceles eſt. Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres
æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet
ſpecies trianguli quam fofceles, &tunc error ſecundo mos: do contingeret.
Explico Ariſtotelis ſententiam. In primis eft aduerten dum, quòd triangulus re
ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum, fo pleurum, iſoſcelem oScalenonen,
quod ſi tamen per imaginationem ponamns, quod non haberet ſub ſe ljopleurum,
neque Scalenonen, per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum, tantum haberet
ſpeciem unā, ut iſoſcelem, eſſet tunctriangulu: innominatus in Scalenone atque
Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur, ut
fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus, iam illæ ſpecies duæ
triangu. lorum effent, quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum
oſtendat. propoſitum. His ſuppoſitis, ſiquis de foſcele concluderet; quòd tres
haberet æquales duobus reétis,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des
monftratio, quia nullus eft alius triangulus, quam foſceles, crraretſes. cundo
errandi modo, quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe, nempe triangulum,
de quo primo concluditur talis affectio, & talis era, ror multa diuerſa à
prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit circa.medium,
& iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis. Aliud,
ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum, In hoc ſecundo eſte
ſuperius og nominas, tum, ut triangulus, Tertio illud innominatumſit in
pluribusmedijs, hoc. autein? POSTERIORVMARIST DS autemfecundo modo
innominatumfit in duabusfpeciebus tantum, uideli cet in Iſopleuro w Scalenone,
Ibi ut in omnibus fit innominatum, Hic aue tem nominatum ſit tantum in una
ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã acceſſerit
philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho egredi,
ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit
interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando, non temporaliter,inquit,audiendü
eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte fit audiendum, fimili modo
ergo ijtud uerbum, Nunc,haud,inquit,temporaliter audiendum eſt, quin po tius,
exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam, Pedagogorā mo dum inſequutus, qui
quattuorgrecis litteris intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia aut
liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi
implicati non ut loannes plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis
centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis
nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes
tādem ſint ſue infanie, et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo
chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant
ipſi cum ſua ignorantia, uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora
incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere
uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum, ueftem, o Euclidis
honeſtate accedant ad Socratem; ne fintpoſt hac, fomenta praua difpofitionis
preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs. Qui dam alij
interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam
abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine
fenfu relinquunt, quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat
Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru
interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio, et legatur textus ut lacet in
greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba
temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt,
onon legatur, loco de ly nunc, non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies, ſi
tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera, queunaſola
eft, quă inferius fübi ciam, et nulla alia ab ifta uers effe poteft, ad
Arijtotelem redeundo, textum expono. Proportionale, quod commutabiliter eſt.
Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum, eft tertij modi, pro cutus
declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem
proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem;
Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero
queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo
ſitio,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed
familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino
dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab
Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem
generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam, ex Ariſtotele igitur
habetur, quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide
uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero, quod tantum in
quana titate proprie reperitur proportio, quæ quidem eſtæqualitatis, in
equalitatis; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in
primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem,equalitatis
proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo,
inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius, terminus autē
minor, et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus
terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc
ſcito, quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in
quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem, fiue etiam alterius
generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in
equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata
proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur. Quibus
pras intelectis o declaratis, uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus
in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio
nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt
propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia,aliena
docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut
cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft,partem
uero inferius ad ipfum uni uerfale, Mododico,quòd antiqui philofophi qui
precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo,
putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem, que tamen erat in par
te demonstratio,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos
plus quemadmodum demonftratum, eft aliquando, uidelicetabantiquis POSTERIORVM
ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem,atque Euclidem preceſſerūt,quia
ipfi non aduerterunt quod quantum, eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum
perius accipitur, nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs,
differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius,
o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in
pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem, quod hic conſideratur, eft in
pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue
illa diſcreta, ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki, feuetiam permanensſit,
ut numeri ſunt,lines, folida, tempora, &alia huiufmodiſpecie differentia,
feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis
demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale
demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et
perſe attribuitur, ut ipſi quan titati, quatenus tale. Nunc dico, nedum in eo
Ariſtoteleo quidem tempo të, & à philofophis reéte fapientibus, ſed etiam
oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio
uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet,
propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando, arguendo
permutatim in numeris ſeorſun, in lineis feorfum, cæteris feorfum, nunc au =
tem non contingit iſte error his, qui ſequuntur Euclidis ſcitum, quia nunc,
ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur, hoc eſtmo:.
dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit, quægenuseft ergo üniverſale
adomnia quanta, hæc autem eſt mea interpretatio, uera og germanaipſi
Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime
declarat propoſitum. Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian
ĝulum demonſtrationeaut una, aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque
Iſopleurus feorfum & Scalenon,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum,
quòd duos rectos habet, niſi ſophiſtico inodo,rieque uniuerfaliter triangu huum,ne
quidem fi nullus eſt, pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod
trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum,ſed quatenus ſecundum
numerum, ſecun dum autem fpeciem no omnem, & fi nullus eſt, quem non nouit.
Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum, quod in hoc exemplo
Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo, comple &ti duos errandi
modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM: LIB. do,
atque tertio, cum primum defingulo modo, fecundo &tertio, fe. paratim
exempla aptißima e peculiaria pofuit, ftatim attulit aliud exemplum utrique,
ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in
exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur; inquit enim,
demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non
poteft, ut deIſopleuro folcele, C Scalenone, concludatur quod tres equales
duobus reftis habeat, uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus
triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur, quod tres habeat æquales duobusree Atis,
ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera; ac fi dices ret
pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod
tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio, nullo modo intelligi
potest, quòd fyllogiſtica ſit, quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de
uniuerfalitriangulo, quod haberettres equales duo bus reftis,ſic fyllogizando,
omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis, ſed Iſoſceles, uel
Iſopleurus, uel Scalenon, eſt triangulus, igitur foſceles, uel Iſopleurus,uel
Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel
particulatim abſque illo diſiunto, fed uno tantum affumpto triangulo, non ne,
ſcio de triangulo uniuerſaliter, in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres
æquales duobus reftis? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de
Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triangulo,niſiper
accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus
igiturilledicendi, quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non
poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in
maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem particulariñ deueniretur,qui
error non eſt, ſiquis autem di ceret, ut fic intelligi debeat
demonſtratione,aut una fyllogiſtica, aut alte ra Geometrica, dico quod nullo
modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein incommodum eo modo
arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram Aristotelis, ut fupra dixi,
quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus in cognitionem particularium
quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il docet, quo modo de nouoſci
mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed agit,hoc textu,& in hoc,
exemplo, de errore, qui opponitur uero modo ſciendi,onon de mo: do, quo de
nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica demonſtratio
neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1 / 0 POSTERIO
RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus iſoſceles
est, igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de alijs
fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i
particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no
diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per
particularia, uel etiã altera,nempe Geoinetrica. Pro cuius ellucidatione, eft
fciendun; ultra ea, quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio,
quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod
triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis,
fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris (non dico Ariftelis deuoratos,
res uel potius carnium «acephalorum ſeptem, unis bycis uoraces, quiafi
uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam
falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele, quòd
habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi
Elementorum, aut altera numero, eadem ta menſpetie de Iſopleuro &
Scaleno.ne idein oftendat, ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus
inducat, quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus,
nonduin cognouit inquit, triangus lum quòd duobus reftis æquales habet, niſi
ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi, ne quidein fi
nullus eft, preter, hec, triangulusalius, non enim quod triangulus eft
huiufmodi cogno uit, nequeſi omnem triangulum, hoc habere contingut, utputs
duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum, ideft fecundum nume
rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien, in uno uidelicet
uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem, id eſt ſe
cundumnumerum trium triangulorum petieruin, ſeparatim,quem non nouit. Erraret
igitur duplici errore ille, qui putaret eße unia uerſale fubie&tum, &
totum, id quod effet particulare fubieétum, parsfubieétiut, quia tunc acciperet
in parte totum, id eft partem, to tum effe exiftimaret. Si autem triangulus
immaginetur faluari in unica tantum fpetie, ut in iſoſcele, tunc exemplum
intelligatur, aptari feo cundo modo errandi tantum, non etiam tertio. Vides
igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa
uniuerfale,quorum cuique proprium, &peculiare exemplum aptauit. Neque legas
poſt hac lyaliquando, prominus exacte, nequely nunc,pro exacte ita,ut neutrum,tempusſignificet,
fed utrunque temporaliterlegatur, neque 1 i IN P R I M V M L I B. legendum eſt
ly nunc pronon, ut quidam, qui nullus homo est facit. Ad id autem quod Ioannes
de Gorgia tetigit, aie quod quantitas, natura ipſa, qualitatem precedit, fic ut
quantitas, fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine,
oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et
modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij, ut eſt proportio, & modus arguendi,
qui dicitur permu. tata proportio, funt hæc quantitati propria oſibi primo
conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem
admodum etiamSyllogiſmus, qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per
attributionem, de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit, quòd ſi
ſubſtantijs quantitate prioribus, quis tribuat come mutabiliter proportionari,
tunc uniuerfaliter reſponde, quod omnibus entibus poteft attribui
commutabiliter proportionari improprie tamen, oper quandam attributionem
fecrındariam, quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis, aut uirtutis in
ſe,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis
qualitatibus improprie, opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis,
quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit
uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter, manifeftum eft utique. Quoniain,
li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro, aut unicuique,aut omnibus fi uero
non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur, fi eadem deffinitio
quæ trianguli est, cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris, aut
unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim, aut etiam omnibus fimul in
com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens, ſi uero non idem, id
est finon est eadem unica deffinitio, quæ bis omnibus æque primo conue ! niat,
fed alterum, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus
lineis rectis claufa, fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus
claufa, iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus, una
inequali claufa, gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa, ecce
modo, quàm diuerſa ſint deffinitiones, fi ineſt igitur tres habere his omnibus,
hoc quidem eft unicuique, fecundum quod eſt triangulus, uelfecundum quod eft
figura tribus rectis claufa, o non POSTERIORVM ARIST. has pro eta quia illis
lireis equalibus, uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft
triangulus, aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt
primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis
infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto,triangulo infunt duobus rectis pares, fed
æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares,
fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia
etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales, fed eis non primo, ut fi gura
que clauditur termnino uel terminis, quo igiturprimo reinoto, cui priino
conuenit; remouetur, & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur,
remouebitur & habere tres duobus rectis pares, & ſecundum hoc igitur,
id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi
trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio. Littera fic ordináta, artificiun
Ariſtotelis est conſiderandum, in hac regula, quam prebet ad cognofcendum,
quando erit uniuerfaliter demonſtratio, ego exem plum eft contraſecundum modum
errandicirca uniuerſale,ſic,utſeruans hanc regulam,non errabitſecundo modo
errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī,utremoto
ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as
enimfeu aneum effe,non conuenit fpeciebus triangulorum, niſi quia indiuiduis
triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli, ut Ifofcele remoto, non
pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis
pares, quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut
in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere
tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio,ut
remotafigura, &tres habere duobus re &tis pares remo uetur, Quarto
cultimo remota deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt, que
termino uel terminis clauditur, remouetur og illa affectio ſed non primo, primo
enim conuenit ipſi triangulo, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa
affectio, habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur
quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis, eft uniuerſaliter.
& eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII. ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus
alterum eft, ficut Arithmeticæ, & Geometriæ,non eft enim Arithmeticam
demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines
numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do
loquutuseft inquiens,niſi magnitudines numeri fint, fed fuæ regulæ uniuerfalis
exceptionem faciens, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas
magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati, o adhuc numeri illi
numerati non fit diſcreta quantitas, ſic ut illinumerati numeri, non copulentur
ad aliquem communem terminum, ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum
copulantur communem,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que
numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur
ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter
quã ſint, eas percipiat oppoſito modo, fed eas tantum conhder atparticunt Latim,
no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas,non tamen in telligendo
eas negatiue, non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id,quod Euclides
proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles
magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius
deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod
earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan
titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ
inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad
unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi
b, ut unit as ad e, quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt
ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft
propoſitum, Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima
partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis,
punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte, manet idem, immo
eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen
intelligit primam, atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad
comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio
Arithmetico,ut puta nume ro in constructione, «æqua proportionalitate ad probandam
affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns
decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de
magnitudinibus, hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum
Magnitudines, numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter
dimetiantur, diameter igitur quadrati, Oſuacostanunquam funt, neque dicentur
quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides
in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo
pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala -
tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuerfaliter,
quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda
Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis
fenfum, inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo,
non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror,
ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis,eum admiror quòd cum
aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem,
&quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin,neque
pueritia,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe, niſi dixeris, quòd ipſe
elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu, quo multa
peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo
cupientes Aueroiſtas dici, ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda
propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante
quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam,quòd non de ſeparato
illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut
quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc
inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo,reſipiſcăt,
et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post
millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam, po fterius
dicetur. littera fic intelligi debet, magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN
PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord,
ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de
anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum
abufius mille,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De
interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico,fed intelli gas uelim, ut
quot uerba proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum
committunt. Quis enim legit Grecos, Latinos, o noftri temporis
expoſitoresAriſtotelis, non uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe
fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá, in libris de
anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices, quis modus iſte
obfcuritatis eſt, per ignotißima declarda re ea, quæ aliquo modo ignota funt?
eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper
poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti
declaratores,hominem eſſe philoa fophum, animaſticum, & methaphiſicum
antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles
attulit tria exempla in fecun do textu,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui
ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam,qui poftquàm
exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem, quomodo
contingit, posterius dicetur, fic ut id,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin
logicis declarandis, fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,Pombaur
tanquam nota in philofo phia, ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad
particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx. libro
Elementorū ut des claratum eft, & non ex philofophiæ locis, vt proMilanius
utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt, ad ea declaranda, quæ inlogicis traa
& antur, ut uera methodo, à notis diſcuramus adignota, fed fi idem in
theologos ſacrosobijcias, qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas
queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt, igitur ipficra rant,refpondeo,
In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur
tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium
theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda. Ita ut
ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem, ſunt quidam
alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus
deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias
indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in
epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum, non
intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T. 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi
facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum, qui modusmultas hærefes
attulitfidelibus. Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis
philoſophic, &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione
fanétifpiritusmoliaturfua duricies, hoc quidem tertio modo non intelligit
aliquis facras litteras, niſi inſtructus illis difciplinis, que precedunt ipfam
reginam theologiam, valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium,
nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non
peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini,
&præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi
ordinem. Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt.
pofterius dicetur, ut in libris philofophiæ, dixi tamen ego ex decimo
Elementorum. Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum
căcipiatur, fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio
demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia
eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft
demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina, ſed neque quòd duo cubi
ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media oextrema debeant effe
eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione medium, ſeu medium ad
probadum, quod eft, aut principium, uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus
mitur ad probandam aliam, propofitionem; extremorum autem nos mine (ubiait
extrema) intelligende funt ipſa concluſiones, utfitfenfus facilis, premiſſão
concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit,
Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint?duo prius feparatim erant,quiſi in
unum redigan tur, unum tantum efficiunt,ut due lincæ etiam una linea tantum
efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum,vltra
aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra
ſimilitcr duo cubiunus cubus eft,quod etiam Geo metra non probat, his habitis
odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui
maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua innani
interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum, quod eft
di&tu, quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum,ifta
interpretatio opponitur littere Ariſtotelis; li ttera anim affirmatiuc
loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV
M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue, quo mododuo eubi non faciunt
unum cubum; reiciatur igitur ſuainterpretatio, & Philoponi expoſitio
ſuſcipiatur, quæ hoc in loco fatis conſiderata eft, atque docta;Ratio enim
quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non
uerſatur Geometra circa genus folidorum, ut circa ſuuinſubiectum, fed uerſatur
tantun circa planorum genus, ut circa proprium ſubiectum, Stereometra autem
habet demonſtrare, quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut
ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum, & in fragmentis
logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione,
eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert
Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata, opermepri
ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis,utdecet
appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis
notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata, eſto ſiuis ut trium eſſet
pedum, quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are
duplationem, qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius
orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata,atý;
corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex
pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa
eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita,fþreti igi tur propter hoc
delij ab-Apoline, & graue peſte adhuc laborantes, ad Platoně
confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios
reliquit dicens eis, ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum
eandem proportionem continuam. Et tunc ſcirent duplare Aram, formam habětem
cubicam, In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus,
duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij,fubinde
ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit
longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum, fecunda uero lineaſit ed, que
deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina
ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam
litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data,
primafit b c, quæ erat longitudo prime Are, e a b.longitudo tras bis,
&ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM
ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb
a b c o compleaturparallelogrammum bd; per tertiam atque tri geſimamprimam
primi Elementorum;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum
ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur
circulus a d.c, os produ catur linee b a,b c, per fecundum poſtulatum primi
Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f
&, per lineam f g tranſeun b tem per punétum d, ita ut fe, æqualis fit
lineæ e g, hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum. (De quo, forſan
poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe
æqualis eft ipfi dg per hipoteſim, @primam animi conceptionem. f a f 6 f 6 6 G
gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik
mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte
linee rette f b, feſecant circulum ad punéta a v d, quod igi tur fit ex bf in
fa, per trigeſimamquintam tertij Elementorum,æqua le eſt ei, quod fit ex ef, in
fd, ac eadem ratione, &quodfit ex b & in c g æquale est, ei, quod fit
ex dg ing e, aquale autem eft id quod fitex dg in g e, ei quodfit ex e f in f d,
utraque enim utrij que equales funt, e f ſilicet ipſi d 8, og f d, ipſi eg,
igitur, ego quòd fit, ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c, eſt
igitur, 62 IN PRIM VM.; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem
decimequinteſexti Elementorum, ita g c ad f a,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad
per iij.fextiEleé mentorum, igitur per xi. quinti Elementorum g c ad f a,ut f a
ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum, ut dc adc 8, fic cg ad fa,
quia utraqueeft,ficutea, que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv.
reliquaper quartam fexti;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum, est
autem dcdqualisipfi ab,04 d, ipſi b c per xxxiij. primiElementorum, igituraut
ab ad cg ita f a ad ad, erat autem, out f bad bg, ideft ut a bad c g,fic cg ad
fa, igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia, o ipſa fid, ad b c, quatuor igitur
rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit; uta
bad b c, ita quifit ex 4 b cubus, ad cubum, qui ex g cega qui ex g c, ad illum
qui fit ex f a, e qui ex fa, ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi
Elementorum, igitur ut a b ad b ©, ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c, fed
a b dupla fumpta fuità principio, ipſius b.c, eft igia tur cubus, qui exfa,
duplus ad cu bum, qui ex b c, quod demon - g strandum errat. Berlin. g c.8 F G
f 6 f 6 6 a. 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d. o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM
ARIS T. Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes
funt & fcientiæ, ut lunæ deffectus, Quee dam noua queſtio à quodam nouo
interprete moues tur, circa particulas in textu poſitas, unde eft, quòdfæpefiat
demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper,
nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici
ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit, uidelicet Solis Lune, quia
ille, qui eam mouerit, neque in die, neque nocte uidet, quid uelit Ariftoteles,
ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc
apponeretforſan miringam, ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui
quidam homo erat,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ
menſtruo folutionem,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum. Videas,
ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis, quia
quandofit,tunc orientalibus quar ta hora, occidentalibus autem hora tertia,
magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis
tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille
interpres do&tus,quid ſepefit, ut puta intot horis noftis,
utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia, in
dialogis &fabelis, quas apud ignem raulieres habentreponenda magis, quàm
àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft, uel etiam à quouis audienda.
Litteraſic ordinetur, eorum demonſtrationes & fcientia ſunt, eorum dico,
que fæpefiunt. Dico igitur lunc deffe tusſæpe, atque ſemper fieri in plenie
lunio, quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam, quod quidemnon in
omni plenilunio contingit, fed cum sol in capite, & Lue na in cauda
draconisfuerit, quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium
obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus
quàm doctor, &ille est, quem ſuperius dixi hae, bere grauitatem maioren,
quàm pondus, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano
Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam, explicans
deffinitionem lineæ rectæ, que eft, à pun Ao in punctum breuißimaextenſio, aut
cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft, cuius medium non reſultat
ab extremis, ſic explis IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem
lineam, ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur, linea
recta eft, cuius medium non obumbrat extrema, neque eſt hæc mea explicatio
rectæ lineæ, Contrda ria illi à Platone datæ, cum hæc in Geometria, illa uero
Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia
igna rus Grecarum litterarum eſſem, ut ille efuriens greculus non lingua ne que
natione, fed apparentia tantum, Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam
le&tionem Latinam vidiffe, qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius
medium non obumbrat, cum Græcus textus, affira matiue legatur fic cuius medium
obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam, oad propoſitum à quo uidebar digredi
redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit
Luna defectus, de qua Luna menſtruata habetur ſcientia, per medium illud, quæ
eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter, que cauſa pro
pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat
demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune, hoc non tangit
Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper, non determinant ly demon ſtrationes,
olyſcientia,fed determinantlydeffe &tusLune; illis igia tur cauſis
contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille
phantaſticus, ſecunda uel tertia hora noétis. TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM
autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno.
quoque principiorum, fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non
eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, &
inmediatis, eſt enim ficmon, ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum,per commune
enim demonſtrant rationes huiuſmodi, quod & alí ineſt, unde & alíjs
conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli
fenferint, dicam quid fenferim ego, habita prius notia littere, &cognito
textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus, immediatis, fiat
demonſtratio, non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de
quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia
primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 6 tla,immoneq; illa erit
demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti
Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt, quo errore Brifo.crrauit
tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam, quæ t alia
erant principia datur max ius, datur minus, igitur datur æquale, quidamſciolus
laborat, ut hæc principia uniuerfalia,propria fiant ipſiGeometric,dicens,daturquadra
tum maius circulo, datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun
sequale ipſi circulo, et gloriaturinnani, & hoc fuum chimericâ con tulerit
cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam,
fed et demonftrationem eam effe affirmauit; fcito enim, quòd os folidis, e
linels, o numeris coaptatur iſta dedu &tio, ut datur numerus maior denario
eminor denario, igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis,
dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad
oſtendendum intenti, quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia
principia,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia,ut ex his
quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper
trigeſima ciufdem,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co, quod egit
contra regulam de proprijs principijs,quicquid de confequentia fitprætermittens
tanquam non res Marguendum, ut oppoſitum ſuedat& regul«. De quadratura,
errore Brifonis, Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in
fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED
demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ
in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII
textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT
monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum, ratio, ut ibi declarani
aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter
circa planum, & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod
geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum, ait enim geometrice
in mechanicas, pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd
Stereometrica per principia Gear I IN PRIMVM.LIB. metric probantur quia in
terminis corporis, qui ſunt ſuperficies, ille geometricæ demonſtrationes
attribuuntur, ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit, o
ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS
XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima, & quæ ex his funt,
accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem, eft accipere, Alia uero
demonftrare, ut unitas, & quid rectum, & quid triangulus,effe autem
unitate accipe re & magnitudinem,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid
fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, &
quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in
decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum
numerum, ficut quilibet tertius adaliquem quar tum,concluditur q, ipſa unitas,
itafe habebit ad tertiã numerum, ſicutfc cãdus numerus ad quartum,fecundã
exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum,de qua
demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis
continentibus,Iſopleurum, uel ifo feelem, uel Scalenonem,uel etiam exemplum hoc
apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta, quòd ſit
biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum,
ubi de dato Trigono concluditur. habeat tres angulos duabus re&tis paresnon
tantum, quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe, vt tan dem de
dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo
quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit
unitas,et unitatem effe,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles, uerbum
hoc, magnitudinem, intelligendum eſt, rectam lineam,ut decima primi elementorī,et
triãgulum,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum,quem triangulum,et reetū,
explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas,
quid rectiem, Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere &
magnitus dinem, hoc loco aduertendum est Ariſtotelem, ſeiunctam poſuiſſe unita
tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in
unico uerbo hoc, magnitudinem, propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T.
effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis, de. qua
quidem unitate alia affe&tio concluditur, quàm de unitate linee, de qua
loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet
exlittera, quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum, ut
hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle
Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in
demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ, alia uero
cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo
(quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem, ut lincã elſe huiufinodi.
&rectum, De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus
prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt
ifta, utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate,hacde caufa
dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum, vt
puta recta linea est, que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à
punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum,
Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur:
non de incomplexis utde linea tantă, ca de recto tantum ſed, dehoc cöplexo
linea est longitudo illa tabilis; ¢ linea recta eſt,quæ ex æquali ſua
interiacet ſigna,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea
recta exempla explicăs, Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd
æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes
Arifto, non intelligentes hunc locum; naturam Geometrie ſcien tie perdunt,
dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra
ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam. Pro
cuiusdifficultatis nodo extricando, aduertendum quod princi pium iftud,de
quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in
demonftratione ponitur, nec eo utimur niſicontrate, oquae dam
determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti
parteaccepto,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina, que utatur illo principio
pro utrag; diſiunéti,fed pro altera tantū parte, Sinile de hoc (& alijs
huiufmodi) principio, fi ab.equalibus æqualia auferas, que re MON jpes non exti
ell I i IN PRIM VM LI'B. Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe
diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus
eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel
fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur,
quæ remanent lineæ,uel fuperficies,aut anguli funtæquales,quão primum autem
principium hoc contrahitur, non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit
proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra
declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento
quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod utrique proprium
eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi inſtetur ex
menteAriſtotelis dicentis, principiunt. - iſtud effe commune, inquit enim,cõnunia
autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non contrahatur,
quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius, ftatim enin fequeretur
contradi&tio, quod eſſet commune ono commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ
Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc textu, o his que
Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum
quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū get nus contrahitur, de
principijs loquens,ubi de datis dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi
quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon &Campanus non
contracteinquatuor primis libris Elemento rum, a quod Euclides affixit illud
principium primo libro, dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes
accipiuntipſum principiū fne Contractione, femper tamen op ubique uolunt ipſum
intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur,
aliter. errarent, Euclides autem primo libro affixit, quid utitur ipfo con
tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem
precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet, statim haberea tur circuli
quadratura per hæcprincipia contra&ta, datur quadras tum maius circulo,
datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo,
refpondeo, quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter
arguendum, primo quia Brie so per principia comunia, iſte audem do&tor per
contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim
et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero
re&tilinea eft, hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac
expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est, de crrore autem
Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis. Idem enim
faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum,
Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit, quæ
namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet,
&lia neæ recte, •fubiunxerit, que nam ſint communia principia exent plum
prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint
remanentia, ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad
proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens, ſuffia ciens eſt,unum quodque
iſtorum, quantum in genere est, fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi
proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus
ſi auferas æqualia remanent, non quidemſi de omnibus accipiat, non quidem dico
demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione
utatur, fed demon, ſtrabit quidem, inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus
folum, id eſt contracte o determinatim,eo ufus fuerit.Vtfic, fi ab æqualibus
lineis ſuperficiebus, angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les
lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies
anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic
contractumreddatur propriumipſi Geometra, og Arithmetico &unicuique
artifici in fua arte, ac fi peculiari epros prißimo uteretur, non procedit
igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id, quia per cominunia
procedit Geometria, ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria, ut quidam
ingeniofus noftri teme poris immaginatur. Sunt autem propria quidem & quæ
acci piuntureſſe, circa quæ, fcientia fpeculatur, quæ ſunt per le, ut
Arithmetica unitates, Geometria autem figna & lineas. Euclides in
Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam
incluſiue accipit unitates, ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda
wtrigeſima prima primi Elementorum, lie neas uero in primt, ſecunda,&
tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum. Hæc enim accipiunt eſſe,
& hoc eſſe, idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato
precognoſcatur utrunque &quid &quia est, accipiunt eſſe,id est
deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe,nempeactueſſe,
uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt, quod eſſe potentia,uel
effe aptitudinedicunt. Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni IN
PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt, ut Arithmetica quidem quid par, Sicut
uigefimaquinta noni Elementorum, aut impar, ut trige fimanoni Elementorum, Aut
quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum, &quilibet numerus à duobus
duplus,ut xxxv. eiufdem, a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte
longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini
exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum,
aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen. aut
concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis.
Animaduerſione dignum est hoc, quod Geometra nunquàm hanc affectionem, ut
irregularitatem deunica lineafola con = fiderat, neque etiam de una tantum
linea id concludit, quicquid Cama panus ſentiat, fed id de linea una ad aliam
comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram, ut est
diameter wcofta quadrati. Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft,
quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne, uel etiam exterins,
in unopuncto tantum, quia inflexa non fecat nequere & amlineam, nes que
etiam circulum, quorum utrumlibetfaceret linea recta, eifdem ! recte linee 6
circulo non contingenter neque in directum applicata. Quod autem fint paſsiones
per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia
funi liter. De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe, de
monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia, idef per uniuerſalia
principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ
prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas, ſicut etiam aſtronomus
facit, utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones
probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun. TEX.
XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin
defpicere, ut genus non ſupponere effe, & fit manifeftum quoniam eft,non
eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur,
& frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST. $ 200
ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi
fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido,
quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu, quandoeft notum
quia est dati, deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato, an fit?
Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum, de eo enim eft
necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod
numerusaétu est mente con: ceptus, ac fiexifteret aétu, uel aptitudinem ad
exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc, quod numerus neque nataraneque
fenfu aetud liter percipiturquòd fit, fed tantun intelleétu dignofcitur, @ hæc
duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione
facit exceptionem dicent, & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi
fint manifeltæ, ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem
ſignificet. Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud
nomen, quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab
uniuerſaliregula,qua dixit fecundo textu, alia nana que quia funt prius opinari
neceſſe eſt,utomne quidem quod est,aut affir mareaut negare uerum eſt, quia eſt,
o textu xlvi.aliud prebet exem plum, utæqualiaab æqualibus fiauferas, quòd
æqualia reliqua ſunt, de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft.
Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint, quaſi natura dico, utputa quia
notis ter minis ipſarum dignitatum, statim notum est, quia est ipſarum
dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non
est,fa tis,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré
cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam, ueram,ut quòd circulus fit
figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad
circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit, igitur
ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est,non ſecludit
ipfum quid est, ut exponit loan.Gram. Alexander, A queſito ſecludit aliquádo
quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid
queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod
autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet
excludat àſubiecto ipſum quia,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in
littera,ubi ait,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit
Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon
accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi: Elemen.quod est,indiređã
linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10
& IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi
Elementorum, quodnon queratur, quia eft, quando est notum,id apertißime dicit
philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum,inquit enim,inuenien tes autem,
quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit,nó
queremus utruin, cum autem fcimus ipſum quia,ipſum propter quid querimus &
c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant
dicentes, quòd non oportet falſo uti, Geometram autem mentiri, dis centem
lineam eſſe unius pedis,quę unius pedis non eft, autrectam lincam, non ree
&tam cxiſtentem, ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam
rectam lineam triangulum collocare, etiam in decima primi Elementorum datam
lineam rectam, eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea, que
atramento pingitur, uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id
tamen dicendum eft, Geometram errare, quia non ad id intentionem dirigit
Geometra quod oculis fubijcitur, fed ad id potius, quod intus animo concipit,
dirigit intentionem, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam
errare et mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam,
quam ftilo pinxerat, fed fecundum intus conceptam lie neam, demonſtrationem
percurrit,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum
reſolutionem non errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam, ut textu 59
62, ait Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non
quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX
ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt &
non geometri. cæ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt
Geoinetricæ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex
oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus;
an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes,
ficut in Geometria, In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri,
uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an
icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit
Icoceruus, & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales, hic interrogans
habet ignorantiam fecundum nega. tionem, quia omnis habitus negatur in eo de
illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de
illo, quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat
nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur,
ſcit etiam, quisnam ſit duarum linearum concurſus, &quatenus iſta nouit et
interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus
autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non
eft Geometrica quæſtio, et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum
habitum, quo fcit lineas rectas, ceas in infinitum pro trahi polle, et
concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu, ſtat hec
ignorantia, ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non
căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus,
quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum, qui præter uoces re ipfa
nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo
plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui
fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti,
interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde
arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni
ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate,ut medietas toni ad
toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni, hoc eſt ſemitonium uerum
adinueniſſe, ignorans pauper, quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem
eft, que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam
@decimamnonam ſeptimi Elemětorum, erat igitur non Armonica quæa ftio, qua
quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet? Verus autem Geo. metra ille eft,
qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem, neque fecundum priuationem,
«ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes
partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit
omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres
æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat, circa uffumptam materiā,ut
tex. 52. determinauit phi lik line et K IN PRIM VM LIB.. lofophus,non errat
circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua
induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in
Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet
Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras
Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non
fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia, ut
& Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit. Scito Ariſtotelem
Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat
parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit,ſed aduertendum eſt in
materia parallogiſmi, quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia, quia
ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non
minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter
exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi
auctoritate, qui Proclus, ſi ita fenferit, ut ioana nes refert, perperam hunc
locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente
Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit, non autem ait,
quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit, id cito creſcit ſicut ipſe
loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic, 1,2,4, 8, 16, 32, 64,
128, 256, $ 12, 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis ♡Cenei
dico ex doctrina Eucli dis deffinitione undecima quinti Elementorum, &ex
deffinitione primi Geometrie uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas
proe portiones multiplicantur non termini, ut loannes Proclus facies
bant,arguebat ſic Ceneus,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata Analogia,
ſed ignis augetur in multiplicata Analogia, igitur ignis cito creſcit,ubi maior
&minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem error parallogizando
à Geometra non committitur, igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu
Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST. 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6
256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI, C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63
8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club =
56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis, quæ funt in mathematicis, quoniam
nullum reci s piunt accidens. Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum
eſt, quodomnis triangulus duos bus rectis paret habeat, id autem probat prima
pars trigefimaſecunde,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia
decima primiElementorum, quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam
conclufionem, quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin
illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam
methodum, ab illis principijs ad illam illatam conclufionem, reſolutiuam
methodum ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo, quihabitus
reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem
conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs, tunc ibi
facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis, ubi ex
uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij
7.6 IN PRIMVM LIB. @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re,
abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus
fum. TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX. & fit par eſt ers VGENT VR autein, non per
media, ſed in aſſamendo, ut a de b, hoc autem de c, rurfus hoc de d, & hoc
in infinitum. Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus, uel
infinitus,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus
imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in
quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu
mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus, de b numero
impari, et b,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero
primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia,
imaginare arborem porphirianam,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū,qui
etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta; infinitus ait propterhoc,
quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum
crefcunt,potentia continet,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties
continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus, quia
quicunque daretur, aut par effet, aut impar, qui non poteft effe communis pari
&impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem
uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat
magis ad dialecticuin, ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet,
ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum
inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem, atque pa rem,
&imparis numeri diuiſio est, in primum numerum,ocompofi tum, prinus autem
numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque
numerum,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3, 5, 85" 7, 13. Compoſitus
numerus eft, qui alio numeroaf e,oo ab unitate diuerſo, dimetitur, ut 9, aut 25,
à ternario, & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem,
atque imparem, et par quidem numerus ille eſt,qui biffariam ſecari poteft, ohic
partitur in pariter parem, qui in duo æqualia fecantur, partes eius, quoufquc
POSTERIORVM ARIST. 1 ad unitatem uentum ſit, ut trigeſima. In pariter imparem
qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt
ſectios niem,ut quatuordecim. In impariter partem, qui quidem in duo æqualia
diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia, fed hæc partitio, uſque ad unitatem
non peruenit, ut trigintaſex, de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo,
nono Elementoruin, Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem
ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum, numerus infinitus
fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b,
numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d,
qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra, eft ergo a ded,
&etiam de e k lo In latus autem dixit,quiane dum per rectam lineam arboris,
fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5,
Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111: 11CTUS -is 14 impar primus 13 50
ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis. 16 14 pariterper impariterpar
pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt
contractius, quàm prius propofuerit per litteras,ideo ne labores in numeris tot
numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin
numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo. 6 8
IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter
quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein
modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus, non enim accipitur prima cau fa,
quæ uero fcicntia proprer quid, per pri mam caufam eft. Hoc quidem primo modo
non prebet exemplum aliquod philofophus, quicquid Aueroes, Philopou nus,
fequaces fentiant, fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro
quia, de ſintillatione planetarum, de rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum,pro
fecundomodo quia,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter
quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit, quia primo modo
textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia,duo exempla prebetin diuers ſis
ſcientijs, utrunque exemplum est in ſcientijs medijs, alterum est in optica,
reliquum est in Aſtronomia, &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis
quantum ad inductionis modum. Primo declaro prie, mum modum, quo, quia à
propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum
dat exemplum,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita
habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet, uno quidē modo fi
ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur
ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū, fenfus
tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia;
ut fide homine concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine
concludatur quòd reſpirat, eo quòd pulmonem habet, eritdemonſtratio propter
quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal
reſpirat,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat
ſecundum Argiropilum,Olegatur ratiotinatio, Tunc exemplum dari poteft pro primo
modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij. primi
Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum, & non per immes
diata principia, fic ut fenfus fit, quod illa que probantur per alias pro
poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero
queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST.
zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes:
FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur, ut eſt queſitum primi, ſecundi,
atque tertij problematum primi Elea mentorum,que quæfita per immediata
principia demonſtrantur, facta prius deſcriptione, ut conuenit, neque dicendum
est, ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid,quando
perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum
propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars
uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco, non imme
diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam, quæ per
prima probare poſſunt, cum demonftratio fiant ex primis, & im mediatis,
oppungat,ut immediatafint, o non fint primaabſolute. Et in Geometria etiam alio
modo quia eſt, differt à propter quit, ut quando ab effeétu ad caufam
progreffus fit, neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur
equalitas laterum,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid
autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur, utputa quando ab equalitate
laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium, ut
prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit. Atio autemmodo per immediata
quidem non auteng percauſam, ſed per notius eorum que conuertuntur, ut lucidum
non ſcintillare,o prope eſſe, fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz.
cida, ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft, non
ſcintillare, quàm prope effe, ¬ius eſt creſcere per increa menta lucida
rotunda, quàm eſſe rotundum, & primum eft per fenfum per induétionem in
fingulisplanetis notummagis, non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed
econtrario.Secundum etiam, ut quod incremento creſcere,non eſt caufa
rotunditatis, licetfit notumfolummo do per ſenſum, non autem per inductionem à
pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento
creſcente certi fumus, *cum per ipfa, fiunt inductiones, quòd planeta
propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod
fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio, ifti
igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem, non tas
men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora, fed ea
quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex
immediatis. Amplius quare planetæ, haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper
problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me
declaratio, quæ etiam faciet fatis huic textui, eft tamen hoc loco aduertendum
Ioannem dicere fira MON mal, het, pw atur non ros illa IN PRIMVM LIB.
tillationem prouenire, quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores
fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum, ut Thimeo
&Empedocli placituin erat, quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De
Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus, niſi
exemplo loquatur famoſo. Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo
eiufdem feftionis aperietur, ubi querit Ariftote les unde eſt, quòd Luna
uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX. MPLIVS in quibus
inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio
eft, non enim dicitur caufa, ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani
mał. Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt, nunc
affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut
primus modus effe&tum infert, neque est,quando ex effectu caufa infertur,
fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio, feu
etiam econuerfo, ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt
æquales, opdo ri modo, quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex
eadem parte, igitur parallele non funt; oeſt hic modus tertius, quo quia à
propterquid differt in eadem ſcientia, dixi quando ex negationepene caufe, oc.
Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les,nifi fuper
ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli
fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt
pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă
affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria
& Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum, fi id
quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur,onera
qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra
mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit, etiam
ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao
taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez
cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote, quia ana gulus
fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus
POSTERIORVM ARIST. 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft
quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala
quam rota,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa
nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas,quibus utuntur lapi cide in
trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo
equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat, ut Boetius re&te
fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat,
fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem propter quid ratio, ab
Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in
duo equalia, ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua
ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam
poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam. Apparentia, ipfa eft phenomena de qua
Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila
lium feminaredebent, ait in Georgicis loquens de occafu hellaco, Candi dus
auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit
aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret, cur eo tempore cda nis, qui et Alabor
dicitur, occidat beliace,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid
redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in
orientem motus, quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, &
fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo
maximofplendore, non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës
perſignum Tauri, attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen
ſuum, non uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam, quouſque
iterum per motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri
heliace incipit; hi ſunt igitur modi quatuor, quibuspropter quid, à quia
differt, tres quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id
quoddemon ſtrandum eft inſcientia media,per ea quæ in ſubalternante ſcientia
nota funt, probatur, in quo quarto modo, funt plures demonſtratiomisgraa dus
fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM
LIB. -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum
fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non
enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed
no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus
dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia
ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid,quòd uniuerfalium ejt, per
caufas habetur,ait,propter quid autem mathemde ticorum, hi enim habent
caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi
uniuerſale conſiderantes, fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod
non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos
noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere
quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius,quiu à
propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia
quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum
fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium,fed
etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens,
Mathem matice enim, nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt, dubita.
tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa
ſpeciesſit, quo nam puto, in quia, & quo modo in propter quid fpecies
intelligatur. Dico, quod quia ſenſibilium eſt, ut ait Ariſtoteles, utitur, quia
ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt, fed
propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie,
linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis
cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in
ſubiecto funt,ſed preciſius abſtractione, ea conſides rat, fi talia nufquam,
ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam, ficut hæc ad Geome triam,
& alia ad iftam, ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac,
precedenti particula facilior,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi, ne
uidear tamen in precedenti particula, e hac preſenti, litteram ſequi, quam
pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt, fæpe encruat; loannis textum
in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam,
contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli
interpretatio, ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti Ariſtoteles
cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. terno quodã ordine pofitæ funt;primo
Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia &huic
ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua, quæponuntur,perfpecularia
probantur&, quæ in peculi ria, per ea quæ in perſpectiua funt
notamanifeſtantur, qu: autê in pera fpectiua, per ea quæin Geometrianoșa,
fuerunt, ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus Iridibus
appareant; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo, per fcientias ſuperiores,
hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum, ſcienriarun fe has
bent fic, ut medicina ad Geometriam, q eniin uulnera, cir cularia tardius
fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ. Parum ſupra in
anteprecedenti particula dixit philofophus,qu& namfcientiæ effentfere
uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut aſtrologia '
et mathematicaet na ualis, o harinonica quae mathematica, oque fecundum auditum,
in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo modouniuoce funt.
ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he enim due non
ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt, id quod circa planum
uerfatur, medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le,id, eft, quod proponit;
ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia fciētia nota
funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce, neque fubalternatæ,ut in chierurgia,que
pars eft medicina proponitür uulnusrotundum, difficultate fanari, ut
canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi propter quid,
primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni parte æqualiter
diftat cas o, ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS TEXT VS L
XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo, differt ipſum propter quid ab ipfo
quia, quodelt, peralia fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari, Huiuſmodi au Matem
funt, quæcunque fic fehabent, utals terum fub altero fit, ut perſpectina ad Geo
metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic intellis gatur per altam magis
uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus univerfalem. Vtrunquefpeculari,
utrunque dixit refferens &propter. quid, quia, alia enim fcientia
fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum
quia, ut Geometria proprer quid, perfpeétiuauero, quia, inquitenim Ariſtoteles.
Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem mathematicorum.
Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam quantitatens minorem,
quamſi idein oculus fiat in b, quia inquit perfpe&tiuus,uide tur ca
ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b, quam ab eodem oculo in a
exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id demon ſtrat primo
Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc, quod di cebatur de mente Ariſtotelis
in dia & o exemplo perſpectiuo, quodne que percurrendum eſt ſicco pede,ut
indoctifaciunt no intelligétes bonas artes, quicum ad Mathematica ex empla
accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim ponëdum in illis. Ego autem
econtrario dico, totum neruiim rei, eſſe in exempli intelles ione, ubi ait,
quod perſpectiuus oftendit maius uideri id, quod de prope eft, demonftratione
quia, o Geometra, idein propter quid, demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele
mentorum, qua uigefimaprimaprimi Elemen.non propter quid demon ſtratur, fed
demonſtratione quia, ut demonftratio quia diſtinguitur, a propter quid primo
modo, ficut textu 64. declaratumfuit, quòd illa des monftratio, quæ per mediata
a probatas propoſitiones procedit, eft demonftratio quia, diftinguiturab illa
ineadem ſcientia, quæ proces dit per immediata principia,quæ demonftratio
propter quid dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu,determinatur quòd
demonftratio uig eſi miprima primi Elementorum eſt, quia, hoc autem exemplo
perſpectis uo dicit, quod eft propter quid, contradictio igitur manifeſta
uidetur. Dico de mente Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici
ins tentio fuper textu fexagefimoquarto,dicentis. Quodammodo autem in
precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum
fecundo modo ipſumquia per immediata,ſimiliter w propter quid, unde aduertendum,
quod demonftratio, quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum,que per
uigefimam decimāfextam primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime
propoſitionis Elc. POSTERIORVM ARIST. es mentorum, quæ per immediataprincipia
procedit comparetur demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur
adperſpectiuam demone ftrationein, tunc propter quid dicetur, quia perſpectiuus
pier eam pros bat intentum, u ſictricic apparentis argumenti explicite funt,fc
cundum philofophiſcitum. TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IGVR A R v M autem faciens
ſcire maxime pri ma eſt, etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc
demonſtrationes ferunt, ut Arith metica, & Geometria, & perſpectiua,
& fes re (ut eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt
conſiderationem,aut enim omnino,aut licut frequentius, & in plurimisper
hanc fi guram (quieſt propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur
edirecto contra expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione
illa Geometrica, que tanquam fictitium quoddam, uanißimum, &nullo Greco
& Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles, etenim
Mathematicæ ſcientiarum, per banc primam figuram demonſtrationes ferunt, non
igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam
inductionē, utibifuit des terminatum. Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui ea
profert& fcri bit; quæ nonfunt notæ earum, quæin anima paßionumſunt, cum
non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant, fed potius tanquam
ficcamcucurbitain, in qua nonniſi uentus reperitur, quia tamen nonfo lummodo
fapientuin habenda eft ratio, stultis etians atque infipientibus pariter
reſpondendum effearbitror, ne in fua ignorantia glorientur ua ne. In hoc textu
Ariſtoteles nil aliud determinat, niſi quod preſtantior est prima, quàm fecunda
& tertis figuræ,&quód Mathematica hac fepe utuntur, &hoc quidem
quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex. dicens, oin plurimis per hancfiguram,
que eſt propter quidfyllogif mus fit, modo quid refert, ſi Geometra, utatur
fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum, quo modofyllogiſmo
utitur Geomes tra, &quomodo inductione Geometrica?fimodo quis ex hoc textu
uca lit inferre, quod illa indu&tio Geometrica non detur, ipfe faciet
mendas cem Ariftotelem, dicentem in tertio textu, quòd nedum fyllogifmo fed 70
IN PRIMVM LIB., oinduétione, ſcitur quòd triangulus in femicir culo
conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis. TEX. LXXXVII. ALIAS
XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his, quæcun queipſa quidem inſunt, fecundum
ſeipſa rebus, ſecundum feipſa uero, dupliciter, quæcunque enim in illis infunt
in co quòd quid eft, & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft inſunt ipſis, ut
in numero, impar, quod ncit quidem numero, eft autem ipfe numerus in ratione
ipfius, & iteruụn multitudo,aut diuiſibile in ratione nua meri, horum autem
neutrum contingit infinita eſſe,nec ut impar numeri, Secundum fe ipſum
bipartitur, ut quando prie mum deffinitio de deffinito predicatur. uel etiam
quädo deffinitum de def finitione, ut numerus est multitudo ex unitatibus
aggreguta, ut Euclia des ait fecundadeffinitione ſeptimi Elementori,et etiam
multitudo ex unii tatibus agregata numerus est: impar nuſquà inuenitur in
deffinitione nu meriupud Arithmeticū, neq; etiä numerusin deffinitione paris,
quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à Græcis etLatinis explicatum
est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus, quædum fecüdum quod ipfa
inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit, ut fi quippiam, nume rus eſt, id
quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur,oſi quid ims par uel parfit illud
tale numerumeffe patet, ſic ut exempluinprimum Ariſtotelis, ſit circa
diuiſionem, fecundum exemplum de deffinitios ne, quia tamen addit, aut
diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur quod diuſibile
in numeri ratione ponatur, quatenus nu merus eſt, fed in deffinitione numeri
paris; recteponitur, ut diuidatur in æqualia, ut primadeffinitione noni
Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft, qui in duo æqualia poteſt diuidi,
& quicquid in duo equa lia diuiditur, id numerus effe patet, fiueboc de
numero, quo numerisa mus, feude numero numerato, hoc intellexeris,
ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam, in his exemplis ſeruauit Ariſtot. primo enim
in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie contenta, fub
deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in imparem atqueparem;
ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica, definitio estſecunda septimi
Elementorum, deffinitio autem paris; patet ex prima definitione noni
Elementorum. Horum autem omnium nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in
imparem atque parem, impar in primum, compoſia tum, compoſitum in quadratun, o
non quadratum, igitur quadratus compoſitus impar numerus eft, onumerus, eſt
impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar prinus, er prinus, impar
numerus eft, ſicuti status eſt innumero,ut tandem ſit ultima particulaque à par
te fubieéti ponatur, ſiiniliter ſtatus erit in alijs particulis, que ponun tur
à parte predicati, quando ipfe numerus àparte ſubiecti pofitus erit neque
igitur inſurlum,ncque igitur in deorſum infinita pre dicantia contingit eſſe in
demonſtratinis fcientís, de quiz bus intentio eft, in furfum ait deffinitionem
refpicientes, neque in deorfum diuiſionein feu partitionem animaduertit. d ac
38 mi TEX. LXXXVIII ALIAS XXXVII. for ONSTRATJslautem his, &e. Non te prea
terit, quòd habere tres duobus reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni,
neutri tamen per alte, rumconuenit,fed utriqueperhoc, quodfigurarea Eilinea
trilatera eft, idfæpe fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte
trigeſimeſecunda primi Elementorum.. other VA 16. TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M
ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata
& queinadınodum in alís eſt principium fimplex, hocautem non idem
ubiqueeſt, fed in graui quidem untia, in melodia,alle tem diefis, aliud autein
in alio, fic eft in fyllogitno unum, propofitio immediata, Secundum antiquos
rumfcitum, ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij. Elementorum
unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle Etum
diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas, aſſem uoc4 = werunt,
undecim earum dixerunt deuncem, decem dextantem, nchem IN PRIM V M. LIB:
dodrantem, o &to beſſem, feptem ſeptuncem, fex uero partes femiffen,
quinque quincuncem, quatuor trientem, tres quadrantem, duas ſexa tantem, unam
autem appellauerunt unciam, quam unciam in minorafra gmenta nonfecat
philoſophus, quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum
integrum, tanquàm ab immediato prins cipio,ex quo,fumiturfimile, quod in
fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in
terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in
minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam
quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum
filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit, id autem eſt, quod qui Logicam
ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin
primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei, ut in adagio dicitur, operam fimul
ooleum perdet, quid per dieſim intelligat, notum erit fitonum ſimpli cem,
interuallum integrum, nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes
eſe impoßibile quis prius perceperit, ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft,
duas tamen in partes inæquales diuidi, quarum altera maior eft, quæ apothomen,
ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur,
oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur, quartum utras que
dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis, ut Boetio atque Nicomas co primo
libro Muſicæ,capite xxi. placet,idprincipium toni eft, quid minimum. Practici
uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam
incifionem fignant ipfi practici Cantores, ſuper eam notam, ſub quain deſenſus
toni, faciunt defen fum ſemitonij, ſed id cantoribus relinquatur, prima dieſis
acception Ariſtotelis ſententiam explicat, quia dieſis in illa acceptione, eft
minia mum conſideratum à mufico, fiue id, quodminimum eſt in concinentia
conſideratum, ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de
monſtrutione fyllogiſtica, o boc intelligas de minutijs integri, non de
minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite
octauo agit,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur
POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus
unumquodque, ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum
aliud,utmuficun Coriſcum,quá do Coriſcus muſicus eſt, quàm quod homo muſicus
fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis
demonſtratio ſit uniuerfali potior. Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque
Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod
manu cytheram pulfat, fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice,
cromatice,atque enarmonice ratum, atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat,
atque imperat, qua re intellectu,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua
Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur, quod eft, an
particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut
Ariſtoteles innuit per interemptios nem, negando quodCoriſcusſit muficus per fe,
fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS
XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, &
propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis
huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt
proportionale,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque
linea; neque numerus, ncque ſolidum, neque planum eft, fed præter hæc aliquid.
illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi
Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu,
magis aperit dicens, proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque
lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid, quod quidem eſtipſum quantum,
quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis, neque illudeſſe tale
immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M
IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à
propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam
difficulta tem. TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio
eadem, & non fecundum æquiuocationem, conuenit triangulo & Iſoſceli,
& ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus ſecundum
quod eſt Iſoſceles, led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi
angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem demonſtrationem
particulari demonſtratione potiorem eſſe, o eft quando per rationem uniuocam
concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem
concluditur eademet affeétio de par. ticulari aliquo, ut habere tres
æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de
triangulo primo, deinde de iſopleuro, ſoſcele, oScalenone non primo, fed
quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum, uel
etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc
textu non minima conſideratione dignum, quod etiam non eft prætereundura
immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt, quia o nomine for rede
uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur, utpuu tafigura,quæ
tribus reétis lineis clauditur, non tamen per ipfam ratios nem, cõcluditur de
Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem
trigeſimæ ſecunda, eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum,
quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de
ratione uniuoca,Di cendum, quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in
omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo
quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum,quod nulla
demonftratio mathematica eſt potißima, & ob idmathematicæ nul leſunt
ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua
affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt
uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij
determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem,fiue
uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. ineſſeſubie
o uniuerſali, &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem, quòd de
uniuerſali, immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque
per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari
demonſtratione potior, atque præftantior est, ut fi per rationale mortale,
concludatur de homine riſibilitas, &deinde per id, de Socrate, quod fit
riſibilis, illa in qua de homine, quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft
potior, ſicuti de triangulo uerbigratia,in fecunda parte trigeſime ſecunde
primi Elementorum, &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus
reftis, illa tamen inductio,que probat de triangu o potioreſt illa industione,
quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde
de particulari trian. gulo concluditur, hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum
intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus
propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid
fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit, & cetera uſque ibi, Cum
igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis,
quoniam æquitibiarum,adhuc decft propter quid, quia triangulus, & hoc, quia
eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc, non amplius propter quid aliud, tum
maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu
Ariſtoteles determinatquòd, tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas
procedit nofter reſolutiuus diſcurſus, ait enim cum igitur cognoſcamus quidem
quod, hi, quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis, o redit rationem,
quoniam equitibiarum, ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere,
pentágone, adiecit proximiorem cau Jam dicens, quia triangulus, quia tamen
trianguli diuerfa funt latera,ut curua, conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta,conuexa
a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis
udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens
taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus,
uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id, quod exem = plo, Ariſtoteles ait,
paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB.
mnes extrinfecos angulos, quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim
omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi
elementorum duo anguliad c, pofiti æquales duobusrex & is, eadem ratione
duoilli ad a, o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque
omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis, fed per
fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum, tres intrinfecifunt
æquales duobus re&tis, igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis
equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter
fumptus, hahet tres an gulos duobus reétis equales, ſed ali quis habet duos
angulos rectos, tertium acută, et quidam triangulus eft qui habet tres angulos
rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate
pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro
poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet
trianguli fint minores duobus rectis, nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl
primi Elemen. Euclidis, quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus
reftis æquales, ratio, quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio,
eſt, quia de rectilineis Euclides, de fphelaribus ues ro Ptholameus &
curuilineis triangulis agit, quod aduertens Ariftotea les adiecit, quia est
figura rectilinea; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera
rectilinea, habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I
MPLIV's autein & fic, uniuerſale enim ina. gis demonſtrare eft, co quòd
eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio, pro xime autem
immediatum eſt, hoc autem eft principium;fi igitur quæ ex principio eſt, ea quæ
non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio, ea quæ minus
eft, certior eft demonſtratio. Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum
determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior, in quo
quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis., difta tamen ohic ab Ariſtotele
tertio tex tu, ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube
timum cognoſcitur, ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit, nec de fubiecto
quopiam, ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones
deſingularibus, onon per medium,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur
de particularibus per medium, fed non primo de eis, ut declaraui in textů
tertio 'nonageſimoquarto huius, affectiones uero que de uniuerſali
cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis
demonſtratio, eſt ipſa particulari potior, quia particularis non per medium,
uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis
demonſtrare est,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico
exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit, quia omnis triangulus
habettresduobus rectis æqualesfciuit, quodammodo, & quod ifcoſceles duobus
reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu,
potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit
1fofcelem quòd actu,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces
interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem,hæcparticula
legenda eft, cum particula aduerfatiua fic,hanc autem habens propoſitionem,
nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés,
uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus
rectis, neque potentia, neque actu, non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt
uniuerfale ad triangulum,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet.
Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu, non ſcitur potentia
fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī,quifieripoteft,ut
propter id,ſuū uniuerſale potentia fciatur? non etiam actu fcitur
uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile
potētia, non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat
Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari
habetur de particularibus difciplinam eſſe, particularem eſſe demonſtratioa nem
quæcunquefit illa,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter
uniuerfalem o particularem demonſtrationem. Preterea etiam nos tatu dignum
habetur, contra omnes interpretes, id autem eft, quod ali IN PRIMVM LIB.
quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians
ſcimus, introducit eos, qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant
Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis, quod de nouo ſci mus inquiunt
enim, noftis ne quod omnis dualitas par ſit,nec ne? Vel etiam, quòd omnis
triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem
Platonicis attulerunt dualitatem, uel triangulum manu aba fconfum dicentes,
ecce quomodo uos de nouoſcitis, hanc dualitatem eſſe parem, quia
priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt
locum, ſic ut nedum ipſi intelligant, fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur,
ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito,
quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo
conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet, quia
neſciebant illam eſſe dualitatem, vel illum effe triangulum, putant iſti
exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes, anon aduertunt, quòd id
dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit, quod illi qui dicebant de nouo fcire,
male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum, egr reſpondentes perperam,
dicebant fe nonſcia re eſſe purem, niſi quam dualitatem eſſe
ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit, quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe
parem, uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet, fcit quòd
dualitas ſitpar, quod Ifofceles, tres duobus reftis æquales habet potentia,
licet neſciat a &tu perſenfum, quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à
me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal
fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem. TEXTVS CVII. ALIAS
XLII. T ca certior quæ non eſt de ſubiecto, ca quæ eſt de ſubiecto, ut
Arithmetica armo nica. Numerus, ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem
abſtractißimus est, nullum materiale ſubie &tum concernens, Armonica, uero
de nume ro ſonoro, uel magis, de ſono numerato, quod magis concernitmateriain,
ut fonum ipſum., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft, ut Boetio
placet libro primo muſices, modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum
matericfit, certior POSTERIORVM ARST. estquamſit ipſa Armonia, quæfubie£tum
conſiderat magis immerſum ipſimateria, eftigitur alia certioraltera
propterſubiecti maioremabe ſtractionem? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus
certior eſt, & prior ea, quæ eft ex appofitione, utArithmetica Geometria.
Dico autem ex appoſitione,ut unitas fubftantia eft fine poſitione, pun. tum
autein fubftantia pofita,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis
conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to
fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in
precedenti tex. determinauit; una enimſcientia determinat de abſtracto numero,
reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est
ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione, utin
15 ſeptimi ElementorumEuclidis,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium
librorum Arithmeticæ Euclidis. Dico autem,ut unitas, ſubſtantia eſt, fine
appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta, hoc est ex appoſitione,Nicomacus,Boetius,
Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus, in primis lordanus, o Euclides recte
interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent, quem locum obſcurant rabini
cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter
pretum incidifti Ariſtoteles? quæ hominum dementia te torquet: erant ne ſimile
hominum genus tuo tempore, ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem,
quique te audirent, expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc
tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris, fed magis ſeneſcentes in fua,
non tua philoſophia homines, exurs gant Romani uiri, liberalibus diſciplinis
præditi, quorum bonarum are tium hereditas, negligentia pofteritatis, uerfa eft
ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur, eo locum
hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto
affe & a, uellined, uelalio quoppiam alieno, fed punctus, uel linea',
ſeufuæ perficies, uel etiam corpus,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus
unus, uel una ſuperficies, aut corpusunum, uel plurafint: Plura autem pun &
a, eſſe non poffunt, niſi prius punctum unum,uel unafuperficies,aut corpus
unumfit, minus igitur eft unitas, quim punétum unum, Pombaiam IN PRIMVM LIB.
ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat: non ut fuum fubie
&tum, fed ut id, quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm
pars ad ſuum totum. Vnum pun &tum, feu lineam unam, uel etiam unum corpus
Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam,pun & um
&corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens, ex pluribusfacit fuam
conſiderationem,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat abſtractiſsime,
nulli reiappoſitam. Ex hac declaratione patet id quod Ariſtoteles ait primo de
anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima, eſt, duabus de cauſis
prima ex nobi litate ſubie &ti, ſecunda ex certitudine, ex certitudine dico,
non ut quis dam inueterati in philofophia craſſa exponunt, uidelicet ex
demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico, quia exſubiecto ſimpliciori eft,
que anima eſt, atque minus compoſito, quàmſint ſubiecta librorum,librum de
anima precedentium, ex precedentis textus, atque huius expoſis tione id totum
colligas uelim, ex precedenti, ſi de anima, ex præfens ti autem ſi de anime
particula, loca libri de anima intelligantur. Claret etiam, ex hac noftra
interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia,
quia non funt circafubftantias, ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte,
philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces,quia illas inquit merito
dicendasſcientias los quitur, quæ tantum circa fubftantiasfunt; non autem que
circa accia dentia, ut funt Mathematicæ, quod apud Ariſtotelem nunquam legitur
Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie, ſecundum nos & re ipfa
funt, ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ,ubi ait,
ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt, quæſunt circa res, quæ nunquàm mutantur,
fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia,a quantitates; quo nammaiore
auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur, quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc
præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans, punctum ſubſtantiam appellit,
itidem unitatem ſubſtantiam dicit, ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ, quæ circa
fubftantiasfunt, in primis Arithmetica atque Geometria merito (quics quid
balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia
tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias,
non ob id, quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia
procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur, non
perdemonſtrationem, quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur
ut declaratum fuit textu nonageſia men, mo POSTERIORVM ARIST. moquarto,merito
ſcientia non funt, ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit.
TEX. CXII. ALIAS XLIII. 3 EYE per fenfum eft ſcire id, Exemplis duobus. Altero
Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico, declarat Ariſtoteles, ſi enim ſenſus
uifus uideret id, quod intellefius percipit fecunda par te
trigeſimæſecundeprimi Elementorum,quód trian gulus. uidelicet, habet tres
duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut
fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret,o huius rationem reddit dicens,
necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter, ſcientia autem eſt in cognoſcen=
douniuerfale, unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente
augem Lune, uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij,
uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc
diceremur fcientes, quia illud, quod uiá deretur,effet ſingulare, &cum
ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius
uniuerfalis, ſequitur, quod per ſenſum non eft fcire. Aliter etiam exponaturſic,
ut ſi eſſemusſuper planetum, qua Luna est, &in illa parte planete que
terram, & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem
centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd
deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit
ecclipſes ſimul neque actu,neque potentia,fed unam tantum,necobid tumen
ſcientes dice remur, non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait,
ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha
bemus, non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex.
iij. fuit determinatum, fed ita intelligas, quod ſenſus eft tantum
particularium, intellectus autem utriuſque, Sunt tamen quædam reducta ad fenfus
defeétum in propofitis & c. · In hac particula huius textus, idem perſuadet
diuerſo exemplo, quòd. videlicet neque per ſenſum eſt ſcire, in prima huius
textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria, in hac autem
particula exemplum est in perſpectiua, eft etiam quoddam aliud diuerfum, quia
precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM
VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera
forata, ſiue foraminailla ſint pori uitrorum, feu etiam foramina ſint ma
gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens,
compertum haberet, &manifeſtum eſſet, & propter quid illuminat, id
eft,propter,quid illuminationes multæ fierent,quoniam, ut inquit,uis deremus
quid ſeparatum in unoquoque uitro, id est foramina multa, per qua
radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato,
uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus
uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ
inter Solem of Lunam, illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto
de uitris perforatis, niſi quod alterum in Phænomena, reliquum eſſet in
perſpectiua; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu
ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul, uel poris in uitris
per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his
fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus
intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens,
illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum
eclypſi uiſa, fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco
habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter
quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad
minus uniuer ſalia, ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter
multa foramina fiebant, nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA
Textus particulam illam, Aut æquale maius, autminus, Scire eſt, quod primi Elea
mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem, ut fi una quantitas comparetur ad
aliam eiufdem genes ris, aut erit ei æqualis, aut eadem maior, uel e46 dem
minor, ut quatuor, ad quatuor, uel ad tria, aut ad quinque,ſi comparentur,
fieri nequit, quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum
comparata, fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur
contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur, verumquidein poteft
effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum, fedfi ad
plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu,
Neque omnium. uerorum principia funt eadem, neque con ueniunt,ut unitates
punétis non conueniūt, læ quidem enim non habent poſitionein,illa autem habent,
Deappoſitione in punétis, eo pacto intelligas, ut tex.108 declaraui. Exemplo
enim loqui tur de principijs,non quidem ex quibus inferatur conclufio, fed ex
qui dus compoſitumfit, quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com
ponitur numerus, ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui
tex. xix.huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates, que funt numerorum
principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim,uel etiam
unitates non ſupponunt punétum,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non
poſſunt, quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint,non igiturconueniunt
inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite, wepropter non
appoſitionem, puncti ipſi unitati, unitas enim non ideo unitus est, propter
unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem, ®ultra ait,
quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta, hecuero in continua
conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII. VONIA'M autem idein
multipliciter dicitur eft autem, ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum
uere opinari inconueniens eſt, ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones)
idem, fic eiufdem eſt, ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non
eſt idem, Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen
diuerſa, falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte
eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus
inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex: 1x.
huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter
incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin, par numerus, impar effet, Circa
idem igitur contingit diuerſitas, feu idem multipliciter dicitur, ut quòd
diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta. Nij IN SECVNDVM
LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA: V ENETV S. ** 3 TEX T
VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit, aut hoc, quærimus in nume
rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non, ipſuin quia quærimus. Luna enim
defficit in ſe a lumine, a patitur menſtruum, propter interpoſitam terram diame
traliter inter Solem u Lunam, Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed
tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul
cum Luna hoc quidem prouenit, ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus
folare interponitur Lund, quæ cum ſit core pus denfum, coppacum magis quàm alia
pars fui orbis impedit fo lares radios, enon finit eos ad afpe&tum nostrum
protellari. Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód
fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an
Luna defficiat penitus lumine, quando patitur menftruum, quod eſt querere,an
Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis
bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes, propterea quod, quandotota eclypfatur
uidetur non nihilhabere luminis, apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius
rotunditas extra plenilunium, ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum
habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia
liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ
rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. fit in oppoſitione Solis eft, quă
ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis, cum ipſa ſint corpus denfum
&politum quemadmodum cæte ra fydera, radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad
ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram
reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu
nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum, qui debiliores
ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare, &fua tenui uirtute Lunam
illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et
pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple
nilunium. TEXT VS I x. + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü,in acu to &
graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem
has bent numerorum graue & acutum, utrum eſt conſonare acutum & graue,
utrum ſit in numeris ratio corum,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt
ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu, idin primis
occurrit, notatu dignum; graue enim Cum motum fuerit, citius ad quietem redit
quam leue æquali pulſumo tüm, Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic
notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum
efficere ſedmul tos, quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur, ut
diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium, Exemplum præberem de Tur
bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur
uiridis, aut rubcus, ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi
foni illi, qui leuiori neruo procreatifunt,comparentur has beanto ad illos
ratione, ut quatuor ad tria,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi
ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient, quæ
quatuor ad duo, que concinentie, cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ
funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon,o
biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur, o ſibi do toresqui Calepino
student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant, Alia exempla à
tertio textu uſque ad undecimum,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea
1 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ
quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed
quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi
enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce,
căcinentia quidem reperitur inter re, ala licet nõ niſi ſingula,&fingula
uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia,
ſed primo inter graue ego acutum reperitur, quæ autein uocum diftantia inter ſe
reperiatur, ut debita; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis
accepto, cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est, ſed'in dubium
occurrit illud, quod muſicifaciunt, quando fuper breuem ſillabam, plus temporis
cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la
festinant, ita ut ea,quæ naturaſunt breues, fiant longe, &quæ longe
ſuntſillabæ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica, fed
Barbara o contra ufum loquendi appareat, Ad quod dico, ſequen tia dubia quæ
funt,an concinentia proueniat ex mouente, ut Aristoteles in libris
degeneratione animalium, uel ex motis rebus, ut in rethoricis, an exnumeratis
pulſibus, ut hoc textů tangit, quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia
clarafient, fed pro declaratione littera, huius tex tus,uideturexpoſitio
feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de
aliquo demonſtrat, ut quia eſt, aut non eft, in deffinitione autem nihil
alterum de altero prædicatur, ut neque animal de bis pede,neque hoc de
animali,neque de plano figura, non eniin planum figura eſt, neque figura planum
eft. Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin
deffinitione quinta, ſtatim de angulis planis, e de fiquris planis adiecit
deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu
quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte, fi gura plana, hefunt due particulæ
deffinitionis, quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum,
& id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit,
quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat,
et q latus trigoni, quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri
fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM
eft autem & fic, propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo
exiftente rectus eft,fit igitur rectus in quo a, inediun duorum rectorü in
quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur, quod eſt a rectum inelle
c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem
ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum
rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe. Euclides
xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte,
ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic, ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c,
quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd, ſecans arcum a
b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db,
ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ
ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum,ficut duæ unitates bi
narium numerum, quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat
id, quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à
puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato,
ubi perpendicularis ſecat ar cum, re & tus ſit, licet illa due medietates
formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia
recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter
declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta,ſit
angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum, c uero in
ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b, quæ uero uni veidēfunt æqualia inter
ſe funt æquae lia, cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum
res. & orum, or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c
ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula
conſtitutus rectus eſt, quod propoſuit Ariſtoteles, quis ſit angulus rer IN
SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum, quod
autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos
rum, patet per trigeſimam tertij Elementorum, quodetiam omnis alius angulus in
quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6, utputa 0, patet per uigeſimam
tertij Elementorum, qubi in priori expoſitione di cebatur,quòd duæ medietates
erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli
b, ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur, quod angulus, qui in
ſemicirculo conſtitutus, eſt re ctus, per materialem caufam, quæ materialis
caufa, ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes. TEXTVS LIII. ONTINGIT
autem idein & gratia alicuius eſſe, & ex neceſsitate, ut propter quid
pe netrat laternam lumen, etenim ex neceſsitas te pertranſit, quod in parua eft
partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo,
Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis,quæ
propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter
oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius, exemplum eſt in optica,inaterialis
caufa eft uitrum, fi nalis,neolfendamus; fornalis eft illa compago uitrorum,lignorumq;,
effi ciens autem,eſt ipſe luterne artifex,quantum ad matheſimſpectat non eft
niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in
corpus disphinum, per quos illuminationes fiunt. TEXTVS LVI. ALIAS XII. CLIPSIS
Lunæ futura, preſens, atque prete rita,medio interpofitionis terre,
diametraliter in ter Solem & Lunam,nunc, olum, & in futurum con
cluditur, cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope, o ſub'nadir
Solis. SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt
puncta, adinuicem co pulata, ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia
funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur, statim haberetur, lineam ex pun
&tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo, textu Wdecimo
octauo. TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt
quidem unicuique uniuerfaliter,Atuero & alij,ut eft aliquid quod oinni
Trinitati, in eft fed & non Trinitati, ficut ens ineft Trini tati, ſed
& non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui
neſciat, aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ, potentia
ueroinfis nite per unitatis additionem, fpecies autemexgenere odifferentia con
ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero, materia
numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft
numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe
ternario numero,o hoc prædicatū, ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem
ens, alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni
Trinitati& in plus eſt. Etenin ipſi quinario ineft, fed non extragenus, ens
quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his,
quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario
&alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot
accipiantur primum, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in
plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum, uerbum hoc, primum intelligatur
ex æquo, feu ad equate, ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non
fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod
ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet
phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta,ut unumquodquefit LO 6 IN
SECVNDVM LIB. cum non in plus, nempeunaqueque particula deffinitionis
uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale,capaxbeatitudine, que
omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior
eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur,
an illa, quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt,
utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana,claufa,tribuslineis
re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una,et
altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo? Dicendum
confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam, tribus lineis reftis,
illam non eſſe deffinitionem, fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo,
quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones,nifidixeris,
quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus, quæ recto cafu,
& non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones,
que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque
tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut
trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non
menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ,numerus,impar,nõ
patiuntur, difficultaté,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint, ſed particula
iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior
ternario numero,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut
unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario,atque
ternario, et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut
ternario, qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario,qui conſtat non ex
pluribus numeris,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras
Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII,
quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus
autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur
quòdaliud fit dimetiri numero; &aliud numeris dia uerſis componi, ut
ſeptenarius, nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex
diuerfis numeris,ut ex binario o quinario,c. ex ternario &quaternario,
primo enim modo aliquis poterit effe pris inus, qui compoſitus erit fecundo
modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen
eorum dimetia tur eorum alterum, var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter
POSTERIORVM ARIST.to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius
maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti, &tertia deffinitione
feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt,hoc igitur loco dico, quod
Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum,fed famoſe, ut philofophoa
rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c
irrationales, e integrantes dicuntur, quàm partes ali quote,qua rationales,
odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum, non
niſi partes proprie fumpte, que aliquotæfunt, numerum componunt; quod etiam
Nicomachus & Boce. tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod
etiam fecüdum Euclia dem,non omnem numerum,qui alium componit compoſitum
dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV.
ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt, Aueroes
tamen magna comentatione tangit nefcioquid, fed fcopum rei non tetigit iudicio
eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis, Textus Ioannis grāmatici
etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram Ariſtot.doctrinam,
quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum, ſeu Bu, rinam inſpexeris, ipfius
Aucrois interpretes, qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico textu bahita, illam
poſtea ex loanne grammatico, Argi ropilo uidebis neceſſario effluere, loannis
textus ita habetur, fi uero ficut in genere, finiliter fe habebit,ut propter
quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in lineis, & in
numeris, & eadem, inquantum quidem lineæ, alia eft,in quantuin nero habens
augınentun tale, eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus ſichabet fi fint ut in
genere, medium ha bebunt finiliter,ueluti propter quid etiam mutato ordia oc,
funilitudinein ſubeunt rationum, eft enim alia caufa in lincis, & in
numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem fubit,eadem autem,
ut tale habet incremen tum, & codem in omnibus modo; Aueroes fic habet
commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum generis,eft eis. affection
IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia, cur quando permutantur:
fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis & numeris ſunt diuerfæ, qua
autem addit, hac ſpecie additionis, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc
textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum, quam etiam ob id,
quod interpretes: non ita interpretari uidentur, ut textui Ariſtotelis
cohæreant fue interpretationes aut nug & potius, præter Aueroin, qui magna
come mentatione, confuſo tamen ordine dicit aliquid, faciens ad Aristotex: lis
ſententiam, non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro vera igitur
Ariſtotelis ſententia, in primisſcire debes, quod mas gnitudines ſeu continue
quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes, uerfantur
circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt, quæ antequàm
permutentur, proportionalia eſſe debent, ut affeétio hæc,permutata
proportionalitas,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus
proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc; de lineis,
fuperficiebus,temporibus, vt corporibus, eadem de numeris concluditur, primum
demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia
principia, opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs,
quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum,
propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li
neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior, atque per diuerſa media, à ratio: ne qua
idem de numeris concluditur, huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ,
cauſas has, eas uoco, quæ folum dant propter quid & de his cauſis, que
etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim, quia tamen dicebam,quòd non
concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus
quantitatibus. Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates
dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales, aut
quando proportionales funt, Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus, cum
difcretis tum etiam continuis, quæ eft ex additione fimili utrobique pro cuius
notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum, minime negligenda eſt,
oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam, prima ad fecundam
vtertia ad quartam ſunt, quarum prime otertiæ æques multiplices, ſecunde
«quarte equemultiplicibus comparat &, fimiles fuerint uel additione,
ueldiminutione,uel æqualitate,eodem ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple.
V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete ſint, feu etiam
continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu æquatio inter
equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in quantum uero
habens augmentum tale, eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis
est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem colori, &
figuram figuræ, aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his. Hic quis dem
eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera, & æquales angulos. Figuræ
rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos
omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia
proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi
nomenclaturam, non autem rem naturam unam, in coloribus enim non concernes,
neque latera, neque angulos. Habent autem fe fic propter conſequentiam ad
inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen
accipienti, cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales, qui funt
extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter.
Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra,textus hicdeffétis uus eft,
& mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum, ma. gne
commentationis textus est clarior, ſed non ad plenumfacit fatis,ut mens
Ariſtotelis, fatim appareat. Caufe illationis, ſeu conſequentie, que mutuæ funt,
feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea, quæ pri mo libro tex. xcvij. di
&ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere
omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais,quàm eſſe triangulum,uel quadrangulum,aut
pentagonum,uel exago num, aut quippiamtale feorfum, fi autem accipiatur fic
reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor
re& is, oecon uerfo, fic infertur, omnes anguli quiſunt extra funt æquales
quatuor rectis,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo
uet bo, re &tilineum, comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co
penthagonus, fed omnes figuræ re& ilinec, hoc igitur uult Ariſtoteles
quandoinquit, quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales, uniuer Jalius
eſt trigono, otetragono, ſi uero hec omuia accipiantur, ut in hoc uerbo,
rectilineum, omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto
habentſe propter confequentiam,ut ad inuicem caufa «cu us caufa, &cui eft
caufa. ilo: CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA
MENS CONCIPERE POTEST. FINISI RE G I S T R V M.. A B Omnes ſuntduerni. 37 Pac.
4. lined s publicis, à publicis. fac.4.li.6 incumbebam,abſtinere decreui..li.io
laberinthos,labyrinthos.li.21 literis litteris ubique. Pd.4 li.3 comode,
commode.li. 11 prefertim, præfertim ubique. li.12cales, calles. li. 16
Ariſtoteles, Ariſtotelis. Facis li.24 age, aie. Fac. 6.li. 2 pulcra, pulchra
ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32. quinnis, quinis. lin. 3 3
unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit, fcit.Fa.8 li.25 comunem,communem
ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens,
afſummens ubique. li.16 ſempliciter, fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique.
Fac.15.li.20 probation, probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur, reſummitur ubique.
Fd. 19.3 1 Geotrica, Geomes trica. fac.20 li. o quadrati, quadrari. li. 10 e e
Spoffet, effe poffet. li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac.
23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit,ſit.fac.31.li.12 atulerunt
attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu. fac. 34.li.7 ſilicet, ſcilicet ubique.
fuc.36.li.4 Textus, Textu. li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione,
queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus, primus.
Fac.49 li.16.fue, ſua. fac.49.li.20 induéti, induti. fac. stili. 12recte,recti.
fac.53 li. 11 A'riſtelis, Ariſtotelis.fac.53 li. 12 bucis, buccis ubique. li. 6
nltera, altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost, pueros, li. 25
illeuatus, eleuatus. fac.59 li. 7 olas, ollas. li. 3i ſimilitcr, ſimili ter.
li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25. apolini, apollini
per,, ubique.lin. 28 pret, preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet,
ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin. 31 nos tid,
notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68
li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares.
fac. 76 li.16.notia.notitia. fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27
preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li.
8.ſcienriarum, ſcientiarum. lin. 21.chierurgia, chirurgia. fac. 86 li. 10.
neft, ineft.li. 17.angregata, aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum,
prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28.
redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea, fequaces. li. 32,
balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum,uitrum. Et fi qua alia (que non funt
pauca ) pretermiffa funt, diligens le& tor surum colligat &mufcas
abigat.Grice: “The motivation behind my Immanuel Kant Lectures, Aspects of
reason and reasoning, was to shed light on what Catena calls ‘demostrazione
potetissima’.” Grice: “The Latin language – and the Italian language to some
degree – allows for some fine inflections: there’s potius, which when cmbined
with esse, gives posse, or potere – the ‘t’ is sometimes inarticulated as a
‘d’, as in ‘poderoso’, which goes for potius. Now, the interesting thing about
potius, as Ross, and Mansel, and Aldrich and some Italian semioticians have
found out – dealing with Roman law – is that a demonstrazione cn be ‘able’
(potis), in the positive degree. When it becomes comparative, the
demonstrazione becomes ‘dimonstratio potior’, i.e. not able, but abler not
capable, but capabler. Finally, if it’s the ablest or capablest, it’s
demostrazione potissima, or demonstratio potissima. The ‘scuola padovana’ goes
on to qualify ‘dimonstrazione potisima’ into two types, ‘dimonstrazione
potissima affirmative,’ and ‘dimostrazione potisima negativa’. These are higher
types of demonstration than the ‘demonstratio potior affirmativa’ and
‘demonstratio potior negativa’.” Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro
Catena. Keywords: logica matematica, logica aritmetica, logica arimmetica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Catone Maggiore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Grice
e Catone: Minore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Marco Porcio Catone
-- M. Porcio Catone il Giovane ha come maestri due
stoici, Atenodoro Cordilione -- che si reca a visitare a Pergamo perchè lo
seguisse a Roma ove lo tenne come ospite -- e Antipatro di Tiro. In
Sicilia Catone Uticense conosce l’accademico Filostrato. Nei suoi ultimi
giorni in Utica, Catone Uticense ha vicino a sè lo stoico Apollonide e il
liceale Demetrio. Catone Uticense e questore e pretore.Catone Uticense i
oppose ai triumviri e nella guerra civile si schiera con Pompeo. Dopo
Tapso, Catone Uticense si reca a presidiare Utica, ove si uccide.Catone
Uticense coltiva con molto successo l’eloquenza e si compiace di introdurre
discussioni filosofiche nelle orazioni. Catone Uticense scrive anche
giambi. Cicerone chiama Catone Uticense perfettissimo stoico e nel
"De finibus" gli assegna l'esposizione delle dottrine etiche di
quella scuola di cui aveva studiato intensamente le opere. A statesman and
a philosopher, he studied the philosophy of the Porch. He was a pupil of
Antipater of Tyre and later befriended Apollonides and Demetrius the
Peripatetic, and looked after Athenodorus Cordylion. A staunch republican, he
committed suicide when he believed the ultimate victory of Giulio Cesare in the
civil war was inevitable. He was much admired by Cicerone and many regarded him
as an embodiment of traditional Roman values, just as his great-grandfather,
Cato the Censor, had been before him.
Grice e Cattaneo: l’implicatura conversazionale
longobarda -- Vico e la sapienza italiana – il dialetto milanese e il sostratto
latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like
me! I taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians
(and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but
Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a
librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon
the philosopher must consider when dealing with communication – he explored
semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously,
pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo
sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially
interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” -- Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is
can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre,
un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse
gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e
lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu
proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio,
un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici
della filosofia romana. Il suo amore per le lettere humanistiche classiche
lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi,
che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di
diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua
formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo
classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu
plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini,
i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità,
oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi
di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la
sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il
contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche
un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per
il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua
dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto
Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione
Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel
ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli
filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi
stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a
frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e
allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti. Risale il suo saggio
dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione
all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della
Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del
regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica
non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei
confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta
del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne
pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero,
non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore
austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky. Purtroppo
l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza,
fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di
Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe
anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a
cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e
contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di
violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera
il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico.
Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo
provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una
serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata
da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini. In seguito
alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei
pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la
sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di partecipare alla
vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle
fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa,
al fine di formare una generazione liberale e laica che era alla base dello
sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per
incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso
dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur
essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia
unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare
fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate
su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al
nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su
una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto
amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi
l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa
proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è
un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte
la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di
rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge
massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua
lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria,
per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e
negata. Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della
communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di
pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo,
comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione
alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione
dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto
collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o
autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli
uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di
“contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La
comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario,
permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze
umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti
individuali. Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza
monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto
ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro
nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più
tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere
sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.
Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati
europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli,
le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica.
La communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita,
il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle
proprie esigenze. La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è
la prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte
radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà
economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma
solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella
conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto
addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi
all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della
corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico,
rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come
intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura
nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla
democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della
libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota
al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa,
alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di
vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di
orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno
dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale
della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento
alternativo a quello dei Savoia. In accordo con il Tuveri redattore del
Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave
autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del
governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di
ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i
soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il
diritto di ademprivio, per usi civici. A lui è dedicato l'omonimo
istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni
israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio –
associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il
tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale
– diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino –
cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane;
Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di
Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati
alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e
della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a
nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate
di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque
giornate di Milano Secondo una tesi, non
comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a
Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente
più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in
proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi.
Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali
nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto
alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai
propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e
sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da
Filosofico (Diego Fusaro) Arch. Rebecca
Fant Milano Bertone, Camagni, Panara, La
buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia, 1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy
project, su geni_family_tree. 16 marzo.
Il Famedio, su del Comune di
Milano. Carlo G. Lacaita, Raffaella Gobbo, Alfredo Turiel La biblioteca di
Carlo Cattaneo, Le riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio
introduttivo a Notizie naturali e civili della Lombardia, come riportato da
Mario Pazzaglia in Antologia della letteratura italiana, Il monumento milanese che lo raffigura reca
l'iscrizione «A Carlo Cattaneo -- La massoneria italiana» Mola, Aldo A., Storia della Massoneria
italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani.
Fonte://manfredipomar.com/.
l'Enciclopedia, alla voce "Politecnico", in La Biblioteca di
Repubblica, POMBA-DeAgostini, C. Petrone, Massoneria e identità, Taranto,
Bucarest, (aD. Fiorentino, Non proprio
un modello: gli Stati Uniti nel movimento risorgimentale italiano, l'8 giugno.
M. Teodori, "Cattaneo, Garibaldi, Cavallotti": i radicale anti-clericali,
anti-papa, in Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'Unità d'Italia,
Rubbettino editore, Dicembre. M. Politi,
D. Messina, G. Pasquino, M. Teodori, Dibattito "Risorgimento laico".
Presentazione del saggio di Teodori, su Radio Radicale, Milano, Fondazione Corriere
della Sera. Tuveri Giovan Battista, in Rassegna storica del Risorgimento. Luigi
Ambrosoli (scelta e introduz. di). Cattaneo e il federalismo, Roma,
Ist.Poligrafico e Zecca dello Stato- Archivi di Stato, Bobbio, Una filosofia militante: studi su
Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971. Michele Campopiano, "Cattaneo e La
città considerata come principio ideale delle istorie italiane", in
"Dialoghi con il Presidente. Allievi ed ex-allievi delle Scuole
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Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo
Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione
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Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887
di Alessandro Prato La centralità della figura di Carlo Cattaneo
(1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento
è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi
giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso
l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso
poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e
dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di
grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo
scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non
da ultimo, il linguista. Nel quadro di questa ricerca intellettuale così
ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici
di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto
di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia
alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta
partecipazione popolare allo sviluppo della società civile. Proprio sugli
interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione
mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione
dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della
lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il
vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da
essa che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso
della cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della
lingua faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua
– rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi
provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente
visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo
manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità
di cultura e di vita civile nazionale. Questa impostazione spiega poi la
sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini
nuovi, non antitetici, i rapporti fra i dialetti e la lingua,
riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio
storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e
sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però
considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico
fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei
parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi
riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.
Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e
della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un
lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla
lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio
sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale,
condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale
differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in
storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di
questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere
storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il
problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità
e testimonianza delle vicende della storia dei popoli. La funzione
sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la
finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che
compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri
di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono essere
comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di quello
del loro svolgersi immediato (Lewis). Il nucleo che tiene insieme le memorie
individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e l’esercizio della
lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona parte l’identità di
un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso Cattaneo non si riferiva
alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e di etichette fonologiche,
ma anche come modalità socialmente e regionalmente differenziata, dunque non la
lingua come sistema, bensì come norma e istituzione: «è nelle parole della
lingua che si condensano i path, i “sentieri” della memoria propri di ciascuna
comunità» (De Mauro 2008: 67). poliCattaneo mostrò fin dagli anni
giovanili grande interesse per l’opera di Vico, anche grazie all’influenza che
ebbero su di lui le opere di Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla
luce dell’antropologia laica dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari,
Vico e l’Italie uscito a Parigi nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla
scienza nuova che pubblicò sul Politecnico nello stesso anno. L’interesse per
le età primitive e per la vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e
nazione [5] denotano la presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo
corresse certi eccessi del razionalismo settecentesco, senza mai però
rinunciare all’idea di progresso, e allo stesso tempo senza farsi influenzare
dagli aspetti teologici della filosofia di Vico. La sua formazione illuminista
lo portò a non condividere nessun mito del Risorgimento romantico e
spiritualista, a celebrare come maestro Locke contrapponendolo alle fumosità
dell’idealismo, ad avversare le posizioni di Rosmini, Gioberti e anche
Mazzini. L’illuminismo nella sua opera «si rivela sotto il carattere di
una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX). Rispetto al Romanticismo la
posizione di Cattaneo è contrassegnata da una sostanziale estraneità:
giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che parlare – come spesso si è fatto
– di un romanticismo di Cattaneo può essere giusto se ci riferiamo al
romanticismo come una categoria spirituale generale, definendo romantico ogni
forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni popolari e per il
nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare che per il
Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito Cattaneo –
come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento critico e
distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella concezione
religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature diverse –
condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo spirito
popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma di
ingenuità, che come aspirazione democratica. Sui rapporti tra romani e
barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in
altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la
derivazione dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso
delle lingue dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo
lui il numero dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a
quanto pensavano molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione
dell’italiano dal latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche
dell’influsso esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati
dai romani (etrusco, umbro, celtico ecc..). Questa è l’importante teoria
del sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei
dialetti italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il
lessico: non si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della
stessa nuova lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche
precedenti che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].
Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare la
posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della lingua,
che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del tempo.
Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di linguista
militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario riteneva lo
studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento, della
linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua italiana
avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una rigorosa
battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era diretto –
riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi lombardi
del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia della Crusca,
che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea a ogni
innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il secondo
fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del Manzoni,
ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un concetto di
popolarità che egli non condivideva: «la dottrina della popolarità da cui
primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare
l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì che si debbano
raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a
quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende un’angusta e inutile
popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti»
In alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto
d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter
svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo
stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro), adeguata
non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e
filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già fatto riferimento,
Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori capacità rispetto ad altri
autori italiani suoi contemporanei. La prima era quella di saper andare al di
là dei ristretti confini nazionali, interessandosi ad esempio delle lingue
germaniche e del romeno. La seconda consisteva nell’avere ben presente il
principio che la comunanza di origine tra due lingue è dimostrata dalla
somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei vocaboli – principio che
ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e dei fratelli Schlegel [10]
che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui importanti interlocutori
anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle sue idee linguistiche.
Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare sul Politecnico una
serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo anche importanti
opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico italiano sui risultati
scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno indotto Cattaneo a
prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di studi e a
scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee [13]. In
questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle lingue fosse
possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era invece
convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità linguistica e
affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero attentamente
distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità
dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al
sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva
forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo
(Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva
soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito;
per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee
primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava
appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione
unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La
parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine,
bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni,
dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali.
Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo: «Le lingue
vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune,
che tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una
lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende
all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle
isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il
carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella
Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i
nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le
lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le
differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione
promovono sempre più l’unificazione dei popoli. Non è che una lingua
madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse,
assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che
l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e
infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste
considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o poligenesi
del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava evidentemente il
primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel particolare tipo di
poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel separare nettamente pochi
tipi linguistici originali dai quali sarebbero derivate tante lingue cosiddette
“figlie”. Per lui invece esistevano tante lingue primitive originarie che si
erano ridotte di numero, via via che le tribù avevano cominciato a unirsi in
aggregati più ampi. Non esistevano quindi – come per Schlegel – delle lingue
perfette fin dall’inizio (le lingue flessive); tutte le lingue avevano origini
umili o, come scriveva lui stesso, “ferine”. I modelli di questo modo di
intendere il poligenismo linguistico sono Epicuro, Vico e Cesarotti [15].
Sempre contro Schlegel, rivendicava la giustezza della teoria agglutinante
secondo la quale anche le forme flessionali più perfette e sofisticate
derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che all’origine avevano una
funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837 osservava infatti che le
declinazioni della lingua latina e greca potevano derivare da semplici nomi con
un articolo affisso (Cattaneo 1948: I, 228). Psicologia delle menti associate
carlocattaneoeditoririuniti La polemica con Schlegel riguardava anche la
questione dell’origine del linguaggio: mentre per il primo la flessione
indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un intervento divino, per Cattaneo,
l’origine del linguaggio non poteva che essere umana, e su questo avrebbe mantenuto
una posizione coerente anche negli scritti successivi come le Lezioni di
ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il sofisma di Bonald che negava
all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio. Su questo tema come per tanti
altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione della linguistica illuminista
che con Locke e Herder aveva respinto recisamente la concezione delle idee
innate e l’origine divina del linguaggio (Prato) ed è del tutto immune dalla
concezione misticheggiante della linguistica tanto cara ai romantici.
Proprio nel Saggio sul principio istorico delle lingue europee, Cattaneo si
proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni
culturali, considerando la ricerca linguistica in stretta correlazione con una
riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si
riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in
una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues –
che era rappresentata per gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e
Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di aver esaminato con acume e
precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più
possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole
anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto
di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal
rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana
gli appariva emblematica di un concetto destorificato della natura umana»
(Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a partire dal 1859
presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo volle dare il titolo
di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine di “psicologia
sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione sull’uomo
a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come
ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di
mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa
fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del
pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo
1957: 277-78). La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire
dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che
radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da
felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto
delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità»
(Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957:
316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle
idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte
del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di
Lugano. Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la
sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola
reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché
l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad
opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo
eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990:
153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano
dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della
metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente
ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori
forme di sviluppo e approfondimento. Dialoghi Mediterranei, n. 46,
novembre 2020 Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei
rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990).
[2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini
(1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali
universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si
trova in Cattaneo (1957: 39-75). [5] Anche per Giordani la lingua è il
vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59),
[6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre
sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato
il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa
teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri
scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense
pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo
scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che
risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco
della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo
con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda
Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo
sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12]
Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul
Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più
ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache
und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di
Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul
suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una
lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani
nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il
1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il
titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il
liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti
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Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca italiana”, III, pp.
177-187. Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra anni Cinquanta e
Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un paragrafo dedicato
all’originarsi della poesia da canti e balli popolari (con particolare
attenzione alla cosiddetta ballata). Ciò consente di riconoscere in Cattaneo,
che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione, il
perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano
coinvolto suoi maestri, colleghi e amici nella prima metà dell’Ottocento.
Curiosità e passioni di gioventù s’intrecciano con letture nuove, alcune delle
quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre
rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire
grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su Cattaneo linguista –
recensione Resurggimento. Anche il
latino fu lingua
di tutta Italia,
ma gl'Italici non
erano tulli romani
e i dialetti
ne ftmno testimonianza. La
serbata integrità nativa
delle molteplici favelle
del Caucaso di fronte
alle indo-perse riflette
l'imagine di quelle
che popolavano l'Italia
innanzi che la
coprisse lo strato
Ialino. Ne invasioni
armale, né importazioni
di civiltà, ne
so- vrapposizioni di lingue
alterarono i confini
etnografici dei Tusci,
dei Liguri, dei
Cisalpini, dei Veneti
e d'ogni altra . Non
cono- sciamo ancora le
svariate forme naturali
del nostro paese,
e nemmeno i
nostri dialetti e
le riposte loro
derivazioni; non conosciamo
i secreti nessi
che collegano questa
lin- gua nostra alla
civiltà precoce della
Persia e dell'
India, e alla
lunga barbarie dell'
antico settentrione. La filologia
è una scienza
nuova che classifica
le duemila lingue e
dialetti morti e
vivi in famiglie,
come si co-
stuma nelle faune e
nelle flore. La
scienza delle lingue
è luce aggiunta
alla scienza dei
luoghi, dei tempi
e dei monumen-
ti, a rischiarare il
buio dell'istoria. Per
lei si scoprono
le cause onde
i popoli comunicarono
tra loro con
certi modi peculiari
i propri pensieri;
per lei si
rileva, da lieve
indizio di scrittura
salvata, una gente ignota alla
storia; si sorpren-
dono sorelle nazioni che l'
idioma apparentemente diverso
inimicò, e in
un dialetto si
palesano segni di
origine disfor- me e
di antichi odii
in nazione stimata
omogenea: per lei si assiste
al ritorno su
straniere labbra d'un
vocabolo esulato dalla patria
in età remola;
per lei si
rintracciano in una
valle le reliquia
di lingua fuggita
dalla pianura negli
attriti del commercio
o della conquista:
per lei contemplasi
il tran- sito d'una
favella celebrala da
una letteratura, e
l'ascen- sione d'oscuro dialetto
a dignità di
idioma illustre in
com- pagnia della fortuna
di un popolo;
per lei rilucono
le alfinità e le diversità
delle lingue tutte. La
nostra lingua ha
una nota affinità
primamente col latino
e colle altre
lingue dal latino
derivate: fran- cese, spagnuola, portoghese
e rumena o
moldo-valacca. Queste sei
lingue viventi e
li innumerevoli loro
dialetti si classificano
dai linguisti sotto
il nome commune
di lingue romane
o romanze o
latine; come una
famiglia. si deduce che
i dialetti e
pronuncie provinciali sono
fili conduttori alle
origini prime: si
deduce che la
varietà dei dialetti, delle
pronuncie e dell'aspetto
delle genti moderne
trova esplicazione e
commento nella varietà
delle stirpi e
delle lingue primitive:
si deduce che
l' azione cemen-
tatrice delle lingue
s* è compiuta
soltanto sovra popoli
bar- bari, e tali
erano gU europei
alla comparizione delle
caste asiatiche; che
avendo raggiunto un
certo grado di
coltura, ì Baschi
resistettero alla lingua
latina Quando noi troviamo
nel tedesco e
nel gotico la
radice della parola
latina ^iraesagus, dobbia-
mo indurre che qualche
antichissima relazione vi
fu tra li
avi dei Romani
e li avi
de' Goti. Nello stesso
modo in cui
possiamo riferire l'italiano,
il francese e
lo spagnolo alla
commune loro madre,
la lingua latina,
possiamo ri- ferire il
latino,, il greco,
il sanscrito, il
zendo ad una
commune origine celata
nella notte dei
tempi. Se si paragona
il latino alle
lingue sue figlie,
si trova che
queste, cioè le
lingue moderne, hanno
maggior copia di
voci astratte. Il
latino ha la
voce fortis e
non ha la
voce forza; da
vir abbiamo il
latino virtus, l'italiano
e il francese
virtù, vertu; ma
l'italiano il francese
hanno inoltre le
parole derivate virtuoso,
virtuosamente, vertueux, vertueusement; e
il francese ha
inoltre il verbo
évei^tuer. Le voci
italiane ente, entità,
essenza, essenziale, essenzialmente, se
vengono ricondotte alla
forma latina, ens,
entitas, essentia, essentialis,
essentialiter non si
trovano mai nelli
scrittori antichi , ma
solo in quelli
dei bassi tempi. l'inglese, che
per una metà
de' suoi vocaboli deriva
dall'antica lingua anglo-
sassone e per l'altra
metà dal latino. Nelle
lingue indo-europee la
radice è quasi
sempre unisillaba. Le
poche radici bisillabe
come aìiima, columna,
vidua, susurrus, titubare,
vacillare, oscillare tentennare, dondolare
si possono considerare
o come raddoppiamenti o
come derivazioni di
voci semplici più
antiche. In latino un
verbo semplice p.
e. mitto, fero,
traho colle sue
inflessioni di persona,
di numero, di
tempo, di modo,
e coi diversi
casi de' suoi participj. produce nella
sola forma attiva ,
circa un centinaio
dì inflessioni {mitto,
mittis, mittens, missuriis
etc. etc.) coir
aggìuiìta della forma
passiva (mittor, mitteris,
missus, mittendus) e
dei nomi ed
aggettivi verbali {missio,
missilis y missivus) ne forma
forse duecento. Questo numero
può ripetersi tante
volte quanti sono
i verbi derivati
e composti, p.
e. mittito, admitto,
amitto , eie. epperò
dalla sola radice
unisillaba di mitt-o
possono diramarsi tremila
suoni piìi o
meno diversi, ciascuno
dei quali esprime
un'idea in qualche
grado modificata e
distinta p. e.
nelle tre voci
mitto, misi, mitfam,
vi è per
lo meno la
dilFerenza del tempo,
nelle voci missuris
e mittendis sono
espresse tutte quelle
idee che in
italiano significhiamo con
dire: a quelli
che manderanno , ovvero
a quelli che
devono essere man*
dati. Cosicché qui
tre sillabe latine
equivalgono da sette
a tredici sillabe
italiane. 6. Codesti
tremila vocaboli nelT
idioma primitivo furono
rappresentati da una
sola sillaba: mit.
È come la
quercia rappresentata da
una ghianda. Qualunque
sia dunque la
dovizia delle forme
nelle lingue derivate, abbiamo questa
terza legge di
linguistica che le
lingue veramente primitive
hanno potuto consistere
in poche centinaia
di radici monosillabe. È un
fatto lingui- stico che
le lingue
madri, nel propagarsi
di paese in
paese e nel
venir adottate da
numerose nazioni, hnnno
perduto gran numero
delle loro inflessioni.
L'italiano paragonato al
latino, non ha
più i verbi passivi, né
i participi futuri,
né i partecipali,
né il genere
neutro, e le
declinazioni dei nomi
sono ridutte a
due sole de-
sinenze, singolare e plurale.
Per rilevare le
affinità non basta
paragonare isolatamente una
lingua con un'altra,
ma è necessario
ravvicinarla a tutta
la serie delle
lingue della stessa
fa- miglia. A prima
vista non appare
similitudine tra il vo- cabolo dormire e
il tedesco traumen,
che vuol dire
so- gnare; ma appare
di più nelP
inglese dream, che
ha le stesse
consonanti del latino
e lo stesso
senso del tedesco;
inoltre nelle due
voci latine somniis
e somnium, e
nelle italiane sonno
e sogno si
trova il doppio
senso di dor-
mire e sognare. La pronuncia dei
|)opoli proviene dalle
loro ori- gini, ossia
dal genio imitativo
più o meno
delicato, dalli organi
vocali più o
meno flessibili, e
dalle abitudini pas-
sate in tradizione.
E più facile
mutare il vocabolario
d'un popolo, dargli
una nuova lingua,
che non mutare
la sua pronuncia.
Questa sopravvive nei
dialetti, anche dopo
che le lingue
^ono mutate. Ancora
oggidì la pro-
nuncia e il dialetto
segnano in Italia
precisamente i confini
antichi della Gallia
Cisalpina e della
Carnia con la
Venezia , la Toscana
e la Liguria. In
Italia due soli
dialetti hanno aspirazione:
il toscano e il bergamasco.
I due dialetti
più dolci sono
il veneto e
il siciliano, alle
opposte estre- mità dell'Italia. Vico rinvenne
nelle radici latine
le vesti-jia d'una
antica sapienza. \fa
essendo a quei
tempi ignota ancora
la scienza linguistica
e non osservata
la consonanza del
latino col zendo
e col sanscrito,
egli attribuì quella
sa- pienza alli aborigeni
dell'Italia, e perciò
scrisse il li-
bro De antiqiiissima Italorum
sapientia et latinae
Un- gnae originibus
emenda, Carlo Cattaneo.
Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione,
contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia
filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di
lombardia, il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cattaneo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice:
“I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He reminds me of H. L. A.
Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated Hart to Italian as a
pastime! What I like about Cattaneo is that instead of focusing on “Roman law”
and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si laurea a Milano sotto Treves. Su
consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato al St. Antony's, criticando Hart,
professore di Giurisprudenza, di cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha
tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza
l'evoluzione storica delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi
italiani. Membro della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre
opere: Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il
positivismo giuridico” (Milano); “Il partito politico nel pensiero
dell'Illuminismo e della Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche”
(Milano); Illuminismo e legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione”
(Milano); “Diritto liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia
del diritto, Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena”
(Milano); Il problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato
totalitario, Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica
del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano);
“Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la
filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena,
diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della
rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto
Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo
giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo
ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo
penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la
critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo
giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza.
Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta
ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio
filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica”
(Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto,
Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la
separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e
Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del
problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e
diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano,
Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune
osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della
giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del
V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes
e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione francese,
in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo giuridico
inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito politico nel
pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano, Giuffre); Le
dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica Stampa);
Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«,
“Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’
della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di
Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu,
Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso
di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico
di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni
sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi
Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto
Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di
Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita
della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della
Politica, Bari, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo della
commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita di Sassari,
in »Studi sassaresi«, Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia
dell'Universita e neo-corporativismo, in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes,
ovvero i limiti del potere supremo e il diritto co-attivo dei cittadini contro
il sovrano (Milano, Giuffre); Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini
--; Considerazioni suI diritto di resistenza e liberalismo, in »Studi
Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di resistenza, Milano); La dottrina penale
nella filosofia giuridica del criticismo, in Materiali per una Storia della
Cultura Giuridica, ICorso di filosofia del diritto, Ferrara, Editrice
Universitaria); La filosofia della pena nei secoli XVII e XVII: corso di
filosofia del diritto, Ferrara, De Salvia). Discutendo giurisprudenza con
Treves, pone il problema che sarebbe stato al centro di tutta la sua vita di
uomo impegnato nello studio, nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi
suI rapporto fra “rivoluzione” e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto”
(de facto) e “diritto” (de iure), giunge alIa conclusione che da un punto di
vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo non e possibile
distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza, autoritatismo, perche il
diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma soltanto se e concretamente rivolto
ad attuare il valore del giusto e rispetto della persona umana. Il rapporto fra
forza autoritaria e la forza della legge, che da il titolo a uno suo
saggio, e la relazione fra diritto o gius come valore, costituisce infatti la
questione su cui non cessa mai di interrogarsi, nella prospettiva del
fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del concetto di ‘giure’ non e
riducibile alla volizione o ragione pratica del legislatore propriamente
adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo, Cattaneo indica la ricerca del giusto
come compito specifico della filosofia del diritto e pre-annuncia il suo
intero percorso filosofico caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia,
come assere Socrate, ha il suo carattere precipuo nel porre un problema
piuttosto che nel risolverlo o dissolverlo, e, come nel mito platonico della
caverna, l’analisi concettuale si muove suI piano della trascendenza
escatologica, diverso e superiore a quello della realta empirica o naturale. Anche
la filosofia giuridica, in quanto filosofia, e aperta alla escatologia metafisica
e, avendo come base la conoscenza del codice u ordine del diritto
romano-italiano *positivo*, pone il problema della sua valutazione escatologica
alIa luce del valore della dignita kantiana umana e del concetto di un “stato
di diritto”. Compito del filosofo non e dunque *descrivere* il diritto positive
fattico empirico esistente, ma conoscerlo per condurne una meta-analisi critica
al fine del suo adeguamento al modello ideale platonico socratico di giustizia
contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema giuridico della rivoluzione. Il concetto di rivoluzione nella scienza e nel
diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia del diritto di Treves, in
Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un delicato rapporto, Paova. La
filosofia del diritto: il problema della sua identita, in Filosofia del
diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL tema del rapporto
tra Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo
che ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di
Dante Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato
nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari.,
“Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e
“Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del
volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e
la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in
generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti
soprattutto il diritto nel teatro Sono stati compiuti degli studi sul
significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering
(1818-1892) e J. Kohler ed è stato esaminato il pensiero di alcuni poeti
tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono occupati Carrara,
Vaturi , Vecchio, Mossini e lo stesso Cattaneo. Vi sono
importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi
giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H.
von Kleist e “Delitto e Castigo”
di Dostoevskijj,l’ Autore rileva peraltro che la presenza di temi giuridici
nella letteratura è particolarmente rilevante nell’illuminismo data la
sensibilità civile di questo movimento. Il volume è dedicato all’esame degli
aspetti giuridici – soprattutto di diritto penale – di due grandi autori
italiani: Goldoni ed Manzoni. Cattaneo rileva l’accostamento tra i due
grandi letterati deriva da alcuni elementi di contatto: Goldoni passò l’ultima
parte della vita in Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e
Manzoni trascorse parte della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico.
Goldoni visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione
francese ma non sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni
li seguì e scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni
del suo Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione
francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu
pubblicato postumo e che, secondo Cattaneo, è ispirato a sentimenti di
libertà i due scrittori hanno un orientamento differente Goldoni,
bonario ed ottimista, esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una
punta di satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti
essenziali e drammatici della esistenza umana, sotto il profilo religioso
Goldoni risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere
affronta il problema religioso. Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra
i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione
espressa da Ferdinando Galanti nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede
all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è
importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri
originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe,
parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro
di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato, nel cammino della
verità, l’opera di Goldoni. Questo giudizio è ripreso da Federico
Pellegrini in uno scritto del 1907 che indica come elemento comune <il
rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni
in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei
Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme
e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è
una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i
drammi. Pellegrini raffronta ed accosta i personaggi delle opere dei due
letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano. Il Mazzoleni ha
istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”
commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese
Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di
Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza. Il Petronio nel
suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro
volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica”: “Una prima volta con
l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo
lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del
Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale
ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo
dopoguerra” Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e Collodi nel suo
studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più grandi umoristi
del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte intime di uomini
travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e degli sforzi di quel
Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli elementi dell’essere
umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla ripida china che conduce
a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col quale Goldoni guarda i suoi
attori dice che il suo problema è la socialità: scontri ed incontri, beffe e
incomprensioni, cadute e risollevamento nelle opinioni altrui”
Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno comparativo tra Goldoni e
Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da A. C. Jemolo il
quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato giurisprudenza, cercò
nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una figurazione di avvocato
virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di soldato: Manzoni nel mondo
del diritto non ci ha lasciato che la immagine imperitura di Azzecca-garbugli,
il ricordo caricaturale delle Gride dei Governatori e quello del conte-zio,
alto burocrate del suo tempo, il quadro atroce dei giudici della Colonna
infame. Padoan ha rilevato in un suo scritto che << anche oggi, e
non senza qualche ragione, potremmo indicare in Goldoni una polemica contro
l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un atteggiamento di interesse verso il
mondo degli umili, che non fu senza influenza sul Manzoni…>>>
Cattaneo conclude l’introduzione al volume affermando che le citazioni
prima esposte sono sufficienti a giustificare la trattazione dei due autori in
un unico volume , la sua analisi prende in considerazione la visione del
problema giuridico dei due scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle
sue premesse di fondo.nelle sue fondazioni filosofiche, nella misura in cui
fare questo è possibile; a tal fine ritiene che l’elemento unificatore dei due
autori in relazione al diritto, indicato anche nel titolo è l’illuminismo
L’autore evidenzia che nel Goldoni avvocato, difensore della professione
forense, che mette in rilievo diversi problemi giuridici in molte sue commedie,
si risente, in modo non marcato, l’influenza dell’Illuminismo, che è la radice
della sua satira sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle
disuguaglianze sociali, come in Manzoni critico della giustizia umana e della
incertezza giuridica, che satireggia i pubblici funzionari e gli
avvocati, raccogliendo l’eredità del grande nonno Cesare Beccaria
(1738-1794) In conclusione Cattaneo ritiene che, oltre le apparenti
differenze,.<< sia rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni,
il filo conduttore dato dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico,
principi che si possono individuare essenzialmente nella certezza del diritto e
nella dignità della persona umana>> Nel primo capitolo del
volume l’autore riferisce degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che
la critica ha tenuto presente in modo primario del significato letterario delle
sue opere un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto
da un grande recensore contemporaneo al commediografo Friedrich Schiller
(1759-1805) nelle due recensioni alla traduzione tedesca dei
“MÉMOIRES.” nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente
dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”
soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come
il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti italiani più importanti
dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente ricordati nelle bibliografie goldoniane,
sono opere di due studiosi parenti di Cattaneo. Il primo è l’articolo “Carlo
Goldoni avvocato” di Alessandro Pascolato (1841-1905) il secondo è di
Mario Cevolotto, avvocato di Treviso Il Pascolato rifiuta la tesi
che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e
profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a
Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere
schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori; il Cervolotto esamina
gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine nel 1726, la sua
attività di coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia nel 1728 e la sua
laurea in legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato alla attività professionale
a Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo
capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane
specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del
foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza
dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune
evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza
di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere. Cattaneo cita anche gli
studi Gaetano Cozzi e di Gianni Zennaro Il secondo capitolo è
intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale” e
Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della
procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella
procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio
dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo
studio dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione
per i giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare
cancelliere>> Goldoni sottolinea la presenza nel diritto
vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma
non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura
criminale. IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano: Goldoni fra
diritto civile e diritto naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in
rilevo i due fondamentali temi della commedia: la difesa della onorabilità
della professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed
onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di
diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza; la
commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione
letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura
dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura
completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”
Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di
Goldoni: <<La Pamela>> e altre opere” Cattaneo rileva che le
radici illuministiche e giusnaturalistiche del Goldoni si manifestano in
rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del
diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il
giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle
opere teatrali aventi come oggetto, o come sottofondo, il tema fondamentale
della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi
sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali
emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama”, “Il Feudatario” “Le femmine
puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre
Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La
bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la
commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più
essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico
dall’autore che conclude il capitolo affermando che: “Quando si
trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere
religioso e invocare la grazia del cielo” La seconda parte del volume è
dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni. Il primo capitolo si intitola
“Studi su Manzoni e il diritto” e Cattaneo passa in rassegna gli studi
esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel
pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore
commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “
Promessi Sposi”, esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero
storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere” del 1919. Il più
importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume
di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto”. Tale volume si
conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di
Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del
diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un
ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della
funzione.. Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro
Manzoni. Il Dolore e la Giustizia” di cui la terza parte è dedicata al
problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il problema
della giustizia nei Promessi Sposi” in cui ribadisce che tutto il
capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude
affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso
cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire
soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze,
facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda
ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”
in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una
grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico
di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai
contrastare con la morale. Concludo ricordando la strenna natalizia
dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il
titolo “<Se a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei
Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta.
(1920-2007) Il secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto
naturale” Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della
giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di
pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due
postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce
che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità
morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali
e verità matematiche. Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è
affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo
“Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è
cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza,
perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole
secondo le circostanza. In realtà è sulla base della idea di virtù che si
giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.
L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini, il più grande filosofo
italiano dell’Ottocento, la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e cita
un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee” .Va anche evidenziato
che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e religione,
come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica “
dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e teologica.
Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono mai la
giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia, senza
ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente
(in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo
ringraziamenti e benedizioni. Il capitolo terzo si intitola “Le gride e
l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>”. Cattaneo rileva
che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta l’opera di
Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa, figliastro
dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima idea del suo
romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal dottor
Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro i quali
<con tirannide> e con minacce costringono un prete a non celebrare un
matrimonio. Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia” e dei “I
Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al sistema, in
quei tempi diffuso, di consorterie e di caste, inoltre, descrivendo
criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la
dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non
dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere
Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del
colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da
parte dell’autorità Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo
giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza
giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle
fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti,
a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della
legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è
sottoposta ogni mossa dei cittadini Lo scrittore lombardo critica anche
la comminazione di pene sproporzionate, misura considerata ingiusta ed
inefficace per la prevenzione dei crimini, l’impunità dei colpevoli è indicata
dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva
severità o crudeltà delle pene. Il quarto capitolo si
intitola “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale”.
Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si
traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito
e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”;
l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la
conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo,
relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la
carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e
ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza
processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti.. Questo
brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della
teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante
rispetto alla effettiva colpevolezza del reo, mirata esclusivamente a <dare
un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo
viene peraltro giustificata la punizione dell’innocente. In altri passi
del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare
non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione
generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che
finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti
giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato
e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso
per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della
punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe
avere solo l’effetto opposto a quello voluto Nel penultimo capitolo il
commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano
dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come
risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere
esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e
l’esecuzione della pena. Cattaneo conclude il capitolo istituendo un
parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato)
tra Manzoni e Kant, dato che: “la visione della morale, nonché del
diritto, ed in particolare del diritto penale è svolta in una prospettiva
anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un
<liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione
collettivistica e <sociale>” Il quinto capitolo si intitola“
La storia della Colonna Infame” L’autore ribadisce che il motivo
fondamentale della critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo
sociale, contro il prevalere dell’interesse generale e sociale sui
diritti individuali sta alla base dello scritto “Storia della Colonna
Infame” due anni dopo l’edizione
definitiva de “I Promessi Sposi”.. Di recente tale opera ha sollevato critiche
severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere
uno storico, ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del
cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco, e quindi di non
studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i
comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata
formalizzata da Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello
scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di
vista in relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante
contributo sono tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della
storia, affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le
maggiori discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello
storicismo. 2) Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani,
<non è per nulla inferiore alle altre opere del Manzoni, anzi rivela il suo
ingegno e la sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie
giuridiche> Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più
giuridica del Manzoni. 3) Il significato più importante del libro è quello
morale, come rilevato da Tenca, Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e
consiste nella difesa del libero arbitrio, della libertà del volere e nella
rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore
dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui
Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione
etico-giuridica Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la
criminologia” L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della
Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio
dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi
giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi del
1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi che hanno creduto di vedere in
tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi”
dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della
Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del
libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada
del determinismo. L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri
Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il
pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica e lo
scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri
Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati
dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi
delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi Cattaneo
conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del
positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione
di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa
sociale Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del diritto?”
Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche
negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in
modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in
Italia” oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese.
Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel
libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le
leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di
<<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano in
particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana
che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra
le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni
dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo C. di rendersi
conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i Longobardi e
evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico, per dirla
come Kelsen e definisce alcune norme <leggi costituzionali>, le
leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross e le
<norme secondarie> di Hart, cioè le norme che conferiscono il potere di
emanare, modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il
comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le
norme di statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere
longobardo, le quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che
regolavano il comportamento dei cittadini di origine romana. L’ottavo
capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione francese” Il rapporto tra
Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie forme per tutta la vita del
letterato lombardo. Questi visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico,
nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della Libertà“ un poemetto di sentimenti
giacobini ed anti-monarchici con la condanna delle spietate repressioni
penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su Napoleone
dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità degli idoli
umani Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni esamina la figura di
Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del politico
francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da
Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie Lo
studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la
Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi
“La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”
I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla Rivoluzione francese
sono A) La mancanza di un giusto motivo per la distruzione del governo di
Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati del Terzo Stato che ne
furono gli autori B) Questa distruzione avvenne indirettamente ma
effettivamente in conseguenza dei loro atti C) Il nesso di queste cause
con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal popolo francese,
avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali; Manzoni peraltro
non si rende conto che la sua critica non tiene conto della situazione
dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto divino
mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi
giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese Il letterato
lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo dal Terrore, al Direttorio,
al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione francese.
Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo” Manzoni discute
il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana sottolineando le
differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di evidenziare il
contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della Rivoluzione
francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in altre opere,
il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la sostanza
dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore assoluto
dell’idea del diritto, che è <una verità> Tale considerazione
induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione di Manzoni e
quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un popolo alla
rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine inespiabile
ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della Rivoluzione
francese; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non equamente
dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e, nel momento della sua
caduta,pur proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché fosse
esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare esitò e si
chiese <Au nom de qui?> come è attestato dalla sorella
Charlotte Nella lunga ed articolata conclusione C. ribadisce che il
pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in comune e svolge
alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia che il suo saggio
ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività forense di
Goldoni, sul significato riformatore delle sue commedie e sulle implicazioni
politiche del pensiero di Manzoni. Il punto di vista seguito nel volume
dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come
<categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e
dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione
con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e
dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è
stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione
politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre
dall’autore , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello
dell’ autonomia del diritto , ma non inteso secondo una prospettiva
meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato
di rilevanza politica. >. L’angolo visuale usato come punto di riferimento
per i due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo è coevo di
Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio
dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale,come è
riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e
l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla
procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato
veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di
indicare la presenza di una eredità Illuministica, con riferimento ai problemi
giuridici, ne “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna
infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle
concezioni illuministiche. Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa
di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della
linea agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il profondo
legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo
per l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la sua
considerazione della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali della
fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore
dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al filone ateo e
materialistico di alcune correnti. Ragonese e
Caretti hanno bene sottolineato i rapporti tra Manzoni e
l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo che il motivo comune
fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano ed illuministico (e
kantiano) della dignità umana. In Goldoni questo principio è meno
evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura umana, al di là
delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed opere drammatiche,
in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un livello di maggior
profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come traspare chiaramente
dal testo recitato dal coro de “Il Conte di Carmagnola” Nella
Appendice viene riproposto lo studio di Alessandro Pascolato “Carlo
Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia” Cattaneo pubblica
“Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il libro, che è dedicato
alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del
Diritto all’Università degli Studi di Milano, tratta le opere di numerosi
letterati. Il libro, che si articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta
di scrittori che nelle loro opere hanno affrontato il tema
della pena o problemi di natura giuridica. Il lavoro, rileva l’Autore, non ha
avuto una genesi unitaria Il primo saggio scritto riguardava Parini, un
“poeta civile” rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato, è
seguito il saggio su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha
combattuto a Curtatone e che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti
della legge e dell’autorità costituita una opinione diffusa di molti uomini
dell’Italia post-unitaria tra cui il grande giurista liberale Carrara..Il terzo
saggio è stato dedicato a Foscolo che nello scritto < L’orazione sulla
giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente Armani> ed
<una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi relativi alla
pena Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e il diritto
penale” Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta Dante ed il
diritto penale.. Cattaneo rileva che gli studi di storici e filosofi del
diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno trascurato
l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di diritto penale ma l’analisi
del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra colpa e pena.
Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte nell’Inferno del
poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della legislazione penale
moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva morale e religiosa del
poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali attuali Dante peraltro
opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro la città di Dite che
può corrispondere ad una distinzione tra peccati e delitti, il più
rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale è il criterio di
graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene come è stato
evidenziato da Giorgio Del Vecchio. Il maggior contributo diretto
di Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione del principio
di uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della volontà del
volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione del merito o
del demerito delle sue azioni. Cattaneo conclude che:” Certamente, fare
apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista, può risultare
sforzato e retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e
lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al
diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per
qualunque problema, religioso, filosofico, umano; ricordo che mio Padre
diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>” Nella introduzione ho
accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto, un tema caro
a molti studiosi Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e
L’Illuminismo giuridico”. Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non
per vocazione ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali
illuministici di riforma civile ed attraverso una delle sue Odi riprende
le idee illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio
umanitario della doverosità della mitigazione delle pene considerando
l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque
una continuità di principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e
Rosmini, cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari
relativi al problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione
penale cristiana ed illuminista. Cattaneo conclude il suo saggio
affermando che Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore
dell’Illuminismo e si fa portavoce dei suoi più significativi valori. Il
terzo saggio si intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”.
L’Autore rileva che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle
vicende politiche del suo tempo segnato dalla rivoluzione francese e
dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura penalistica il poeta
accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica, come la difesa
della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie processuali. Foscolo
inoltre critica la teoria della retribuzione morale e quella della prevenzione
generale. Il quarto capitolo è intitolato. “Le <veglie notturne> di
Bonaventura e la critica dei giuristi” un libro tedesco poco conosciuto
in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto
editore F Dienemann, che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen
deutschen Original Romanen>. Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a
temi giuridici viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano
ed a metterlo al servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo
paragonato ad una macchina o ad una marionetta, il rimprovero ai giuristi che
si assumono il compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le
anime, l’uccisione della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al
diritto naturale, che dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di
una giurisprudenza svincolata dalla morale sono chiari segnali di una
aspirazione ad umanizzare il diritto, specie quello penale. Il V capitolo è
intitolato “Heinrich Heine e la satira delle teorie della pena”
L’Autore analizza il breve scritto che Heine aveva aggiunto quale
appendice al suo volume “ Lutezia”, opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo
scritto è dedicato al problema della riforma delle prigioni ed alla
legislazione penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung>.
Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali
della pena. Cattaneo suggerisce che l’analisi critica del poeta si
traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e
dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea
l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale ed evidenzia il
carattere patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare
il principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla
pena, Heine ritiene che bisogna agire con durezza, reclusione ed addirittura
con la pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo
rileva che è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia
penale, cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte
costruttiva cioè l’indicazione di un fine positivo nella funzione
penale. Heine critica inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello
auburniano Il capitolo VI è intitolato “Victor Hugo e la pena come fonte
di delitti” L’Autore rileva che il problema giuridico penale è presente
nell’opera letteraria di Hugo con una severa critica del sistema penale
dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge
chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables” e nel suo protagonista
l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena
sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale
indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura
centrale di Valjean. Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono
da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di
un pezzo di pane,che poi viene gettato via,Valjean è condannato a 5 anni di
detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua
detenzione dura ben 19 anni. Vi è una enorme sproporzione tra il
danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui
psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare
su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per
una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia
l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia
di infamia stabilita dalla legge. Cattaneo rileva che è ammirabile la battaglia
combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua denuncia della
sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica dell’assurdo
criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie sono importanti
contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della dignità
umana. Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la coscienza
e la pena”. L’Autore evidenzia la centralità del tema del delitto, della
colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato nel profondo
scritto di Italo Mancini, che ha evidenziato sia la validità di una ricerca su
Dostoevskij pensatore e filosofo sia che per lo scrittore russo < la
questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il contenuto>. Pietro
Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo ha rilevato che <I
suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una verità, ma piuttosto di
chiarire e capire sé stessi>> Nel volume “I ricordi della casa dei
morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza personale della prigionia in
Siberia e sottolinea chiaramente l’incapacità del carcere di procurare
l’emenda del reo dato che Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non
ha visto tra quella gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per
il delitto commesso; lo scrittore russo indica anche nella solitudine e
nella mancanza di privatezza un elemento di particolare tormento della
prigione. Il lavoro nella prigione, rileva lo scrittore russo, non
era faticoso ma era penoso perché obbligato sotto la minaccia di un bastone.
Dostoevskij evidenzia anche l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti
in relazione alla classe sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia
della pena. Radicale è la sua critica svolta nei confronti del regolamento
carcerario e del comportamento ottuso e crudele delle guardie carcerarie,
severo è il giudizio sulla prassi della fustigazione definita una piaga della
società> Nel <L’idiota> lo scrittore russo pone un giudizio duro
e severo sulla pena di morte in bocca al principe Miskin nelle
prime pagine del romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del
carattere meno afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati
da tormenti e la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che
è peggiore della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo”
Dostoevskij evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale
espiazione della colpa e come risultato del rimorso avvertito dal
colpevole. La trama del romanzo mette in luce la progressiva conversione,
il rimorso e la ricerca di espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il
Leitmotiv del celebre romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una
spinta interiore e del rimorso e che tale impostazione pone lo scrittore
russo sulla linea del Platone del Gorgia e di Boezio nel <Consolatio
philosophiae>. La conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una
sensibilità giuridica moderna che pende in considerazione le circostanze
attenuanti, le cause sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero
morale e sociale del colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità
del problema penale e l’interesse di Dostoevskij, spirito umanitario e
riformatore, per la riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul
piano morale, rileva il desiderio di espiazione che conduce
all’emenda. Dostoevskij manifesta l’atteggiamento del cristiano che
si sente corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo
“Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo
ribadisce che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa
commessa e la auto-condanna da parte del delinquente. La pena giuridica non ha
rilevanza, ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di
redenzione che avviene nella coscienza del colpevole Il capitolo
VIII è intitolato “Tolstoj e la abolizione della pena”. L’Autore
ribadisce che lo scrittore russo postula una radicale abolizione del diritto
penale in una prospettiva di amore cristiano e di non violenza. I temi
giuridici vengono affrontati da Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la
novella “Il racconto di Koni”. Il romanzo Resurrezione è
fondato su una vicenda processuale, la condanna ad alcuni anni di deportazione
in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova, diventata prostituta a seguito
di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo e la successiva pena dei
forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di pena gli uomini erano
sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene, teste rasate, divise
infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà e
atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in prigionia nella
sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e la concreta
esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema fondamentale è
l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema repressivo-penale e la
sottolineatura delle cause sociali dei delitti come Victor Hugo. Lo
scrittore suggerisce anche la necessità di abolire la pena e sostituirla
con il perdono, un ideale sublime ma difficile da realizzare in pratica e che
indica tutta la complessità del problema, Cattaneo si chiede se si tratta “del
sogno di un visionario, una utopia generosa o di un ideale verso cui la società
deve tendere.” Il nono capitolo è intitolato “Pinocchio e il
diritto” L’Autore rileva che l’opera di Collodi è stata oggetto di
numerose indagini . Le ricerche sulla natura pedagogica ed educativa sono
state sviluppate da Bertacchini, Il testo di Collodi è stato esaminato sotto il
profilo filosofico e teologico nei due volumi scritti da Vittorio Frosini e
Giacomo Biffi . Frosini evidenzia che: << Il mito di Pinocchio si
rivela……come un mito tipicamente risorgimentale, al tramonto di
un’epoca; e anzi proprio di un risorgimentalismo di stampo repubblicano e
mazziniano>> basato su principi di umanitarismo positivistico. Giacomo
Biffi sottolinea che Pinocchio fu scritto quando l’Italia era unita
politicamente ma non era una nazione consapevole di sé e concorde sui valori
che danno senso alla vita. Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue
persuasioni, un carisma profetico più alto della sua militanza politica, così
poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera
filosofia del suo popolo. . La lettura di Pinocchio evidenzia interessanti
problemi e temi di natura giuridica e filosofico-giuridica e lo scritto di
Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più rilevanti dal punto di vista
penalistico. Cattaneo sottolinea che Carlo Lorenzini (ovvero Carlo
Collodi) era un fine umorista che sapeva cogliere il lato ridicolo ed
insieme doloroso della vita umana (opinione espressa anche da Lina
Passarella nel suo scritto prima citato su Goldoni filosofo), e cita ad
esempio l’episodio dei pareri opposti dei medici al capezzale di Pinocchio in
casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e quello della condanna del burattino
derubato degli zecchini dal giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio
scappa di casa ed è acciuffato da un carabiniere per il naso (Cattaneo
rileva in tal modo la naturale predisposizione dei cittadini ad essere oggetto
delle interferenza da parte del potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a
Geppetto e le sue proteste il carabiniere, a seguito dei commenti della gente,
rimette in libertà il burattino e conduce in prigione Geppetto che piange
disperatamente. L’episodio mostra un membro dell’apparato giudiziario che
arresta Geppetto sulla base delle opinioni della <voce pubblica>
compiendo un atto arbitrario senza motivazioni precise e mostra un innocente
debole ed inerme che non riesce a difendersi di fronte all’atto arbitrario del
potere. Un altro episodio interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove
si descrive la battaglia con i libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni.
Un grosso volume scagliato verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che
cade come morto. Tutti i ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il
compagno. Arrivano due carabinieri che,dopo un breve colloquio, arrestano
Pinocchio malgrado le sue dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge
inseguito dal cane Alidoro al quale salva la vita mentre stava per annegare.
Cattaneo evidenzia a riguardo che la vittima del potere è l’innocente, l’unico
trovato vicino ad Eugenio, che viene arrestato perché le circostanze sono
contro di lui La frase dei carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che
evidenzia che l’invito a ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è
incline a tagliar corto. In molte vicende giudiziarie si nota che una
concatenazione di indizi sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da
condanne di persone innocenti. Un altro episodio clamoroso di palese
ingiustizia è la vicenda che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due
truffatori La Volpe ed il Gatto. Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto
e viene convinto a seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino
alla città di Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente da
Collodi è,secondo C., e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto
positivo basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il
pericolo del prevalere della politica sulla giustizia nella
amministrazione della giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che
riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete
d’oro torna in città e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano
derubato, ma,invece di ottenere giustizia, è vittima di una tragica
beffa. Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si era rivolto,
ordina che il burattino venga messo in prigione. L’ordine viene eseguito
da due mastini che tappano la bocca al burattino, il quale resta 4 mesi in
prigione e viene liberato a seguito di una vittoria dell’imperatore della città
di Acchiappacitrulli. Per ottenere la libertà Pinocchio dichiara al
carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così viene salutato rispettosamente
e può scappare. C. rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria
della giustizia umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove,
come scrive Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo
volume rileva dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è
descritto come un personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del
burattino, successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della
razza dei gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena
rispetto a quella vera, per cui il giudice finisce con applicare la legge
umana che con i suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo
rileva che la situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da
Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i
deboli, non sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del
potere. La lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di
alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura filosofico-giuridica e
giuridico- penale, come suggerisce acutamente Cattaneo nel suo volume.
Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune situazioni caratterizzate da
abuso di potere, oppressione dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti
stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come del resto è stato rilevato da
numerosi importanti interpreti. E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di
Collodi, come molte altre opere letterarie, affronta importanti problemi
giuridici tra i quali va segnalata l’importante e costante aspirazione perenne
che la legge in essere non sia solo la volontà del gruppo sociale dominante,
una forma di controllo sociale, e che inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la
dignità e le aspirazioni degli uomini come attesta la storia del diritto. Il
capitolo decimo è intitolato “Wilde e le sofferenze del prigione” Wilde
in alcune sue opere ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il
clima del carcere., lo scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere
che scontò interamente. Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico
capro espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso
letterato nel <De Profundis>, redatto in carcere, attesta di essere
passato dalla gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla
esaltazione al disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel
suo celebre <De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading
Gaol> hanno fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del
sistema carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli
ultimi anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred
Douglas <Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi
atteggiamenti durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte
controversie, fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan
Holland. All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas e
soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e
rovinata <a disgraced and ruined man> lo angoscia dopo la
sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi
vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il
fondamento del proprio continuare ad esistere Wilde evidenzia che la
terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e
si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca
l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo
scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita
peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la
prigione li rende dei <paria>, per cui i condannati di ceto abbiente non
hanno più diritto all’aria ed al sole,la loro presenza infetta i piaceri degli
altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la
reputazione della persona condannata è leso. Wilde evidenzia anche
che molte persone,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere
stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,,
è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il
diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e
lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la
riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra
le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro
l’idea della retribuzione morale e cioè che subendo la pena il colpevole
abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio,
dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né
fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia
sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e
l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società
riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole
incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le
privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce
i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns,
oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei
condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma
come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che
tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono
sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle
sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi
anni dopo il carcere in Francia . Wilde scrisse anche <The Ballad of
Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga ballata il
poeta inglese descrive le sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito
durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte dei
carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati a
morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il
vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con
l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose
ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica
esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle
prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul
of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese
redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del
trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con
critiche alla utilità sociale della stessa Il capitolo XI è
intitolato “André Gide e il non giudicare” Il problema giuridico-penale è
stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo Gide, che lo
ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la Cour d’Assise” che
racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi penali del 1912,
“L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi sono stati
pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas” Cattaneo
rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i
commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in
veste letteraria. L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro è
molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto penale e
letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi
giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce
l’attenzione, la precisione, la serietà e la preparazione dimostrate dallo
scrittore francese nel trattare i temi giuridici, soprattutto per la precisione
del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi
giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce
all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”
L’atteggiamento dominante di Gide è il “favor rei” che si esprime
in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore
volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata
ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni,
specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche nei suoi
scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di
chiarire il loro contenuto. Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso
i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si
tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di
giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa
causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa.
Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione
per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica, che
porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano
giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito
evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della
raccolta: Ne jugez pas.” Il capitolo XI è intitolato “Franz Kafka,
la legge e il totalitarismo” Cattaneo ha discusso in molte opere il
problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume
“Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”
Analizzando le opere di Kafka C. premette che è particolarmente rilevante il
pericolo di un forte divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il
testo originario dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte
diverse interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di
lettura> ., certamente l’interpretazione più interessante dello
scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod, che evidenzia la
religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa chiave
interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e della
colpa. Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata
compiuta da Pernthaler.Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle
quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista
filosofico-giuridico In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile
rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in
chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal
punto di vista filosofico-giuridico. C. esamina alcuni temi che emergono da “Il
Processo” dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der
Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di
tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu
instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea
situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di
errore e di ferocia tipiche del totalitarismo. Kafka collega la burocrazia e
l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente
totalitarismo . Pietro Citati rileva che <Nel Processo, l’immenso Dio
sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita
così intensa e un potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei
tempi> L’interpretazione di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è
priva di prospettiva giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è
l’interpretazione data da Sgorlon del <Processo> di Kafka ma la
prospettiva giuridico politica, trascurata da questi studiosi, è presente e
Cattaneo evidenzia che proprio nel primo capitolo, in cui è narrato
l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo preciso proprio la
sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato di diritto allo
Stato totalitario .Di seguito le indicazioni che Joseph K riesce a
ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti il
meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la
totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato,
elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema
della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello
scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre
leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo
gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto
gli svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando
questa è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono
poi molto grandi. Le leggi sono antiche, secoli hanno lavorato alla loro
interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono
sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione Il
motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato
che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla
per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza
delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà
La fredda descrizione di uno strumento di supplizio, nell’ambito di un sistema
processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del
racconto <In der Strafkolonie> (Nella colonia penale) e la conclusione
della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il
viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema
punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di
tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si
denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina
del supplizio inizia a funzionare e l’ufficiale muore senza aver capito
il senso del supplizio come ogni sistema totalitario si
autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi
Ceausescu nel 1989 operata nell’ambito del totalitarismo comunista.
L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come
<<alibi>> nel sistema post-totalitario” Havel, noto
scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca,
è autore di numerose opere letterarie e teatrali. C. ritiene che se Kafka
rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il
post-totalitarismo,al quale ha dedicato uno scritto bblicato nel 1978 che
l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca. Havel
delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come
tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un sistema
che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere
etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica
dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e
post-totalitario. Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo
scrittore ceco, come una dittatura della burocrazia politica su una
società livellata. Lo scrittore ceco elenca le caratteristiche del
sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura
tradizionale ed evidenzia che A) tale sistema non è delimitato
territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una
superpotenza B) mentre le dittature classiche non hanno una solida radice
storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX
secolo. C) Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica
che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni
domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali D)
Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto
attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione
sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di
un meccanismo perfetto, che permette la manipolazione diretta ed indiretta
della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà
statuale e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di
produzione> E) Nella dittatura classica vi è una atmosfera di
entusiasmo rivoluzionario, di eroismo, di spirito di sacrificio che sono
scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido
del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti
nei paesi occidentali sviluppati e sono una forma di società consumistica
ed industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come
<post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche
diverse dalle dittature classiche e, rispetto al totalitarismo classico, è
caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio Havel
considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è
un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle
mistificazioni totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un
vivere nella menzogna e lo scrittore insiste sul valore e sul
significato morale ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda
l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario lo scrittore
rileva che tale sistema sente la necessità di regolare tutto con una rete
di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle
piccole viti di un meccanismo gigantesco. Le professioni, le abitazioni
ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono
controllate, ogni deviazione viene considerata un passo falso ed una
manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere
alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e
se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la
<legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita
come è realmente. Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria
e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di
Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della
generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della
propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione
esistenziale> generalmente comprensiva L’aspetto più interessane di
Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come
fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e
consumistica. Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva
che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere
coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore,
deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla
violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di
adempiere a compiti per cui non è adatto - In tal modo, sottolinea
Cattaneo, il letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo
classico per cui il diritto non è al servizio del potere, ma può essere un
valore solo in quanto esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e
della dignità dell’uomo Il grande insegnamento del letterato Havel
è la tutela del valore più calpestato dal totalitarismo, la dignità umana che è
lo scopo fondamentale ed essenziale del diritto, dato che diritto e
libertà sono collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la
libertà. DISSERTAZIONÉ • SULL ORIGINE DELL’ANTICA IDOLATRIA
E SULJ.A FORMA DE' PRIMI IDOLATRICI SIMULACRI
COMPOSTA DALL'ABATE ; Giuseppe luigi traversari
H Patrizio Ravennate , Canonico Arciprete della Infigne
Collegiata di Meldola , e tra gli Arcadi. LANIO' ATENIENSH. PRESSO
GIOSEFFANTONIO ARCHI. DISSERTAZIONE SULL' ORIGINE
DELL’ ANTICA IDOLATRIA E SULLA FORMA DE' PRIMI
IDOLATRICI SIMULACRI. AL NOBILISSIMO CAVALIERE , E DOTTISSIMO
LETTERATO IL SIGNOR CONTE AURELIO GUARNIERI PATRIZIO
OS1MANO L’AUTORE. Veneratissimo Signor Conte fi 'S T fi
Aria, intralciata, difficile , e per nju- /. X no, ch’io fappia, di
proposto rifchia- tt » rata fi è la Queftione , che mi vien
pro- OS A porta a trattare, veneratiffimo Sig. Con- te ; cioè
fe i Simulacri primieri delle pagane divinità fodero lemplici e rozze Pietre, o
quadrate, o rotonde, lenza veruna umana, o animalel- ca ferabianza . Io
ricevo con Ibmmo giubbilo per una parte l’onore de’ voftri cenni, e vi
fi) al mag- gior fegao buon grado per avermeli gentilmente
partecipati . E’ una degnazion Angolare la voftra il credermi pur capace
di l'oddisfarvi in materia di eru- dizione . Ma per l’ altra ben
coaofcendo la pochez- A 3 za del v/ 6 ' Dksert. sull* Origine za
del mio talento, e la fcartezza di mie cognizioni , provo un eftremo roflòre di
non potervi ubbi- dire in quel modo, che ad un voftro pari, ed alla
qualità dell’ argomento fi converrebbe. Inclinato per genio all’ amena
Letteratura , ma Tempre da im- pieghi fagri , e da gravi Itudj recinto ,
e fommer- lo in occupazioni tutte diverte , lenza tempo , lèn- za
relpiro come potrò teftenere la qualità di Lette- rato innanzi a Voi ,
che in ogni maniera di colte Lettere liete Maeflro ? E ben fapete quanto
male in- contrante a colui , che fu ardito parlar di guerra in- T 4
nanzi ad Annibaie. Ciò non pertanto , fcnibrando- mi più teoncia la
taccia di malcreato , e di (cono- fcente , che non quella d’ignorante , e
di mal efper- to , a telo fine di tellimoniarvi per alcun modo la
mia oltervanza , mi farò lecito di comunicarvi i miei penlamenti. Sarà
quindi gentile impiego del voltro bel cuore infieme, e della vofira
dottrina il com- patirli te rozzi , o il rigettarli fe erranti.
Per- mettetemi però , gentilifitmo Sig. Conte , che io nel
diitenderli mi allontani alquanto dal metodo fecco e digiuno, che per
alcuni fi tiene , e che foltanto confine nel produrre Autori a rifate , e
inzeppar fe- lli , e affafteflar citazioni. Comecché molto io lodi
la fatica e l’ induftria di chi procede fifFattamente , la materia, che
abbiamo tra mano, fe io non vò lungi dal vero , brama di fpaziare in più
aperto cammino , « di venir rintracciata da’ Tuoi vetulti principi. In
due parti perciò credo ben fatto il dividere la prefente Dillèrtazione ,
che a Voi trafmetto, e cou- facro . Ragionerò nella prima alcun poco
della ori- gine, delle maniere , e degli oggetti di quella fatale
Idolatria , che a poco a poco lopprimendo i lumi della natura , della ragione
, della Religione , della lloria , coprì di tenebre , e manommite tutta
la faccia dell’ Univerfo . Difcenderò pofeia naturalmente nel- la
feconda a rendere , per quanto io polla , proba- bile la opinione, che t
primi Idolatrici Simulacri tollero di quadrata, o rotonda forma, e non
aven- ti figura alcuna o di Animale , o di Uomo . In
questa dell'antica Idolatria 7 quella guila
crederò di potere all* autorità voìtra , ed alla mia ubbidienza per
alcuna via foddisfare. ^ . Si laici a Maimonide ( i J , ed alla
Scuola Ra- binica il fidare lenza prove agli Antidiluviani tem- pi
l’epoca della nafcente fuperftizione. Entrando nell’argomento, quel che
puolli da noi con cer- tezza affermare fi è, che poco tempo dopo il
Di* luvio s’ intrulè il Politeifmo a pervertir le menti de- gli
Uomini . Il libro di Giosuè f a ) ne avverte , che Tare Padre di Abramo ,
e di Nachor aveva fer- vito a* Dei menzogneri . Óra la nalcita di Tare
? fecondo i calcoli dell’ Uflerio, accadde non più di 22 1. anni
dopo la generale inondazione del nofiro Globo . Il libro poi di Giuditta
( 3 ) ci fa lapere , che non pur Tare , ma eli Antenati di Abramo
fe- guivano gli empj riti della Caldea adoratrice di più falle
Divinità. Labano chiama Tuoi Dei gl’ Idoli * che Rachele tua Figliuola gli
avea involati (”4), e Giacobbe prima di offrire un facrificio all’
Altiifi- mo fa recarli da tutti quelli di fua comitiva gl’ Ido- li
, che ferbavano , e li nafconde (otterrà . Molto, dagli Eruditi fi
difputa qual folle dell* Idolatria nafcente il primiero oggetto. Pretende
il Clerico ( 5 J elfère fiati gli Angeli adorati lenza limitazione , e
lenza relazione all* Onnipotente. Volilo ( 6 ) d* altra parte lòltiene ,
che il Dogma de’ due Principi buono , e cattivo folle dell’ Idola-
tria più antica generatore. Noi non fiamo per di- partirci dalla fentenza
più comune, e più compro- vata, cioè che gli Altri, e quindi gli <
Elementi follerò i primi a rifcuoter l’ adorazione de’ tralignan-
ti mortali. Fra un nembo di monumenti, e di au- torità , che in conferma
di tale fentenza recar po- . A 4 * ' trei * \ r »
( 1 ) De Idolat. curri Interpr. Dionyfi VoJJìi . ( 2 ) Cape
24. v. 2. ( 3 ) Cap. p. v. 8. C4) Genef.cap. 31. v. 19. £?. 30.,
Cap . 3$. v. 2. 4 * (5 J Index Philolog. ad HiJÌ. Thil.
Orienta in voce Angelus , V Ajlra . ( 6 ) De idolat . lib. 1.
8 Dissert. sull* Origine trei 3 e che in Macrobio C i
) , in Gerardo VofTio già citato C 2 )> ne l Le Plucne ( 3 ), nel
Bergero ( 4 ) lt polfòno agevolmente vedere , io trafcelgo il folo
Eufebio Cefarienlè , tanto più che in Lui rinven- go accennata non pur 1
’ origine , ma V ingànnevol motivo di quella umana depravazione.' Egli
adun- que ( 5 ) colia (corta del gravilTìmo Diodoro Sici- liano,
parlando prima degli Egiziani, poi de’ Fe- nici , popoli , fra’ quali
ebbe forfè 1 ’ Idolatria la fua culla , e finalmente de’ Greci , dice ,
che (6 ) ,, i „ primi Abitatori di Egitto , avendo volti gli oc-
chi a contemplare il Mondo, e con alto ilupo- „ re coixfiderando la
natura di tutte le cole , ili- 3> marono, che il Sole, e la Luna
follerò Dei lem- 3, piterni , e primarj , de’ quali per certo
rapporto „ chiamarono 1’ uno Ofiride , e 1’ altra Ilide
,, infegnando eller quelli due Dei dell’ Univerfo 3, tutto moderatori.
Rapporto poi ai Fenicj egli afferma che • ,, i primi fra loro datifi ( 7
) a filo- ,, fofare , tennero unicamente in luogo di Dei il ,, Sole
, e la Luna , e gli altri Pianeti , e gli Ele- ,, men- 33 .
> (1 ) Saturnale lib. 1. C 2 ) De Idololat. Orig. lib ».
3. per totum . (3 ) Storia del Cielo Tom. I. C 4 ) Trattat .
Storie, della Relig. Tom. 1 . 4 5 ) Yraparat. Evang. lib. I. c.
9. ( 6 ) Tot* owj xotr A lyuirrov Avd’p'jìTHS ro 7 rcchctiQt
ywofJLtviss ccvccfihr^ccvrcce tov xo$[jlov , xou rlw rctfr oKw
xa.rcLT'Kccyv/rcts re xoui rocrras UTTohccfìett/ uvea Osar otihas re xou
irpu- ru$ vihiW) xou rlw <relwnv y w rov \xiv Osipiv ; rlw ’Be
Kit ovoyxKOA rara? Sé .Tttf Ozag u<pirrocvr<u rov $i[/,tccvtcc
xospLw ì>ioixe*v . ( 7 ) HA/ok , xcu (reXlw/iv 5 xou r»?
Tkoittxs T rKetfY\rots ctrrepccs , xou rot sto%£cc } xta tvtoìs
nwoufiiy pLQvov lyivwsxov . dell'antica Idolatria. 9 „
menti in oltre con quanto a !or fi congiunge ,, Finalmente paHando a far
parola dei Greci , reca il bel palio di Platone nel Cratilo, che in
queite note fi elprime ( i ): ,, A me certamente ralfem- ,,bra, che
i primi ad abitare la Grecia quelli fol- „ tanto per Dei riputalfero ,
che dalla maggior , pane de’ Barbari prefentemente fi adorano , il
’, Sole cioè , la Luna , la Terra , gli Altri , il Cie- lo , quali
vedendo e.fi con perpetuo corlb aggi- ,, rarfi , dalla parola ra G«y
correre , Aosi Dei li ,, chiamarono. ,, t Il lèntimento
di Eulebio, o di Diodoro, che dee chiamarli il lèntimento di tutti gli
Storici più fenfati , potrebbe!! agevolmente con facra au- torità
comprovare. Mosè ( *J, Giobbe (i ) , I* .Autore del libro della Sapienza
( 4 ) col profcri- vere il culto fuperltiziofo degli Altri, e degli
Ele- menti , il fuppongono tacitamente come il più an- tico ,
perchè il dipingono come il più lulinghie- j>o , e capace a pervertire
l'umano cuore. Così fu veramente. Il cuore umano aggirato da
un fafeino teuebrofo di licenziole palliont , am- mollito dal lbverchio
amor del piacere , fcollò dal natio genio d' indipendenza , languido , e
indiffe- rente negli efercizj della Religione , la quale già
inftillata nel primo Padre erafi poi tutta pura da INoè trafmellà ne'
difeeudenti , cominciò palio pal- io a ( 1 ) tyojyovTout
tj.ot 01 t porrà ruv P 1 tìpuiruv rwv Trìpi TW EAÀa^a J T 8 TKf
^JjOVtSi Stai «y«>' 6 cU , • WiTTlp vuù T0XK01 TVV (locpQctpW ,
t{KlOV , XOU xcu ylw, xou carpa , xou tspcaov . art OVLU
tWTOC OpWTK TTOO/TCO OMrl 10 VTCL , XOU Piovra, j curo tojuths tìk
<piKi'j>s rns tu Orir Qks curasi (tovoijlkìou . (2)
Deuter. c. 4. v. ip. (3) Job. C. 31. V. 16. 1 ( 4 ) Sap. c. 1 3.
Digitized by Google io Dissert. sull'Origine fo a
perdere la giufta idea del vero Nfume , elio gli brillava all’ intorno
con tanta luce* Un guitto* e terribil giudizio di Dio medeilmo , il
quale, come avverte S. Agostino , fparge penali tenebre (opra . le
illecite cupidigie , permife nell’ Domo un sì fa- tale dementamento. Chi
fdegnava di rendere al Facitore 1’ onor dovuto come a Sovrano , meritò
di perder colpevolmente lino le tracce per ravvi- farlo . Abbandonato
così alla stoltezza de' Tuoi pen- fieri, fcambiò ( i ) la gloria
sfolgoreggiarne, ed immenia dell' incorruttibile Iddio co'’ limitati
river- beri , che ne vedea nelle Creature. Gli Astri pri- . ma di
tutto a lui parvero contrallegnati co' mag- giori caratteri della
Divinità . Quel movimento •. loro non interrotto , que’ periodi tempre
uniformi , quello fplendore Tempre brillante, quegl' in Aulii :
sempre benefìci fermarono il corfo alla di lui am- mirazione , e
riconofcenza , quando pur dovevano lervirgli di guida per falire ad amar
la bontà, a ri- conofcere la potenza del Creatore . Egli lciocca-
mente impadulò ne’ rulcelli , e dimenticò la lòrgen- te , e invece di
riguardarli come Ministri delle divine beneficenze, li adorò come Dei. L’
amor proprio , la fuperbia , la mollezza , il libertinaggio
trovarono il loro conto in fimil delirio. Gli Astri comparivano Dei
benigni, comodi, utili, che nul* la eligevano, nulla vietavano, per nulla
al più cor* rotto genio opponevanlì , nè mettean freno alle più
torte inclinazioni . Il culto degli Elementi , della Terra, del Fuoco,
dell’Aria, de’ Venti lì congiun- te ben presto con quello degli Astri,
perchè appog- giato fopra gli stelli principj , e come un palio mal
mifurato lud’un pendio fdrucciolevole cagiona pre- cipizi Tempre maggiori
, fi venne ad attribuire la divinità alle inlenfibili cole, ed infieme
agli utili, e dannofi animali, agli uni per riconolceili de’ be-
nefizi , che fanno agli Uomini \ agli altri per pla- carli , e
distornarli dall’ infierire . L’ antichiflima opmio- Afojì. ad Rom,
c. x. dell' antica Idolatria . n opinione de’ due Principj buono , e
cattivo ebbe for- fè gran parte in questi folleggiamenti, eia vera-
ce , ma poi alterata dottrina degli Angeli , de’ De- moni , delle Anime
de’ trapalfati trovolfi molto op- portuna per dilatarli. Si volle credere
tutta la na- tura animata . Animati lì tennero gli Astri dagl’
Indiani , dai Caldei, dagli Egizj , dai Maghi, da Pitagora , da Platone ,
da Cicerone , da Varrone . Il mare , i fiumi , le fontane , la pioggia ,
il tuo- no , le rupi , le caverne , le pietre , i monti , gli
alberi , le piante , gli erbaggi , e tutti poi gli Ani- mali li
coniìderarono come alberghi d’ una infinità di attive prelìdi
Intelligenze producitrici di quelli effetti or nocevoli , .or vantaggiolt
, che feulco- no il fenlo umano . Le Anime de’ Trapalfati o dalla
riconolcenza , o dall’ amor degli Uomini con- fecrate ricevettero ben
prello 1’ Apoteolì , ed ac- crebbero il numero delle Intelligenze motrici
del- la natura . Come Macrobio C i ) , e 1’ Abate Le Pluche ( 2
_),il primo in aria da Filofofo , il fecon- do in aria da Storico,
diffiifamente ci mollrano, Oliride, Ifidè , Amone,Oro, Serapide degli
Egizj ; Zeus , o Dios Giove , Marte , Saturno , Venere , Mercurio ,
Giunone , Cibele de’ Greci , e de’ Roma- ni ; Dionilìo, Urotalt ,e Alilat
degli Arabi; Marnas de’ Fililtei; Moloch degli Ammoniti; Adad de’ Sirj
; Adonai , Achad , Architi , Baelet , Belfamin , Mel- chet de’
Paleltini , non erano da principio che il Sole, la Luna, o la Terra, e
quindi in progredii Anime di Principi o Principelle, d’ Eroi o
Eroi- ne ite a regnar nel Sole, nella Luna, negli Altri, o a preledere
alla Terra. Quindi la turba degl’ Id- dj Confenti o maggiori , degl’ Iddj
fecondar) o minori ; e 1’ altra infinita plebaglia di unte varie
Divinità regolatrici di tutti gli effetti , e di tutti gli elleri
naturali , quale non meno accuratamen- te, che leggiadramente ci viene
dal grande Ago- stino ( t ) Saturnal. lib. I. f a J Star, del
Ciel. lib. I* i2 Dissert. sull* Origine ftino C
1 J accennata . In Quella guifa le due opi- nioni del Volito, e del
Clerico amichevolmente fi legano colla opinione comune, e tutte unite
ci additano la prima origine del più grande acceca- mento degli
Uomini. ,, Deplorabile acciecamen- ,, to ! (" concluda quello
paragrafo il facro Autore del Libro della Sapienza ) vana illufione di
quelli , „ che non conolcono Dio ! Attorniati da’ Tuoi be- ,,
nefizj non hanno veduta la mano, che li dif- „ fonde ; dalla magnificenza
delle opere della na- ,, tura non ne hanuo faputo riconofcere 1’
Artefi- ce . Si fono perfuafi , che il fuoco , 1’ aria , i ,, venti
, le llelle. Tacque, il Sole, la Luna fof- fero i Dei , che reggono
il' Mondo Più „ miferabili ancora , perchè ripongono la lor
fìdu- ,, eia in fimulacri morti , ed inanimati ; elfi dan- „ no il
nome di Dei all’ opera della mano degli „ Uomini , alT oro , all’ argento
indullriofamente ,, lavorati a figure d’ animali , a pietre
modellate ,, fecondo il gulto di un Artefice L’Uomo ,,
fi forma un Dio d’ un tronco inutile, a cui dà •la propria forma dia',
oppur quella d’ un Ani- „ male. ,, Qui però vuole avvertirli
, che T ufo de’ Si- mulacri in figura d’ Uomini , e d’ Animali
appar- tiene bensì a’ tempi della già groil'olana , ed avanzata
Idolatria , ma non a quelli della nalcen- te . ,, Un Uom fa J , che
dritto ragioni f pro- fieeue fi) De Civit. Dei lib. V.
VI. ( 2 ) AM' ort y.ev oi rpurrot } koa tMcuot«- TOl
TUV (XV&pWTUJV , «Té VOCUy O/XoBojWfOWf TpO- tìx.o * , «Té hot#
ccipttpufjLcuriv j «tu t ore ypot~ tylXJfc , «Sé xA.afT.XW J yi yAlTTtXW
, » « vlpict - rrOTQITLKH f rCKVYK tpiUpyifAWYIS , 8^£ fJ.IV
QLKQÒOUt- *W, B^é op^iTtKTOVtKVis o-vujKTurrg y ra.ru ry o ifjca
mfaoyityj.(vy ìiyiXov etra* . dell'antica Idolatria;.
fiegue il noftro Eufebio, rapportandoli alle telli- monianze di tutti
gli Autori gentili ) può facil- „ mente rimanere perfuafo , che i primi
ed an- „ tichiffimi Uomini niuna fatica , o Audio ripofe- „ ro nel
fabbricare Templi , ed innalzar Simula- cri , non etlèndo Aate per anco
inventate le „ Arti della Pittura , della Statuaria , della Scol- „
tura, anzi neppure 1’ Architettonica . „ Quindi dopo avere ripetuto il
già detto circa la primige- nia adorazione degli Astri conclude , che „
da „ principio niuna menzione vi fu di greca , o di yy babilonica
Teogonia , niun ufo di Simulacri y „ niuna ridevole vanità nella
denominazione de- ,, gli Dei parte mafchj , e parte femmine • fi) È
veramente lembra cofa aliai naturale , che la fòrgente Idolatria ne'
vetustiffimi tempi , comecché avelie cangiato 1* oggetto della Religion
prima e verace , non giungeiìè però sì tosto a cangiarne i riti e
le cerimonie . Porfirio fcortato da Teo- frasto , e citato da Eufebio ( 2
J pretende delinear- ci il religiofo culto innocente degli antichi
Poli- teisti . Ma in verità quell'impostore Filofofo ne- mico
giurato del Cristianefimo nell’ adombrarci ì* estrinseca religione de’
primi adoratori de’ falfi Dei , non fa che prendere in prestito que’
colori , con cui la Scrittura Santa ci adombra la Religione de’
Patriarchi adoratori del vero Dio. Nulla infatti di più fèmplice e di più
fchietto . Que' fanti IH mi v Uomini negli efercizj di Religione poco
curavanfi dell’esteriore, e del fasto. Ellì la facev.an confi-
stere in picciol numero di estrinfeche azioni , per- fuafi , che il vero
culto è quello del cuore. L’ in- nalzamento de’ Templi non oltrepalla per
avventu- ra l’età di Mosè. Un femplice Altare in un luo- go
( I ) Oux tstpct ng Iw Qtoyoviccs EXXfuwX'f? , # fiapGctpiKK rote
TaXouTaTOtf f «^6/x »; tcw 7\oy<K y • bhe &X.0VW ìlpustS y ìtìt Ó
c. « (a} Prjepar. Evang. lib, J,Djssert. sull’Origine
go mondo , e fpartato , lènza statue e lènza figu* re , lènza
adornamenti e lènza ricchezze , in un bofco , o fovra d’ una eminenza era
il luogo dove Abele , Noè , Abramo , Ifiacco , Giacobbe colle lo-
ro famiglie fi raunavano per tributare all* Altiflìmo i loro voti ed
omaggi . Ivi a Lui predavano le primizie dell’ erbe e de’ frutti , ovvero
il latte , i «radumi , e le lane degli Animali , che dopo il Di-
luvio cominciarono ad immolarli . Ora fu quelle medefime tracce di
religiofa femplicità io tengo per certo , che nella fua infanzia
procedette la Idola- tria . Intela a venerar come Dei il Sole, la
Luna, la milizia celefte, gli elementi , le prelidi Intelli- genze
non Teppe sì tofto ufare altra forma di culto , fe non fe quella , con
cui aveva intefo , e veduto adorarli da’ Patriarchi fedeli il fommo
Conditore dell’ Univerfo . Niun ulo adunque per anco de’ Si-
mulacri rapprelentanti fiotto animalefica , o umana lembianza le pretelè
Divinità . Niun ufo di quelle datue , che rozzamente in feguito , e
grottefcamen- te modellate dagli Egizj , ottennero poi e castiga-
to difiegno , e fipiccata *. motta , ed energico atteg- giamento lotto lo
ficalpello indulìre di Dedalo. An- zi qui dee acconciamente fioggiungerfi
, che anche dopo la coftruzione de’ Templi fi tardò molto prefi* fo
le antiche Nazioni ad ergere in elfi le llatue fi- gurate ; come degli
Egiziani parlando afièrma Lu- ciano , il quale aggiunge ( i ) d’ aver
nella Siria veduti Templi dell’ antichità più remota lènza im-
magine , o rapprefientanza veruna . Che più? Ro- ma detta , che in
paragon degli Egizj , e de’ Greci nacque sì tardi, per oltre anni 170. (
come ci atte- da Varrone citato ( 2 ) da S. Agofiino ) Simulacri
non ebbe ( 3 ) ne’ proprj Templi,, finché Tarquinia Fri fico
( 1 } De Dea Syria . ( 2 ) De Civit. Dei lib . 4. c. 3 1. (
3_) Dicit eiiam Varrò , antiquos Rcmanos ylufi quam annos 170. Deos
fine Simulacro coluijje . Qiiod fi adhuc , inquit , manfijjet y
caflius Dii ob - fervarcntur . S. Auguft. citat. dell’antica
Idolatria. t? Prifco Uomo di Greco , e di Tofcano genio tutta
di Simulacri inondolla . Anzi più didimamente aflerifce Zonara ellervi
date leggi , forfè di Numa , £ roibitive a’ Romani di rapprelentare
la immagine livina fotto la forma di Uomo, ovvero di Anima- le .( i
) Ma l’ Idolatria finalmente è l’opera del- le tenebre, e per poco
crefciuta, non potea a me- no di non addenfarle nel cuor dell’Uomo.
L’Uo- mo divenuto più empio circa gli oggetti dell’inter- no fuo
culto , non tardò guari a fard ridicolo circa le maniere di elercitarlo.
Egli avea degradata ab- ballala la fua ragione , adorando come Dei le
fem- plici Creature . Quello medelìmo fpirito di verti- gine il
tratte ben pretto ad avvilirli viemmaggior- menfe coll’ adorare 1’ opera
fletta delle fue mani . Ei volle oggetti fenfibili e materiali anche
all’ •efterno fuo culto. Ei pretefe di circolcrivere li fuoi Dei
per converfarvi più da vicino , ed innal- zò , e venerò .Simulacri . Or
di qual forma erede- rem noi , che follerò in quello genere le prime
in- venzioni dell’ umana ttoltezza > Quali gli fcogli , in cui
da quella banda urtarono primamente gli Uomini deliranti ? Eccomi alla
feconda parte della Dittertazione pervenuto, ed eccomi al punto di
nia- nifeltare la mia opinione . Io reputo adunque
probabiliflìmo , che follerò in primo luogo i Pilieri , o le grotte
pietre qua- drate , le quau chiamate furon Betilie , e che ori-
f linariamente non erano, che Are ferventi alle rc- igiole
adunanze. Sanconiatone , Scrittore antichit- fimo delle tradizioni
Fenicie , portato da Portino fino alle ftelle , e da Lui creduto
informatilfimo della Storia Giudaica , come non molto dittante
dalla età di Mosè , nel celebre fuo frammento , là dove narra le imprefe
del Dio Urano , o Cielo , affer- ( i ) At'typvrou$v ,
xan tyofiop$ov nxwa. tu Sa eariSTca Pvy.yjois aTe-r/wcoo'. / uuar . Tom.
a . y. io- Digitized by Google I T 6
DlSSEftf. sull* Ortgtné afferma, che ,, Egli trovò le Betilie ( i
) coftrtien- „ do con inlolita mirabil arte Pietre animate. ,, Io
non ho letto di tale Frammento fé non la ver- done greca fatta già da
Filone Biblico , e riporta- ta diftefamente da Eufebio . ( 2 J So, che il
Si- gnor di Gebelin colla fpiegazione di quello antico irjonumento
ha fatto vedere, che il Traduttor gre- cò ne avea malamente recato il
lenfo, e che ridu- cendo i termini al vero loro fignificato , 1 ’ Autor
Fenicio trovali uniforme al Legislator degli Ebrei. (3) Checché ne fia ,
dilHetto non vengami di le- guir le tracce già legnate dal grande Uezio ,
e dall* erudito Calmet , affermando , che Sanconiatone in quell’
accennato ritrovamento delle Betilie , e co- struzion di Pietre animate
ci adombra , benché in modo affai alterato , la vera Storia del celebre
mo- numento, o Altare di Giacobbe. Quest’ottimo Pa- triarca (~ 4 J
nel fuo viaggio da Berfabee in Melo- potamia postoli in certo luogo a
dormire fu di un grande , e ruvido Saffo acconciatoli a forma di
guan- ciale , ebbe la sì nota vifion della Scala corfeggia- ta
dagli Angeli , fu la di cui lòmmità appoggiato flava 1 ’ AltilTìmo , da
cui lènti rinnovarli le grandi promelfe fatte ad Abramo . Deftatofi egli
, efcla- mò Quanto è mai terribile quello luogo / Vera- mente non è
egli altro , che la Cafa di Dio , e la porta del Cielo . Diede a quel
luogo il nome di Beth - el , che lignifica nell’ ebreo linguaggio
Cafa. di Dio Conlècrò il Saffo, che la notte lèrvUo gli aveva di
guanciale , verfandovi dell’ Olio , e in monumento 1 * erefle. Quindi
concependo un Vo- to , il conclufe col dire cs II Signore farà il
mi® Dio se e quella Pietra chiameraffì Cafa di Dio c 5 ( I )
Et/ miwe 0»? Oupcao? ( 2 ) Pr*p. Evang. lib . I. c. 9. C 3 ) AUeg.
Orien- tai. p. 22. e 9 5. Memor. de V Accad. des Infcrip* T . 6 1.
in 12. p, 24 3. (4) Cenef. 28. 18. Dalla
V* dell'antica Idolatria; 17 Dalla Mefopotamia
tornando nella Terra di Ca* naan , giunto allo Stello luogo , e Soddisfar
volen- do al già fatto voto d’ offerire a Dio la decima de’ Tuoi
beni , innalzò fimil mente un Altare di pietra , e replicò il nome di
Beth - el , Cafìz di Dio. Finalmente di bel nuovo in que’ contorni
felicitato dall’ apparizien del Signore , nove! mo- numento di pietra
cortrulle , d’ olio , e di liba- zioni Spalmandolo, ed a lui pure
comunicando la denominazione di Beth - el . Io ammetterò , che
quello termine Beth - el dato agli Altari , ed ai mo- numenti facri ,
quanto all’ edema efprelfione , fofr fe uri ritrovamento di Giacobbe; ma
follerrò con egual verità, che quanto all’ idea , ed all’interno .
concetto degli Uomini ei difcendelfè dalla tradi' zion più rimota. Beth -
el , Caja di Dio , potea fi- milmente confiderai , e chiamarli 1’ Altare
nell* ulcir dall’ Arca edificato dal buon Noè , perchè ivi 1’
AltiSTimo a lui diede fegni fenfibili di fua prelenza , e mifericordia .
Beth-el per Somiglian- te ragione potea appellarli 1’ Altare edificato da
Abramo fui monte Moria per fagrificare il Figliuo- lo; éd egli infatti
chiamò quel monte Dominus vi - debit. Beth-el giuftamente nomar fi
poteano tutti gli Altari innalzati da’ Patriarchi fedeli per ufo
an- tichilfimo, forle dagli antidiluviani fecoli proceden- te , perchè
tutti onorati da qualche' Speciale com- mercio della Divinità , percnè
diftinti da qualche fuperna verfata beneficenza , perchè in certo
modo protetti , ed invertiti dal Nume , e destinati a tri- butargli
culto , Sacrifizio , e riconofcenza dalle cir- costanti Generazioni .
Ora da quefti Altari , e monumenti di pietra , chiamati da Giacobbe
per la prima volta Beth - el , cioè Caja di Dio , e già tenuti per tali
fino da* remotiSfimi tempi , chi non conofce ( entra qui
acconciamente il Le Pluche) (i J etìerne derivate le sì note Betilie ,
quelle grolle pietre quadrate , B che to Stor. del
Cielo , 1 8 D r SSERT. SULL* ORIGINE che con ol) preziofi , ed
aromatiche eircnze irriga- vano , e che poi furono in tanti luoghi
oggetto di veturtiffima adorazione, come da più Autori , e no-
minatamente da Fozio nella fua Biblioteca dinto- ftrafi ? Chi non conofce
dal Bethel di Giacobbe C foggiunge opportunamente il Voflìo ) ( i )
deri- vato il famofò Betilos , quel (allo prelentato a Sa- turno invece
di Giove, come per relazione favo- lofa Efichio ( 2 ) ci narra , e che
ottenne poi tan- to culto dalla forfennata Gentilità ? Ed io al
Vof- iìo , ed al Le Pluche fottofcrivendomi , concludo : Chi non
conofce in quelti monumenti, ed Altari il primo inciampo degl’ Idolatri ,
ed il primo og- getto fènfìbile , e materiale delle adorazioni
fuper- ìtiziofe ? Mettiamci di grazia in varj punti di villa
naturalismi . Confideriamo il genere umano dopo la confufion delle lingue
, e la differitone delle .Nazioni già prefo da uno fpirito di vertigine ,
e già declinante al Politeifmo . Malgrado le volon- tarie tenebre ,
che incominciano ad acciecarlo et l'erba tuttora nel cuore il fème della
religion pri- migenia ; e nella memoria i fagri riti, e le reli-
giofe cerimonie dal Patriarca Noè tramandate . Egli perciò innalza, e
confagra in ogni luogo pie- tre modellate a fòggia d’ Altare per onorarvi
la Divinità : ei vi ft proftra all’ intorno: ci vi ce- lebra le
religiofè adunanze : ei vi prefenta i Tuoi Sagrifizj , comecché forfè non
più al folo , e vero Nume, nta agli altri ' ancora , agli elementi,
agli fpiriti . Ei fa però , ed una tradizione non rimo- ta glielo
rammenta , che il primo Riparatore de- gli Uomini dopo il Diluvio ergendo
un limile Al- tare , il vide torto adombrato dalla fènfibil pre-
lenza , e maeftà dell’ Altiflìmo difeefo in atto di ricevere , e di
gradire placabilmente i fuoi Olo- caufti . CO De PhU.
ChriJIUn. C? Theol. Gent. Vib. 6. t. :p. ( 2 ) BatTuho? «toj
fjtocXe-fTO o AtGo; to> K poeti) cari &ios ,
Dell* antica Idolatria; taufti . Comecché la Scrittura noi dica ,
io noa credo temerità 1* aderire , che limili degnazioni
compartifle talvolta il Signore anche ai Figliuoli, o ai Nipoti di Noè ,
che fi mantenner fedeli pri- ma d' Aoramo. Ben il vecchio Sacerdote, e
Re di Salem Melchifedecco ne avea tutto il merito. Checché ne fia ,
certamente il genere umano non può non confiderar quelle pietre , od
Altari , che qual cola rilpettabile , e (anta. Fi le vede fèrbate
ad un culto Speciale della Divinità , e ad un peculiar commercio col
Cielo : ei le vede in- nalzate o per rinnovar la memoria d' alcun
luper- no ricevuto favore , o per invitar gli animi ad una fedele
riconofceitza : ei le vede anche ufate per edere teftimonio , e
monumento durevole delle al- leanze , de' patti , delle folenni prometle
, e de' giu- ramenti , ne’ quali s’ interpone il tremendo nome » e
la Maeftà Divina. Gli efempli , che fu di ciò abbiamo nella Scrittura ,
non fanno , che dinotarci una vetuftidìma poftumanza. A tutto quello s'
ag- giunga 1' opinione già di fopra accennata , e che fi- no dai
primi tempi fi propagò fra i mortali , cioè che tutto ripieno folle d’
Intelligenze regolatrici degli elleri , e degli effetti della natura .
Con- nettali pure l’altra opinione d’ antichità non mi- nore da S.
Agoffino rammentataci ( i J colle pa- role del celebre Mercurio
Trifmegifto , cioè che per certe conlecrazioni rimanellèro li
Simulacri non pure inveititi , ma realmente animati dalli Dei
venuti ad abitarvi , affin di nuocere, o d? giovare più da vicino ai loro
adoratori . Ciò , che forfè adombrar volle Sanconiatone con quella
ef- preffione di 7 ^ 0 ^$ Pietre animate. Con-
siderando noi il genere umano in tali profpetti , qual cola più probabile,
e naturale a concluderli, eh' egli , parte abufando delle antiche
tradizioni veraci , parte ingannato dalle nuove folli perlua-
B 2 fioni, C t J De Civit. Dei lib. 7. e. 23. e 24*
f 2 o Dissert. sull* Origine fioni j e già
rilbluto di voler oggetti fenfibili al proprio culto , cominciale ben
pretto a venerare quegli Altari , que’ monumenti di pietra , quelle
Eetilie , .riguardandole o come Alberghi della Di- vinità , o come
fimboli della prefenza divina , e finalmente , tempre più creteendo 1*
accecamen- to , come tanti veraci Iddii ? Se il genere umano è pure
intefiato di adorare l’opera delle tee ma- ni , qual cofa più reverenda ,
e più degna di culto ai di lui occhi pretentali , che i mentovati Altari
, o monumenti , o Betilie ? Qui vorrà alcuno per avventura
obbjettarmi , che quando trattali d’antichità olcurilfima , più
che^ col raziocinio , voglionfi colla fioria , e co’ fatti fiabilir
le opinioni j ed io non fono per conten- derlo. Forte però, che
l’opinione da me propo- sta non li deduce naturalmente in gran parte
dai Libri Storici di Mosè , i quali ( lanciando anche ftare quella
ifpirazione divina , che li confacra, e mirandoli tei con occhio di
Filotefo non tumido per alterezza , nè da paliioni alterato ) ben
va- gliono aliai più, che tutti li Vedam de’Bramini, gli Zend di
Zoroaftro , i Kinghi di Confucio , e di Se-ma-fiien, ed i racconti
favololi di Erodo- lo ? Pur i*on fi creda , che io voglia in quella ma-
teria lafciare affatto il mio Leggitore digiuno di monumenti , e di
autorità . Il Volilo C i ) rapportaci , che il Beth - el , o
Pietra di Giacobbe , di cui tanto abbiamo parlato , fu a fomiglianza del
Serpente di bronzo , per lun- ga età foggetto di fuperfiiziofa adorazione
a molti Giudei , finché da’ veri Ifraeliti prete giuftameu- te in
abbominio , gli fu cambiato il nome di JBef/i- el % Cafa di Dio, in quel
di Beth - ave , cioè Cafa della Menzogna . Quali poi furono i
primi Simulacri degli Ara- bi , tra i quali i Moabiti , e gli Ammoniti fi
com- prendevano? Gli Autori antichi, a’ quali rappor- tali
i ) lai’, d. r. 2p. dell’ antica Idolatria. 21'
tali il Calmet , e che ci parlano delle prime Divinità di que’
Popoli , le defcrivono come fem- pjici Pietre informi, o fcalpellate, ma
non con umana forma. ,, Voi ridete, dice Arnobio, (2) „ che ne’
vetufti tempi gli Arabi adoraflero una ,, Pietra informe . „ Malììmo
Tirio ( 3 ) o di que* ito , o d’ altro Arabico Simulacro parlando il
chia- nia Tfrrpxyjìm Pietra, quadrangolare. Ed Eu- timio
Zigabeno nella fua Panoplia ragionando co’ Saraceni : ,, Ed in tjual modo
, efclama , voi ab- ,, bracciate la Pietra di Brachthan , e la baciate
? ,, Alcuni rilpondono : Perchè Abramo fopra di efc „ fa eboe
il fuo primo commercio con Agar. Al- ,, tri poi : Perchè ad ella legò il
fuo CameTo quan- ,, do fu per lagrifìcare Ilàcco . f 4 ) „ Non pen-
io di meritar la taccia di capricciofo , fe giudico quelle Pietre adorate
in feguito nell’ Arabia nuli* altro elfere fiate da principio, che
vetulte Beti- lie , o rozzi Altari fors’ anche al vero Dio confe-
crati . Certamente Mosè , ("5 J in ciò ieguendo S er avventura
la tradizione , e il più vetullo co- ume , prefcrive , che di rozze
Pietre dal ferro non tocche , e informi fallì , ed impoliti follerò
gli Altari , che dopo il patlàggio del Giordano fi volelfero al Dio d’
Ifraello innalzare; e nuli’ al- tro , che grandi Pietre fpalmate alquanto
di calce folfero i monumenti defiinati. a fcrivervi lòpra le parole
della legge. Temette forfè il grande Le- B 3 gisla- ( 1 ) 7
efor. cP Antich. tratto dai Coment, del Cal- met T. 2. ( 2 J Lib. 6 . C 3
J Sermon. 3 8. ( 4 ) Ili* VfJUHi TposrpiQtsrt toj ?u 9 u» t
ts Bpxyficxv j xou tpiKsirt raro» ; kou tiiik j aa> ewrw tpctti
y %tQTi tir coki) aura s trasloca rn Ay cefi 0 Afipaont. AÀA01 ?>£ ori
rpotilìiKur carro» thv xxiju iXov , fJ.iKho»r (jusai rov I sotux. .
C s ) Deuter. 27. 5.22 Dissert. sull’Origine gislatore , che
fé tali monumenti , ed Altari fi f 0 f. fero con più eleganza collutti ,
divenilfero più fa- cilmente al rozzo fuo Popolo, e vacillante
pietra d’inciampo, e fomento d’idolatrica fuperllizione . E
qui , giacché dell’ Arabica fuperllizione ho fatto parola , voglio
avvertire, che della per lungo tem- po mantenne!! nella lua primigenia
feniplicità. Giobbe Arabo, o Idumeo , forfè contemporaneo ,
le- non anteriore a Mosè, accenna lenza meno l’ Ido- latria del fuo
Pael'e. Or ei non parla nè di lla- tue , nè di figure . Indica fidamente
1’adorazione , ed il faluto del Sole , e della Luna, che poi Uroralt, ed Alilat
furono nominati . Se- gno manifelto, che fra que’ popoli non fi era
introdotto per anco quel lopraccarico di moftruole follie, con cui dalle
Scolture Egiziane rimale ag- gravata l’ Idolatria. Che fe non pertanto
gli Ara- bi ab antico proltravanfi a Pietre informi , o qua- drate
, quali io reputo Betilie , ed Altari , ben con- cluder potrai!! , che
quelli follerò il primo. fco- glio, e il primo fcandalo al/ materialifmo
de’ più antichi Politeilli . Teltiinonio ne facciano i primi
Abitatori del- la Germania . Colloro finché rimaforo nella vern-
ila loro rozzezza, finché la fuperllizione fra eli! col commercio delle
arti Greche , e Romane non giunfe a farli più vaga infieme , e più llolta
, al- tri Simulacri non ebbero, come Tacito ( a J av- verte , che
folli informi di legno , e di rozze pie- tre . Erano quelle le forme
degl’ Iddii , che por- tavanocon elfo loro alla guerra , penlando , che
folle un offendere la Divinità il rapprelèntarla fotto umana fembianza .
Ciò , che pure da molti altri C. 31. v. 16. ( 2 J De Morìb.
Germart. Sta- tua ex stipitibus rudibus , i? impolito lapide
effi- gi e s , CP Jìgna quxdam detracia luci s in prxlium ferunt .
Nec cohibere parietibus Deos , ncque in ullam humani oris Jpeciem
affimilare ex magni- tudine cotlejìium arbitrantur. altri Popoli di
non peranche ingentilito collume , per quanto narrano gravi Autori ,
collantemente penfolfi . Ma e dove lalcio la celebre Madre degl*
Iddìi , o fia Cibele di Frigia portata in Roma da Pelìinunte col
miniftero di Scipione Nafica , e da* Romani ottenuta per mediazione del
Re di Perga- mo al tempo della feconda guerra Cartagine!? ? Livio le
dà il nome di fagra Pietra„ Pietra informe la chiama Minuzio Felice .
Arno- bio la defcrive come una Selce non grande di forco, ed atro
colore , e per angoli prominenti ineguale . Eravi fra quei Popoli
tradizione , che quella Pietra caduta folle dal Cielo, e che ap-
punto da jrK&y cadere la Città Pelfinunte folle Hata chiamata .
La Grecia ftefTa non fu priva di quelle fog- gie di Simulacri.
Paufania ci attefta, che in una loia parte d’ Acaja furono da trenta
Pietre taglia- te in quadro , aventi ciafcuna il nome di una qual- che
Divinità , e con fomma venerazione riguarda- te , fendo llato collume
antico de* Greci il prellar culto a limili Pietre , non meno di quello ,
che pofcia faceflèro alle figure, e alle llatue. Mi farà egli difdetto il
probabilmente congetturare per le ragioni di fopra addotte , che quelle ,
ed altre* limili Pietre di Grecia nuli’ altro da principio fof-
fero , che Betilie ? Servirono un tempo a niun altro ufo, che agli efercizj
delle facre adunanze. L* Idolatria col farli più tenebrola giunte a
diviniz- zarle . Betilie ùmilmente , o imitazione fenza me- no
delle Betilie pollòno crederli gli Ermi , di cui la Grecia , e Roma
furono ripiene , e che pofcia ad abellire fervirono fpecialmente le
Biblioteche. Bili non erano da principio , che tronchi informi di
legno , o di marmo , o di pietre tagliate in quadro fenza mani , e fenza
piedi : T runcoque fiinillimus Her- inu?, dille Giovenale. ("3) Ne*
quattro di loro lati pretendeva!! dinotare o le quattro ltagioni, o le
quat- B 4 tro ( 1 J Lib. 2$4 ( 2 J Lib . 6 • ("3 )
SiiU 8. 1 '24 Dissert. sull* Origine . tro parti del
Mondo. Si confiderarono poi come ilatue degli Dei , e di Mercurio
principalmente „ Il di lui capo , che vi fi aggiunfe , fu fenza
meno un poderiore ornamento. Anche il Dio Termine non fu nell* età
più vetude rapprefentato , che fot- to la figura di grolfi Saffi quadrati
, cubici , privi di mano, e di piede : Ttrpctywoi , xuQoziìitls
y K'Xttp&y xou airone? ; quantunque al Dio Termine
pur s* aggiungere la teda umana ne’ fecoli confeguen- ti . E che
non può in quella parte una matta per- fuafione a poco a poco crelciuta
fra i barlumi di tradizioni parte vere* e parte mendaci? A tutti è
noto , che da molti Popoli fi giunte per fino a ve- nerare le Montagne ,
quali grandilfimi Simulacri della Divinità. Il monte Atlante era il Dio
de- gli AfFricani. Occidentali : un monte il Dio de* Oappadoci per
allerzione di Malfimo Tirio : Moni a pud Cappadoces prò Deo ejl , prò jur
amento , atquc Simulacrum . Un monte , o fia rupe SxotéA© r y
xoputplw il chiama Stefano , ( i ) rifcoire pure adorazione dagli
Arabi. Giove fi venerava nella cima de’ più alti monti , come dell’
Olimpo , del Callo , dell’ Ida ; e il nome quindi ne rifcuotea di
Giove Oljmpico , di Giove Cafio , di Giove Ideo . Gl’ Italiani ilelfi
predarono al monte Appennino venerazione , come apparifce da una
Ifcrizione ri- ferita dal Matfèi nel tuo Mufeo Veronefe, la qua- le
comincia IOVI APENINO. Ora e per qual ra- gione crederemo noi , che
adorati veniflero tal» monti , te non per la della , che confecrate
avea le Betilie ? Ce la prelenta naturalmente il Berge- ro . ( 2 )
Fu fcelta la cima de’ monti per offrirvi de’ facrihzj , perchè
credevano gli Uomini d’ e fie- re più vicini al Cielo, e conseguentemente
agli Dei, qualora fi adoravano gli Altri. Per tal mo- tivo
(" i ) In Avsccpq . ( 2 ) Trattai, della vera Relig. ìf
tfvo <i feielfero le pili alte. Tali cime per eli .«lercizj della
Religione confècrare ben predo dir vennero rilpettabili Immaginoifi , che
gli Dei vi fodero difcefi^ p®* ricevervi T’ incenfo , e gli omag-
gi degli Uomini. Pài non vi volle. Riguardata prima come abitazione de*
Numi , fi confidcrarono ben predo quai Simulacri immenfi animati dalla
Divinità, ed ottennero una fpecie d’Apoteofi. . Gon quanto fi è da
me finora ragionato, e che, le il tempo lo permettelle , con altre
notizie, e cagioni facilmente potrebbe!* dilatare, io giudico refa
ormai probabile la opinione di chi accinger vogliali a fo denere , che. i
primi Simulacri delìq Gentilefche Divinità fodero femplicl Pietre
riqua- drate , od informi, fenza alcuna umana, q anima- • Jefca
fembianza . Reda ora , che alcuna cola ragionili de* Simu» * a , cr
* ° rot °ndi , o tendenti a rotondità, a cui pre- ito fuo culto primiero
la cieca' fuperdizione , pfi* ma che folle ai figuri te Statue
provveduta. Io non fono per ripetere quanto di fapra ba*
ftevolmente ti £ detto intorno a| culto degli Adri* e degli Elementi ,
degli Spiriti, e degli Eroi. Ag- giungerò (blamente , che non sdendo per
anche giunto lo fcalpello Adirio , o. Egiziano a rapprefentar le figure
degli Uomini, e degli Animali, e per elprelfioni di Arnobio , ( i J
avanti 1’ ufo , e U difciplina della fcoltura , già penfato avea
1* Idolatria a procacciarli , oltre le Betilie , oggetti temibili
alle lue adorazioni. Gonfiitevano quelli iti certi fimboli q dinotanti,
la potenza, e dabi- hta de’ Numi , o adombranti in qualche modo alcuna or
qualità, J Battoni , le Verghe, le Afte, che al dir di Trago Pompeo (a)
furono la prima “^gna .dei Re, lignificavano il fommo imperio . de
Numi, Le colonne, i cilindri , le pur non erano una imitazione più ‘ ingrandita
dei Badoni da comando, ne accennavano l’ eternità. Gli Obe- B
5 Ufchi, ' fi) Lib, & (Lib % ultima t6 Dissert. sull* Origine lifchi
, le Piramidi , i Coni efprimevano i »gg* «}el • Sole , e delle Stelle ,
o la natura del fuoco , che -in alto vibrava!! acuminato. Menianrto
pur buone a Porfirio ( i ) le interpretazioni sì fatte . Concediamogli
ancora, fe piace , che tali monu- menti alzati dalla pili vetulla
gentilità non fi ri- guarda fiero da principio , che come fimboli ,
o meri Pegni d’ onore . Il Volfio , e forfè con trop- po impegno, è
dello fleflo parere ; ma poi di Por- firio più ragionevole , perchè non tanto
foffifta , nè così empio , s’ arrende a concludere , che ben pretto
divennero occafione di lcandalo alla materiale Idolatria , e oggetto furono di
profane ado- razioni . Elfi in una parola ne’ primi tempi flet-
terò in luogo di quelle ftatue figurate, che poi ot- tenner l’ incenfo
dalle corrotte umane generazio- ni . E qui bramo s’ avverta ? che dove di
fopra io dilli , aver preffo molte nazioni tardato non poco le
ftatue ad innalzarfi ne’ Templi anche dopo la erezione de’medefimi, io
intefi favellar foltanto delle Statue rapprefentanti le Teodie fotto la
forma di Uomo , oppur d’ Animale ; ma non volli giammai includere i
Simulacri , per così dire , fim- Eolici , e non aventi figura . Quelli
fono anteriori , non pure alla ftabil mole de’ grandi Templi , ma
eziandio a quei Padiglioni, o Tabernacoli, o Tempietti portatili , con
cui gli antichi Idola- tri ebbero in ul'o di condurre a patteggio i
loro Numi . Ora di quelli non figurati Simulacri parlando
, m’aprirò il varco con l'autorità di Filone Bibli- co ( aj , il
quale nel fuo proemio alla interpreta- zione di Sanconiatone,
diftinguendo gli Dei immor- tali , come il Sole , e la Luna , dagli Dei
mortali , cioè da que’ Principi , ed Eroi , che per le loro getta
avevano confeguita l’ Apoteofi , ci avverte «fiere flato vetullo
immcmorabil collume , fpecialmente (ij Apud Eufeb. Trap. Evang.
lib, 3. c. 7. (a) JW. lib. 1. e. 9. mente degli
Egiziani , e Fenici , da’ quali preferì norma le altre fazioni, d’
innalzare a quelle Chili d’Iddii Colonnette, o Baftoni , o fia Scettri di
le- • J_ - -t fn..: ninmimpntl il nome di (cerando.
(i),„ Sanconiatone poi nel fuo frammento racconta- ci fa J,
che molti fecoli prima della coftruzione de’ Templi, e formazione delle
Statue Ufoo primo navigatore avea dedicate due Colonne %uo sTtfKxS
al fuoco , e al vento, e prellato ad entrambe cul- to , e
facrificio col fangue degli Animali. Proiie : f He indi a narrare ,
che dopo la morte de primi roi già divinizzati la grata pofterita onorata
avea la lor memoria , lotto i loro nomi confecrando ver- ghe , e
colonne, e con feftivi giorni , e fagre ce- rimonie adorandole .
Finalmente ci addita , che dopo lunghiffima età fu innalzata al Dio Agro
vera effigiata Statua nella Fenicia . .. Giu Teppe Ebreo f 3
) non diubmigliantl noti- zie prefentaci , aderendo , che i Tir) da
principio a’ loro Dii fornirono Afte , e Baftoni , poi Colon* ne ,
e finalmente le Statue . .Certo nella primitiva Egiziana Scrittura fimbo-
lica ( 4 ) non in altra foggia, che d’ un Bafton da comando con un occhio
efiprimevafi Ofmde , il S uale originariamente fu il Sole ,
fignificar volen- o la fua regale potenza, ed il mirar ch’egli fa
dall’alto tutte le cole. Ed io ben credo efftre agli Eruditi notiffime le
Piramidi , gli Obelifchi , ed i Coni dall’ Egitto al Sole innalzati ,
come per imitar- * i 'Tru'Xas rt , xcu
pa<i; aipitpoiw coope- ro? ccuTiM , xoa rocurot ju.yaAw? ,
kou ioprrccs m/J.or carrots Taf pryisrccs. fi) Apud
Eufeb. ibi c. io. ( 3 ) Cont. Apìon. lib. I. (4J Macrok. SatumaL lib.
I.c. ai. Digitized by Google aS DisserY. ' suit*
Ormine imitarne I fuqi raggi . Da ciò forfè provennero quelle corna
, d* cui in fedito 1 Egizia bizzaria li compiacque ornar gentilmente il
capo del tuo Giove Amone, del fpo Apollo d*Eliopoli,e della fua
Ifide. Ove à no\ piaccia di ftare * certe le- zioni per altro antiche del
tetto di Quinto Cur- zio, CO ammetter dovremo, che 1' Amone ado-
rato da’ Trogloditi , e proceifionalmente a fpalle di Uomini condotto in
una dorata barchetta per aver- ne eli Oracoli , altra forma non avea ,
che d un Goiìò, ó d’ un Ombelico tutto di fmeratdi , e P rc ~ ziofe
gemme fmaltato . Almeno rigettar non po- tralTi 1* autorità di Brodiano,f
2 J il quale ci delcrive il Simulacro del Sole (otto nome di
Elegalu , venerato iq Edeilfo della Siria Apamena • Di tale
Simulacro (e ne può vedere adombrata «. forma in una medaglia pretto il
Vaillant battuta ali* ùltimo e più pazzo degl’ Imperadori Antonini
. Or ecco la defcrizione di Erodiano, giufta la ver- fione latina
fatta dal ^oliziarfo . „ In Edefla non v’ ha Simulacro atta Greca ,
o alla Romana em- ” «iato fecondo P immagine di quel Dio -, ma un
latto grande rotondo da imo > e , a P oco a P oco crefcente in punta
quali a figura di Cono . Nero V, è il color della pietra , cui facciano
eflere ca- V, data dal Cielo. ed affermano quella 1 ”
fer 1* immagine del Sole no n da umano artificio 3y lavnrata Su tali
parole fa una riflettìone op- /.ante voi* citato G^>
del soie : uiciiuc , 7 - , -, *• Tentare gl* Iddìi
fotto umana fembianza fu de po- fteriorf Greci, e Romani. Ma gli Afiatici
più ve., tutti, ecl anche gli Egizj moltq divamente fi *i- P
° rt Chi °fà pertanto, che, fe ci rimane^ro le me- rie delle più antiche
orientali Divinità , ^noi^noi* mone Lib. s. (2) Lih 5- CO Uh.
9. c. io > dell'antica IdoiatrYa. 19 le trovaffimo
quali tutte in figura di Colonne , d? Obelifchi , di Piramidi , o di Coni
rappreleutate ? Certo non fenza ragione i Settanta hanno in co(ìu«
me di traslatar per Colonne la voce ebrea Matgaba , che ordinariamente
traduce!! per ljìatue ; e come il Calmet ( t J ci avverte , il nome di
Colonne lem- bra meglio corrifpondere al lignificato del termine
originale. Forfè que’ dottilììmi Interpreti vollero dinotare la forma
antica , con cui 1 ’ Oriente , e la Terra di Canaan rapprefentar foleva i
fuoi Numi ; E forfè Mosè coll’ imporre , che fi demolillèr tutte le
ftatue delle profane incontrate Divinità , nuli’ altro impofe nella
maggior parte , che la demolizio- ne di Piramidi , e di Colonne . Dilli
nella maggior parte, e non in univerfale, poiché quel Sacrifica-
verunt fiulptilibus Canaan , che abbiamo nel Salmo 105. , mi lece ellèr
più continente nelle parole . E de’ famofi Serafini di Rachele , primo
monumento d’ Idolatria materiale , che s’ incontri nella Scrittura, e
degli altri Idoletti elìdenti prellb la làmiglia di Giacobbe dalla
Melopotamia recati, che diremo noi ? S’ io pretendelfi figurarmeli come
piccioli Coni , o colonnette , con quai monumenti , ed autorità po-
trei ellère contradetto? Per verità io miro Giacob- be , che intefo a
ripurgare la fua Famiglia , pren- de , e (otterrà , non folo gl’ Idoli
chiamati Dei ftra- nieri : Deos alienos , ma angora i pendenti , che
fi trovavano all’ orecchie de’ fuoi feguaci Io non crederò
già, che le Pedone della comitiva di Giacobbe , e malTìme le piilfime
Donne Lia , e Rachele ardlllèro di portare sfacciatamente agli
orec- chi appefe le (lamette, od immagini d’ alcuna pro- fana
Divinità . Primieramente potrebbe!! con tut- ta ragione foftenere , che
di que’ tempi non eranò peranco T. 2. DiJJìrt. de' Templi
degli Antichi . Genef C. 25. Dederunt ergo ei omnes Dcos alienos ,
quos habebant , IP inaures , qua : erant in auribus eorum. At ille
infodit eas subter Terebin -thum .30 Dissert. sull* Origine perineo in
ufo le dame figurate. Le Rabbiniche tradizioni dell’ arte datuaria
efercitata fuperdiziofa- mente da Tare Padre di Àbramo fono già (eredi-
tate prellò degli Eruditi. La pretefa antichità della Statua di Nino alzata a
Belo fuo Padre rella dai calceli dell’UHèrio fmentita. Nino regnò in
Affi- na parecchj fecoli dopo Giacobbe . All’etàdique^ fio
Patriarca il Sole , gli Aflri , e malfime il fuoco adorati nella Caldea ,
Affiria , e Mofopotamia probabiliffimamente non aveano che Simulacri fimbolici.
Quando pure fenza fondamento ammetter fi voleflèro le Statue figurate ai
giorni dello ftefiò Giacobbe, io non potrò perfuadermi giammai, che
1’Uom fanto permeili avelie in alcun tempo ne’ fuoi l’ irreligiol'a
ollentazione di tenerle appele agli orecchi, comecché per folo ornamento
. Il motivo ideilo, oltre a varj altri, che addurre potrei, mi trattiene
dal fottolcrivermi all’ opinione del Grazio, e del Wandale , i quali
pretendono , che tali orecchini follerò fuperdiziofi Amuleti .
Quale relazione adunque degli orecchini cogl’ Idoli per dovere
anch’ «Ili meritare il fotterramento ? Se avefi fi luogo ad edernare un
mio non inverifimil pen- dere, direi , che la relazione confidelle in una
cer- ta edrinfeca fomiglianza colla fimbolica figura degl’ Idoli .
Forle l’ ornato di quegli orecchini potea edere qualche gemma , o
preziofo metallo cadente , e travagliato a maniera di goccia , di cono, o
vergherà, che molto raflòmiglialTe la forma appunto degl’ Idolatrici
Simulacri . Quindi Giacobbe volen- do abolita per fempre di quedi ultimi
la memoria predo de’luoi, nalcolè unitamente fotterra tutti quegli
ornamenti, che per la loro forma, e lavoro potuto avrebbero in alcun
tempo rifvegliarne la rimembranza. Ma fi torni in carriera , e col Voffio
( i ) ornai fi rammenti , che non in figura umana , ma bensì in
figura di colonne o piramidi acuminate furono i Si-
Lib. g. c. 5. i Simulacri , a cui nei primi , e più rimoti
fuoi tem- pi l’ idolatrante Grecia prodrofli ; che le per con-
ientimentò di tutti gli Autori ebbe la Grecia dagli Orientali , e dall'
Egitto principalmente i fuoi Nu- mi , e le cerimonie di Religione , farà
quella una riprova novella, che di cilindrica, piramidale, o conica
forma federo i Simulacri almen più vetulli dall’Oriente, e dall' Egitto
inventati. Ora nuli’ altro appunto , che una Colonna fu la
Giunone Argiva. Ce lo atteda Clemente Alef- fandrino ( i ) recando alcuni
verlì di un vecchio Poeta Greco in lode di Callitoe prima Sacerdo-
tellà di quella Diva predò gli Argivi . Io mi farò lecito di darne una
mia Traduzione; Della Donna del Ciel preliede al Tempio Clavigera
Callitoe , che intorno Di ferti , e bende un dì già ornò primiera
Dell’ Argiva Giunon 1 ’ alta Colonna . Non altro , che femplici
acuminate Colonne , o Piramidi furono i Simulacri podi ad Apollo , e
a Diana, come lo Scaligero (3 ) dalle antiche me- morie deduce. Non
altro, erte una rozza Colon- na di legno la Statua di Pallade Attica. ,,
Quan- „ to ( dicea perciò Tertulliano) ( aJ diltinguelt ,, dallo
dipite d' una croce la Pallade Attica , o „ la Cerere Farrea , che lènza
effigie coda d’ un „ rozzo palo , e d’ un legno informe . Un legno
„ non dolato ( proliegue Arnobio ) ( $ ) adorodì ,, da que’ di Caria in
luogo di Diana : in luogo „ di Giunone un Pluteo da que’ di Samo ; un’
Atta „ dai Romani in luogo di Marte , come le Mule » ài
'Zrpuu.eerwv I K «XfaQoti cXifjLTtcìbos BajiAtw H/W fi
pryutK W> {Tìia/axsi , XM buiOCVOKl ripa irti tx.orjj.tKur rtpt tttwx
jJMxpw curctsitK . Ad an. Eufib. 377, f 4 ) AJverf. Cent.
C 5 J Lib. 6. 3 2 Dissert. suix’ Origine „ di Vairone ci
additano. ,, E giacché Arnobio un Romano Autore ha citato , qui giovi
connet- terne un altro , cioè Trogo Pompeo , o fia il Tuo
Compilatore Giurino ( i ) , il quale d’ Amulio ,~e di Numitore parlando
ultimi fra i Re d’ Alba , in quella foggia h efprime. ,, In que’ tempi
tuttora ,, dai Re invece di Diadema portavanfi 1 ’ alle » ,, che
lcettri dai Greci furon chiamate. Conciof- ,, liachè dalla prima origine
delle cofe furono ado- ,, rate 1 ’ Alle in luogo de’ Simulacri degl'
Iddii im- ,, mortali . Ed in memoria di tal religione ai Si- „
mulacri degl’ Iddii tuttora 1' Alte s’ aggiungono. „ Finalmente non altro
, che un rozzo malconcio legno , e deforme» liccome Ateneo ( 2 ) ne fa
fede era il Simulacro di Latoua prello a quelli di Deio y c per fitìfatta
guilà ridevole, che al ibi vederlo n’ ebbe a icoppiar dalle rifa quel
Parmenilco di Metaponto , che dopo 1 * ufeita dall’ antro di Tri-
ionio non avea rifo giammai. Quindi non ci ltu- piremo altrimenti al
fapere» che un breve defeo attaccato ad una lunghi ifima pertica folle il
Simu* lacro del Sole venerato da que’ di Peonia ; e che informi
tronchi , maltagliati , e fenz' arte fodero 1 Numi degli antichi Germani
» e de’ prilchi Galli , come ne allicura Lucano . ( 3 ) Molto mena furem
meraviglia in vedere queiti primi idolatrici monumenti di legno più tolto
, che d’ altra mate- ria lavorati . Per poco che fiali nell’
erudizione verfato » non può ignorarli » che i Simulacri pri- mieri
dell’ ancor giovane Idolatria materiale , giu- lta il collume degli
Orientali pattato nella Grecia » e nel Lazio, furono quali comunemente d’
argil- la, o di legno , a cui fuccedè ben prello il mar- mo »
quindi i metalli v e finalmente 1’ avorio . Non lafcianci dubitarne i be'
palli, che abbiamo in C O Lib. 43. (z) Mb. 5.
( 3 ) Simulacraque moejla Deorum Arte careni , caefisque
extant informia truficis . in Ifiaia ( i ) , in Geremia ( 2 ) in Ofiea
(3), e nel Libro della Sapienza ( 4 ) . Gli eleganti verfi poi di
Tibullo CìJ 1 non Ibi rapporto a quello capo, ma tutta in generale
confermano la mia pre- fente opinione . Non di legno però -
ma di pietra in figura di gran piramide , al dir di Pautania , fi* il
Simula- cro fiotto il nome di Apollo da’ Megarefi guarda- to , e
Umilmente una pietra fu la sì celebre Ve- nere Pafia , il di cui
Santuario tanta venerazione rifico Uè non pur dall’ Ifiola di Cipro , ma
dalla Grecia tutta, e dall’ Alia minore. Venere Pafia, che ha data
occafione , e primo impullò al mio fieri vere , quella fi a appunto , che
ornai gli dia compimento. Il di lei Simulacro viene da
Maflimo Tirio ( 6 ) ad una piramide bianca paragonato . Noi però
più efatta ne prenderemo la detenzione da Tacito ( 7 ) , le di cui parole
nel fiuo nativo linguaggio mi fo lecito di produrre : Haud crtt lon- gum
initi a religionis , temyli fitum , formanti Dea 9 ncque alibi fic
habetur , vaucis dijjerere. Simulacrum Dea non effigie fiumana continuus orbis
, la - tiore initio tenuem m ambitum , met a modo exurgens , C? ratio in
obfcuro - Or di quefia Venere Pafia noi coi noftri proprj occhi ne
potremo facilmente rilevar Ja figura tutta appunto conforme *
alla C o f. 29. ( 2) I. f 3 ) 4. 12, co «$• Eleg. 1.
lib. I. O) Nam veneror, jèu Jìiyes habet defertus in agris ,
$eu vetits in trivio florida Certa lapis f Eleg. io. lib. I..
Sed yatrii fervute lares , coluiflis CP idem Curfarem veflros cum
tener ante lares ; Kec yudeat yrifios vos ejfe e fliyite faclos
, Sic veteris JeJes incoluiflis evi . T unc melius
tenuere fidem , cum ytniyere teSÌ 9 l Stabat in exigua ligneus ade Q$us
• (d) Orat. 38. (7) Lib , 2. 54 Dissert. sull'Origine
alla defcrizione di Tacito. Balla oflervar tre Me** daglie
riportateci dal Patino ( i). La prima bat- tuta dalla Città di Paflo a
Drulo Celare ( 2 ) . La feconda coniata da’ Cipriotti a Vefpalìano
La terza da’ Cipriotti Umilmente dedicata a Tra- mano C4J • Anzi non l’
Itola lòia di Cipro, co- me di lòpra toccai , e come attella , e
compro- va P eruditiffimo incomparabile Spanemio (5), adorò la
Venere Pafia . Il di lei culto propagolfi ancora in altre Nazioni , e
Città , le «juali perciò lì fecero vanto di ornare col di lei Simulacro ,
e Tempio i rovefci di lor medaglie . Fede ne fac- cia la Medaglia
di Adriano battuta da que’di Sardi nell’ Afia minore, e riferita dal
Sirmondo (< 5 ) , e Umilmente un’ altra coniata da Pergameni
fpet- tante ad Euripilo prellò il citato Spanemio ( 7 ) ; ed anche
un’ antica Corniola prodotta dall’ Ago- ltini , fenza accennare però, le
Greca, o Roma- na ( 8 _) . Ed io lòn di parere , che dal tempo , e
dagli Eruditi altri limili monumenti o fcoperti lì fieno , o (coprire lì
pollano dinotanti la venera- zione dilatata, in che lì ebbe quella folle
Palla divinità, e infieme comprovanti la veridica deferii zione ,
che del di Lei Simulacro Tacito ci rap- prefenta . Debbo però confettare
, che quanto ne* monumenti addotti io riconol'co per vera ed el'at-
ta la delcrizione mentovata , mi lòrprende altret- tanto il modo , con
cui Tacito la conclude : Me- t.r modo exurgens , ei dice , i? ratio in olj'curo
. Pof- fibile , che ad un Uom si erudito , quale fu Taci- to, sì
gran meraviglia facelle il mirar Venere Pafia in figura di un cono , o di
una piramide ? Non dovea egli piuttollo da una tale figura defumere
1* antichità di tal Simulacro , o almeno la derivazio- ne di
C 1 J Imy. Roin. Numis . (*2 ) Ibi pag. 80. C 3 ) (4) Ibi pag. J 3 o. ( $ ) De
Praeft. , t? Ufìi Numism. Dijf. 5. ) Colleg. del- le Med. del Col.
Chiaram. di Parigi . ( 7 ) Ibi . C»J DiaL 5. pag. 176.
ne di una veturtilfima coltomanza ? Non dovea Ta- pe re , che ne’ più
rimoti tempi, e come Trogo di- cea , ab origine rerum , altri Simulacri
non ebbero i Numi , che o pietre quadrate , o piramidi , od obe-
lifchi , o coni , o colonne di legno , e di fallo ? Come ignorar potea il
conico Simulacro d’ Apollo in Megara , e del Sole in Ed e Ila , e gli
obelifchi, è le piramidi al Sole ideilo alzate in Egitto ? Come gli
ufeiron di mente i furti, o colonnette rozze di legno , e le impolite
pietre , che per di lui alfer- zione rifeuoteano le adorazioni della
Germania ? Come sfuggirono alla di lui maflima erudizione le due
colonne porte a Giove nel Tempio d’ Ercole in Tiro ; come le altre molte
collocate nel Tempio di Gadi ; come le due confecrate al Sole dal
Re Ferone nel di lui Tempio in Egitto? Tante co- lonne infine fi J
, con cui adombrar (i folevano e Giove , e Giunone , e Bacco chiamato
perciò TUputiovios Colutnnarius , e Apollo detto Ayiftfs Compitali
, ed Ercole , e Marte , e Bellona , non do- vevano farlo falire all’
origine delle cole , ai colto- mi dell’antica, e primiera rozzezza, e
deporre la meraviglia circa la forma del Simulacro di Venere Pafia
? Ma qual cofa Tacito fi penfaflè in quella Tua fofpenfione, egli fel
vegga, e noi non ce ne brighe- remo altrimenti. Raccoglieremo
bensì le vele ad una Dillerta- zione , che in vallo pelago trafeorfe
ornai troppo lungi. Voi, o dottiamo Sig. Conte, farete telfi- monio
o del Tuo felice tragitto, o del Ilio infaufto naufragio ; e onorar
dovrete o di compatimento i fuoi rilicofi viaggi , o i luoi errori di
correzione . Se 1 amor proprio non mi fa velo al giudizio , ere.
c " e ^ della tratto avelie a qualche porto di 1 ufficiente
probabilità 1 opinione da Voi propolla- ™ l . \ c }°£ che i Simulacri più
vernili delle pagane Divinità follerò di quadrata, o di rotonda figura
, o al- C O Ue^io Aìnetan. Qjiejì . lib. 3<5
Dissert. SuliTdolatria; ( o almeno tendente a rotonditi . Un più
ralente Piloto e di forze , e di tempo , e di finimenti più agiato
faprà condurla felicemente ad un porto di fìcurezza . Quanto a me , fe
altro non averti po- tato ottenere , Tarò almeno contentiamo d
avervi f er alcun modo tellimoniata la mia. ubbidienza , alto
pregio , in che tengo 1’ autorità voftra , e ij voltro merito Angolare
. l'idi t prò lUtàe , ac Revino D. V. Domini co Al archi one
Mancinforte Epifcopo F aventino Albertus Raccagni Farocbus Sanfli
Antonini. Fr. Angelus Maria Merenda Ordinis Predicato- rum
Sacra Scripturx LeElor , ac f^icartus Gg~ neralis SaaEli Offici* F aventi
a . In tale direzione, si riscontra la necessità di condurre la
ricerca a un livello sem iotico-sem iosico, ricorrendo alla sem iotica di
Peirce, e in particolare alla sua definizione di “interpretante iconico”, segno
creativo capace di comprendere meglio ciò che è altro dall’identico, ciò che
differisce dal segno “idolo”. Attraverso una semiotica dell’interpretazione, si
cercherà quindi di spiegare teoricamente il funzionamento degli elementi che
compongono un testo, per una comprensione del concetto di scrittura e le
prospettive che questa propone per la costruzione di un approccio critico alla
problematica della lettura del testo BACON, LE QUATTRO SPECIE DI IDOLI
Bacon espone in queste pagine la sua teoria sugli idola (i pregiudizi) che
occupano la mente umana e le rendono difficile “l’accesso alla verità”. Bacon,
Novum Organon, Gli idoli e le false nozioni che penetrarono nell’intelletto
umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti
umane in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura (una
volta che quest’accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno
causa di molestia nella stessa instaurazione delle scienze: almeno che gli
uomini, preavvertiti, non si agguerriscano, per quanto è possibile contro di
essi. Quattro sono le specie degli idoli che assediano le menti umane. Per
farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo la prima specie idoli
della tribú; la seconda idoli della spelonca; la terza idoli del mercato; la
quarta idoli del teatro. XLI Gli idoli della tribú sono fondati sulla
stessa natura umana e sulla stessa tribú o razza umana. Pertanto si asserisce
falsamente che il senso umano è la misura delle cose ché al contrario tutte le
percezioni, sia del senso sia della mente, derivano dall’analogia con l’uomo,
non dall’analogia con l’universo. Rispetto ai raggi delle cose l’intelletto
umano è simile a uno specchio disuguale che mescola la sua propria natura a
quella delle cose e la deforma e la travisa. XLII Gli idoli della
spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle
aberrazioni proprie della natura in generale) ha una specie di propria caverna
o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura
propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della
conservazione con gli altri, o della lettura di libri e dell’autorità di coloro
che si onorano e si ammirano, o a causa della diversità delle impressioni a
seconda che siano accolte da un animo preoccupato e prevenuto o calmo ed
equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli individui)
è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò
giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro mondi
particolari e non nel piú grande mondo a tutti comune. Vi sono poi gli
idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del
genere umano: li chiamiamo idoli del mercato a causa del commercio e del consorzio
degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi
vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna
imposizione ingombra in molti modi l’intelletto. D’altra parte le definizioni o
le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si provvidero e con le quali si
protessero in certi casi, non sono in alcun modo servite di rimedio. Anzi le
parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli
uomini a controversie e a finzioni innumerevoli e vane. XLIV Vi sono
infine gli idoli che penetrano negli animi degli uomini dai vari sistemi
filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del
teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state ricevute o create
come tante favole presentate sulla scena e recitate che hanno prodotto mondi
fittizi da palcoscenico. Non parliamo solo dei sistemi filosofici che già
abbiamo o delle antiche filosofie e delle antiche sètte perché è sempre
possibile comporre e combinare moltissime altre favole dello stesso tipo: le
cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi comuni. Né abbiamo
queste opinioni solo intorno alle filosofie universali, ma anche intorno a
molti princípi e assiomi delle scienze che sono invalsi per tradizione,
credulità e trascuratezza. (Il pensiero di F. Bacon, a cura
di P. Rossi, Loescher, Torino. The idol fixes one's gaze on itself ; the icon ,
for its part , demands that one go throughGrice: “Cattaneo’s philosophical
background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his philosophical
abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was at St.
Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a ‘continental’ was
watching! Cattaneo is especially good in the study of Roman-Italian
giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni, onwards! They
don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo. Mario
Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, idolo, idol of the
market place – bentham -- autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A.
Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario, scuola
oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin,
il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il
nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice.
Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le
legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita, concetti di
priorita, priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo
giuridico, positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani.
Storia della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi,
Lorenzini, Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura
italiana, fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura
ed implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool
Library. Cattaneo.
Grice e Catucci: l’implicatura
conversazionale d’ego et alter, E ed A – I giocchi cooperativi – Meinong et al.
teoria del valore -- l’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Grice. Filosofo italiano. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read
profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian
phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher,
viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” -- Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via
‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics
the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre
opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven
Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La
Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della
musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto
Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri);
Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a
Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a
Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed.
Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca
presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui
manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di
carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica
trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi
husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è
stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio
spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri).
Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per
Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La
linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in
particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed.
Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto
ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra
l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival
Wired di Milano, e al Congresso
Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di
Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora
regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino,
Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo
filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it
di Firenze, L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Estetica Elementare - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica
in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come filosofia C. - 01a
Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi
di estetica) - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria,
natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza C.- 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Parole del XXI secolo - - Il Kitsch: ieri, oggi,
domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Riga - Aesthetics and
Architecture Facing a Changing Society Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, )
Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata C. - 03a Saggio,
Trattato Scientifico Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e
ampliata C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico Il corpo e le forme. Note sul discorso
spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter of
art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro C. - 02a Capitolo o Articolo
book: Terre in movimento - The Prison Beyond its Theory. Between Michel
Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Prison Architecture and Humans - Postfazione C. - Prefazione/Postfazione
book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri nella composizione -
Prefazione. Vite di architetture infami C. - 02c Prefazione/Postfazione book:
Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su
Michel Foucault C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico Prefazione a L.
Romagni, Strutture della composizione C. - 02c Prefazione/Postfazione book:
Strutture della composizione. Architettura e musica - - Presentazione. Leo
Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo della
matematica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La vetrata
artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana -
A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro, Francesca;
Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo;
Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference:
16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC
2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on
Environment and Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo C. -
02a Capitolo o Articolo book: I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di
Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua ombra Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo -
(La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli uomini infami Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma:
Castelvecchi, = Materia primordiale e Growing Design Catucci, Stefano;
Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze: Alinea,
Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design -
Antropomorfismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - Arte C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica -
Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - (Sovrastruttura C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il nome del presente. The name of the
present Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: DOMUS (Rozzano Milan
Italy: Editoriale Domus) Imparare dalla Luna C.- 03a Saggio, Trattato
Scientifico book: Imparare dalla Luna - Filosofia dell'eccedenza sensibile C. -
02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa - La Gaia estetica C. - 02a Capitolo o
Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi
offerti in onore di Luigi Russo - - Conversazione con S. Gregory, Paola; C. -
02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste -
La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera
d'arte. C. - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie,
esperienze, competenze - Metamorfosi: un'architettura dopo il postmoderno C. -
02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del
progetto - - Mission to Mars- C.- 01a Articolo in rivista paper: HORTUS (Roma:
Facoltà di Architettura "Valle Giulia", universita' la
"Sapienza" Direttore -Necessity and Beauty C. - 02c
Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning
and organization - Eyes Wide Shut.
Architecture without Philosophy C. - 04b Atto di convegno in volume conference:
The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia -
Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance
of Philosophy in Archtectural Education - Estetica della speranza C. - 02c
Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - "Reimparare a
sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Foucault Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da
Valéry -Visione e dispersione. La regia architettonica di Luigi Moretti
Catucci, Stefano - Atto di convegno in
volume conference: Luigi Moretti architetto del Novecento (Facoltà di
Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Luigi Moretti
architetto del Novecento - Critica del contesto C. - 01a Articolo in rivista
paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio Internazionale
di Strategie editoriali, -Avezzano (AQ):
Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara: Clua)
Essere giusti con Marx C. - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx:
paralleli e paradossi - La terza dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le
utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen C. - 01a Articolo in rivista paper:
ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques
domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b
Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9.
Edizione dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a
un'architettura della relazione C. Capitolo o Articolo book: L'esplosione
urbana - I generi musicali: una problematizzazione C. Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II,
Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica C. -
Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di
discipline - Il progetto di architettura come sintesi di discipline C.;
Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico Il lavoro della
dispersione C.- Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli
altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a
Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Tutto quello
che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè.
Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; C.;
Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone -
Capitolo o Articolo book: Parlare di musica Costruire, abitare, patire C. - Capitolo o
Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del parlare
obliquo: la musica classica alla radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Parlare di musica - La proprietà intellettuale come problema
estetico Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma:
DeriveApprodi) L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano:
Costa & Nolan, - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale
Faenza Editrice) Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere C. Atto
di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via
dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di
comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo
nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana)
book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo
millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi
della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista:
«Gomorra» Dizionario di Estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Il colosso senza immaginazione Catucci, Stefano
02a Capitolo o Articolo book: Osservatorio Nomade: immaginare Corviale.
Pratiche ed estetiche per la città contemporanea Il visibile e l’invisibile.
Riflessioni sul potere in Foucault C.- 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza
e potere. Le illusioni della trasparenza - Un passato che non passa. Bachelard
e la fine dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Trevi - Corridoi Transeuropei C.
- 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi
Milano: Costa & Nolan, La “natura” della natura umana Catucci, Stefano -
Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere
politico. - Estetica e Architettura C. Capitolo o Articolo book: Contaminazioni
culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e
Recupero Insediativo - (Criticare l’estetica per criticare il presente C. - 01a
Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi
Milano: Costa & Nolan, Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO
PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Michel Foucault: dalla novità
storica all’estetica dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi La pensée picturale Catucci, Stefano
- 04b Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Foucault: La
littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la
littérature, les arts - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la
filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato.
Per un museo letterario del ‘900 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM
DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande
Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács C. - 03a Saggio, Trattato
Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il
senso; a partire da Lukács - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano Articolo in
rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa
& Nolan, Estetica dell'abitare C. - 02a Capitolo o Articolo book: La nuova
Estetica italiana - Spazi e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela
Ambiguità C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica
Poetica Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Architettura, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Censura Ca. - 02d Voce
di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Distruzione delle
opere d'arte C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica
- Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica C. - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fotografia, teorie della
C. Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica Kitsch C.Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Marxista, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Musica, teorie della Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Opera d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia Dizionario : Dizionario di Estetica - Originalità C/ Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci,
Stefano Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo
C.- 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Retorica Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Rispecchiamento C.- 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Ritmo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica
- - Scientifica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario
di Estetica - Sociologia dell'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Storicità C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Struttura C.- 02d Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica C. - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche C. -
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Tipico C. - 02d
Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Autenticità C.-
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto
estetico C. -Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Estetica e politica C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario
di Estetica - Fra tempo e spazio:
rassegna sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan) - Estetica
della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La cortina
invisibile - Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez
le jeune Lukács C. - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi
di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela - Gli animali di Céline
Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA
(Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 1Turin Italy:: tina.cesaro rosenbergesellier.it,
Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio»
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica -
La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico
book: La filosofia critica di Husserl - La fenomenologia negli Stati Uniti:
metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Specchi
americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La fenomenologia come teoria
estetica. Note in margine a: Recensione a F. Fellmann, Phänomenologie als
ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: STUDI DI
ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis, 2014- Bologna: CLUEB) La Teoria
Cooperativa Come accennato in precedenza, l’idea di gioco cooperativo `e stata
introdotta da von Neumann e Morgenstern. Il contributo del loro libro `e fonda-
mentale per aver reso lo studio dei giochi una disciplina sistematica, e per
aver proposto un cambiamento radicale nel modo di studiare i problemi
dell’econo- mia, delle scienze politiche e di quelle sociali. Il metodo
proposto consiste nel tradurre i problemi in giochi opportuni, nel trovare le
soluzioni di questi con le tecniche sviluppate dalla teoria, e nel ritradurre
le soluzioni trovate in termini di comportamenti economici ottimali. L’idea di
gioco cooperativo nasce, come gi`a accennato in precedenza, dall’esigenza di
analizzare il comportamento razionale di agenti che interagiscono in situazioni
non strettamente competitive. In tal 15Strategia dominata invece `e quella tale
che, ne esiste un’altra che procura al giocatore maggiore utilit`a, qualunque
cosa faccia l’altro. Una strategia dominata non pu`o far parte di un equilibrio
di Nash. caso `e ragionevole pensare che i giocatori possano fare
alleanze, formare coali- zioni ecc. Ogni coalizione sar`a in grado poi di garantire
una certa distribuzione di utilit`a all’interno dei suoi membri. Che cosa
distingue il gioco cooperativo da quello non cooperativo? Il fatto che si
ipotizzi la nascita delle coalizioni non significa che si suppone che i
giocatori siano diversi, meno egoisti; le coalizioni sono uno strumento
possibile per ottenere migliori risultati individuali, come nel caso non
cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra cosa: secondo J.
Harsanyi, premio Nobel, con Nash, per l’Economia, un gioco `e defi- nito cooperativo
se gli accordi tra i giocatori sono vincolanti. In caso contrario, il gioco `e
non cooperativo. All’interno dei giochi cooperativi, la teoria distingue fra
quelli TU (utilit`a trasferibile ) e quelli NTU (utilit`a non trasferibile).
Qui ci limitiamo a qualche esempio di gioco TU, gi`a sufficiente comunque a
introdurre le idee principali di questo approccio. Per definire un gioco
cooperativo abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . , n} dei giocatori, e
dal dato, per ogni A ⊂ N, di un numero reale, denotato con v(A). A ⊂ N rappresenta una possibile
coalizione, e v(A) rappresenta l’utilit`a, o in altri casi un costo, che la
stessa `e in grado di garantirsi se i giocatori di A si alleano. v `e detta la
funzione caratteristica del gioco. Il modo migliore di capire l’idea sottostante
questa definizione `e di illustrarla con qualche esempio. Esempio 10. (Due
compratori e un venditore). Due persone sono interessate ad un bene che `e in
possesso di una terza persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo valuta
meno di chi lo vuole comprare (altrimenti non c’`e situazione di interazione
tra i tre). Fissiamo per esempio a 100 il valore che il possessore assegna al
bene. Gli altri due, che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano il bene 200
e 300. Possiamo allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le coalizioni sono
otto: {φ, {1}, {2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} = N}16. Possiamo
inoltre porre v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0, v({1, 2}) = 200,
v({1,3} = v(N) = 30017. Esempio 11. (Due venditori e un compratore).
Consideriamo invece il caso di un compratore (giocatore 1) e due venditori
dello stesso bene; la situazione pu`o essere descritta efficacemente ponendo
v(A) = 1 se A = {1, 2}, {1, 3}, {1, 2, 3}, zero altrimenti. In questo caso,
quando la funzione caratteristica v assume solo valori zero e uno, il gioco si
chiama semplice, e v assume piu` il significato di indice di forza della
coalizione (A `e coalizione vincente se e solo se v(A) = 1). Il gioco non
cambia se al posto di 1 mettiamo un altro numero positivo. 16φ rappresenta
l’insieme vuoto, cio`e la coalizione che non contiene giocatori. Anche se pu`o
sembrare inutile, `e invece opportuno tenerla in considerazione; qualunque sia
v, si assume che v(φ) = 0. 17Perch ́e abbiamo definito in questo modo il gioco?
Vediamo un paio di casi. Ad esempio, v({2,3}) = 0 perch ́e la coalizione {2,3}
non possiede il bene, v({1,3}) = 300 perch ́e la coalizione {1, 3} possiede il
bene, che valuta 300 (infatti non se ne priva per meno). Esempio 12. (La
pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a per azioni). Gli Esempi 4, 5 e
6 sono anch’essi descrivibili come giochi cooperativi. Nel caso della pista
dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non un’utilit`a. E` naturale pensare
che a una coalizione venga assegnato il costo della pista piu` lunga necessaria
per le compagnie che formano la coalizione. Dunque si ha v({1}) = c1, v({2}) =
c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) = v({2,3}) = v(N) = c3. Il caso della
bancarotta, anche se si intuisce facilmente che `e un problema analogo a quello
dell’areoporto, `e un pochino piu` complicato, perch ́e non `e chiaro a priori
che cosa una coalizione possa garantire per s ́e. Una stima molto prudente
potrebbe essere quello che rimane dopo che tutti gli altri creditori sono stati
pagati. Nel caso della societ`a per azioni, siamo in presenza di un gioco
semplice, e daremo valore 1 a quelle coalizioni in grado da avere la
maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi di votazioni (semplice,
qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco cooperativo con N = {1, 2,
. . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore ad n componenti, ciascuna
delle quali `e un numero reale. Il significato dovrebbe essere chiaro: se (x1,
x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e l’utilit`a assegnata (o il costo,
se v rappresenta dei costi) al giocatore i. Tanto per fare un esempio, nel caso
dei due compratori e un ven- ditore, se proponessimo come soluzione
(100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del gioco prevede un’utilit`a di
100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione invece rappresenta un modo
per trovare vettori che soddisfino parti- colari propriet`a. Ad un gioco una
soluzione pu`o associare un insieme grande di vettori, ad un altro nessun
vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene osservare che la soluzione in
genere non `e interessata a quanto viene assegnato alle coalizioni, ma solo a
quel che viene dato ai giocatori: ancora una volta va ricordato che le
coalizioni sono solo un mezzo che gli individui utilizzano per ottenere il
meglio per s ́e. L’idea di gioco cooperativo `e cos`ı generale da rendere
necessaria l’introduzione di molti concetti di soluzione: qui accenniamo
rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una soluzione deve per prima cosa
essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . . . , xn) tale che: 1. xi ≥
v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. Si richiede cio`e ad ogni
soluzione di godere delle propriet`a di razionalit`a indivi- duale e di
efficienza collettiva: ogni giocatore deve ricavare almeno quel che `e in grado
di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto l’utile disponibile
18Per il momento, non ci poniamo il problema se la suddivisione di utili
proposta sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire che cosa significa in
questo modello soluzione. 19Ad esempio sono imputazioni i vettori (100,100,100)
nel gioco dei due compratori e un venditore (Esempio 10), ( 13 , 13 , 31 ) nel
gioco dei due venditori e un compratore (Esempio 11), mentre in quest’ultimo
non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1, 1). va distribuito (e ovviamente non di
piu`)20. Questa richiesta `e quindi da rite- nere minimale. In realt`a, visto
che le coalizioni sono possibili, sembra naturale richiedere che esse stesse
gradiscano una distribuzione di utilit`a, altrimenti una parte dei giocatori
potrebbe ritirarsi. Si arriva cos`ı ad uno dei concetti fonda- mentali di
soluzione: il nucleo del gioco v `e l’insieme di quelle distribuzioni di
utilit`a che nessuna coalizione ha interesse a rifiutare. D’altra parte, la
coalizione A rifiuta quel che le viene proposto se la somma delle utilit`a
proposte ai suoi giocatori `e inferiore al valore v(A) che, come detto,
rappresenta quel che lei `e complessivamente in grado di procurarsi. Per capire
meglio l’idea vediamo di caratterizzare il nucleo in un esempio semplice:
quello dei due venditori e un compratore (Esempio 11): un elemento del nucleo
`e un vettore x fatto da tre elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora
scriviamo i vincoli che questo vettore deve soddisfare: x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0
x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 . x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1 La
prima riga impone le disequazioni relative alle coalizioni fatte dai singoli
individui: essi non accettano meno di zero, evidentemente. La seconda riga
riguarda il vincolo imposto dalla coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di
garantirsi 1, quindi la somma di quel che viene proposto ai giocatori 1 e 2,
cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima
coalizione N = {1, 2, 3}. Ora, confrontando l’ultima equazione con la seconda
si vede che deve essere x3 ≤ 0, ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0.
Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma delle utilit`a deve essere uno, allora
x1 = 1. Quindi il nucleo consiste del solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che
cosa ci propone il nucleo in alcuni dei giochi introdotti in pre- cedenza. Nel
gioco dei due compratori e un venditore (Esempio 10), la soluzione proposta dal
nucleo `e che il primo vende l’oggetto al terzo (che lo valuta di piu` rispetto
al secondo), ad un prezzo che pu`o variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il
nucleo propone in questo caso piu` spartizioni possibili). Nel gioco invece in
cui ci sono un compratore e due venditori dello stesso bene, come abbiamo visto
il nucleo consiste nell’unico vettore (1,0,0), il che significa che il
compratore ottiene il bene per nulla. E` interessante notare che, nel primo
esempio, il ruolo del secondo giocatore, che pure alla fine non fa nulla, `e
messo in evidenza dal fatto che il prezzo di vendita `e influenzato dalla sua
presenza. D’altra parte que- sto `e logico: se il terzo facesse un’offerta
minore di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a sua volta fare un’offerta
superiore, fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se non si assume esplicitamente,
l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A ⊂ N `e verificata in quasi tutti i giochi interessanti. Anzi,
spesso i giochi verificano l’ipotesi detta di superadditivit`a, che cio`e v(A ∪ B) ≥ v(A) + v(B) se A ∩ B = ∅, che stabilisce che l’unione
fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere che i giocatori si
metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a v(N). In
questo caso il nucleo propone tante soluzioni possibili. Nel secondo caso ci`o
che indica il nucleo `e un fatto ben noto in economia, anche se qui espresso in
maniera brutale: l’eccesso di offerta mette i venditori in balia del
compratore. Infatti nel nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al
compratore, nulla ai venditori. Altre soluzioni, come vedremo, propongono una
soluzione diversa, che tiene conto del fatto che in qualche modo i due
venditori non sono del tutto inutili. Un esempio ancora piu` interessante di
come il nucleo possa proporre soluzioni bizzarre `e il famoso gioco dei guanti,
di cui esistono infinite varian- ti: una versione che ne mette bene in luce la
stranezza `e quando si hanno 4 giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno
e due guanti sinistri, rispettiva- mente, mentre il terzo e quarto un destro
ciascuno. Naturalmente lo scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti.
In questo caso il nucleo `e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che
significa che i possessori di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza)
devono cedere il loro per nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se
si pensa che il giocatore due potrebbe cambiare la situazione semplicemente
eliminando un guanto in suo possesso. A dispetto del fatto che a volte le
soluzioni proposte dal nucleo sembrino controintuitive, esso rappresenta un
concetto di soluzione molto importante, so- prattutto in applicazioni
economiche. Per`o il nucleo presenta ancora un altro problema: `e facile
verificare che in molti casi pu`o essere vuoto! L’esempio piu` semplice `e
quando siamo in presenza di tre giocatori che si devono spartire a maggioranza
una somma fissata (possiamo porre l’utilit`a della stessa uguale a 1). In tal
caso le coalizioni di due giocatori risultano vincenti (v(A) = 1) se il numero
dei componenti la coalizione A `e almeno due, 0 altrimenti-ancora un gioco semplice-
ed un calcolo immediato mostra che il nucleo `e vuoto21. Il che rende
indispensabile la definizione di altre soluzioni, che possano suggerire pos-
sibili spartizioni anche nel caso in cui almeno una coalizione non sia
soddisfatta della spartizione proposta. Una soluzione, che qui illustro solo a
parole, con- sidera, per ogni possibile imputazione, il grado di
insoddisfazione e(A, x) della xi. L’imputazione x sta nel nucleo, ad esempio,
se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni A, cio`e se nessuna coalizione si lamenta. Se
per`o il nucleo `e vuoto, allora qualunque sia la distribuzione proposta c’`e
almeno una coalizione che si lamenta. Che fare in questo caso? Un’idea
intelligente `e di considerare, per ogni imputazione x, il lamento della
coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella che si lamenta maggiormen- te), e
poi scegliere quella distribuzione di utilit`a efficiente che minimizza questo
lamento massimo. Se poi sono molte le distribuzioni che hanno questa
propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle che minimizzano il secondo
massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in questo modo si arriva ad
un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata il nucleolo del gioco.
Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di vendita `e 250, e cio`e il
prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del nucleo. Le condizioni x1 +
x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle coalizioni formate da due
giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 + x2 + x3) ≥ 3, che `e in
contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2 + x3 = 1. Quindi il
nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione dell’imputazione x: e(A, x)
= v(A) −
i∈A
intermedio fra quello minimo e quello massimo proposti dal nucleo; nel
gioco di maggioranza a tre giocatori, propone l’imputazione ( 13 , 13 , 31 ):
in questo caso ogni coalizione di due giocatori si lamenta 13 , e non `e
difficile verificare che ogni distribuzione di utilit`a diversa farebbe
lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati precedenti non sono sorprendenti,
dal momento che il nucleolo `e soluzione che gode di forti propriet`a di
simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o dare risultati bizzarri: ad
esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e natu- ralmente questo non sia
vuoto, nel gioco dei due venditori ed un compratore il nucleolo assegna tutto
al compratore. Passiamo al terzo concetto di soluzione che qui consideriamo: si
chiama indice di Shapley. La sua formula `e un po’ complicata, ad una prima
lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi non si capiscono i dettagli, come
ha scritto Nash nella sua celebre tesi, questo non impedisce a chi vuole di
capire lo stesso le idee. Dunque, intanto va osservato che questa soluzione,
come il nucleolo, ha l’interessante propriet`a di assegnare un’unica
distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore. La indichiamo con S, in onore di
Shapley. Risulta cos`ı definita, per un qualunque gioco v22: Si(v) = (a − 1)!(n − a)![v(A) −
v(A \ {i})]. i∈A⊂N n! L’indice di Shapley
associa al giocatore i i contributi marginali23 che esso porta ad ogni
coalizione, pesati secondo un certo coefficiente (per la coalizione A \ {i}
esso `e (a−1)!(n−a)! ). Tale coefficiente ha un’interpretazione probabilistica
inte- n! ressante: supponendo che i giocatori decidano di trovarsi
per giocare, in un certo luogo e ad una data ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)!
rappresenta la probabilit`a n! 24 che i al suo arrivo trovi gli altri
giocatori della coalizione A, e solo loro . Nel gioco di maggioranza semplice
fra tre giocatori, l’indice di Shapley pro- pone ( 31 , 13 , 13 ), come il
nucleolo. Nel gioco dei guanti, invece la soluzione `e ( 1 , 7 , 7 , 7 ).
Vettore che presenta caratteristiche interessanti: tiene conto del 4 12 12 12
fatto che c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri, il che rende un po’
piu` debole degli altri il giocatore uno; il secondo ne risente relativamente,
perch ́e sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la domanda dei giocatori
col guanto destro. Questo mostra che il valore tiene conto di altri aspetti,
ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha applicazioni importanti anche nei
giochi semplici. Come esempio, si pu`o pensare all’analisi della composizione
di un Parlamento, potreb- be essere il Parlamento Europeo, o il Congresso negli
Stati Uniti. Il problema fondamentale in questi casi `e come ripartire i seggi
fra i vari stati. Tutti i metodi di ripartizione dei seggi hanno dei difetti:
esiste persino un celebre risultato che lo afferma: si tratta del teorema di
Arrow (un altro vincitore del Premio Nobel 22Data una coalizione A, indicheremo
con a la sua cardinalit`a, cio`e il numero dei giocatori che formano la
coalizione A. 23Il contributo marginale che il giocatore i porta alla
coalizione C `e la quantit`a v(C ∪ {i}) − v(C). Chiaramente pu`o essere interpretato come l’apporto
che il giocatore porta alla coalizione. 24Assumendo equiprobabile l’ordine
d’arrivo dei giocatori. per l’Economia), forse il piu` celebre di tutte le
Scienze Sociali. Il valore Shapley `e quindi uno dei modi possibili per
valutare il potere dei giocatori in un gioco. Per concludere, ecco la risposta
che d`a l’indice di Shapley al problema di come suddividere le spese per la
costruzione della pista dell’aeroporto (Esempi 4 e 12): il primo paga 13c1, il
secondo 12c2 − 16c1, il terzo c3 − 16c1 − 12c2. Detto cos`ı non sembra molto
significativo ma, per prima cosa `e utile osservare che la somma dei tre
pagamenti fa proprio c3, il che mostra su un esempio quel che `e vero sempre, e
cio`e che l’indice `e efficiente; poi, e questo `e molto interessante, il
risultato, ha la seguente interpretazione molto naturale: il primo, che da solo
spenderebbe c1, divide questa spesa equamente con gli altri due, che usufrui-
scono dello stesso servizio. Il secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di
c2 − c1: questa spesa viene equamente divisa tra gli altri due che utilizzano
la pista. Il resto che manca (c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che
ha bisogno del terzo chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un
concetto gi`a espresso: il fatto che esistano tante soluzioni per i giochi
cooperativi non deve essere considerato sin- tomo di confusione. La variet`a di
situazioni che vengono descritti come gioco cooperativo impone, in un certo
senso, che si considerino diverse soluzioni possi- bili. Sta a chi utilizza
questi modelli scegliere la soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e
adatta ad ogni gioco: per esempio l’indice di Shapley per il gioco del
venditore e dei due compratori `e ( 650 , 50 , 200 ), cui sembra difficile dare
un 333 significato sensato. Per questo le varie soluzioni vengono
caratterizzate da pro- priet`a che servono a descriverle: abbiamo ad esempio
ricordato che l’indice di Shapley ed il nucleolo godono di propriet`a di
simmetria, il che significa che non privilegiano alcuni giocatori rispetto ad
altri.Stefano
Catucci. Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della
conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza
sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera,
filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”,
“la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica,
estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library. Catucci.
Grice
e Catulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Ccombatte a Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu
accolto nel suo circolo. C. e console con Mario e partecipa con lui alla
vittoria di Vercelli sui cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che
provoca l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse C., che era stato
dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna
capitale che lo attende. Compose epigrammi latini, un liber de consulatu
et de rebus gestis suis, che CICERONE loda al pari dei suoi discorsi. Gaio
Lutazio Catulo.Catulo.
Grice e Catulo: il portico a Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Cinna Catulo was a member of the Porch and a tutor of
Antonino.
Grice e Cavalcanti:
l’implicatura conversazionale del sìnolo degl’amanti -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I
like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic –
therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like
Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del
corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare
non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e
nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze,
copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue
beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne.
Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno.
Ritratto di Cavalcanti, in Rime. Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in
una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a
Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in
esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei
ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la
preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di
Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i
figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel
Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo
punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si
considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà
un'importante testimonianza attraverso un sonetto. Alighieri, priore di
Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi
delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a
Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La
condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a
causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato
oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu
amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei
che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché
meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i
due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo
ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e
nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina
Commedia e in una novella del Decameron. La sua personalità,
aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli
filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile
figlio di Cavalcante C., nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e
solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella
di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico. Noto per
il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio
(Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione
filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e.
Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata
tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” --
certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di
tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti
radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal
Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due
fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da
Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui
compiuto, diventa un emblema della leggerezza. L'episodio figura anche
nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i
fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi
mistica. La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di
cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti
composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la
ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla
sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si
risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la
presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di Johann
Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C..
I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua
canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato
sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale
che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e
l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo
le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce
che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta,
compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa –
L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che,
destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della
devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da
un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo
dell'amante. Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia
ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei
temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al
contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al
desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di
vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante. Cavalcanti e un fine
filosofo – scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma
non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia
effettivamente scritte. Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero
è di una grande sapienza retorica. I versi di Cavalcanti possiedono una
fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del
lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni
sintattiche. Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante”
(Roma-Bari: Laterza). “Species intelligibilis”, C.laico e le origini
della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C.
laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C.
(Torino, Einaudi); C.: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.:
uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno:
saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino
d'Oro,. Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario
biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La
Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana.
Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo
Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e
alquanto complessa, sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In
essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale
(“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la
natura e le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore
C. ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto
che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa
definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua
dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La
sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che
cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di
essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma
che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come,
ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso
esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità)
dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella
memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di
Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel
De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per
forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la
struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà
al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur
essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre
parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima
riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la
riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda,
invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e
dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali,
ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C.,
appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione
della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo
di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di
questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una
sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si
imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima
sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione
della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa
immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa
intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia
aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può
essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il
pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele,
dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è
impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una
parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve
l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra
componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un
esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora
intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi
producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime
nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando,
nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della
donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene
nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e
disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto
della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene
all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì
l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le
potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo
l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè,
ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli
uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun
essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In
altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno,
separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e
mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti mutua da
Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa
ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai
insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere
dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che
l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le
facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il
poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata
dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende, dunque, è
questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato
totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con
l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla
dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più
distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci
dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a
naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa
sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi
sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione
apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare
Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è
felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà
felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non
potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva;
egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo
greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita
secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è
deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di
vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima
sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa,
l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla
vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità. sìnolo
s. m. [dal gr. σύνολον, comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio
filos., termine aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n.
1 a), concepita come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò
che porta all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out among
the best known Italian poets a sonnet asking interpretation of a dream.
The god of love, so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had
fed her with Dante's own heart, and had then departed weeping.
Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a
probable solution of this, and other such distressing visions, a dose of
salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri- ously. Of
their various interpretations that which best pleased Dante, though not
quite satisfied him, was C.’s " And this," wrote Dante later in
the New Life, " was, as it were, the beginning of the friendship
between him and me, when he knew that I was he who had sent it (the
sonnet) to him." C.s interpretation was in an important
particular ambiguous. Love, he wrote, fed your heart to your lady, seeing
that "vostra donna la morte chedea" To understand this clause
as meaning " Death claimed your lady" is natural, and would
make the interpretation interestingly prophetic; but, whether or not this
reading might be justified symbolically, Dante himself forbids it. For,
in spite of his pleasure in his " first friend's " explanation
of the dream, he added : " The true meaning of this dream was not
then seen by any one, but now it is plain to the simplest." It was
easy for him after the event to read prophecy of Beatrice's death into
the dream ; but he expressly denies to Guido among the rest the
prescience. We are bound, therefore, to take as the interpreter's meaning
that there was malice prepense in the cannibal appetite of the sleeping
lady, that she claimed the death of her servant's heart. No wonder the
love god wept as he carried her off sated ! Irreverent though
it be, one thinks of The Vampire of Kipling. For Guido the gentle
Beatrice was as "the woman who couldn't understand," sucking,
asleep, in a sort of diabolical innocence, the life blood, literally
eating the heart, out of her helpless victim. And Dante, the lover, the
victim, approves the picture ! Of course the gruesomeness of this
symbolism may be explained away as merely a conceitfully emphatic
reassertion of the ancient fancy that a lover's heart is no longer his
own, but has passed into the custody of his mistress. Only, the dream
then and its interpre- tation would indeed be a much ado about nothing.
And why, at so customary a happening, should love weep? In fact, Guido's
thought cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a
sense, from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire
uplifted into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of
mysticism. Before attempting to let in light directly upon this dim
utterance it is expedient to recall certain facts in Guido's life and personality.
" Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento alio studio
" — so Guido is introduced into the Florentine Chronicle of Dino
Compagni, who knew him personally. Guido could not have been much
over twenty-five when, at the death of his father, his elder brother
being in orders, he became head and champion of one of the two or
three most powerful and aristocratic families in the republic. For
gen- erations the Cavalcanti had been leaders in the state,
haughtily contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic
inde- pendence against those who were willing to sacrifice this for
the dream of a " Greater Italy " united under a revivified
Emperor of the West. To this great feud and to the lesser local feuds
which grew out of it Guido may be said to have been a predestined, yet
mostly a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his
life long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his
best friend ; it certainly killed him before his time. It
married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene- vento,
when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell with
Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent peace by
marrying together certain sons and daughters of victors and vanquished.
Among the rest Guido Cavalcanti was wedded, or then more likely
betrothed, — for he could not have been more than fifteen, — to Bice,
daughter of the Ghibelline leader, the Florentine "
Coriolanus," Farinata degli Uberti. Seven years before Farinata had
"painted the Arbia red" with the blood of Florentine Guelphs at
Monteaperti; and it had been a kinsman of Guido who com- manded the
Guelphs on that disastrous day. We do not know how this real "
Capulet-Montague " match turned out, — only that Monna Bice bore
children to her husband and outlived him many years, and that the peace
which their union, among others, was intended to effect did not come to
pass. On the contrary the great Guelph families, after 1267 in
secure possession of the city, soon quarreled, even connived against
each other with the ever-ready Ghibelline exiles, or with popular
dema- gogues, so great was their common jealousy. Meanwhile, during
the distraction of the nobles, the middle classes had been prosper- ing ;
and coming at last to feel their strength and the weakness of those above
them, in 1293 they rebelled and crushed the aristocrats. In the first
insolence of triumph they excluded the nobles abso- lutely from public
office, but two years later conceded eligibility to such nobles as would
join one of the Arti, or trades unions. This virtual abdication of caste
Guido Cavalcanti refused to make. In vain good easy Dino pleaded with
him. " I am ever singing your praises," he wrote in a kindly
sonnet, " telling folks how wise you are, and brave and strong,
skilled to wield and ward the sword, and how compact with sifted learning
your mind is, and how you can run and leap and outlast the best. Nor is
there lacking you high birth nor wealth ... in fine, the one thing
wanting to give scope to all these gifts and powers is a mere name.
" Ahi! com saresti stato om mercadiere! " Now
almost certainly some generations back the Cavalcanti had been in trade,
and had made their fortune in trade, but latterly it had pleased them to
entertain a genealogy reaching royally back into Germany and descending
into Italy with Charlemagne's baronage. To traverse this pleasing legend
with the gross title "om merca- diere," tradesman, was out of
the question : Guido declared himself irreconcilable.
Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a temperament, had
accepted the situation even cordially, and was taking active part in the
councils of the new bourgeois regime. That Guido must have regarded his
friend's secession with disgust seems natural. It was worse than an
offense against party; it was an offense against caste. " Uomo
vertudioso in molte cose, se non ch'egli era troppo tenero e
stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido. Fastidious, exclusive,
thin-skinned, choleric, Guido was just the man to feel this consorting of
his friend with vulgar political upstarts incompatible with their own
intimacy. And the matter was made worse by its open denial of their
poetic profession of faith in the " cor gentile." This vulgar
folk was that " fango," that human " mud " of which
Guinizelli had written : Fere lo sole il fango tutto'l
giorno, Vile riman . . . how might the " gentle heart "
mix itself with this irredeemable "mud" and be not defiled? So
Guido addressed to his friend a sonnet at once haughty and tender — like
Guido himself: 1 lo vengo il giorno a te infinite volte e
trovoti pensar troppo vilmente : allor mi dol de la gentil tua
mente e d'assai tue virtu che ti son tolte. Solevanti spiacer
persone molte, tuttor fuggivi la noiosa gente, di me parlavi si
coralemente che tutte le tue rime avei ricolte. Or non
ardisco per la vil tua vita, far mostramento che tu' dir mi
piaccia, ne vengo 'n guisa a te che tu mi veggi. Se '1
presente sonetto spesso leggi lo spirito noioso che ti caccia si
partira da Panima invilita. 2 1 1 believe that Lamma, in his
Questioni Dante sche, Bologna, is the first to propose this construction
of the famous " reproach." It seems to me the best of
all. 2 1 come to thee infinite times a day And find thee
thinking too unworthily : Then for thy gentle mind it grieveth me,
And for thy talents all thus thrown away. Whether the two friends again
came together in life is not known. The next situation in which we hear
of them is tragic. Dante is sit- ting among his " first friend's
" judges ; Guido is condemned to exile, and goes — in effect — to
his death. Under the new bourgeois rule civic disorders rather
increased than otherwise. Prime mover of discord was the Florentine
" Catiline," as Dino calls him, Corso Donati. Somewhat
ineffectually opposing his self-seeking machinations were the parvenu
Cerchi, powerful only through wealth and the popularity of their cause.
With these also stood Guido. Hatred, no less than misfortune, makes
strange bed- fellows ; and the hatred between Guido and Corso was
intense. Each had sought the other's life : Corso meanly, by hired
assassins ; Guido openly, in the public street, by his own hand. Violence
followed violence ; the number of factionaries increased, until at last
in 1300 the city Priors determined to expel the leaders of both parties.
Guido was conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said,
among these Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent
with fever ; and although Guido and the Cerchi, less culpable than
Corso, were recalled within the year, it was too late. A few months
after- ward, the 28th or 29th of August, 1300, Guido died. " E fu
gran dommaggio" wrote Dino. It was a strange preparation
for "gentle and gracious rhymes of love," — this short,
tumultuous, hate-driven career. Yet there is but one direct echo of the
feudist in all Guido's verse, — a sonnet to a kinsman, Nerone Cavalcanti.
Nerone had made Florence too To flee the vulgar herd was
once thy way, To bar the many from thine amity ; Of me thou spakest
then so cordially When thou hadst set thy verse in full array. But
now I dare not, so thy life is base, Make manifest that I approve
thine art, Nor come to thee so thou mayst see my face. Yet if
this sonnet thou wilt take to heart, The perverse spirit leading
thee this chase Out of thy soul polluted shall depart. hot for the
rival Buondelmonti, and Guido hails him with ironical deprecation.
Novelle ti so dire, odi, Nerone, che' Bondelmonti treman di
paura, e tutt* i fiorentin' no li assicura, udendo dir
che tu a* cor di leone. E piu treman di te che d' un dragone
veggendo la tua faccia, ch* e si dura che no la riterria ponte ne
mura se non la tomba del re faraone. De ! com' tu fai
grandissimo peccato si alto sangue voler discacciare, che tutti
vanno via sanza ritegno. Ma ben e ver che ti largar lo pegno,
di che potrai V anima salvare se fossi paziente del mercato. 1
Guido's disdainful temper both piqued and puzzled his townsfolk.
Sacchetti's anecdote 2 of the Florentine small boy who, having slyly
nailed Guido's gown to his bench, then teased him until the irate
gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him, has
1 News have I for thee, Nero, in thine ear. They of the
Buondelmonte quake with dread, Nor by all Florence may be
comforted, For that thou hast a lion's heart they hear. And
more than any dragon thee they fear, For looking on thy face they
are as dead : Bastion nor bridge against it stands in stead, Nor
less than Pharaoh's grave were barrier. Marry ! but thou hast done
a wicked thing, Having the heart to scatter such high blood,
For without let now one and all they flee. And 'sooth, a truce-bait
too they proffered thee, So that thy soul might still be with the
Good, Hadst but had stomach for the bargaining. For the first
quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.
In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the
pope has misled him. 2 // aVm 53^ its point in a very
human satisfaction at the scorner scorned. Boc- caccio's novella 1 is
more significant, illustrating vividly, if perhaps by a fictitious
occurrence only, the subtle mingling of awe and defi- ance which Guido
inspired. Boccaccio's " character " of Guido is a eulogy.
" He was one of the best thinkers (Joici) in the world and an
accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and withal a most
engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in what- ever he
undertook, and in all that befitted his rank." This character,
together with the mood of tragic doubt upon which the point of Boc-
caccio's narrative turns, inevitably, if tritely, brings to mind
Ophelia's character of Hamlet : The courtier's, soldier's,
scholar's eye, tongue, sword ; The expectancy and rose of the fair
state, The glass of fashion and the mould of form, The observed of
all observers. . . . But, if we may still trust Boccaccio, "
that noble and most sovereign reason " of Guido was also " out
of tune and harsh " with scrupulous doubt ; " so that lost in
speculation, he became abstracted from men. And since he held somewhat to
the opinion of the Epicureans, gossip among the vulgar had it that these
speculations of his only went to establish, if established it might be,
that there was no God." Boccaccio does not call Guido an
atheist ; that was mere vulgar gossip. He does not even declare him a
convinced Epicurean, one of those who with his own father . .
. P anima col corpo morta fanno. Boccaccio's charge is qualified :
" he held somewhat to the opinion of the Epicureans " {egli
alquanto tmea della opinione degli Epicurj). Dante's commentator, indeed,
Benvenuto da Imola, is more cate- gorical and extreme : " Errorem,
quern pater habebat ex ignorantia, ipse (Guido) conabatur defendere per
scientiam." Benvenuto is even remoter in time, however, than
Boccaccio ; and his phrasing suggests at least a mere perpetuation of
that vulgar gossip which Boccaccio con- temptuously records. But can we
trust Boccaccio's own testimony? At least there is no antecedent
improbability. Skepticism was common, especially in the highly educated
class to which Guido 1 Decam^ VI, 9. belonged ;
and it was not unnatural at any rate for him to weigh carefully an
opinion held by his own father. Again, there is noth- ing in either his
life or writings to indicate an active faith. Much indeed has been made
of his " pilgrimage " to the shrine of St. James at
Compostella; but the mood of this was so little serious that a pretty
face at Toulouse was enough to change his intention. The ironical sonnet
of Muscia of Siena is a hint that his contemporaries could not take him
very seriously as a pious pilgrim; and Muscia stresses Guido's excuse for
breaking his supposed vow that there was no vow in the case — " non
v' era botio" Guido may have started in a moment of reaction from
his doubt — does not doubt itself imply a wavering will ? He may have
left Florence as a matter of prudence — Corso tried to have him
assassinated on the way as it was. As for his writings, these,
considering the intimate theological associa- tions of the school of
Guinizelli, are noticeably barren of religious feeling or phrase ; and he
certainly scandalized the worthy, if narrow, Orlandi by his jesting
sonnet about the thaumaturgic shrine of "my Lady." The
hypothetical confirmation of Guido's skepticism, on the other hand, in
his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante in his answer to the
elder Cavalcanti's question 1 why Dante's "first friend " had
not accompanied him, has beendiscredited after twenty years of support by
its own proposer, D'Ovidio. The passage is, to be sure, still a moot
question ; and D'Ovidio, even in the zeal of his recanta- tion, still
admits the allegorical taking of it to be plausible as a sec- ondary
intention on Dante's part. In any case, even waiving the confirmation,
the tradition of Guido's skepticism is not impugned ; and in view of the
persistent tradition, and of the antecedent probability in its favor, the
burden of disproof would seem to rest on those who reject the tradition.
Meanwhile, I propose to test the credibility of the tradition by assuming
it. If the assumption proves to be a factor in a coherent and credible
interpretation of Guido's poetry, the credi- bility of the assumption
proportionately increases. The argument is of course a circle, but I
think not a vicious circle. There is also another tradition, which
happens likewise to be sub- sidiary to the same end. As the one tradition
charges Guido with unfaith in religion, so the other charges him with
faithlessness in love. i Inf., X, 60. Hewlett, in his
Masque of Dead Florentines, has seized upon this supposed fickleness of
Guido as Guido's char- acteristic trait. Guido is made to say :
My way was best. From lip to lip I past, from grove to grove
: I am like Florence ; they call me Light o' Love. I am
dubious indeed about that literal criticism which surmises a "
family skeleton " in every locked sonnet. Heine assuredly reckoned
without his Scholar when he complained : Diese Welt glaubt nicht an
Flammen, Und sie nimmt's fur Poesie. When Guido writes a sonnet
describing how Love had wounded him with three arrows, — Beauty, Desire,
Hope of Grace, — it is hardly fair for Rossetti to entitle his own
translation He speaks of a third love of his. Rossetti the scholar should
have known better. Of course Guido is simply copying a conceit from the
Romance of the Rose : the three arrows are three arrows from the eyes of
one lady, not of three ladies. Again, it is almost worse when poor Guido
essays a pretty pastourelle, which is by definition a gallant adventure
between a pass- ing knight and a shepherdess, to discuss the "
peccadillo " in a solemn footnote ! Yet Rossetti, himself a poet,
does so. Nay, Guido's latest learned editor, Signor Rivalta, speaks 1 of
his singing "anche i suoi desideri meno puri e piu umani come nella
ballata : In un boschetto trovai pasturella . . ."
This ballata is the pastourelle in question. Stifl, waiving such
pseudo- revelations of a stethoscopic criticism, there are, considering
the meagerness of Guido\s poetical remains, hints enough besides
the mention of several ladies — Mandetta, Pinella, and by, inference
her whom Dante calls Giovanna — to accept with discretion sober
Guido Orlandi's perhaps malicious insinuation, when he inquires of
Guido Cavalcanti concerning the nature, the effects, the virtues of Love
: Io ne domando voi, Guido, di lui : odo che molto usate in
la sua corte ; 1 Le Rime di Guido Cavalcanti^ Bologna, 1902, p.
23. and even the cruder implication in Orlandi's boast of his chaster mind
: Io per lung' uso disusai lo primo amor carnale : non tangio
nel limo. Reckless feudist, unbeliever, " light o' love,"
squire of dames, pro- found thinker, gracious gentleman — a perplexing
motley of a man; it is no wonder that his poetry, reflecting himself,
more easily with its many-faceted light dazzles rather than illumines the
understand- ing. In addition, one has to contend in his more doctrinal
pieces, especially in the famous canzone of love, with a rigorous
scholastic terminology dovetailed into a most intricate metrical schema,
and with a text at the best corrupt. In spots Guido — as we have him —
is as hopeless as Persius; yet we may waive these and still venture
upon a general interpretation. In general, Guido's love poems hinge
upon two parallel but opposite moods, — a radiant mood of worshipful
admiration of his lady, a tragic mood of despair wrought in him by his
love of her. His sight of her is a rapture, as in the most magnificent of
his sonnets, beginning " Chi e questa che ven ":
Chi e questa che ven ch' ogn' om la mira e fa tremar di chiaritate
V a're, e mena seco amor si che parlare null' omo pote, ma ciascun
sospira? O Deo, che sembra quando li occhi gira dica '1
Amor, ch' i' no '1 savria contare : cotanto d' umilta donna mi
pare, ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira. Non
si poria contar la sua piagenza, ch' a lei s' inchina ogni gentil
virtute, e la beltate per sua dea la mostra. * Non f u si
alta gia la mente nostra e non si pose in noi tanta salute,
che propriamente n' aviam canoscenza. 1 1 Lo! who is this
which cometh in men's eyes And maketh tremulously bright the air,
And with her bringeth love so that none there Might speak aloud, albeit
each one sighs ? The sonnet is a superb tribute ; but it is also more. It
contains, as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy of love,
— namely, in the lines describing his mistress as Lady of
Meekness such, that by compare All others as of Wrath I recognize,
(cotanto d* umilta donna mi pare, ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam'
ira.) Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis
dominates Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant
of imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection,
of peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she,
the lovable, in a state of meekness, — Quiet she, he
passion-rent. The identification of passionate love with a state of
wrath is fun- damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of
the doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to
the query as to the where and whence of the passion — La ove
si posa e chi lo fa creare — he declares that In quella parte
dove sta memora prende suo stato, si formato come diaffan da
lume, — d'una scuritate la qual da Marte vene e fa dimora. 1
" In that part where memory is love has its being ; and, even as
light enters into an object to make it diaphanous, so there enters into
the Dear God, what seemeth if she turn her eyes Let Love's
self say, for I in no wise dare : Lady of Meekness such, that by
compare All others as of Wrath I recognize. Words might not
body forth her excellence, For unto her inclineth all sweet merit,
Beauty in her hath its divinity. Nor was our understanding of
degree, Nor had abode in us so blest a spirit, As might thereof
have meet intelligence. 1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition
of Ercole Rival ta, Bologna, 1902. constitution of love a dark ray from
Mars, which abides." Now Dante conceives love as an emanation from
the star of the third heaven, Venus, along a bright ray : " I say
then that this spirit (i.e. of love) comes upon the * rays of the star '
(i.e. of the third heaven, Venus), because you are to know that the rays
of each heaven are the path whereby their virtue descends upon things
that are here below. And inas- much as rays are no other than the shining
which cometh from the source of the light through the air even to the
thing enlightened, and the light is only in that part where the star is,
because the rest of the heaven is diaphanous (that is transparent), I say
not that this ' spirit/ to wit this thought, cometh from their heaven in
its totality but from their star. Which star, by reason of nobility in
them who move it, is of so great virtue that it has extreme power upon
our souls and upon other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido,
on the other hand, while accepting the notion of love as an emanation,
holds the emana- tion to be rather from the star of the fifth heaven,
Mars, along a dark ray. The power over the soul of this star is no less
extreme than that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness
rather than of light. It may strike at life itself — Di sua
potenza segue spesso morte. (v. 35) The passion which its influence
excites passes all normal bounds in any case, destroying all healthful
equilibrium : L'esser e quando lo voler e tan to ch' oltra misura
di natura torna: poi non s' adorna di riposo mai. Move cangiando
color riso e pianto e la figura con paura stoma. . . . 2 (vv.
43-47) Finally, — and here we reach the gist of the matter, — the
influ- ence of the choleric planet engenders sighs and fiery wrath in
the 1 Conv.y II, vii. (Wicksteed's translation.) 2 It
has its being when the passionate will Beyond all measure of
natural pleasure goes : Then with repose unblest forever, starts
Laughter and tears, aye changing color still, And on the face leaves
pallid trace of woes. lover, impotent to reach the ever-receding goal of
his desire (non fermato loco): La nova qualita move
sospiri e vol ch' om miri in non fermato loco
destandos' ira, la qual manda foco. 1 This strangely
pessimistic reading of love seems to have struck at least one of Guido's
contemporaries with indignant surprise, not only at the apparent slight
upon love, but also at the silence seeming to give assent of other poets,
especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his Acerba, iii, 1, denies that
so sweet a thing as love could emanate from the planet Mars, seeing that
from that planet rather " proceeds violence with wrath "
(procede Vimpeto con Fire) ; wherefore : Errando scrisse Guido
Cavalcanti. . . . qui ben mi sdegna lo tacer di Danti. In
fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,
apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love —
Spesse fiate vegnommi a la mente l'oscure qualita ch' Amor mi
dona — and proceeds to describe, though not by this name, just such
a " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable
from love. With Dante, of course, the mood is but passing. For him love
is in its essence a beneficent power. For Guido also it might
seem that this tragic wrath of desire is not incurable. There is a power
in meekness to overcome wrath and to subdue wrath also to meekness. And
the meek one is impelled to exercise this power, to confer this boon, by
pity for the one suffering in wrath. It is the failure to follow this
blessed impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of
the sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that
she is one . . . for whom availeth not Nor grace nor pity nor
the suffering state. . . . (. . . verso cui non vale Merzede
ne pieta ne star soffrente. . . .) 1 The novel state incites to
sighs, and makes Man to pursue an ever-shifting aim, Till in him
wrath is kindled, spitting flame. Meekness, grace, pity, the suffering
state of wrath — the terms have a scriptural sound, and of right ; for
they are actually scriptural anal- ogies applied to love. Precisely this
poetical analogy was the innova- tion of Guido Guinizelli, whom Dante
called " father of me and of my betters," — of which last Guido
Cavalcanti was in Dante's mind first, if not alone. Before Guinizelli
Italian poets had accepted the other analogy of the troubadours of
Provence, which applied to love the canon of feudal homage. For these the
lady of desire was as the haughty baron to whom they owed servile fealty,
and whose inaccessible mood was not of gentle meekness but of cruel
pride, claiming willfully of her vassal perhaps life itself. But
feudalism and its harsh canon of service were alien to the Italian
communes ; Italian poetry built upon an analogy with it must needs be an
affectation. These burgher poets were only play knights; these frank
Tuscan and Lombard girls were only play barons. Affectation, the pen
following not the dicta- tion of the feelings but of hearsay feelings, —
this is the precise charge which Dante, from the standpoint of the "
sweet new style," brings against the older style. 1 But if as free
burghers Italians could not really feel the alien mood of feudal homage,
yet as Christian gentle- men they could, and should, sanctify their love
of women with the mood of religious awe. There need be no affectation in
that. Free burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute
baron ; Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship,
min- istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom,
as the Psalmist had declared, the Lord has beautified with
salvation. Guido therefore can no more worthily praise his mistress
than by calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further
analogy he sets her above the angels themselves; for the Christ himself
had said : "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in
heart." For him- self, " passion-rent " in his love, the
poet speaks as St. Paul, — " we . . . had our conversation ... in
the lusts of our flesh, fulfilling the desires of the flesh and of the
mind ; and were by nature the children of wrath (filii irae)" And
the merzede, the "grace," for which he sues — solu- tion of
wrath by the spirit of meekness — is again in accord with Paul's promise
to these very "children of wrath," — "By grace are ye
saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one
divinity as the other. i Purg., XXIV, 49 seq. This is pious
doctrine indeed for the righting cavalier, skeptic, Love- lace I have in
a measure assumed Guido to be. Is then his love creed also a pose, worse
than the apes of Provence whom Dante exposed, because he thus adds
hypocrisy to affectation ? Well, if so, the same Dante would hardly have
hailed him as "first friend" in life and master after
Guinizelli in poetry, nor have outraged the memory of Beatrice by
associating her in the New Life with Guido's lady Joan. The
solution of the apparent antinomy lies in the meaning for Guido of that
rnerzede, that " grace," the granting of which by ; the lady,
the meek one, might appease the lover, the one in "wrath." The
term itself — Italian merzede or English " grace " — has a
fourfold significance according as it is a function of the lady, of the
lover, or of the reciprocal relationship between them. "Grace"
in her signifies her beatitude, her "meekness"; in him, his
"merit" which through faith and loving service deserves the
boon, or "grace," of her con- descension to redeem him from his
"state of wrath," for which condescension it would be befitting
him to render thanks, "yield graces, — a phrase now obsolete in
English but used by Dante, — render mercede. Of this fourfold intention
of the term the one funda- mentally doubtful is ,the " grace "
which is constituted by the act of condescension of the lady : what then
is the grace or boon that the lover asks and hopes ? In other words, what
is the end of desire ? The answer is no mystery. The end of desire
is always possession, in one sense or another, of the thing desired. In
the practical sense possession of the loved one means union, physical or
social, or both, sacramentally recognized, in marriage ; but the
sacrament of marriage allows a more mystical sense, presenting the
ideal, hardly realizable on earth, of a spiritual union which is also a
unity of two in one : The single pure and perfect animal,
The two-cell'd heart beating with one full stroke,
Life. So Tennyson modernly ; but more in accord with the
metaphysical mood of Guido is the old Elizabethan phrasing :
So they loved, as love in twain Had the essence but in one ;
Two distincts, division one: Number there in love was slain.
To the " gentle heart " there is no love but highest love ;
there is no union but perfect union, wherein two shall Be
one, and one another's all. Until the "gentle heart " may
attain to that perfect union its desire is unappeased, its " wrath
" unsubdued. Tennyson premises it for the right marriage; but there
is ever the doubter ready to remark that if such marriages are really
made in heaven, they certainly are kept there. Human sympathy cannot
quite bridge the span between two souls: self remains self; and though
hands meet and lips touch and wills accord, there is always something
deeper still, inexpressible, unreachable. Yes ! in the sea of
life enisled, With echoing straits between us thrown, Dotting the
shoreless watery wild, We mortal millions live alone. In
vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the
division (of the primeval man-woman in one), the two parts of man, each
desiring his other half, came together, and threw their arms about one
another eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes in effect
goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered "
man-woman " by physical union ; but that consolation the "
gentle heart " must forever regard as of itself inadequate and
unworthy. There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read
further into the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built upon
that — to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of
a love extending into a mystic otherworld — at least so Christians
read her teaching — where in the bosom of God all become as one.
There "wrath" is resolved into "meekness"
perfectly. The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of
happier men of which Arnold speaks : Of happier men — for
they, at least, Have dream '</ two human hearts might
blend In one, and were through faith released From
isolation without end Prolong'd. But if Guido, even as Arnold,
lacked this faith, doubted this mystic otherworld whither therefore he
might not accompany his first friend to find his Giovanna, as Dante his
Beatrice, perfect in meekness, purged of all wrath, and to learn from her
release hereafter from the dividing flesh, union at last with her spirit
at peace ? — if he was of those, even uncertainly wavered with those,
who . . . F anima col corpo morta f anno ? — then
indeed for him, in degree as his desire was ideally exalted, so its
grace, its merzede, became an irony, a tragic paradox. His must be a
passionate loneliness forever teased by an illusion, a phantom mate of
its own conjuring. And I at least so understand the concluding words of
the canzone : For di colore d'esser e diviso, assiso
mezzo scuro luce rade : for d'onne fraude dice, degno in
fede, che solo di costui nasce mercede. 1 That is, the
only love of which grace is born, entire possession granted, is love of
the dim immaterial idea, — " la figlia della sua tnente, Vamorosa
idea" as Leopardi calls it. Ixion embraces his Cloud. Guido's lady's
desirable perfection, her " meekness," exists not in her, but
in his glorified ideal of her, " bereft " as that is " of
color 1 Bereft is (love) of color of existence, Seated
half dark, it bars the light (i.e. which might make it visible). Without
deceit one saith, worthy of faith, That born of such a love alone is grace.
Rivalta's reading without in would apparently make mezzo adverbial. The
com- moner reading, " assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more
naturally gives mezzo as a noun: " seated in a dark medium,"
etc. The meaning is not substantially different. The reading in mezzo,
however, is more suggestive, as implying not only the immateriality of
the mental fact but also the darkening of the " medium," i.e.
the imagination, by the " Martian " ray of passion. The assertion of
the invisibility of love is in answer to Guido Orlandi's question
restated by Caval- canti in v. 1 4 — " s* omo per veder lo po y
mostrare." Question and answer are alike absurd, however, unless we
understand "love" to mean the object loved, which it may
naturally do ; one's §l love " means both one's passion and one's lady.
of existence." Therefore Guido's mood is essentially one with Leo-
pardi's when the latter exclaims : Solo il mio cor piaceami, e col
mio core In un perenne ragionar sepolto, Alia guardia seder del mio
dolore. 1 Guido has himself described with quaint "
preraphaelite " symbol- ism the process of progressive detachment of
the ideal from the real in the ballata beginning " Veggio ne gli
occhi." Cosa m* avien quand* i' le son presente ch' i'
no la posso a lo 'ntelletto dire : veder mi par de la sua labbia
uscire una si belladonna, che la mente comprender no la pu6 ; che
'nmantenente ne nasce un* altra di bellezza nova, da la qual par
ch' una Stella si mova e dica: la salute tua e apparita. 2
The imagery here is manifestly in accord with contemporary
pictorial symbolism, in which souls as living manikins issue forth from
the lips of the dead; but the significance of the passage is, I take it,
at one with that of the so-called Platonic " ladder of love "
by which through successive abstractions the pure idea, the intelligible
virtue, is reached. The following stanza in the same ballata again
defines this "virtue" as "meekness," and again
declares it to be merely " intelligible," for di colore
d' esser . . . diviso, assiso mezzo scuro luce rade ; 1 Only
my heart pleased me, and with my heart In a communing without cease
absorbed, Still to keep watch and ward o'er my own smart.
2 Something befalleth me when she is by Which unto reason can
I not make clear: Meseems I see forth through her lips appear
Lady of fairness such that faculty Man hath not to conceive ;
and presently Of this one springs another of new grace,
Who to a star then seemeth to give place, Which saith: Thy
blessedness hath been with thee. only instead of the metaphysical
directness of the canzone, the poet employs the theological tropes of the
dolce stil. La dove questa bella donna appare s'ode una voce
che le ven davanti, e par che d' umilta '1 su' nome canti si
dolcemente, che s' P '1 vo' contare sento che '1 su* valor mi fa
tremare. E movonsi ne 1' anima sospiri che dicon : guarda, se tu
costei miri vedrai la sua vertu nel ciel salita. 1 And now
the tragic note in Guido's is explained. It is neither the polite
fiction, the " pathetic fallacy " of the Sicilian school, nor
yet the quickly passing shadow of this life set between Dante and the sun
of his desire. La tua magnificenza in me custodi, SI
che P anima mia che fatta hai sana, Piacente a te dal corpo si
disnodi. Cosi orai . . . 2 "So I prayed,"
writes Dante, triumphant in expectation ; but for those Che 1 'anima col
corpo morta fanno, there could be health of soul neither now nor
hereafter. Wherefore Guido's text in the analysis of his own passion is
in all literalness the words of the Preacher, — " All his days ...
he eateth in dark- ness, and he hath much sorrow and wrath in his
sickness." Until 1 There where this gentle lady comes in
sight Is heard a voice which moveth her before And, singing,
seemeth that Meekness to adore Which is her name, so sweetly, that
aright I may not tell for trembling at its might. And then within
my soul there gather sighs Which say: Lo ! unto this one turn thine
eyes: Her virtue to heaven wingeth visibly. 2 Farad., XXXI,
88-91.Guido prays indeed for release in death, not triumphantly as Dante,
but piteously, in the spirit of Leopardi's words in Amore e Morte:
Nova, sola, infinita Felicita . . . il suo (the lover's) pensier
figura : Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo
cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier
disio, Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura. 1 Poi,
quando tutto avvolge La formidabil possa, E fulmina nel cor
Tinvitta cura, Quante volte implorata Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dair affanoso amante ! 2 Precisely in this mood Guido
invokes death : Morte gientil, rimedio de' cattivi,
merze merze a man giunte ti cheggio : vienmi a vedere e prendimi,
che peggio mi face amor : che mie' spiriti vivi 1 Not only
are Guido and Leopardi saying the same thing in effect, but even their
figures of speech are in accord. There is evident similarity of symbolism
between the soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening Martian
ray of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have conceived
his " dark ray " as a real phenomenon. 2 New,
infinite, unique Felicity ... he pictures to his mind : And yet
because of it the wrath of storm Foreboding in his heart, he longs for
calm, Longs for the quiet haven Far from that fierce desire,
Which even now, rumbling, darkens all around. Then, when
o'erwhelmeth him The fury of its might, And in his heart
thunders unconquerable care, How many times he calls In agony of
need, Death, upon thee in his extremity ! son consumati e spenti si,
che quivi, dov* i' stava gioioso, ora mi veggio in parte, lasso, la
dov' io posseggio pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi
ancora in piu di mal s' esser piu puote ; perche tu, morte, ora
valer mi puoi di trarmi de le man di tal nemico. Aime ! lasso
quante volte dico : amor, perche fai mal pur sol a' tuoi come
quel de lo 'nferno che i percuote ? 1 At other times Guido
describes the combat to the death between his " spirits " of
life and love. He enlarges his canvas and, calling to aid a whole
dramatis personae of the various " souls " and " animal
spirits " of scholastic psychology, objectifies his mood into
miniature epic and drama. This mythology of the inner world arose
naturally enough to mind from the ambiguity of the term "
spirits," meaning at once bodily humors and bodiless but personal
creatures ; and in Guido's delicate handling the symbolism is singularly
effective. Only by exaggeration of imitation did it grow stale and
ludicrous, meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte
piene di 1 Gentle death, refuge of th' unfortunate,
Mercy, mercy with clasp'd hands I implore : Loo^ down upon me, take
me, since more sore Hath been love's dealing : in so evil state
Are brought the spirits of my life, that late Where I stood
joyous, now I stand no more, But find me where, alas ! I have much
store Of pain and grief with weeping : and my fate Yet wills
more woe if more of woe might be ; Wherefore canst thou, death, now
avail alone To loose the clutch of such an enemy. How many
times I say, Ah woe is me 1 Love, wherefore only wrongest thou
thine own, As he of hell from his wrings misery ?
3spiriti." The following curiously rhymed sonnet may illustrate
his manner in this kind. L' anima mia vilment' e
sbigotita de la battaglia ch* ell' ave dal core, che, s T
ella sente pur un poco amore piu presso a lui che non sole, la
more. Sta come quella che non a valore, ch' e per temenza da
lo cor partita : e chi vedesse com' ell* e fuggita diria per certo
: questi non a vita. Per gli occhi venne la battaglia in
pria, che ruppe ogni valore immantenente si, che del colpo fu
strutta la mente. Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente,
se vedesse li spirti fuggir via, di grande sua pietate piangeria. 1
It transpires then for Guido as for Leopardi that the only grace,
the only boon of peace, to which love leads is death ; and so is verified
1 The spirit of my life is sore bested By battle whereof at
heart she heareth cry, So, that if but a little closer by
Love than his wont she feeleth, she must die. She is as one
dejected utterly ; The heart she hath deserted in her dread :
And who perceiveth how that she is fled, Saith of a certainty : This man
is dead. First through the eyes swept down the battle-tide,
Which broke incontinently all defense, And by its wrath wrecked the
intelligence. Whoever he that most of joy hath sense, Yet if
he saw the spirits scattered wide, In his excess of pity must have
sighed. %\ the warning of those who came to meet him when he
first entered the court of love : Quando mi vider, tutti con
pietanza dissermi : fatto se' di tal servente che mai non dei
sperare altro che morte. 1 In reality, he knows the futility of any
appeal to his lady for aid. She is indeed the innocent occasion of his
suffering, but of it she is a mere passive spectator, hardly
understanding it, and certainly help- less to relieve it ; and so Guido
himself describes her in the sonnet beginning " S' io prego questa
donna." In the midst of his agony, Allora par che ne la mente
piova una figura di donna pensosa, che vegna per veder morir lo
core. 2 Here then at last we find the explanation of his
interpretation of Dante's sonnet, when he said that love fed Dante's
heart to his lady, vegendo che vostra donna la morte
chedea. She claimed its death not willfully indeed, as the
capricious mistress of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his
mutilation, but innocently, unwittingly, in that her beauty was as a
firebrand, her perfection, her " meekness," a goal of
unavailing consuming desire. She is helpless to relieve him, because —
and here is the core of the matter — it is not she, not the real woman,
that he loves, but that idealization of her which exists only in his own
mind — for di colore d' esser e diviso, assiso mezzo
scuro luce rade. Compared with this glorified phantom "nel
ciel (that is, into the intelligible world) salita," the real woman
also is but "ira," wrath and imperfection. So he pines for his
lady of dreams, who thus a 1 When they beheld me, unto me all
cried Pitiful : bondman art thou made of one Such that
for nought else mayst thou look but death. 2 " Into my mind then
seems it that there rays a figure of a pensive lady, com- ing to behold
my heart die." ghostly " vampire " feeds upon his human
heart ; but the real woman, " the woman who does not
understand," is no longer of moment to him. She is, as it were, but
the nameless model to his artist mind. When that has drawn from her all
that is of fitness for its master- piece, it straightway leaves her for
another otherwise completing the ideal type. Giovanna passes ; Mandetta
arrives. Una giovane donna di Tolosa bell' e gentil, d'
onesta leggiadria, tant' e diritta e simigliante cosa,
ne' suoi dolci occhi, de la donna mia, ch' e fatta dentro al
cor desiderosa P anima in guisa, che da lui si svia e vanne a
lei ; ma tant* e paurosa, che no le dice di qual donna sia.
Quella la mira nel su* dolce sguardo, ne lo qual face rallegrare
amore, perche v' e dentro la sua donna dritta. Po' torna,
piena di sospir, nel core, ferita a morte d* un tagliente
dardo, che questa donna nel partir li gitta. 1 Plainly it is
not of Giovanna, nor of any actual woman, but of his ideal woman, of whom
Giovanna herself was but a reminiscence, that 1 A lady of Toulouse,
young and most fair, Gentle, and of unwanton joyousness, So is the
very image and impress, In her sweet eyes, of one I name in prayer,
That my soul's wish is more than it can bear : Wherefore it
'scapeth from the heart's duress And cometh unto her ; yet for
distress What lady it obeys may not declare. She looketh on
it with her gentle mien, Whereunto by the will of love it
yearns, Because that lady there it may perceive. Then to the
heart it, full of sighs, returns, Unto death wounded by an arrow
keen, The which this lady loosed when taking leave. Mandetta reminds
him. In her turn Mandetta will pass also. Then will come Pinella, or
another — what does it matter? What cared Zeuxis for any one of his five
Crotonian maidens, once each in her turn had supplied that particular
trait of loveliness which only she, perhaps, had to offer, but had to
offer only ? Mentre ch* alia belta, ch* i* viddi in prima
Apresso V alma, che per gli ochi vede, L' inmagin dentro crescie, e
quella cede Quasi vilmente e senza alcuna stima. 1 The words
are Michelangelo's, but the idea is in effect Guido's. And it is an idea
which, I think, renders perfectly compatible in him con- stancy in ideal
love with inconstancy in real loves. To keep faith with perfection is to
break faith with imperfection. The love of Guido brooked no compromise.
The perfect one might be unattain- able in this life; perfect union with
her, even if found, might be impossible in this life; there might be no
other life than this so marred by the perpetual " state of wrath
" to which his impossible desire in its impotence doomed him ; yet
nevertheless Guido was willing to be damned for the greater glory of
Love. In conclusion, I would quote a passage from the elegy to
Aspasia of Leopardi, which puts into modern phrasing exactly what I
con- ceive to be Guido's intention, obscured as that is for us by
its scholastic terminology and its mixture of chivalric and
obsolete psychological imagery. Especially I would call attention to
the precisely similar way in which Leopardi, like Guido, combines in
his mood the loftiest idealization of Woman with the most
contemptuous conception of women. So Hamlet insults, even while he
adores. Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's
immortal rebuke, — when he . . . volse i passi suoi per via
non vera, Imagini di ben seguendo false. 1 While to the
beauty, which first drew my gaze, My soul I open, which looketh
through the eyes, The inward image grows, the outward dies In scorn
away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism,
ultimate unfaith, by the promise of perfect union with his ideal in
paradise. That promise Guido, like Leopardi, rejected. Here is
Leopardi's confession : Raggio divino al mio pensiero
apparve, Donna, la tua belta. Simile effetto Fan la bellezza e i
musicali accordi, Ch' alto mistero d* ignorati Elisi Paion sovente
rivelar. Vagheggia II piagato mortal quindi la figlia Delia sua
mente, l'amorosa idea, Che gran parte d* Olimpo in se racchiude,
Tutta al volto, ai costumi, alia favella Pari alia donna che il rapito
amante Vagheggiare ed amar confuso estima. Or questa egli non gia,
ma quella, ancora Nei corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin
Perrore e gli scambiati oggetti Conoscendo, s' adira . ("
Sadira /" — " is wrathful " — Leopardi's very words form a gloss
to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath directed against
the real woman, innocent occasion of his illusion and disillu- sion.
Leopardi continues :) e spesso incolpa La donna a torto. A quella
eccelsa imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ci6 che inspira
ai generosi amanti La sua stessa belta, donna non pensa, Ne
comprender potria. (" The woman who does not understand "
!) Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. E male
Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera V uomo ingannato, e mal
richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Piu che virili, in
chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu molli E piu
tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte anco riceve.
1 So the idealist skeptic of the nineteenth century aligns
himself with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that last
truly mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have
not somewhere gone off on a tangent, I have described my circle.
Guido's philosophy of love at least fits with the hypothesis of his
skepticism, and a practical consequence of both would be that actual
fickleness of heart to which tradition again bears witness. 1
A ray celestial to my thought appeared, Lady, thy loveliness. Similar
effects Have beauty and those harmonies of music Which the high
mystery of unfathomed heavens Seem ofttimes to illumine. Even so
Enamoured man upon the daughter broods Of his own fancy, the amorous
idea, Which great part of Olympus comprehends, In feature all, in
manner, and in speech Unto the woman like, whom, rapturous man, In
his false lights he seems to see and love. Yet her he doth not, but that
other, even In corporal embracings, crave and love. Until, his
error and the intent transferred Perceiving, he grows wrathful ; and oft
blames With wrong the woman. To that ideal height Rarely indeed the
wit of woman rises ; And that which is in gentle hearts inspired By
her own beauty, woman dreams not of, Nor yet might understand. No room
have those Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly
Upon the spirited flashing of that glance Builds the infatuate man, and
fondly seeks Meanings profound, undreamt-of, and much more Than
masculine, in one than man in all By kind inferior. For if more
tender, More delicate of limb, so with a mind Less broad, less
vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria
dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante
non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo
perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto. – l’amore come incontro disastroso di due
entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool
Library. Cavalcanti.
Grice e Cavallo: l’implicatura
conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro –
fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cavallo,
and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t
strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a
couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to …
electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a
‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that
it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still
sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine
abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore
di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche
studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia.
Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la
possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo
elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio
di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni
suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti,
inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali,
anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per
chiarezza, sistematicità e completezza. Si lo ricorda in particolare per
i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come
gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità
ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da
Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo
salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano
inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo
pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non
riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta
riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809);
recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di
fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via
aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito
una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con
idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi
interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la
natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy
of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard.
Storia e pratica dell'aerostazione, Tiberio Cavallo. La piastra I, che illustra
l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La
piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la
generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul temperamento musicale nel
suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono
fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella
chitarra, ecc. Il memoriale di Burdett Coutts, Old St. Pancras. Il nome di
Cavallo è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito,
fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di
Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle
molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi
lavori su diversi rami della fisic, tra cui: “Trattato completo di elettricità
in teoria e pratica” (Firenze: Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica
dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di
altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in
teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”;
“Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e
sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su
Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un
resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici del Sig. Tiberio Cavallo comunicato
dal Sig. Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO
COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI. FIRENZE, CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON
LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E
CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec.
AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi
nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e
di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è d'uno della Voſtra
Nazione, è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto i Voſtriocchi, e
quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante
Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi
brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali. Proſeguite come fate in
que queſta Voſtra generoſa in trapreſa; mentre ſotto i Vo ftri
fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di
chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei facilmente
diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in
dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima, della ſtampa che meditavo
fare della preſente verſione, anco per ſentire da ello ſe avea niente da
aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma gellan
alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte, e
traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come
èſtato eſeguito, accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente.
Signore. Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e
cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella
traduzione del mio Trattato ſull'E. lettricità. La prego fare intendere al
Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi
dato parte di queſta intrapreſa, e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che
poſſo. Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo, Sig. Magellan Nevils Court Ferter
Lane. 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA'. Pag. 2.8. v. 6. In vece di
è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre
prezioſe. Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e
finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL
TRADUTTORE } . Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così
intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi
dee omettere affatto. . Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono
aggiungere i fe guenti verſi: Il Dott. Higgins ha ultima mente inventato un
Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno, perchè una piccoliffima
quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente, ma dura anco più
lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt' amalgama è fatto
d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio meſcolati inſieme. v. 12. Si
dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe
l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto
paſſocheſono interpun tate deono ometterſi, cioè dee dir così, non ſarà
attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag. 335.v.8. Tra le parole poichè
e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di circoſtanze. Pag. 393. v. ult.
cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII.
Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che la maggior parte degli ſperimenti
in queſto Trattato riferiti ſono ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e
ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il
comodo, ed ha colla sua autorità promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice,
e godi di queſta fatica. 1. HL diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al
pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto
in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è
diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe
particolarità che avevano anche minor conneſſione col rimanente, e la cui
diſtinta veduta ſi è creduto, che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la
confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi erano prima refa
molto familiare queſta materia. La prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità;
cioè di quelle leggi naturali relative all' elettricità che per mezzo d'
innumerabili ſperimenti ſi ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono
da veruna ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par
ticolarità, la quale non foſſe chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca
conſeguen za; ma nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna
impor tante, o che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è
meramente ipote tica, non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni.
La grande improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato
l'autore a renderla più breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la
pratica dell' elettricità. Qui l'autore ha procurato d'in ferire una
deſcrizione di tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel
tempo medeſimo ſervono a minorare la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli
eſperimenti. In riguardo agli eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente
inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare
e confermare le leggi dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha
trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di
meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente
neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed
ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti
dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi
ſtudj in queſta parte di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non
ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to,
maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e
intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione.
L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj
ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al
Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per
informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e
abbellire l'opera. Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di
cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite
al mondo; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone
le cui eſperienze erano nuo ve, o non comunemente note agli ſcrit tori di
queſta materia. Per rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate
aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano
maggiore attenzione. Neroduzione pag. Leggi fondamentali dell'elettricità.
Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati
nelle lettricità. Degli elettrici, e dei conduttori. Delle due elettricità. Dei
differenti metodi di eccitare gli elet trici. Dell elettricità comunicata Dell'
elettricità comunicata agli elettri ci. Degli elettrici caricati, ovvero della
Boc cia di Leida '. Dell elettricità atmosferica go. Vantaggi derivati dall
elettricità.. Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali
dell elettrici tà. Teoria dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva,
e negati Va 126. Della natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici,
e dei con duttori... Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità
pratica. Dell'apparato elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari
macchine elettriche ze... Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti
neceſſarie dell'apparato elettrico. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap
parato elettrico, ed il fare l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e
re pulſione elettrica Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla
bottiglia di Leida. Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull'
influenza delle punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per
difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti
fatti con la batteria elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della
boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati. Nuovi ſperimenti dell' elettricità.. .
Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di altri ſtrumenti uſati con ello
Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co Sperimenti fatti
coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la prog gia.
Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire
l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L E arti
e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni
fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano
l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo
divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan
preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi
ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono
riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del
loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo
ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha
fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo
declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di
queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra
tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo.
Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua
forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è
ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza
interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in
cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at
tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe.
Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre
relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re
pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama
ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi:
ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola
eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e
ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di
grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo, all' opulento ugualmente
che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante
luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua
attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo
ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma
quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine,
dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti
poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che
reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare
altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della
ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche effetto
elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori
circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è
nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il Lin curio
poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era tutto
cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la
medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione
di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto
per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non troviamo
nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta,
e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo rimaſta
queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico
Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale a
cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente
chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà
d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà
particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono
egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie
particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono
ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando
benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità,
a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte
ope razioni. Tale fu Bacone, Boyle,
Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati
per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità.
Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza
che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in
preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie
apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con
una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo
il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata,
rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei
Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in
riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora
grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d' oblivione
a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le gran
ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi
può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità. Il
numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig.
Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente,
fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua
lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere. Chiunque vuole
informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza, legga
l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Prieſtley,
opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto
ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un
lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio
dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto
oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella
attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono
giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro
attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o
grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro
effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino
all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione
può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in
una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto
della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu.
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo
ſtudio dell' Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e
invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello
che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico
ſpe rimento. Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero
d'elettriciſti, di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente
prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi
incredibile. Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti
ſopra altri meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido
corſo, ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto
dovrebbe eſſere tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro
ricerche: per altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità
ancora molto lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo
che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte
forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of
Natural Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of
Philofophizing. T HE word Philofophy, though ufed by ancient authors in fenfes
fomewhat different, does, however, in its moft ufual acceptation, mean the love
of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philofophy
treats of the manners, the duties, and the condud of man, confidered as a
rational and focial beings but the bufinefs of natural philofophy, is to colled
the hiftory of the phenomena which take place amongft natural things, viz.
among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their caufes and effeds; and
thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards be applied to a variety
of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is of Greek origin. PITAGORA,
a learned Greek, feems to have been the firfl who called himfelf philofopher j
viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general.
Natural things means all bodies; and the aflemblage or fyftem of them all is
called the univerfe. The word phenomenon fignifies an appearance, or, in a more
enlarged acceptation, whatever is perceived by our fenfes*. Thus the fall of a
ftone, the evaporation of water, the folution of fait in water, a tlafh of
lightning, and fo on; are all phenomena. As all phenomena depend on properties
peculiar to different bodies; for it is a property of a ftone to fall towards
the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water,
&c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine
the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their
caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words
piaoj, a lover or friend, and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy
is derived from the latin mos, or its plural mores, fignifying manners or
behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos,
manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics, phyfology,
and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature,
or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair, nature, and >. a
dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is
obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which
has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. *
Phenomenon, whofe plural is phenomena, owes its origin to the Greek word
pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the
reader will find in the courfe of this work, an account of the principal
properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an
explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as
has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed
of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of
faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a
flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the
concurrence of fimilar facts; and, laftly, he will be inftrudted in the
management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the
experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what
has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the
properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01
defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages
which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very
fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the
air we breathe; the action and power of our limbs; the light, the found, and
other perceptions of our fenfes; the adcions of the engines that are ufed in
hufoandry, navigation, &c.; the viciffitudes of the feafons, the movements
of the celeflial bodies, and io forth; do all fall under the con fideration of
b 2 the 4 Of Philosophy in general; the philofophcr. Our welfare, our very
exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political
ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the
various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and
their colonies above the reft of mankind. Their. difcoveries and improvements
in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the
numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have
fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied
their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the
expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be
divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all
bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies
only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine
the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only,
will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the
properties of fuch fubftances as may be called hypothetical; their exiftenee
having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our
views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the
movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of
Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached
articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines,
&c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The
axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and
conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be
fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence,
JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot
be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily
admit, the propriety of this axiom; feeing that a great many things appear to
be utterly deftroyed by the action of fire; alfo that water may be caufed to
difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that
in thofe cafes the lubftances are not annihilated; but they are only difperfed,
or removed from one place to another, or they are divided into particles fo
minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the
fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the
weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the
original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3
its 6 O/Philosophy in general; its component fubdances, which the atdion of the
fire drives different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the
light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air,
&c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded
together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would
equal the weight of the original piece of wood. Every effect has, or is
produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved
with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly
(hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon,
or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as
the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to
the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends
are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the
principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention
the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration,
for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead
the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true
and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the
Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things,
than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II.
Therefore to the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame
caufes. III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or
decreafe, and which are found to belong to all bodies within the reach of our
experiments, are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies
whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon propofitions
colledted by general induction from phenomena, as accurately or very nearly
true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch
time as other phenomena occur, by which they either may be corrected, or may be
fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of evidence which
ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to remark, that
phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute certainty as the
branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly
deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect
convi&ion to the mind; nor can any of them be denied without a manifeft:
abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that becaufe lome
particular effects have been conflantly produced under certain circumftances;
therefore they will moft likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of
Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl; and likewife that
they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And this is what
vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined in the next
chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning
upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain confequences.
But as the demonftration goes no farther than to prove that luch confequences
muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the
conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the
principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable,
according as the principles upon which they depend are true, or faife, or
probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty,
does always direct itfelf to certain parrs of the world; upon which property
the mariner’s compafs has been conftructed; and it has been likewife obferved,
that this directive property of a natural or artificial magnet, is not
obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or,
in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and
ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally
follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of
any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft
anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of
Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain
as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly
probable; for though all the bodies that have been tried with this view, iron
excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet
or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome combination of
bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property.
Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm;
my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which
ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience
may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt
adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency
in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various
branches of mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic,
trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or
fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers,
whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible;
and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute
date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the
Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. A General Idea of
Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature. Mary
Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary
of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in
experiments with electricity on the dead Jamie Doward It is one of the most famous novels of all
time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost
as well known as its terrifying central character. Mary Shelley’s
Frankenstein: or the Modern Prometheus was published. It was the result of a challenge laid down by
Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow
poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland. The party had
hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the
greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of
bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they
huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should
write a horror story. For days Shelley suffered writer’s block until she
came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched
together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe
Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned
the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an
alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for
experimentation. But it now appears Shelley’s true source of inspiration
for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a
foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University
Press next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of
Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically
generated electricity – that sparked her imagination. Mary Shelley.Mary
Shelley. Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most
cherished Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias, was
fascinated by science, in particular the creation of electricity. “He was very
excited by galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would
recall that he would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to
make all the family sit around the dining room table holding hands, and he’d
turn up with some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get
electrocuted.” On one occasion Percy even threatened to electrocute the
son of his scout at Oxford. Mary and Percy enjoyed a symbiotic working
relationship. She corrected his proofs and he helped edit Frankenstein. But
Groom is clear that the book was, contrary to what some have argued, Mary’s
creation. “The work is by her and should be attributed to her.” Sent down
from Oxford for co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended anatomy
classes for a term at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things
she would have got from talking to her husband about laboratories was that they
were really filthy places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of
advanced putrefaction when they arrived. These were not antiseptic places full
of chaps in white coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot
in Frankenstein. There was something really disreputable about medical science,
which Mary Shelley is fascinated in.” She would have been aware of
notorious public experiments involving galvanism. “There was a particularly
chilling one in London when galvanism was used on the body of an executed
criminal,” Groom said. “The very first thing that happened was that the corpse
opened its eyes. A very Frankenstein moment.” At the time Mary was writing,
the rights of animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The
being that Victor creates knows he’s not human but still believes that he
should have rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you
afford comparable rights to non-human sentient creatures?” Two centuries
on, the novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing
questions about matters such as artificial intelligence and genetic
modification. But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully
recognised. “Her reputation has been overtaken by the films, which have
oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the
sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of
the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s
intelligent and sentient. “People need to see this as a novel for today.
It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still
concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico,
filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.
Grice
e Cazio – Roma – filosofia ialiana – Luigi Speranza (Roma). He is
presented by Orazio as something of a philosophica dilettante obsessed with
food.
Grice
e Cazio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Catius
insuber. Member of the Garden. He wrote four books in which he set out the
school’s teachings on the nature of the universe and the most important hings
in life. The books were aimed at making the teachings available and accessible
to a wide audience.
Grice e Cazzaniga:
l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – You only get first penetrated
once – BACCHANALIUM -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity
is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of
the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and
latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies;
only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a
handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close
circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!”
-- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa
con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e
conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli,
Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità:
fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica
italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico
"Belfagor" (LV); Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel
Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali 21: La Massoneria,
Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian
Mario Cazzaniga, “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla
lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al.
(Milan: Unicopli, 2002), Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei
rituali carbonari italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria, Chi anche in
questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle
vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per
concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà,
fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La
religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario
scavare molta terra, Cazzaniga ha dissodato a fondo un terreno a prima vista
assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue
sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa
tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra
stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane
isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti,
U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si
sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere
per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra
i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau,
Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di
confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai
più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e
nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana,
comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si
chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un
intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio
come Cazzaniga, il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta
l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di
generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella
passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto
Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica"
quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge
un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i
"critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate
della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione
Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del
moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione
del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno costituito l'input
decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato
dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento
rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge
rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base
della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i
membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria
pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel
terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e
le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi
moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale
dalle guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della
République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una
società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile
convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel
legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo
protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione
naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e
neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea
di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale
di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi
dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la
ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa
intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica,
identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del
mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla
convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio"
di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum
ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma
politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che
poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente
ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti
politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia
rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al
tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo
intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme
a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha
cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando
pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della
modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi
partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la
modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto
"lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità,
è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva
indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il
comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo
vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia
sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica,
ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del
ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la
società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e
tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio
per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione riveli la sua personale cifra ideologica e la
passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria,
cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa,
inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a
tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a
cimentarsi. THE MASCULINE CROSS
t PHALLIC WORSHIP PHALLIC WORSHIP A
DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE SEX WORSHIP OF THE
ANCIENTS WITH THE HISTORY OF THE MASCULINE CROSS
AN ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,
BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT
FAITHS LONDON The present somewhat slight sketch of a
most interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet
embraces the cream, so to speak, of various learned works of great
cost, some of which being issuedfor private circulation only, are
almost unobtainable. During the past few years several books
have been written upon Phallicism in conjunction with other kindred
matters, but not devoting themselves entirely to one ancient
mystery, the writers have only partially ventilated the subject.
The present work seeks to obviate this failing by confining its
attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the ancient
world. Many of the topics have received only slight
treatment, being little more than indicated ; but the work will enable
the reader to understand and possess the truth concerning the
Phallic Worship of the Ancients. Those who desire to know more, or
to authenticate the statements and facts given in this book, should consult
the large and important works of Payne Knight, Higgins, Dulaure,
Kolle, Inman, and other writers. It was intended to give with this
volume a list of works and miscellaneous pieces written on the subject,
but the length of the list prevented its being added. PHALLIC
WORSHIP NATURE AND SEX WORSHIP Sex Worship has prevailed among
all peoples of ancient times, sometimes contemporaneous and often mixed
with Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature were
sexualised and endowed with the same feelings, passions, and performing
the same functions as human beings. Among the ancients,
whether the Sun, the Serpent, or the Phallic Emblem was worshipped, the
idea was the same—the veneration of the generative principle. Thus
we find a close relationship between the various mythologies of the
ancient nations, and by a comparison of the creeds, ideas, and symbols,
can see that they spring from the same source, namely, the worship of the
forces and operations of nature, the original of which was doubt¬
less Sun worship. It is not necessary to prove that in primitive times
the Sun must have been worshipped under various names, and venerated as
the Creator, Light, Source of Life, and the Giver of Food. In
the earliest times the worship of the generative power was of the most
simple and pure character, rude in manner, primitive in form, pure in
idea, the homage of man to the supreme power, the Author of life.
Afterwards the worship became more depraved, a religion of feeling,
sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage
of this state of affairs, and inculcated with it profligate and
mysterious ceremonies, union of gods with women, religious prosti¬
tution and other degrading rites. Thus it was not long before the emblems
lost their pure and simple meaning and became licentious statues and
debased objects. Hence we have the depraved ceremonies at the
worship of Bacchus, who became, not only the representative of the
creative power, but the God of pleasure and licentiousness.
The corrupted religion always found eager votaries, willing to be
captives to a pleasant bondage by the impulse of physical bliss, as was
the case in India and Egypt, and among the Phoenicians, Babylonians,
Jews and other nations. Sex worship once personified became
the supreme and governing deity, enthroned as the ruling God over
all; dissent therefrom was impious and punished. The priests of the
worship compelled obedience; monarchs complied to the prevailing faith and
became willing devotees to the shrines of Isis and Venus on the one hand,
and of Bacchus and Priapus on the other, by appealing to the most
animating passion of nature. This is the worship of the
reproductive powers, the sexual appointments revered as the emblems of the
Creator. The one male, the active creative power; the other the female or
passive power ; ideas which were represented by various emblems in
different countries. P These emblems -were of a pure and
sacred character, and used at a time when the prophets and priests
spoke plain speech, understood by a rude and primitive people ;
although doubtless by the common people the emblems were worshipped
themselves, even as at the.present day in Roman Catholic countries the
more ignorant, in many cases, actually worship the images and pictures
themselves, while to the higher and more intelligent minds they are
only symbols of a hidden object of worship. In the same manner, the
concealed meaning or hidden truth was to the ignorant and rude people of
early times entirely unknown, while the priests and the more learned
kept studiously concealed the meaning of the ceremonies and
symbols. Thus, the primitive idea became mixed with profligate, debased
ceremonies, and lascivious rites, which in time caused the more pure part
of the worship to be forgotten. But Phallicism is not to be judged
from these sacred orgies, any more than Christianity from the religious
excitement and wild excesses of a few Christian sects during the Middle
Ages. In a work on the “ Worship of the Generative Powers
during the Middle Ages,” the writer traces the superstition westward, and
gives an account of its prevalence through¬ out Southern and Western
Europe during that period. The worship was very prevalent in Italy,
and was invariably carried by the Romans into the countries they
conquered, where they introduced their own institutions and forms of
worship. Accordingly, in Britain have been found numerous relics and
remains; and many of our ancient customs are traced to a Phallic
origin. “ When we cross over to Britain,” says the writer, “ we
find this worship established no less firmly and extensively in that
island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes. IO
Phallic Worship pottery covered with obscene pictures, are found
wherever there are any extensive remains of Roman occupation, as
our antiquaries know well. The numerous Phallic figures in bronze found
in England are perfectly identical in character with those that occur in
France and Italy.” All antiquaries of any experience know the great
number of obscene subjects which are met with among the fine red
pottery which is termed Samian ware, found so abundantly in all Roman
sites in our island. “ They represent erotic scenes, in every sense of
the word, with figures of Priapus and Phallic emblems.” The
Phallus, or Lingam, which stood for the image of the male organ, or
emblem of creation, has been worshipped from time immemorial. Payne
Knight describes it as of the greatest antiquity, and as having
prevailed in Egypt and all over Asia. The women of the former
country carried in their re¬ ligious processions, a movable Phallus of
disproportionate magnitude, which Deodorus Siculus informs us
signified the generative attribute. It has also been observed among
the idols of the native Americans and ancient Scandinavians, while the
Greeks represented the Phallus alone, and changed the personified
attribute into a distinct deity, called Priapus. Phallus, or
privy member (membrum virile), signifies, “ he breaks through, or passes
into.” This word survives in German pfahl, and pole in English. Phallus
is supposed Phallic Worship ii to
be of Phoenician origin, the Greek word pallo, or phallo , “ to brandish
preparatory to throwing a missile,” is so near in assonance and meaning
to Phallus, that one is quite likely to be parent of the other. In
Sanskrit it can be traced to phal, “ to burst,” “ to produce,” “ to
be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and is also the
name of Siva and Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then, was the
ancient emblem of creation: a divinity who was companion to
Bacchus. The Indian designation of this idol was Lingam, and
those who dedicated themselves to its service were to observe inviolable
chastity. “ If it were discovered,” says Crawford, “ that they had in any
way departed from them, the punishment is death. They go naked, and
being considered as sanctified persons, the women approach without
scruple, nor is it thought that their modesty should be offended by
it.” The Phallus and its emblems were representative of the
gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and Asher, who were
all Phallic deities. The symbols were used as signs of the great creative
energy or operating power of God from no sense of mere animal
appetite, but in the highest reverence. Payne Knight, describing
the emblems, says :— “ Forms and ceremonials of a religion are not
always to be understood in their direct and obvious sense, but are
to be considered as symbolical representations of some hidden meaning
extremely wise and just, though the symbols themselves, to those who know
not their true signification, may appear in the highest degree
absurd and extravagant. It has often happened that avarice and
superstition have continued these symbolical repre¬ sentations for ages
after their original meaning has been lost and forgotten; they must, of
course, appear nonsensical and ridiculous, if not impious and
extravagant. Such is the case with the rite now under
consideration, than which nothing can be more monstrous and
indecent, if considered in its plain and obvious meaning, or as
part of the Christian worship ; but which will be found to be a
very natural symbol of a very natural and philosophical system of
religion, if considered according to its original use and
intention.” The natural emblems were those which from their
character were most suitable representatives; such as poles, pillars,
stones, which were sacred to Hindu, Egyptian, and Jewish
divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone,
to be found at Narmada and other places, which is sacred to the
Hindu deity Siva; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are “ identical in shape, meaning, and purpose with the
* pillars ” set up by the several patriarchs to mark their adoration of
the Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even
now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew
derivation being suspected.”The Pole was an emblem of the Phallus, and with
the serpent upon it, was a representative of its divine wisdom and
symbol of life. The serpent upon the tree is the same in character, both
are representative of the tree of life. The story of Moses will well
illustrate this, when he erected in the wilderness this effigy, which
stood as a sign of hope and life, as the cross is used by the
Catholics of the present day ; the cross then, as now, being simply
an emblem of the Creator, used as a token of resurrection or
regeneration. iEsculapius, as the restorer of health, has a rod or
Phallus with a serpent entwined. The Rev. M. Morris has shown that
the raising of the May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom
of India or Egypt, and is typical of the fructifying powers of
spring. The May festival was carried on with great
licentious¬ ness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England: “
Every parishe, towne, and village assemble themselves together,
bothe men, women, and children, olde and younge even indiffer¬
ently ; and either goyng all together, or devidyng themselves into
companies, they go some to the woods and groves, some to one place, some
to another, where thei spend all the night in pleasant pastymes; and in
the mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes and
branches of trees, to deck their assemblies withall. . . . But their
cheerest jewell thei bryng from thence is their Maie pole, whiche thei
bryng home with great veneration, as thus : thei have twentie or fortie
yoke of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers placed
on the tippe of his homes, and these oxen drawe home this Maie pole (this
stinckyng idoll rather), which is covered all over with flowers and
hearbes, bound rounde aboute with strynges from the top to the
bottome, and sometyme painted with variable colours, with two or
three hundred men, women, and children, foliowyng it with great devotion.
And thus beyng reared up, with handekerchiefes and flagges streamyng on
the top, thei strawe the grounde aboute, binde greene boughes
aboute it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by it.
And then fall thei to banquet and feast, to leape and daunce aboute it, as
the heathen people did at the dedication of their idols, whereof this is
a perfect patterne, or rather the thyng itself.” The ceremony
was almost identical with the Roman festival, where the Phallus was
introduced with garlands. Both were attended with the same licentiousness,
for Stubbes gives a further account of the depravity attending the
festivities. PILLARS Another type of emblem was the
stone pillar, remains of which still exist in the British Isles. These
pillars or so called crosses generally consist of a shaft of granite with
Phallic Worship i5 a carved head. In the
West of England crosses are very common, standing in the market and
receiving the name of “ The Cross.” These stone pillars were
first erected in honour of the Phallic deity, and on the introduction of
Christianity were not destroyed, but consecrated to the new faith,
doubtless to honour the prejudices of the people. These monolisks abound
in the Highlands, they are stones set up on end, some twenty-four or
thirty feet high, others higher or lower and this sometimes where no such
stones are to be quarried. We learn that the Bacchus of the
Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain
pillar, consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an
account of this practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as
a custom for a superstitious man, when he passed by these anointed stones
in the streets to take out a phial of oil and pour it upon them and
having fallen on his knees to make his adorations, and so depart.
In various parts of the Bible the Pillar is referred to as of a
sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “In that day shall there be
an altar to Jehovah in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at
the border thereof to Jehovah, and it should be for a sign and a witness
to the Lord.” The Orphic Temples were doubtless emblems of
the same principle of the mystic faiths of the ancients, the same
as the Round Towers of Ireland, a history of which was collected by
O’Brien, who describes the Towers as “ Temples constructed by the early
Indian colonists of the country in honour of the 'Fructifying principle
of nature, emanating as was supposed from the Sun, or the deity of
desire instrumental in that principle of universal generativeness
diffused throughout all nature.” i6 Phallic
Worship According to the same author these towers were very
ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have been found in
Phoenicia. “ The Irish themselves,” says O’Brien, “ designated them ‘
Bail-toir,’ that is the tower of Baal. Baal was the name of the Phallic
deity, and the priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or
superin¬ tendent of Baal tower.” This Baal was worshipped wherever
the Phoenicians went, and was represented by a pillar or stone or similar
objects. The stone that Jacob set up, and anointed as a rallying place
for worship, became afterwards an object of worship to the
Phoenicians. The earliest navigators of the world were the
Phoenicians, they founded colonies and extended their commerce
first to the isles of the Mediterranean, from thence to Spain, and then
to the British Isles. Historians have accorded to them the settlements of
the most remote localities. They formed settlements in Cyprus, and
Atticum, according to Josephus, was the principal settle¬ ment of the
Tyrians upon this island. Strabo’s testimony is, that the Phoenicians,
even before Homer, had possessed themselves of the best part of
Spain. Where the Phoenicians settled, there they introduced
their religion, and it is in these countries we find the remains of
ancient stone and pillar worship.
Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic
emblems. “ Their remains,” he says, “ are still extant, and appear to
have been composed of a crone set into the ground, and another placed
upon the point of it and so nicely balanced that the wind could move
it, though so ponderous that no human force, unaided by machinery,
can displace it; whence they are called * logging rocks * and * pendre
stones,’ as they were anciently * living stones ’ and * stones of God,’
titles which differ very little in meaning from that on the Tyrian
coins. Damascius saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis
or Baalbeck, in Syria, particularly one which was then moved by the
wind; and they are equally found in the Western extremities of
Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain, and in
China.” Bryant mentions it as very usual among the Egyptians
to place with much labour one vast stone upon another for a religious
memorial. Such immense masses, being moved by causes seeming
so inadequate, must naturally have conveyed the idea of spontaneous
motion to ignorant observers, and persuaded them that they were animated
by an emanation of the vital spirit, whence they were consulted as
oracles, the responses of which could always be easily obtained by
interpreting the different oscillatory movements into nods of approbation
or dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria,
and many other places, even in modern times. A physician, writing
to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter (1865-66), and there
certainly are numerous figures of gods and kings, on the walls of the
temple at Thebes, depicted with the male genital erect. The great
temple at Karnak is, in particular, full of such figures, and the
temple of Danclesa likewise, though that is of much later date, and built
merely in imitation of old Egyptian art. The same inspiring bas-reliefs
are pointed out by Ezek. B 14. I remember one scene of a king (Rameses
II) returning in triumph with captives, many of whom were
undergoing the process of castration.” Obelisks were also
representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was
symbolised. The Triune idea is to be found in the system of almost
every nation. All have their Trinity in Unity, three in one, which can be
distinctly recognised in the cross. The Triad is the male or triple, the
constitution of the three persons of most sacred Trinity forming the
Triune system. In the analysis of the subject by Rawlinson, we find
the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated with Anu and Hea or
Hoa. Asshur, the supreme god of the Assyrians, represents the Phallus or
central organ or the Linga, the membrum virile. The cognomen Anu
was given to the right testis, while that of Hea designated the left.
It was only natural that Asshur being deified, his appendages
should be deified also. “ Beltus,” says Inman, “ was the goddess
associated with them, the four together made up Arba or Arba-il, the four
great gods,” the Trinity in Unity. The idea thus broached
receives great confirmation when we examine the particular stress
laid in ancient times respecting the right and left side of the body in
connection with the Triad names given to offspring mentioned in the
scriptures with the titles given to Anu and Hea. The male or active
principle was typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and
the females or passive by the principles of “ water,” “
soft¬ ness,” and other feminine principles. Thus the goddess
Hea was associated with water, and according to Forlong, the Serpent, the
ruler ot the Abyss, was sometimes repre¬ sented to be the great Hea,
without whom there was no creation or life, and whose godhead embraced
also the female element water. Rawlinson also gives a similar
conclusion, and states as far as he could determine the third divinity or
left side was named Hea, and he considered this deity to correspond
to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the
abyss, and king of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach, mankind,
in common with all animal life, originally sprung from the sea ; so
physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the supreme god
of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It
is remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which
properly should be called the symbol of symbols. One of the most
remarkable of these is a cross, in the form of the letter (T), which thus
served as the emblem of creation and generation before the Church adopted
it as a sign of salvation.” Another writer says, “ Reverse
the position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the
figure of the ancient c tau ’ of the Christians, Greeks, and
ancient Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of
Phallic Worship 21 the cross. It is also
met with in Gallic, Oscan, Arcadian, Etruscan, original Egyptian,
Phoenician, Ethiopic, and Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau
’ is the exact prototype and image of the cross, or rather, to
state the fact in order of merit and time, the cross is made in the
exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf, having three lobes to
it, became a symbol of the triad. As the male genital organs were held in
early times to exemplify the actual male creative power, various
natural objects were seized upon to express the theistic idea, and at the
same time point to those parts of the human form. Hence, a similitude was
recognised in a pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a
club between two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with
two ribbons with the two ends pendant, a thumb and two fingers, the
caduceus. Again, the conspicuous part of the sacred triad Asshur is
symbolised by a single stone placed upright—the stump of a tree, a block,
a tower, spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while
eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like represented the
remaining two portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha
is a name which seems designed to perpetuate the triad, since it
signifies * my Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ” We
must not omit to mention other Phallic emblems, such as the bull, the
ram, the goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the
crozier; and still further per¬ sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius,
Hercules, Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,
Asher, and others. If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as
Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in his
day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says “
whoredom was committed with the images of men,” or, as the marginal note
has it, images of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this
god-mark —a cross in the form of the letter T—that Ezekiel was
directed to stamp the foreheads of the men of Judata who feared the Lord
(Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual origin
we determine by a similar rule of research to that by which comparative
anatomists determine the place and habits of an animal by a single tooth.
The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique religious
body physical, and that essentially human. A study of some of the
earliest forms of faith will lift the veil and explain the mystery.
India, China, and Egypt have furnished the world with a genus of
religion. Time and culture have divided and modified it into many species
and countless varieties. However much the imagination was allowed to play
upon it, the animus of that religion was sexuality—worship of the
generative principle of man and nature, male and female. The cross became
the emblem of the male feature, under the term of the triad —three in
one. The female was the unit ; and, joined to the male triad, con¬
stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes paid to the
male, sometimes to the female, or to the two in one. So great
was the veneration of the cross among the ancients that it was carried as
a Phallic symbol in the religious processions of the Egyptians and
Persians. Higgins also describes the cross as used from the
earliest times of Paganism by the Egyptians as a banner, above
which was carried the device of the Egyptian cities. The cross was
also used by the ancient Druids, who held Phallic Worship
23 it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the
significa¬ tion of eternal life. Schedeus describes it as customary
for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large and handsome,
growing up with two principal arms in the form of a cross , besides the
main stem upright. If the two horizontal arms are not sufficiently
adapted to the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree
they consecrate in this manner: Upon the right branch they cut in
the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’; upon the middle, or
upright stem, the word ‘ Taranius ’; upon the left branch ‘ Belenus ’;
over this, above the going off of the arms, they cut the name of the god
Thau ; under all, the same repeated, Thau.” YONI
There is in Hindostan an emblem of great sanctity, which is known
as the “ Linga-Yoni.” It consists of a simple pillar in the centre of a
figure resembling the outline of a conical ear-ring. It is expressive of
the female genital organ both in shape and idea. The Greek letter “
Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a house.
Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means (1) the vulva,
(2) the womb, (3) the place of birth, (4) origin, (5) water, (6) a mine,
a hole, or pit. As Asshur and Jupiter were the representatives of the
male potency, so Juno and Venus were representatives of the female
attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says : “ Oriental writers
have generally spelled the word, * Yoni,’ which I prefer to write ‘
IOni.’ As Lingam 24 Phallic Worship
was the vocalised cognomen of the male organ, or deity, so IOni
was that of hers.” Says R. P. Knight: “ The female organs of generation
were revered as symbols of the generative powers of nature or of matter,
as those of the male were of the generative powers of God. They are
usually represented emblematically by the shell Concoa Veneris , which
was therefore worn by devout persons of antiquity, as it still continues
to be by the pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On
the worship of Priapus,” p. 28). If Asshur, the conspicuous feature
of the male Creator, is supplied with types and representative figures of
himself, so the female feature is furnished with substitutes and
typical imagery of herself. One of these is technically known as
the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the
fenestrum, or opening, are bent so that they cannot be taken out, and
indicate that the door is closed. It signifies that the mother is still
virgo intacta —a truly immaculate female—if the truth can be strained to
so denominate a mother. The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now adored
was born. We might infer that Solomon was acquainted with the figure of
the sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse, a
spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12). The sistrum,
we are told, was only used in the worship of Isis, to drive away Typhon
(evil). The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or
plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte, Isis, and
Venus. Its shape portrays its own significance. The Argha and crux ansata
were often seen on Egyptian monuments, and yet more frequently on
bas-reliefs. Phallic Worship *5
Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the Father, the Trinity;
Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for
Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva,
Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,
tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ; while the
Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus, Diana, Artemis,
Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of
Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark, the ship,
the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,
and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian, and visited the
temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are two Phalli
standing in the porch with this inscription on them, “ These Phalli I,
Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The Papal religion
is essentially the feminine, and built on the ancient Chaldean basis. It
clings to the female element in the person of the Virgin Mary.
Naphtali (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers, if
there be any meaning in a concrete name. Bear in mind, names and pictures
perpetuate the faith of many peoples. Neptoah is Hebrew for “ the vulva,”
and, A 1 or El being God, one of the unavoidable renderings of Naphtali
is “ the Yoni is my God,” or “ I worship the Celestial Virgin.” The
Philistine towns generally had names strongly connected with sexual
ideas. Ashdod, aisb or esb, means “ fire, heat,” and dod means “ love, to
love,” “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the
heat of love,” or “ the fire which impels to union.” Could not those
people exclaim . Our “ God is love ” ? (i John iv. 8).
The amatory drift of Solomon’s song is undisguised. 26
Phallic Worship though the language is dressed in the
habiliments of seem¬ ing decency. The burden of thought of most of it
bears direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman say, “
He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S. i. 13). Again, of
the Phallus, or Linga, she says, “I will go up the palm-tree, I will take
hold of the boughs thereof” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms
of the male genitals. The nations surrounding the Jews practising
the Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not to
be supposed that the Jews escaped their influence. It is indeed certain
that the worship of the Phallics was a great and important part of the
Hebrew worship. This will be the more plainly seen when we bear
in mind the importance given to circumcision as a covenant between
God and man. Another equally suggestive custom among the Patriarchs was
the act of taking the oath, or making a sacred promise, which is
commented upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says :
“ Another primitive custom which obtained in the patriarchal age was,
that the one who took the oath put his hand under the thigh of the
adjurer (Gen. xxiv. 2, and xlvii. 29). This practice evidently arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphe¬
mistic expression thigh, was regarded as the most sacred part of the
body, being the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial
life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much
coveted by the ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges
vii. 30. Hence the creative organ became the symbol of the Creator, and
the object of worship among all nations of antiquity. It is for this
reason that God claimed it as a sign of the covenant between
himself and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing
therefore could render the oath more solemn in those days than touching
the symbol of creation, the sign of the covenant, and the source of that
issue who may at any future period avenge the breaking a compact made
with their progenitor.” From this we learn that Abraham, himself a
Chaldee, had reverence for the Phallus as an emblem of the Creator. We
also learn that the rite of circumcision touches Phallic or Lingasic
worship. From Herodotus we are informed that the Syrians learned
circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews. Says Dr. Inman: “I
do not know anything which illustrates the difference between ancient and
modern times more than the frequency with which circumcision is
spoken of in the sacred books, and the carefulness with which the subject
is avoided now.” The mutilation of male captives, as practised by
Saul and David, was another custom among the worshippers of Baal,
Asshur, and other Phallic deities. The practice was to debase the victims
and render them unfit to take part in the worship and mysteries. Some
idea can be formed of the esteem in which people in former times
cherished the male or Phallic emblems of creative power when we note the
sway that power exercised over them. If these organs were lost or
disabled, the unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of
the Lord, and disqualified to minister in the holy temples.
Excessive 28 Phallic Worship punishment
was inflicted upon the person who had the temerity to injure the sacred
structure. If a woman were guilty of inflicting injury, her hand was cut
off without pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration in
the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the
preservation of the germ of life. In the historical and
prophetic books of the Old Testament we have repeated evidence that the
Hebrew worship was a mixture of Paganism and Judaism, and that
Jehovah was worshipped in connection with other deities. Hezekiah is
recorded in 2 Kings xviii. 3, to have “ removed the high places, and
broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in
pieces the brazen serpent that Moses had made, for unto those days
the children of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred
groves here alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr.
Smith describes as the proper name of the goddess ; while Ashera is
the name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great
Monarchies of the Ancient World , describes Ashera to imply something
that stood straight up, and probably its essential element was the stem
of a tree, an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree
of Life of the Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life,
was probably a pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus, sometimes
erected in a grove or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi.
We read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven image in
the grove,” and, according to Dr. Oort, the older reading is in 2 Chron.
xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar. During the reigns of the
Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus of the Greeks and
Romans, Phallic Worship 2 9 was
extensively practised by the Jews. Pillars and groves were reared in his
name. In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected
an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which even survived the temple itself,
for although Jehu destroyed the Temple of Baal, he allowed the Ashera to
remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work
on the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,
undoubtedly proves that during the monarchial period of Israel, the
sanguinary wars and violent conflicts between the two kingdoms of Judah
and Israel were between the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by
the priesthood at the chief places of worship, concerning the true
patriarch, and each party manufacturing and inserting legends to give a
more ancient and important part to its own faith. It is not
at all improbable that the conflict was between the two portions of the
Phallic faith, the Lingam and Yoni parties. The cause of this conflict
was the erection of the consecrated stones or pillars which were put
up by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar erected
by Jacob at Bethel was a pillar, for according to Bernstein the word
altar can only be used for the erection of a pillar. Jacob likewise set
up a Matzebah, or pillar of stone, in Gilead, and finally he set one up
upon the tomb of Rachel. A great portion of the facts have
been suppressed by the translators, who have given to the world
histories which have glossed over the ancient rites and practices
of the Jews. An instance is given by Forlong on the important
word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their
devotions. He says, “ It should 3° Phallic
Worship not be, but I fear it is, necessary to explain to mere
English readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur
was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians, that this would
be clear to Christians were the Jewish writings translated according to
the first ideas of the people and Rock used as it ought to be, instead of
‘ God,’ * Theos,’ £ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .
Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship of Baal in
Israel, where praises, addresses, and adorations are addressed to the
Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars were also used by the
Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we find Jacob setting up
a pillar as a witness, that he would not pass over it. Connected
with this pillar worship is the ceremony of anointing by pouring oil upon
the pillar, as practised by Jacob at Bethel. According to Sir W. Forbes,
in his Oriental Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is practised
at this day upon many a shapeless stone throughout Hindostan.”
Toland gives a similar account of the Druids as practising the same
rite, and describes many of the stones found in England as having a
cavity at the top made to receive the offering. The worship of Baal like
the worship of Priapus was attended with prostitution, and we find
the Jews having a similar custom to the Babylonians. Payne
Knight gives the following account of it in his work: “ The women of
every rank and condition held it to be an indispensable duty of religion
to prostitute themselves once in their lives in her temple to any
stranger who came and offered money, which, whether little or much,
was accepted, and applied to a sacred purpose. Women sat in the temple of
Venus awaiting the selection of the stranger, who had the liberty of
choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she
has been selected by a piece of silver being cast into her lap, and the
rite performed outside the temple.” Similar customs existed in
Armenia, Phrygia, and even in Palestine, and were a feature of the
worship of Baal Peor. The Hebrew prophets described and denounced
these excesses which had the same characteristics as the rites of the Babylonian
priesthood. The identical custom is referred to in i Sam. ii. 22, where “
the sons of Eli lay with the women that assembled at the door of
the tabernacle of the congregation.” Words and history
corroborate each other, or are apt to do so if contemporaneous. Thus kadesh
, or kaesh, designate in Hebrew “ a consecrated one,” and history
tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will be shown in the
sequel. That the religion was dominating and imperative is
determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous refusal to listen to the
priest was death to the offender. To us it is inconceivable that the
indulgence of passion could be associated with religion, but so it was.
Much as it is covered over by altered words and substituted
expressions in the Bible—an example of which see men for male organ,
Ezek. xvi. 17—it yet stands out offensively bold. The words expressive of
“ sanctuary,” “ conse¬ crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew
essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times ; and we find that “ holy women ” is a title given
to those who devote their bodies to be used for hire, the price of which
hire goes to the service of the temple. As a general rule, we
may assume that priests who make or expound the laws, which they declare
to be from God, are men, and, consequently, through all time, have
thought, and do think, of the gratification of the masculine half of
humanity. The ancient and modern Orientals are not exceptions. They lay
it down as a momentous fact that virginity is the most precious of all
the possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Idol , selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh per¬ forming a wild and enticing dance ; likewise we
have the leaping of the prophets of Baal. It is again
significant that a great proportion of Bible names relate to "
divine,” sexual, generative, or creative power; such as Alah, “ the
strong one ” ; Ariel, “ the strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ”
; Asher, “ the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is
Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, “ El is upright ” ; Ara, “
the strong one,” “ the hero ” ; Aram, “ high,” or, “ to be uncovered ” ;
Baal Shalisha, “ my Lord the trinity,” or “ my God is three ” ;
Ben-zohett, “ son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ;
Cainan, “ he stands upright
” ; these are only a few of the many names of a similar
signification. It will be seen, from what has been given, that the
Jews, like the Phoenicians (if they were not the same), had the same
ceremonies, rites, and gods as the surrounding nations, but enough has
been said to show that Phallic worship was much practised by the Jews. It
was very doubtful whether the Jehovah-worship was not of a
monotheistic character, but those who desire to have a further insight
into the mysteries of the wars between the tribes should consult
Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following
interesting chapter is taken from a valuable book issued a few years ago
anonymously : “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only
of the most general type. Religious genius gave the female quality
to the earth with a special meaning. When once the idea obtained that our
world was feminine, it was easy to induce the faithful to believe that
natural chasms were typical of that part which characterises woman.
As at birth the new being emerges from the mother, so it was supposed
that emergence from a terrestrial cleft was equivalent to a new birth. In
direct proportion to the resemblance between the sign and the thing
signified was the sacredness of the chink, and the amount of virtue
which was imparted by passing through it. From natural caverns being
considered holy, the veneration for apertures in stones, as being equally
symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are
still to be seen in those structures which are called Druidical, both
in the British Isles and in India. It is impossible to say when
these first arose; it is certain that they survive in India to this day.
We recognise the existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i,
in the charge to look “ to the hole of the pit whence ye are digged.”
We have also an indication that chasms were symbolical among the
same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked among the Jews were
described as “ inflaming themselves with idols under every green tree,
and slaying the children in the valleys under the clefts of the rocks.”
It is possible that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a
similar signification. In modern Rome, in the vestibule of the
church close to the Temple of Vesta, I have seen a large perforated
stone, in the hole of which the ancient Romans are said to have placed
their hands when they swore a solemn oath, in imitation, or, rather, a
counterpart, of Abraham swearing his servant upon his thigh—that is
the male organ. Higgins dwells upon these holes, and says: “ These stones
are so placed as to have a hole under them, through which devotees passed
for religious purposes. There is one of the same kind in Ireland,
called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham Crags there is
a place made for the devotees to pass through. We read in the accounts of
Hindostan that there is a very celebrated place in Upper India, to
which immense numbers of pilgrims go, to pass through a place in
the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the Island of Bombay, at
Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there is a natural
crevice, which communicates with a cavity opening below. This place
is used by the Gentoos as a purification of their sins, which they say is
effected by their going in at the opening below, and emerging at the
cavity above—“ born again.” The ceremony is in such high repute in the
neighbouring countries that the famous Conajee Angria ventured by
stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform the ceremony,
and got off undiscovered. The early Christians gave them a bad name, as
if from envy; they called these holes “ Cunni Diaboli ” ( Anacalypsis ,
p. 346). The Romans call the feasts of Bacchus, Bacchanalia and
Liberalia, because Bacchus and Liber, while two names for the same god,
the festivals were celebrated at different times and in a somewhat
different manner. The Liberalia is celebrated on the 17th of March,
with the most licentious gaiety, when an image of a Phallus is carried
openly in triumph. These festivities are more particularly celebrated
among the rural or agricultural population, who, when the preparatory
labour of the agriculturist is over, celebrate with joyful activity
Nature’s reproductive powers, which in due time is to bring forth the
fruits. During the festival, a car containing a huge phallus is
drawn along accompanied by its worshippers, who indulge in rather obscene songs
and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest
matron suddenly lays aside her decency and runs screaming among the
woods and hills half-naked, with dishevelled hair, interwoven with which
were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts are celebrated in the
latter part of October when the harvest is completed. Wine and figs
are carried in the procession of the Bacchants, and lastly come the
Phalli, followed by honourable virgins, called canephora , who carry baskets
of fruit. These were followed by a company of men who carry poles, at
the end of which are figures representing the organ of generation.
The men sing the Phallica and are crowned with violets and ivy, and have their
faces covered with other kinds of herbs. These are followed by some
dressed in women’s apparel, striped with white, reaching to their ancles,
with garlands on their heads, and wreaths of flowers in their hands,
imitating by their gestures the state of inebriety. The priestesses run
in every direction shouting and screaming, each with a thyrsus in
their hands. Men and women all intermingle, dancing and frolicking
with suggestive gesticulations. Deodorus says the festivals are carried
into the night, and it is then frenzy reaches its height. Deodorus says,
“ In performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run
about frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then the
women in a body offer the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus
in song as if he were present, in imitation of the ancient Mamades, who
accompanied him.” These festivities are carried into the night, and as
the celebrators become heated with wine, they degenerate into
extreme licentiousness. Similar enthusiastic frenzy is
exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan
(under the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in his
Worship of Serpents , on the morning of the Feast run naked through the
streets, striking the women they met on the hands and belly, which is
held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing the
same ostentatious display as the Bacchants at the festival of
Bacchanalia. The festival of Venus is celebrated towards the
beginning of April, and the Phallus is again drawn in a car, followed by
a procession of Roman women to the temple of Venus. Says a writer, “ The
loose women of the town and its neighbourhood, called together by the
sounding of horns, mix with the multitude in perfect nakedness, and
excite their passions with obscene motions and language until the
festival ends in a scene of mad revelry, in which all restraint is laid
aside.” It is said that these festivals take their rise from
Egypt, from whence they were brought into Greece by Metampus, where
the triumph of Osiris was celebrated with secret rites, and from thence
the Bacchanals drew their original; and from the feasts instituted by
Isis came the orgies of Bacchus. It seems not at all
improbable that the deities wor¬ shipped by the ancient Britons and the
Irish, were no other then the Phallic deities of the ancient Syrians
and Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius Periegites,
who lived in the time of Augustus Caesar, states that the rites of
Bacchus were celebrated in the British Isles ; while Strabo, who lived in
the time of Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier
writer described the worship of the Cabiri to have come
originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,
says, the supreme god above the rest was called Seodhoc and Baal. The
name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and is the same
as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien, was the
chief deity of the Irish, in whose honour the round towers were
erected, which structures the ancient Irish themselves designated
Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be found a
mention of a similar pillar consecrated to Baa]. Many of the same customs
and superstitions that existed among the Druids and ancient Irish,
will likewise be found among the Israelites. On the first day of
May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise offering him
sacrifices. A similar account is given of a custom of the Druids by
Toland, in an account of the festival of the fires ; he says :—“ on
May-day eve the Druids made prodigious fires on these earns, which
being everyone in sight of some other, could not but afford a glorious
show over a whole nation.” These fires are said to be lit even to the
present day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called by
them Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as given
them in the Highlands of Scotland. A similar practice to this will
be noticed as mentioned in the II Book of Kings, where the Canaanites in
their worship of Baal, are said to have passed their children through
the fire of Baal, which seems to have been a common practice, as
Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the same thing. Higgins
in his Anacalypsis, says this super¬ stitious custom still continues, and
that on “ particular days great fires are lighted, and the fathers taking
the children in their arms, jump or run through them, and thus pass
their children through them; they also light two fires at a little
distance from each other, and drive their cattle between them.” It will
be found on reference to Deuteronomy, that this very practice is
specially for¬ bidden. In the rites of Numa, we have also the
sacred fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra, and
of India, accompanied with an establishment of nuns or vestal virgins. A
sacred fire is said to have been kept burning by the nuns of Kildare,
which was established by St. Bridget. This fire was never blown with
the mouth, that it might not be polluted, but only with bellows;
this fire was similar to that of the Jews, kept burning only with peeled
wood, and never blown with the mouth. Hyde describes a similar fire which
was kept burning in the same way by the ancient Persians, who kept
their sacred fire fed with a certain tree called Hawm Mogorum; and
Colonel Vallancey says the sacred fire of the Irish was fed with the wood
of the tree called Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at
Kildare, the glorious Bridget was rendered illustrious by many
miracles, amongst which was the sacred fire, which had been kept burning
by nuns ever since the time of the Virgin. The earliest
sacred places of the Jews were evidently sacred stones, or stone circles,
succeeded in time by temples. These early rude stones, emblems of
the Creator, were erected by the Israelites, which in no way
differed from the erections of the Gentiles. It will be found that the
Jews to commemorate a great victory, or to bear witness of the Lord, were
all signfied by stones : thus, Joshua erected a stone to bear witness ;
Jacob put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the same
for a place of worship; Samuel erected a stone as a boundary, which was
to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in
his travels names several that he saw in Palestine. It is curious
that where a pillar was erected there, sometime after, a temple was
put up in the same manner that the Round Towers of Ireland were,—always
near a church, but never formed part of it. We find many instances in the
Scriptures of the erection of a number of stones among the early
Israelites, which would lead us to conclude that it was not at all
unlikely that the early places of worship among them, were similar to the
temples found in various parts of Great Britain and Ireland. It is
written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up early in the morning, and
builded an altar under the hill, and twelve pillars, according to
the twelve tribes of Israel, were erected. It is also given out that when
the children of Israel should pass over the Jordan, unto the land which
the Lord giveth them, they should set up great stones, and plaster them
with plaster, and also the words of the law were to be written thereon.
In many other places stones were ordered to be set up in the name of the
Lord, and repeated instances are given that the stones should be
twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have been
erected in all countries of the world, and even in America, where, among
the early American races are to be found customs, superstitions,
and religious objects of veneration, similar to the Phoenicians. An
American writer says:—“ There is sufficient evidence that the religious
customs of the Mexicans, Peruvians and other American races, are
nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . . . We moreover
discover that many of their religious terms have, etymologically, the
same origin.” Payne Knight, in his Worship of Priapus, devotes much of
his work to Phallic Worship 4i show that
the temples erected at Stonehenge and other places, were of a Phoenician
origin, which was simply a temple of the god Bacchus. Of all
the nations of antiquity the Persians were the most simple and direct in
the worship of the Creator. They were the puritans of the heathen world,
and not only rejected all images of God and his agents, but also
temples and altars, according to Herodotus, whose authority we prefer to
any other, because he had an opportunity of conversing with them before
they had adopted any foreign superstitions. As they worshipped the
ethereal fire without any medium of personification or allegory, they thought
it unworthy of the dignity of the god to be represented by any definite
form, or cir¬ cumscribed to any particular place. The universe was
his temple, and the all-pervading element of fire his only symbol. The
Greeks appear originally to have held similar opinions, for they were
long without statues and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built
by Adrastus—who lived in an age before the Trojan war— which
consisted of columns only, without wall or roof, like the Celtic temples
of our northern ancestors, or the Phyroetheia of the Persians, which were
circles of stones in the centre of which was kindled the sacred fire,
the symbol of the god. Homer frequently speaks of places of worship
consisting of an area and altar only, which were probably enclosures like
those of the Persians, with an 42 Phallic
Worship altar in the centre. The temples dedicated to the
creator Bacchus, which the Greek architects called kypcethral, seem
to have been anciently of this kind, whence probably came the title (“
surround with columns ”) attributed to that god in the Orphic litanies.
The remains of one of these are still extant at Puzznoli, near Naples,
which the inhabitants call the temple of Serapis ; but the
ornaments of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it
to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same deity worshipped
under another form, being usually a personification of the sun. The
architecture is of the Roman times ; but the ground plan is probably that
of a very ancient one, which this was made to replace—for it
exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland, published in
Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which enclose it are
not properly parts of the temple, but apartments of the priests, places
for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬
ordinate deities, introduced by a more complicated and corrupt worship
and probably unknown to the founder of the original edifice. The portico,
which runs parallel with these buildings, encloses the temenss , or area
of sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was
circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland,
and the Indian pagoda before described. In the centre was the holy of
holies, the seat of the god, consisting of a circle of columns raised
upon a basement, without roof or walls, in the middle of which was
probably the sacred fire or some other symbol of the deity. The
square area in which it stood was sunk below the natural level of the
ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been
occasionally floated with water; the drains and conduits being still to
be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents,
and various aquatic animals, which once adorned the basement. The
Bacchus here worshipped, was, as we learn from the Orphic hymn above
cited, the sun in his character of extinguisher of the fires which once
pervaded the earth. He is supposed to have done this by exhaling the
waters of the ocean and scattering them over the land, which was
thus supposed to have acquired its proper temperature and fertility. For
this reason the sacred fire, the essential image of the god, was
surrounded by the element which was principally employed in giving effect
to the beneficial exertions of the great attribute. From a
passage of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it seems evident
that Stonehenge and all the monu¬ ments of the same kind found in the
north, belong to the same religion which appears at some remote period
to have prevailed over the whole northern hemisphere. According to
that ancient historian, the Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul
, as large as Sicily , in which Apollo was worshipped in a circular
temple considerable for its si^e and riches. Apollo, we know, in the
language of the Greeks of that age, can mean no other than the sun,
which according to Caesar was worshipped by the Germans, when they knew
of no other deities except fire and the moon. The island can evidently be
no other than Britain, which at that time was only known to the Greeks by
the vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain and
obscure that Herodotus, the most inquisitive and credulous of historians,
doubts of its existence. The circular temple of the sun being noticed in
such slight and imperfect accounts, proves that it must have been
some¬ thing singular and important; for if it had been an
inconsiderable structure, it would not have been mentioned at all; and if
there had been many such in the country, the historian would not have
employed the singular number. Stonehenge has certainly been a
circular temple, nearly the same as that already described of the Bacchus
at. Puzznoli, except that in the latter the nice execution and
beautiful symmetry of the parts are in every respect the reverse of the
rude but majestic simplicity of the former. In the original design they
differ but in the form of the area. It may therefore be reasonably
supposed that we have still the ruins of the identical temple described
by Hecatasus, who, being an Asiatic Greek, might have received his
information from Phoenician merchants, who had visited the interior parts
of Britain when trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of
the same kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated
to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of
stone found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and
near Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name .—Pajne Knight’s Worship of
Priapus. Says Hyslop :—“ The hot cross-buns of Good
Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in the
Chaldean rites just as they do now. The buns known, too, by that
identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods,
was of great antiquity, and called Boun’ Diogenes mentioned * they were
made of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was
familiar with this lecherous worship. He says :—“ The children
gather wood, the fathers kindle the fire, and the women knead the
dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does
not add that the “ buns ” offered to the Queen of Heaven, and in
sacrifices to other deities, were framed in the shape of the sexual
organs, but that they were so in ancient limes we have abundance of
evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated ; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)
says :—“ When the people of Syracuse were sacrificing to goddesses, they
offered cakes called mulloi, shaped like the female organ, and in some
temples where the priestesses were probably ventriloquists, they so far
imposed on the credulous multitude who came to adore the Vulva as
to make them believe that it spoke and gave oracles.” We can
understand how such things were allowed in licentious Rome, but we can
scarcely comprehend how they were tolerated in Christian Europe, as, to
all innocent surprise we find they were, from the second part of
the “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge, in
the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in 46
Phallic Worship the form of the Phallus are made as
offerings at Easter, carried and presented from house to house.
Dulare states that in his time the festival of Palm Sunday, in the
town of Saintes, was called le fete des pinnes —feast of the privy
members—and that during its continuance the women and children carried in
the procession a Phallus made of bread, which they called a pinne , at
the end of their palm branches ; these pinnes were subsequently
blessed by priests, and carefully preserved by the women during the
year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered, is a euphemism of the
male organ, and it is curious to see it united with the Phallus in
Christendom. Dulare also says that, in some of the earlier inedited
French books on cookery, receipts are given for making cakes of the
salacious form in question, which are broadly named. He further tells us
those cakes symbolized the male, in Lower Limousin, and especially at
Brives ; while the female emblem was adopted at Clermont, in Auvergne,
and other places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The
ark of the covenant was a most sacred symbol in the worship of the Jews,
and like the sacred boat, or ark of Osiris, contained the symbol of the
principle of life, or creative power. The symbol was preserved with
great veneration in a miniature tabernacle, which was considered the
special and sanctified abode of the god. In size and manner of
construction the ark of the Jews and the sacred chest of Osiris of the
Egyptians were exactly alike, and were carried in processions in a
similar manner The ark or chest of Osiris was attended by the
priests, and was borne on the shoulders of men by means of staves.
The ark when taken from the temple was placed upon a table, or stand,
made expressly for the purpose, and was attended by a procession similar
to that which followed the Jewish ark. According to Faber, the ark
was a symbol of the earth or female principle, containing the germ of all
animated nature, and regarded as the great mother whence all tilings
sprung. Thus the ark, earth, and goddess, were represented by common
symbols, and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”
The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians were the
Phallus, the Egg, and the Serpent; the first representing the sun, fire,
and male or generative principle —the Creator; the second, the passive or
female, the germ of all animated things—the Preserver; and the last
the Destroyer: the Three of the sacred Trinity. The Hindu women,
according to Payne Knight, still carry the lingam, or consecrated symbol
of the generative attribute of the deity, in solemn procession between
two serpents; and in a sacred casket, which held the Egg and the
Phallus in the mystic processions of the Greeks, was also a
Serpent. “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the
ancient religions.” It was often represented in the form of a boat, or
ship, as well as an oblong chest. The rites of the Druids, with those of
Phoenicia and Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or cavern,
held an important place in their mysteries. In the story of Osiris, like
that of the Siva, will be found the reason for the emblem being
carried in the sacred chest, and the explanation of one of
48 Phallic Worship the mysteries of the Egyptian
priests. It is said that Osiris was torn to pieces by the wicked Typhon,
who after cutting up the body, distributed the parts over the
earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought them back to
Egypt; but, being unable to find the part which distinguished his sex,
she had an image made of wood, which was enshrined in an ark, and ordered
to be solemnly carried about in the festivals she had instituted in
his honour, and celebrated with certain secret rites. The Egg,
which accompanied the Phallus in the ark was a very common symbol of the
ancient faiths, which was considered as containing the generation of
life. The image of that which generated all things in itself. Jacob
Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles of life was
thought no improper emblem of the ark, in which were preserved the future
world. Hence in the Dionysian and in other mysteries, one part of the
nocturnal ceremony consisted in the consecration of an egg.” This
egg was called the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of
salvation, the place of safety, the secret receptacle of the divine
wisdom. Hence we find the ark of the Jews containing the tables of
the law; we find too that the Jews were ordered to place in the ark Aaron’s
rod, which budded, conveying the idea of symbolised fertility : showing
that the ark was considered as the receptacle of the life
principle—as an emblem of the Creator. With the Egyptians
Osiris was supposed to be buried in the ark, which represented the
disappearance of the deity. His loss, or death, constituted the first
part of the mysteries, which consisted of lamentations for his decease.
After the third day from his death, a procession went down to the
seaside in the night, carrying the ark with them. During Phallic
Worship 49 the passage they poured drink offerings
from the river, and when the ceremony had been duly performed, they
raised a shout that Osiris had again risen—that the dead had been
restored to life. After this followed the second or joyful part of the
mysteries. The s imila rity of this custom with the Good Friday
celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on account of his
resurrection on Easter Sunday, will be at once observed. It is further
said that the missing part of Osiris was eaten by a fish, which made the
fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good Friday
brought together, also the Egg, for the origin of the Easter eggs is very
ancient. A bull is represented as breaking an egg with his horn, which signified
the liberating of imprisoned life at the opening or spring of the
year, which had been destroyed by Typhon. The opening of the year at that
time commenced in the spring, not according to our present reckoning;
thus, the Egg was a symbol of the resurrection of life at the spring,
or our Easter time. The author of the “ Worship of the Generative
Powers,” describes the origin of the hot cross¬ bun at Easter, which is a
further parallelism of the Christian and Pagan festivals. The author also
draws a further conclusion—that the cakes or buns have in reality a
Phallic origin, for in France and other parts, the Easter cakes were
called after the membrun virile. The writer says :—“ In the primitive
Teutonic mythology, there was a female deity named in old German, Ostara,
and in Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her is
the simple statement of our father of history, Bede, that her festival
was celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eoster- mona, and that the name of the goddess had been
frequently given to the Paschal time, with which it was identical.
The name of this goddess was given to the same month by the old
Germans and by the Franks, so that she must have been one of the most
highly honoured of the Teutonic deities, and her festival must have been
a very important one and deeply implanted in the popular feelings, or
the Church would not have sought to identify it with one of the
greatest Christian festivals of the year. It is under¬ stood that the
Romans considered this month as dedicated to Venus, no doubt because it
was that in which the productive powers of nature began to be visibly developed.
When the Pagan festival was adopted by the Church, it became a moveable
feast, instead of being fixed to the month of April. Among other objects
offered to the goddess at this time were cakes, made no doubt of
fine flour, but of their form we are ignorant. The Christians when
they seized upon the Easter festival, gave them the form of a bun, which
indeed was at that time the ordinary form of bread ; and to protect
themselves and those who ate them from any enchantment—or other evil
influences which might arise from their former heathen character—
they marked them with the Christian symbol—the cross. Hence we derived
the cakes we still eat at Easter under the name of hot cross-buns, and
the superstitious feelings attached to them; for multitudes of people still
believe that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,
they would be unlucky all the rest of the year.” The earliest capital
seems to have been the bell or seed vessel, simply copied without
alteration, except a little expansion at the bottom to give it stability.
The leaves of some other plant were then added to it, and varied in
different capitals according to the different meanings intended to be
signified by the accessory symbols. The Greeks decorated it in the same
manner, with the foliage of various plants, sometimes of the acanthus
and sometimes of the aquatic kind, which are, however, generally so
transformed by excessive attention to elegance, that it is difficult to
distinguish them. The most usual seems to be the Egyptian acacia, which
was probably adopted as a mystic symbol for the same reasons as the
olive, it being equally remarkable for its powers of reproduction.
Theophrastus mentions a large wood of it in the “ Thebaid,” where the
olive will not grow, so that we reasonably suppose it to have been
employed by the Egyptians in the same symbolical sense. From them
the Greeks seem to have borrowed it about the time of the Macedonian
conquest, it not occurring in any of their buildings of a much earlier
date ; and as for the story of the Corinthian architect, who is said to
have invented this kind of capital from observing a thorn growing
round a basket, it deserved no credit, being fully contradicted by the
buildings still remaining in Upper Egypt. The Doric column,
which appears to have been the only one known to the very ancient Greeks,
was equally derived from the Nelumbo; its capital being the same
seed-vessel pressed flat, as it appears when withered and dry—the only
state probably in which it had been seen in Europe. The flutes in the
shaft were made to hold spears and staves, whence a spear-holder is
spoken of in the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and
blocks of the cornice were also derived from utility, they having been
intended to represent the projecting ends of the beams and rafters which
formed the roof. The Ionic capital has no bell, but volutes formed
in imitation of sea-shells, which have the same symbolical meaning.
To them is frequently added the ornament which architects call a honeysuckle,
but which seems to be meant for the young petals of the same flower
viewed horixontally, before they are opened or expanded. Another
ornament is also introduced in this capital, which they call eggs and
anchors, but which is, in fact, composed of eggs and spear-heads, the
symbols of female generation and male destructive power, or in the
language of mythology, of Venus and Mars .—Payne Knight. Stripped,
however, of all this splendour and magnifi¬ cence it was probably nothing
more than a symbolical instrument, signifying originally the motion of
the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele, the
bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have overcome the
Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her sistrum, and
the ringing of the bells and clatter of metals were almost universally
employed as a means of consecration, and a charm against
the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed the new moon
with such noises, which the simplicity of the early ages employed almost
everywhere to relieve her during eclipses, supposed then to be morbid
affections brought on by the influence of an adverse power. The
title Priapus , by which the generative attribute is distinguished, seems to be
merely a corruption of Brt'apuos (clamorous); the beta and pi being
commutable letters, and epithets of similar meaning, being continually
applied both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic
figures, too, still extant, have bells attached to them, as the
symbolical statues and temples of the Hindus are; and to wear them was a
part of the worship of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes
find them of extremely small size, evidently meant to be worn as
amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians
and also the high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to
their sacerdotal garments ; and the Brahmins still continue to ring a
small bell at the interval of their prayers, ablutions, and other acts of
devotion; which custom is still preserved in the Roman Catholic Church at
the elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel or
pan, on the death of their kings, and we still retain the custom of
tolling a bell on such occasions, though the reason of it is not
generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing. 1 It will be observed that the bells used by
the Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight’s “ Symbolical Language of ancient Art
and Mythology.” monks for over 2,000 years. Tinkling bells were
suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and during the service the
gods were invited to descend upon the altars by the ringing of bells ;
they were likewise sacred to Siva. Bells were used at the worship of
Bacchus, and were worn on the garments of the Bacchantes, much in
the same manner as they are used at our carnivals and masquerades.The
following curious fable is given by Sir William Jones, as one of the
stories of the Hindus for the origin of Phallic devotion:—“ Certain devotees
in a remote time had acquired great renown and respect, but the purity of
the art was wanting, nor did their motives and secret thoughts
correspond with their professions and exterior conduct. They affected
poverty, but were attached to the things of this world, and the princes
and nobles were constantly sending their offerings. They seemed to
sequester them¬ selves from this world ; they lived retired from the
towns ; but their dwellings were commodious, and their women
numerous and handsome. But nothing can be hid from their gods, and
Sheevah resolved to put them to shame. He desired Prakeety (nature) to
accompany him; and assumed the appearance of a Pandaram of a
graceful form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.
She went before the devotees who were assembled with their disciples,
awaiting the rising of the sun, to perform their ablutions and religious
ceremonies. As she advanced the refreshing breeze moved her flowing robe,
showed the exquisite shape which it seemed intended to conceal.
With eyes cast down, though sometimes opening with a timid but tender
look, she approached them, and with a low enchanting voice desired to be
admitted to the sacrifice. The devotees gazed on her with astonishment.
The sun appeared, but the purifications were forgotten; the things
of the Poojah (worship) lay neglected; nor was any worship thought of but
that of her. Quitting the gravity of their manners, they gathered round
her as flies round the lamp at night—attracted by its splendour,
but consumed by its flame. They asked from whence she came; whither she
was going. ‘ Be not offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made to
convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference, indignation and
resentment are unknown. But whoever thou mayest be, whatever motive or
accident might have brought thee amongst us, admit us into the number
of thy slaves; let us at least have the comfort to behold thee.’
Here the words faltered on the lip, and the soul seemed ready to take its
flight; the vow was forgotten, and the policy of years destroyed.
“ Whilst the devotees were lost in their passions, and absent from
their homes, Sheevah entered their village with a musical instrument in
his hand, playing and singing like some of those who solicit charity. At
the sound of his voice, the women immediately quitted their
occupation; they ran to see from whom it came. He was as beautiful
as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their jewels without
turning to look for them ; others let fall their garments without
perceiving that they discovered those abodes of pleasure which jealousy
as well as decency had ordered to be concealed. All pressed forward
with their offerings, all wished to speak, all wished to be taken
notice of, and bringing flowers and scattering them before him, said—‘
Askest thou alms ! thou who are made to govern hearts. Thou whose
countenance is as fresh as the morning, whose voice is the voice of
pleasure, and they breath like that of Vassant (Spring) in the opening
of the rose! Stay with us and we will serve thee; not will we
trouble thy repose, but only be zealous how to please thee.’ The Pandaram
continued to play, and sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen
and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. . . .
“ But the desire of repose succeeds the waste of pleasure. Sleep
closed the eyes and lulled the senses. In the morning the Pandaram was
gone. When they awoke they looked round with astonishment, and again
cast their eyes on the ground. Some directed to those who had
formerly been remarked for their scrupulous manners, but their faces were
covered with their veils. After sitting awhile in silence they arose and
went back to their houses, with slow and troubled steps. The
devotees returned about the same time from their wanderings after
Prakeety. The days that followed were days of embarrass¬ ment and shame.
If the women had failed in their modesty, the devotees had broken their
vows. They were vexed at their weakness, they were sorry for what
they had done; yet the tender sigh sometimes broke forth, and the eyes
often turned to where the men first saw the maid—the women, the
Pandaram. “ But the women began to perceive that what the
devotees foretold came not to pass. Their disciples, in consequence,
neglected to attend them, and the offerings from the princes and nobles
became less frequent than Phallic Worship 57
before. They then performed various penances; they sought for
secret places among the woods unfrequented by man; and having at last
shut their eyes from the things of this world, retired within themselves
in deep meditation, that Sheevah was the author of their misfortunes.
Their understanding being imperfect, instead of bowing the head with
humility, they were inflamed with anger; instead of contrition for
their hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new
sacrifices and incantations, which were only allowed to have effect in
the end, to show the extreme folly of man in not submitting to the will
of heaven. “ Their incantations produced a tiger, whose mouth
was like a cavern and his voice like thunder among the mountains. They
sent him against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the
vale. He smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow
with his club, he covered himself with his skin. Seeing them¬
selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another,
and sent serpents against him of the most deadly kind; but on approaching
him they became harmless, and he twisted them round his neck. They
then sent their curses and imprecations against him, but they all
recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices ; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire witti indignation against the human race; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah
relented ; but it was ordained that in his temples those parts should be
worshipped, which the false doctrines had impiously attempted to
destroy.” THE CROSS AND ROSARY The key which is still
worn with the Priapic hand, as an amulet, by the women of Italy appears
to have been an emblem of the equivocal use of the name, as the
language of that country implies. Of the same kind, too, appears to
have been the cross in the form of the letter tau, attached to a circle,
which many of the figures of Egyptian deities, both male and female,
carry in their left hand ; and by the Syrians, Phoenicians and other
inhabitants of Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as
the emblem or image of that goddess. The cross in this form is
sometimes observable on coins, and several of them were found in a temple
of Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by
the Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries
of that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims ; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the
early coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. Phallic Worship 59
BEADS Beads were anciently used to reckon time, and a
circle, being a line without termination, was the natural emblem of
its perpetual continuity ; whence we often find circles of beads upon the
heads of deities, and enclosing the sacred symbols upon coins and other
monuments. Perforated beads are also frequently found in tombs,
both in the northern and southern parts of Europe and Asia, whence
are fragments of the chaplets of consecration buried with the deceased.
The simple diadem, or fillet, worn round the head as a mark of
sovereignty, had a similar meaning, and was originally confined to the
statues of deities and deified personages, as we find it upon the
most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in the “ Iliad,”
brings the diadem, or sacred fillet, of the god upon his sceptre, as the
most imposing and invocable emblem of sanctity ; but no mention is made
of its being worn by kings in either of the Homeric poems, nor of
any other ensign of temporal power and command, except the royal
staff or sceptre. THE LOTUS The double sex typified by
the Argha and its contents is by the Hindus represented by the “ Mymphoea
” or Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where the
whole plant signifies both the earth and the two principles of its
fecundation. The germ is both Meru and the Linga; the petals and
filaments are the mountains which encircle Meru, and are also a type of
the Yoni; the leaves of the calyx are the four vast regions to the
cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are the Dwipas or
isles round the land of Jambu. As this plant or lily was probably the
most celebrated of all the vegetable creation among the mystics of the
ancient world, and is to be found in thousands of the most beautiful
and sacred paintings of the Christians of this day—I detain my
reader with a few observations respecting it. This is the more necessary
as it appears that the priests have now lost the meaning of it; at least
this is the case with everyone of whom I have made enquiry ; but it is
like many other very odd things, probably understood in the
Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the
different plants which ornament our globe, there is not one which has
received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins's Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship :— “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This
plant grows in the water, among its broad leaves puts forth a
flower, in the centre of which is formed the seed vessel. shaped like a
bell or inverted cone, and perforated on the top with little cavities or
cells, in which the seeds grow. The orifices of these cells being too
small to let the seeds drop out when ripe, they shoot forth into new
plants in the places where tney are formed : the bulb of the vessel
serving as a matrix to nourish them, until they acquire such a degree of
magnitude as to burst it open and release themselves, after which, likfe
other aquatic weeds, they take root wherever the current deposits them.
This plant, therefore, being thus productive of itself, and
vegetating from its own matrix, without being fostered in the earth, was
naturally adopted as the symbol of the productive power of the waters,
upon which the active spirit of the Creator operated in giving life and
vegetation, to matter. We accordingly find it employed in every
part of the northern hemisphere, where the symbolical religion,
improperly called idolatry , does or ever did prevail. The sacred images
of rhe Tartars, Japanese, and Indians are almost placed upon it, of which
numerous instances occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat,
etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his Lotus
throne, and the figure upon the Isaaic table holds the stem of this plant
surmounted by the seed vessel in one hand, and the Cross representing the
male organs of generation in the other; thus signifying the
universal power, both active and passive, attributed to that
goddess.” Nimrod says :—“ The Lotus is a well-known allegory,
of which the expansive calyx represents the ship of the gods floating on
the surface of the water ; and the erect flower arising out of it, the
mast thereof. The one was the galley or cockboat, and the other the mast
of cockayne ; but as the ship was Isis or Magna Mater, the female
principle, and the mast in it the male deity, these parts of the flower
came to have certain other significations, which seem to have been as
well known at Samosata as at Benares. This plant was also used in the
sacred offices of the Jewish religion. In the ornaments of the temple of
Solomon, the Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis
is frequently represented holding the stem of the plant in one hand, and
the cross and circle in the other. Columns and capitals resembling
the plant are still existing among the ruins of Thebes, in Egypt,
and the island of Pbilce. The Chinese goddess, Pussa, is represented
sitting upon the Lotus, called in that country Lin, with many arms,
having symbols signifying the various operations of nature, while
similar attributes are expressed in the Scandinavian goddess Isa or
Disa. The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and
Egyptian cosmogony. This plant appears to have the same tendency with the
Sphinx, of marking the connection between that which produces and that
which is produced. The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the
blue Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of
celestial love so frequently seen mounted on the back of Leo in the
ancient remains. The following is a translation of the Purana relating to
the cosmogony of the Hindus, and will be found interesting as showing the
importance attached to the Lotus in the worship of the ancients :—
“ We find Brahma emerging from the Lotus. The whole universe was dark and
covered with water. On this primeval water did Bhagavat (God), in a
masculine form, repose for the space of one Calpho (a thousand
years); after which period the intention of creating other beings for his
own wise purposes became pre¬ dominant in the mind of the Great Creator .
In the first Phallic Worship 63 place,
by his sovereign will was produced the flower of the Lotus, afterwards,
by the same will, was brought to light the form of Brahma from the said
flower ; Brahma, emerging from the cup of the Lotus, looked round on
all the four sides, and beheld from the eyes of his four heads an
immeasurable expanse of water. Observing the whole world thus involved in
darkness and submerged in water, he was stricken with prodigious
amazement, and began to consider with himself, £ Who is it that produced
me ? ’ * whence came I ? ’ ‘ and where am I ? * “ Brahma,
thus kept two hundred years in contem¬ plation, prayers, and devotions,
and having pondered in his mind that without connection of male and
female an abundant generation could not be effected—again entered
into profound meditation on the power of the Supreme, when, on a sudden
by the omnipotence of God, was produced from his right side Swayambhuvah
Menu , a man of perfect beauty; and from the Brahma’s left side a
woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs thus :—‘ O Bhagavat!
since thou broughtest me from nonentity into existence for a particular
purpose, accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a short
time a small white boar appeared, which soon grew to the size of an
elephant. He now felt God in all, and that all is from Him, and all in
Him. At length the power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.
He began to use the instinct of that animal. Having divided the water, he
saw the earth a mighty barren stratum. He then took up the mighty
ponderous globe (freed from the water) and spread the earth like a
carpet on the face of the water; Brahma, contemplating the whole earth,
performed due reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the
means of peopling the renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the
first land said to have appeared, but with the Brahmins it is a disputed
point, for many affirm that Cast or Benares was the sacred ground.
MERU The learned Higgins, an English judge, who for
some years spent ten hours a day in antiquarian studies, says that
Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus
of the Greeks. Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or
Venus, which because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount
Calvary—each a slightly skull-shaped mount, that might be represented by
a bare head. The Bible translators perpetuate the same idea in the word “
calvaria.” Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its
name from its being the place of the crucifixion of Jesus. Looking
elsewhere and in earlier times for the bare calvaria, we find among
Oriental women, the Mount of Venus, mons veneris , through motives of
neatness or religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We
see Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a
priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave
the head. To make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of
Thibet, it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,
or Arba. This marvellous work of excavation by the slow process of
the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards published a
volume describing the temple and its vast statues. The beauty of its
architectural ornaments, the innumerable statues or emblems, all hewn out
of solid rock, dispute with the Pyramids for the first place among
the works undertaken to display power and embody feeling. The stupendous
temple is detached from the neighbouring mountain by a spacious area all
round, and is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet broad, reaching to
the height of 100 feet and in length about 145 feet. It has
well-formed doorways, windows, staircases, upper floors, containing fine
large rooms of a smooth and polished surface, regularly divided by rows
of pillars ; the whole bulk of this immense block of isolated excavation
being upwards of 500 feet in circumference, and having beyond its
areas three handsome figure galleries or verandas supported by regular
pillars. Outside the temple are two large obelisks or phalli standing, “
of quadrangular form, eleven feet square, prettily and variously carved,
and are estimated at forty-one feet high; the shaft above the
pedestal is seven feet two inches, being larger at the base than
Cleopatra’s Needle.” In one oi the smaller temples was an image of
Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily
strewed on its circular top. This Lingam is larger than usual, occupying
with the altar, a great part of the room. In most Ling rooms a sufficient
space is left for the votaries to walk round whilst making the usual
invocations to the deity (Maha Deo). This deity is much frequented
by female votaries, who take especial care to keep it clean washed,
and often perfume it with oderiferous oils and flowers, whilst the
attendant Brahmins sweep the apartment and attend the five oil lights and
bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni (circular frame), into
which the light itself was placed. No symbol was more venerated or
more frequently met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “
Barren women constantly resort to it to supplicate for children,” says
Seeley. The mysteries attended upon them is not described, but doubtless
they were of a very similar character to those described by the
author of the “ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,”
showing again the similarity of the custom with those practised by the
Catholics in France. The writer says :—“ Women sought a remedy for
barren¬ ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they
appear to have placed a part of their body, naked, against the image of
the saint, or to have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold
an adoption of the indecencies of Pagan worship to last long, or to be
practised openly ; but it appears to have been innocently represented
by lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,
understood to represent him without the presence of the energetic member.
In a corner in the church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in
France, there is a stone called the chair of St. Fiacre, which confers
fecundity upon women who sit upon it; but it is necessary nothing
should intervene between their bare skin and the stone. In the church of
Orcival in Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the
same purpose and which had perhaps replaced some less equivocal
object.” The principal object of worship at Elora is the stone,
so frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he
apologises for using the word so often, but asks to be excused, “ is an
emblem not generally known, but as frequently met with as the Cross in
Catholic worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative
character, the base of which is usually inserted in the Yoni. The
stone is of a conical shape, often black stone, covered with flowers (the
Bella and Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the
Ling stone to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the
same as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in
the worship at the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is
often seen on the top of the Ling. The characteristic attribute of the
passive generative power was expressed in symbolical writing, by
different enigmatical representations of the most distinguished
characteristic of the female sex: such as the shell or Concha Veneris ,
the fig-leaf, barley corn, and the letter Delta, all of which occur very
frequently upon coins and other ancient monuments in this sense. The
same attribute personified as the goddess of Love, or desire, is
usually represented under the voluptuous form of a beautiful woman,
frequently distinguished by one of these symbols, and called Venus,
Kypris, or Aphrodite, names of rather uncertain mythology. She is said to
be the daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and
female personifications of the all-pervading Spirit of the Universe ;
Dione being the female Dis or Zeus, and there¬ fore associated with him
in the most ancient oraculai temple of Greece at Dodona. No other
genealogy appears to have been known in the Homeric times ; though
a different one is employed to account for the name of Aphrodite in
the “ Theogony ” attributed to Hesiod. The Genelullides or Genoidai
were the original and appropriate ministers or companions of Venus, who
was however, afterwards attended by the Graces, the proper and
original attendants of Juno; but as both these goddesses were
occasionally united and represented in one image, the personifications of
their respective sub¬ ordinate attributes were on other occasions
added: whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a beard,
and other appearances of virility, which seems to have been the most
ancient mode of representing the celestial as distinguished from the
popular goddess of that name—the one being a personification of a
general procreative power, and the other only of animal desire or
concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when advanced to
maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them ; and, in a
celebrated work of Phidias, we find the former represented with her
foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,
the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an androgynous
animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ; and the goat
was equally appropriate to what was meant to be expressed in the
other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the Phallic
Worship 69 Phallus in the ancient processions in
honour of Bacchus, and still continuing among the common people of
Italy to be an emblem of what it anciently meant: whence we often
see portraits of persons of that country painted with it in one hand, to
signify their orthodox elevation to the fair sex. Hence, also arose the
Italian expression far la fica , which was done by putting the thumb
between the middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic
orna¬ ments extant; or by putting the finger or thumb into the
corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. The same liberal and humane spirit
still prevails among those nations whose religion is founded on the
same principles. “ The Siamese,” says a traveller of the
seventeenth century, “ shun disputes and believe that almost all
religions are good ” (“ Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador
of Louis XIV asked their king, in his master’s name, to embrace
Christianity, he replied, “ that it was strange that the king of
France should interest himself so much in an affair which concerns
only God, whilst He, whom it did concern, seemed to leave it wholly to
our discretion. Had it been agreeable to the Creator that all nations
should have had the same form of worship, would it not have been as easy
to His omnipotence to have created all men with the same sentiments and
dispositions, and to have inspired them with the same notions of the True
Religion, as to endow them with such different tempers and inclinations ?
Ought they not rather to believe that the true God has as much
pleasure in being honoured by a variety of forms and ceremonies, as
in being praised and glorified by a number of different creatures ? Or
why should that beauty and variety, so admirable in the natural order of
things, be less admirable or less worthy of the wisdom of God in
the supernatural ? ” The Hindus profess exactly the same
opinion. “ They would readily admit the truth of the Gospel,” says a
very learned writer long resident among them, “ but they contend
that it is perfectly consistent with their Shastras. The Deity, they say,
has appeared innumerable times in many parts of this world and in all
worlds, for the salvation of his creatures ; and we adore, they say, the
same God, to whom our several worships, though different in form,
are equally acceptable if they be sincere in substance.” The
Chinese sacrifice to the spirits of the air the mountains and the rivers
; while the Emperor himself sacrifices to the sovereign Lord of Heaven,
to whom all these spirits are subordinate, and from whom they are
derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged this primitive
elementary worship with some of the allegorical fables of their
neighbours ; but still as their creed—like that of the Greeks and
Romans—remains undefined, it admits of no dogmatical theology, and
of course no persecution for opinion. Obscure and sanguinary rites
have, indeed, been wisely prescribed on many occasions ; but still as
actions and not as opinions. Atheism is said to have been punished with
death at Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted
whether the atheism, against which the citizens of that republic
expressed such fury, consisted in a denial of the existence of the gods ;
for Diagoras, who was obliged to fly for this crime, was accused of
revealing and calum¬ niating the doctrines taught in the Mysteries ; and
from the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe
that his offence was of the same kind, though he had not been
initiated. These were the only two martyrs to religion among
the ancient Greeks, such as were punished for actively violating or
insulting the Mysteries, the only part of their worship which seems to
have possessed any vitality; for as to the popular deities, they were
publicly ridiculed and censured with impunity by those who dared not
utter a word against the populace that worshipped them; and as to
the forms and ceremonies of devotion, they were held to be no otherwise
important, then as they were constituted a part of civil government of
the state; the Phythian priestess having pronounced from the
tripod, that whoever performed the rites of his religion according to
the laws of his country, performed them in a manner pleasing to the
Deity. Hence the Romans made no alterations in the religious institutions
of any of the conquered countries ; but allowed the inhabitants to be as
absurd and extravagant as they pleased, and to enforce their absurdities
and extravagances wherever they had any pre-existing laws in their
favour. An Egyptian magistrate would put one of his fellow-subjects to
death for killing a cat ora monkey; and though the religious fanaticism
of the Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely
free from restraint, a chief of the synagogue could order anyone of his
congregation to be whipped for neglecting or violating any part of the
Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of
one plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist of
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that
all rites of worship and forms of devotion were directed to the
same end, though in different modes and through different channels. “
Even they who worship other gods, says Krishna, the incarnate Deity, in
an ancient Indian poem ( Bhagavat-Gita ), “worship me although they know
it not ''— Payne Knight. Mario Cazzaniga. Gian Mario
Cazzaniga. Keywords: rito di passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria,
esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale,
conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. Cazzaniga.
Grice e Ceccato: l’implicatura
conversazionale del plusquamperfectum -- implicatura imperfetta -- il perfetto filosofo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo italiano.
Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession
with geometrical conjunctions and my
favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also
philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to
give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the
‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see
it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised
on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological
findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of
happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how
not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised
on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to
be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the
perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver
proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello
sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e
perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente
"metodologia operativa" e in seguito "cibernetica".
Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica.
Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso
successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad
interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti
contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in
collaborazione con il Gruppo V di Rimini. Studioso della psicologia
filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per
costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in
termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente
elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze
operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della
espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale.
Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è
tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione
musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della
successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua
adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a
Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività
Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di
Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro
ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre"
di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si
crede Socrate. Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso
nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come
filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con
la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions
Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano);
“Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti,
Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il
gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un
cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e
responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed. Priuli&Verlucca,
Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista
inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille
tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia”
(Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la
Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di
Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La
cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e
attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova,
Universitas Studiorum. PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE,
di C.. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione
delle Attivita... L ' Anatomica methodus, di Andrés Laguna (1499 - 1560 ).
Pisa, Giardini, C., comp: Corso di linguistica operativa. A cura di Silvio
Ceccato. Centoventotto illustrazioni nel testo. Milano, Longanesi, lllus. Language and Behavior (1946 ) was
published in Italian translation in 1949, thanks to C. (cf. Petrilli). C.,
padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava mettendo a punto
insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ”, di cui
si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi
in memoria di C. - Page 5books.google.com › books· Translate this page 1999 ·
Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame
Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i giornali hanno dedicato
pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli alla figura di C.. Se
qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's little volume Corso di
linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger library,
the work of a semantic pioneer. C.. C. (Civilta delle Macchine) This monograph
presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian
Operational School in their attempts to develop techniques to be used in...
Foundations of Language, Page 171books.google.com › books 1965 · Snippet
view FOUND INSIDE .. with his hand, when he moves the pieces, he performs a
manual, a physical activity. Foundations of Language. The two types of activity
can be distinguished in a 171 C.. I use an operational approach to mental
activity based on C.. TECNICA OPERATIVA " (Ceccato), one of the earliest
approaches implemented on a computer (University of Milan). 2 - I look at the.
Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa '
di C., di cui un primo abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris:
Herman & Cie. 1951. Die C. si verdano anche articoli in Methodos... C., the
Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction, told me
that once, after a public discussion of his theory, he overheard a philosopher
say: " If Ceccato were right, the rest of us would be fools ! C.'s group
exploited semantic pattern matching using semantic categories and semantic case
frames, and C.s approach (1967 ) also involved the use of world knowled. It
is the purpose of this paper to define and differentiate the various uses
of the imperfect indicative, to discover if possible their origin and
trace their interrelations, to outline in fact the history of the tense
in early Latin. The term ' early Latin ' is used somewhat elastically as
including not only all the remains of the language down to about the time
of Sulla, but also the first volume of inscriptions (to 44 B. c.) and the
works of Varro, for Varro belongs distinctly to the older school of
writers in spite of the fact that the Rerum rusticarum libri were written
as late as 37 B. c. But exact chronological periods are of little
meaning in matters of this sort, and the present outline, being but a frag-
ment of a more complete history of the tense, may stop at this point as
well as another. Before proceeding to the investigation of the
cases of the imperfect occurring in early Latin it is necessary to
describe briefly the system by which these cases have been classified.
In the first place all cases of the same verb have been placed
together so that the individual verb forms the basis of classification. 1
Then verbs of similar meanings have been combined to form larger
groups. There result three main groups (and some subdivisions) which for
the better understanding of this paper may be tabulated thus: Verbs
of physical action or state. Motion of the whole of a body, e. g. eo,
curro. 2. Action of a part of a body, e. g. do, iacio.Verbal
communication, e. g. dico,promilto. 4. Rest or state, e. g. sum,
sto, sedeo. II. Verbs of psychic action or state. 1.
Thought, e. g.puto, scio, spcro. 2. Feeling, e. g. metuo,
atno. 3. Will, e. g. volo, nolo. 1 Cf. Trans. Am.
Philolog. Ass., XXX, 1899, pp. 14-15. Auxiliary verbs, i. e. verbs which
represent such English words as could, should, might, &c, &c, e.
g. possum, oportet, decet. Such a system has, of course, many
inconsistencies. The verb ago, for instance, may be a verb of action (I.
2) or of verbal com- munication (I. 3), but since instances of this sort
were compara- tively rare and affected no important groups of verbs it
has seemed best not to separate cases of the same verb. Again
I. 3 is logically a part of I. 2, or the verbs grouped under III might
perhaps have been distributed among the different subdivisions of I and
II. But the object of the classification, to discover the function of
each case, has seemed best attained by grouping the verbs as described.
By this system verbs of similar meaning, whose tenses are therefore
similarly affected, are brought together and this is the essential point.
In a very large collection of cases a stricter subdivision would
doubtless prove of advantage. 2. The Facts 1 of Usage.
There are about 1400 cases of the imperfect indicative in the
period covered by this investigation. Of these, however, it has been
necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226 from a consideration
of which the results have been obtained. The tense appears, therefore,
not to have been a favorite, and its comparative infrequency which I have
noted already for Plautus and Terence 3 may here be asserted for the
whole period of early Latin. About three-quarters of the total number of
cases are supplied by Plautus, Terence, and Varro (see Table I).
A study of these 1226 cases reveals three general uses of the
imperfect indicative : I. The progressive or true imperfect.
II. The aoristic imperfect. III. The' shifted'
imperfect. Let us consider these in order. In the following pages I
have made an effort to state and illustrate the facts, reserving theory
and discussion for the third section of this paper. These are cases
doubtful for one reason or another, chiefly because of textual corruption
or insufficient context. For the latter reason perhaps too many cases
have been excluded, but I have chosen to err in this direction since so
much of the material consists of fragments where one cannot feel
absolutely certain of the force of the tense. Trans. Am. Philolog.
Ass.. The true imperfect shows several subdivisions : I A. The
simple progressive imperfect. I B. The imperfect of customary past
action. I C. The frequentative imperfect. Of these I A
and I B include several more or less distinct variations, but all three
uses together with their subdivisions betray their relationship by the
fact that all possess or are immediately derived from the progressive '
function. This pro- gressive idea, the indication of an act as
progressing, going on, taking place, in past time or the indication of a
state as vivid, is the true ear-mark of the tense. The time may be in the
distant past or at any point between that and the immediate past or it
may even in many contexts extend into the present. In duration the time
may be so short as to be inappreciable or it may extend over years. The
time is, however, not a distinguishing mark of the imperfect. The perfect
may be described in the same terms. The kind of action * remains,
therefore, the real criterion in the distinction * of the imperfect from
other past tenses. I A. The Simple Progressive Imperfect.
Under this heading are included all cases in which the tense
indicates simple progressive action, i. e. something in the 'doing', '
being ', 4 &c. The idea of progression is present in all the cases,
but there are in other respects considerable differences according to
which some distinct varieties may be noted. All told there are 680 cases
of this usage constituting more than half the total. I I have
chosen progressive as more expressive than durative which seems to
emphasize too much the time. 2 'Kind of action' will translate the
convenient German Aktionsart while ' time ' or ' period of time ' may
stand for Zeitstufe. % Herbig in his very interesting discussion,
Aktionsart und Zeitstufe (I. F. '896), comes to the conclusion that
'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe ' and that though many tenses are
used timelessly none are used in living speech without
'Aktionsart.' The progressive effect is also found in the present
participle (and in parti- cipial adjectives), and indeed the imperfect,
especially in subordinate clauses, is often interchangeable with a
participial expression, falling naturally into participial form in
English also. How close the effect of the imperfect was to that of the
present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4 nebat . .
. texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2
cited on p. 167. Of these 449 are syntactically independent, 231
dependent. 1 In its ordinary form this usage is so well understood that
we may content ourselves with a few illustrations extending over
the different groups of verbs. I.i. Verbs of motion. Plautus,
2 Aul. 178, Praesagibat mi animus frustra me ire, quom exibam domo.
1 With the principles of formal description as last and best expressed
by Morris (On Principles and Methods of Syntax, 1901, pp. 197-8) all
syntacticians will, I believe, agree. Nearly all of them will be found
well illustrated in the present paper. For purposes of tense study,
however, I have been unable to see any essential modification in function
resulting from variation of person and number, although some uses have
become almost idiomatic in certain persons, e. g. the immediate past
usage with first person sing, of verbs of motion (p. 15). Just how far
tense function is affected by the kind of sentence in which the tense
stands I am not prepared to say. In cases accompanied by a negative or
standing in an interrogative sentence the tense function is more
difficult to define than in simple affirmative sentences. It is easier also
to define the tense function in some forms of dependent clauses, e. g.
temporal, causal, than in others. This is an interesting phenomenon,
needing for its solution a larger and more varied collection of cases
than mine. At present I do not feel that the influence upon the tense of
any of these elements is definite enough to call for greater complexity
in the system of classification. While, therefore, I have borne these
points constantly in mind, the tables show the results rather than the
complete method of my work in this respect. ' In the citation of
cases the following editions are used: Fragments of the dramatists,
O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta (I & II), Lipsiae -8
(third edition). Plautus, Goetz and Schoell, T. Macci Plauti
comoediae (editio minor), Lipsiae, Terence, Dziatzko, P. Terenti Afri
comoediae, Lipsiae Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta,
Turici. Historians, C. Peter, Historicorum Romanorum fragmenta,
Lipsiae. Cato, H. Keil, M. Porci Catonis de agricultura liber,
Lipsiae, and H. Jordan, M. Catonis praeter lib. de re rustica quae
extant, Lipsiae i860. Lucilius, L. Mueller, Leipsic, Auctor ad
Herennium, C. L. Kayser, Cornifici rhetoricorum ad C. Herenium libri tres,
Lipsiae. Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I. Ennius
(the Annals), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.
Naevius (Bell, poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae,
Petropoli. Varro, H. Keil, M. Terenti Varronis rerum rusticarum
libri tres, Lipsiae 1883. Varro, A. Spengel, M. Terenti Varronis de
lingua latina, Berolini 1885. Varro, BUcheler, M. Terenti Varronis
saturarum Menippearum reliquiae, Lipsiae. Id. Amph. 199, Nam quom pugnabant
maxume, ego turn fugiebam maxume. Lucilius, Sat., XVI. 12, l
ibat forte aries' inquit; I. 2. Verbs of action. Ex incertis
incertorum fabulis (comoed. pall.) p. 137, XXIV. R., sed sibi cum tetulit
coronam ob coligandas nuptias, T\b\ ferebat; cum simulabat se sibi
alacriter dare, Turn ad te ludibunda docte et delicate detulit.
Plautus, True. 198 atque opperimino : iam exibit, nam lavabat.
Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil. 1336 (temptabam), Epid. 138 (mittebam);
Terence, Andr. 545 (dabam); Auctor ad Herenn. 4, 20, 27
(oppetebat). I. 3. Verbal communication. Plautus, Men, Quin
modo Erupui, homines qui ferebant te. Apud hasce aedis. tu clamabas
deum fidem, Ex incert. incert. &c. 282. XXXII. R., Vidi te, Ulixes
saxo sternentem Hectora, Vidi tegentem clipeo classem Doricam
: Ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam. I. 4.
State. Plautus, Aul. 376, Atque eo fuerunt cariora, aes non
erat. Id. Mil. 181, Sed Philocomasium hicine etiam nunc est? Pe.
Quom exibam, hie erat. Varro, R. R. III. 2. 2., ibi Appium Claudium
augurem sedentem invenimus . . . sedebat ad sinistram ei Cornelius
Merula . . . Cf. also Plautus, Rud. 846, (sedebanf), Amph. 603
(stabam) &c. &c. II. 1. Verbs of thought.
Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent nesciebani, ilico
manserunt. Plautus, Pseud. 500-1, Non a me scibas pistrinum in
mundo tibi, Quom ea muss[c]itabas ? Ps. Scibam. Cf.
also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2. 25. (ignorabat),
&c. II. 2. Feeling. Plautus, Epid. 138, Desipiebam mentis,
quom ilia scripta mittebam tibi. Id. Bacch. 683,
Bacchidem atque hunc suspicabar propter crimen, Chrysale, II.
3. Will. Lucilius, Sat. incert. 48, fingere praeterea adferri quod
quis- que volebat: In these cases the act or state indicated
by the tense is always viewed as at some considerable distance in the
past even though in reality it may be distant by only a few seconds. The
speaker or writer stands aloof, so to speak, and views the event as at
some distance and as confined within certain fairly definite limits in
the past. If, now, the action be conceived as extending to the im-
mediate past or the present of the speaker, a different effect is
produced, although merely the limits within which the action progresses
have been extended. This phase of the progressive imperfect we might term
the imperfect of the immediate past 1 or the interrupted 2 imperfect,
since the action of the verb is often interrupted either by
accomplishment or by some other event. A few citations will make these
points clearer : Plautus, Stich. 328, ego quid me velles
visebam. Nam mequidem harum miserebat. — '\ was coming to see
what you wanted of me (when I met you) ; for I've been pitying (and still
pity) these women.' In the first verb the action is interrupted by the
meeting ; in the second it continues into the present, the closest
translation being our English compound pro- gressive perfect, a tense
which Latin lacked. The imperfect ibam is very common in this usage, cf.
Plautus, True. 921, At ego ad te ibam = l was on my way to see you (when
you called me), cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence, Phorm. 900, Andr.
580. But the usage is by no means confined to verbs of motion
(I. 1) alone. It extends over all the categories: I. 2.
Motion. Plautus, Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656. 1 In
Greek the aorist is used of events just past, but of course with no pro-
gressive coloring, cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c. E.
Rodenbusch, De temporum usu Plautino quaest. selectae, Argentorati 1888,
pp. n-12, recognizes and correctly explains this usage, adding some
examples of similar thoughts expressed by the present, e. g. Plautus, Men.
280 (quaeris), ibid. 675 (quaerit), Amph. 542 (numquid vis, a common
leave-taking formula). In such cases the speaker uses imperfect or
present according as past or present predominates in his mind, the
balance between the two being pretty even. Verbal communication.
Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut. 781 (dicebam) ; Plautus, Trin. 212
(aibanf). I. 4. Rest. Plautus, Cas. 532 (eratn), cf.
Men. n 35. Terence, Eun. 87 (stabam), Phorm. 573 {cotnmorabar).
II. 1. Thought. Terence, Phorm. 582 (scibam), cf. Heaut. 309.
Plautus, Men. 1072 (censebam), cf. Bacch. 342, As. 385 &c. II.
2. Feeling. Plautus, Stich. 329 (miserebaf) ; Turpilius, 107 V
R. (sperabam). II. 3. Will. Plautus, As. 392 and
395 (volebatn), Most. 9, Poen. 1231. 1 III. Auxiliary verbs.
Plautus, Epid. 98 (so/ebam), cf. Amph. 711. Terence, Phor- mio 52
(conabar). In this usage the present or immediate past is in the
speaker's mind only less strongly than the point in the past at which
the verb's action begins. The pervading influence of the present is
evident not only because present events are usually at hand in the
context, but also from the occasional use with the imperfect of a
temporal particle or expression of the present, cf. Plaut. Merc. 884, Quo
nunc ibas = ' whither were you (are you) going ? ' Terence, Andr. 657,
immo etiam, quom tu minus scis aerumnas meas, Haec nuptiae
non adparabanfur mihi, ' Rodenbusch (p. 26) labors hard to show
that this case is like the preceding and not parallel with the cases of
volui which he cites on p. 24 with all of which an infinitive of the verb
in the main clause is either expressed or to be supplied. Following
Bothe, he alters deicere to dice (which he assigns to Adelphasium) and
refers quod to the amabo and amflexabor of I230 = 'meine Absicht'. But
there is no need of this. Infinitives occur with some of the cases cited
by Rodenbusch himself on p. II, e. g. Bacch. 188 (189) Istuc volebatn . .
. fercontarier, Trin. 195 Istuc voUbam scire, to which may be added Cas.
674 Dicere vilicum volebatn and ibid. 702 illud . . . dicere volebatn. It
is true that the perfect is more common in such passages, but the
imperfect is by no means excluded. The difference is simply one of the
speaker's point of view: quod volui = ' what I wished * (complete) ; quod
valebant = ' what I was and am wishing ' (incomplete). As. 212, which
also troubles Rodenbusch, is customary past. Nee postulabat
nunc quisquam uxorem dare. Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse
in terra atque in tuto loco : Verum video . . .
In the last two cases note the accompanying presents, set's and
video. The immediate past also is indicated by a particle, e. g.
Plautus, Cas. 594 ad te hercle ibam commodum. There are in
all 207 l cases of this imperfect of the immediate past. They are
distributed pretty evenly over the various groups of verbs as will be
seen from the following table: No. of Cases. I. I Verbs
of motion, 26 I. 2 it " action,
17 I. 3 (i "verbal
communication, 31 I. 4
state, 35 II. 1 it " thought,
36 II. 2 " " feeling, 35
II. 3 " " will, 13 Auxiliary
verbs, The verbs proportionately most common in this use are ibam
and volebam which have become idiomatic. The usage is especially common
in colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring outside the dramatic
literature represented chiefly, of course, by Plautus and Terence.
By virtue of its progressive force the imperfect is a vivid tense
and as is well known, became a favorite means in the Ciceronian period of
enlivening descriptive passages. It was especially used to fill in the
details and particulars of a picture (imperfect of situa- tion). 8 This
use of the tense appears in early Latin also, but with much less
frequency. The choice of the tense for this purpose is a matter of art,
whether conscious or unconscious. At times, indeed, there is no apparent
reason for the selection of an imper- fect rather than a perfect except
that the former is more graphic, 1 Somewhat less than one-third of
the total (680) progressive cases. 5 These cases are Ennius, Ann.
204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L. L. 5. 9 (1 case), and
Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2. 2. 2 (2
cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of these are
in passages of colloquial coloring, either in speeches or, especially
those in auctor ad Herenn., in epistolary passages. 3 I use
this term for all phases of the tense used for graphic purposes. and if
it were possible to separate in every instance these cases from those in
which the imperfect may be said to have been required, we should have a
criterion by which we might dis- tinguish this use of the imperfect from
others. But since the progressive function of the tense is not altered,
such a distinction is not necessary. Statistics as to the
frequency of the imperfect of situation in early Latin are worth little
because the chief remains of the language of that period are the
dramatists in whom naturally the present is more important than the past.
The historians, to whom we should look for the best illustrations of this
usage, are for the most part preserved to us in brief fragments.
Nevertheless an examination of the comparatively few descriptive passages
in early Latin reveals several points of interest. In Plautus
and Terence the imperfect was not a favorite tense in descriptions.
Bacch. 258-307, a long descriptive passage of nearly 50 lines,
interrupted by unimportant questions, shows only 4 imperfects (1 aoristic)
amid over 40 perfects, historical presents, &c. Capt. 497-5151 Amph.
203-261, Bacch. 947-970, show but one case each. Stich. 539-554 shows 5
cases of erat. In Epid. 207-253 there are 10 cases. In the
descriptive passages of Terence the imperfect is still far from being a
favorite tense, though relatively more common than in Plautus, cf. Andr.
48 ff., 74-102, Phorm. 65-135 (containing 11 imperfects). But Eunuch.
564-608 has only 4 and Heaut. 96-150 only 3. Another very
instructive passage is the well-known description by Q. Claudius
Quadrigarius of the combat between Manlius and a Gaul (Peter, Hist. rom.
fragg., p. 137, 10b). In this passage of 28 lines there are but 2
imperfects. The very similar passage describing the combat between
Valerius and a Gaul and cited by Gellius (IX, n) probably from the same
Quadrigarius contains 8 imperfects in 24 lines. Since Gellius is
obviously retelling the second story, the presumption is that the passage
in its original form was similar in the matter of tenses to the passage
about Manlius. In other words Gellius has 'edited' the story of
Valerius, and one of his improvements consists in enlivening the tenses a
bit. He describes the Manlius passage thus : Q. Claudius primo annalium
purissime atque illustrissime simplicique et incompta orationis antiquae
suavitate descripsit. This simplex et incompta suavitas is due in large
measure to the fact that Quadrigarius has used the simple perfect
(19 times), varying it with but few (4) presents and imperfects (2). A
closer com- parison of the passage with the story of Valerius reveals
the difference still more clearly. Quadrigarius uses (not counting
subordinate clauses) 19 perfects, 4 presents, 2 imperfects ; Gellius, 4
perfects, 9 presents, 8 imperfects. In several instances the same act is
expressed by each with a different tense : Quadrigarius.
Gellius. processit (bis), f procedebat, \
progrediiur, constitit, c congrediuntur, \ consistent,
constituerunt, conserebantur manus, 8 perfects of acts in 5
imperfects of acts combat. of the corvus. Gellius has
secured greater vividness at the expense of simplicity and
directness. This choice of tenses was, as has been said, a matter
of art, whether conscious or unconscious. The earlier writers seem
to have preferred on the whole the barer, simpler perfect even in
passages which might seem to be especially adapted to the imperfect,
historical present, &c. The perfect, of course, always remained far
the commoner tense in narrative, and instances are not lacking in later
times of passages 1 in which there is a striking preponderance of
perfects. Nevertheless the imperfect, as the language developed, with the
growth of the rhetorical tendency and a consequent desire for variety in
artistic prose and poetry, seems to have come more and more into vogue.
2 The fact that the function of a tense is often revealed,
denned, and strengthened by the presence in the context of particles
of various kinds, subordinate clauses, ablative absolutes, &c,
&c, 1 E. g. Caesar, B. G. I. 55 and 124-5. s The
relative infrequency of the tense in early Latin was pointed out on p.
164. Its growth as a help in artistic prose is further proved by the fact
that the fragments of the later and more rhetorical annalists, e. g.
Quadrigarius, Sisenna, Tubero, show relatively many more cases than the
earliest annalists. This is probably not accident. When compared with the
history of the same phenomenon in Greek, where the imperfect, so common
in Homer, gave way to the aorist, this increase in use in Latin may be
viewed as a revival of a usage popular in Indo-European times. Cf. p.
185, n. 2. was pointed out in Trans. Am. Philol. Ass. XXX, pp. 17
ff. What was there 1 said of Plautus and Terence may here be
extended to the whole period of early Latin. The words and phrases used
in this way are chiefly temporal. Some of those occurring most frequemly
are: modo, commodum ; turn, tunc; simul; dudum, iam dudum; iam, primo,
primulum ; nunc; ilico; olim, quondam; semper, saepe; fere, plerumque ;
Ha, 2 &c, &c. A rough count shows in this class about 120 cases,'
accompanied by one or more particles or expressions of this sort.
Some merely date the tense, e. g., turn, modo, dudum, &c. Others,
as saepe, fere, primulum, have a more intimate connection with the
function. Naturally the effect of the latter group is clearest in the
imperfects of customary past action, the frequentative, &c, and will
be illustrated under those headings. Here I will notice only a few cases
with iam, primulum, &c, which illustrate very well how close the
relation between particle and tense may be. The most striking cases are
: Plautus, Merc. 43, amare valide coepi[t] hie meretricem.
ilico Res exulatum ad illam <c>lam abibat patris. Cf. Men. 1
1 16, nam tunc dentes mihi cadebant primulum. id. Merc. 197,
Equidem me iam censebam esse in terra atque in tuto loco :
Verum video . . . id. Cist. 566, Iam perducebam illam ad me suadela
mea, Anus ei <quom> amplexast genua . . . id. Merc.
212, credet hercle: nam credebat iam mihi. The unquestionably
inceptive force of these cases arises from the combination of tense and
particle. No inceptive* function can be proved for the tense alone, for I
find no cases with inceptive force unaccompanied by such a
particle. Cf. also Morris, Syntax, p. 83. 5 How far the
nature of the clause in which it stands may influence the choice of a
tense is a question needing investigation. That causal, explanatory,
characterizing, and other similar clauses very often seem to require an
im- perfect is beyond question, but the proportion of imperfects to other
tenses in such clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1. s No
introductory conjunctions are included in this total, nor are other
particles included, unless they are in immediate connection with the
tense. 4 In Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to
take at least Merc. 43 as inceptive. This I now believe to have been an
error. The inceptive idea was most commonly expressed by coepi -\-
m&n. which is very common in Plautus and Varro. We have here the
opposite of the phenomenon discussed on p. 177. There are a few
cases in which the imperfect produces the same effect as the imperfect of
the so-called first periphrastic conjuga- tion : Terence, Hec. 172,
Interea in Imbro moritur cognatus senex. Horunc: ea ad hos
redibal lege hereditas.=reditura erat, English ' was coming ', ' was
about to revert ', cf. Greek pi\\a> with infinitive. Cf.
Phorm. 929, Nam non est aequum me propter vos decipi, Quom ego vostri
honoris causa repudium alterae Remiserim, quae dotis tantundem
<fti£«/.=datura erat &c. In these cases the really future event is
conceived very vividly as already being realized. Plautus,
Amph. 597 seems to have the effect of the English 'could':
Neque . . . mihi credebam primo mihimet Sosiae Donee Sosia . . .
ille . . . But the * could ' is probably inference from what is a very
vivid statement. A Roman would probably not have felt such a
shading. 1 I B. The Imperfect of Customary Past Action.
The imperfect may indicate some act or state at some appreci- able
distance in the past as customary, usual, habitual &c. The act or
state must be at some appreciable distance in the past (and is usually at
a great distance) because this function of the tense depends upon the
contrast between past and present, a contrast so important that in a
large proportion of the cases it is enforced by the use of particles. 2
The act (or state) is conceived as repeated at longer or shorter
intervals, for an act does not become customary until it has been
repeated. This customary act usually takes place also as a result or
necessary concomitant of certain conditions expressed or implied in the
context, e. g. maiores nosiri olim &c, prepares us for a statement of
what they used to do. The act may indeed be conceived as occurring only
as a result of a certain expressed condition, e. g. Plautus, Men. 484
mulier quidquid dixerat, 1 Some of the grammars recognize '
could' as a translation, e. g., A. & G. § 277 g- 8
E. g. turn, tunc, olim &c. with the imperfect, and nunc &c. with the
con- trasted present. Idem ego dicebam = my words would
be uttered only as a result of hers. 1 There are 462 cases of
the customary past usage of which 218 occur in independent sentences, 244
in dependent. This large total, more than one-third of all the cases, is
due to the character of Varro's De lingua latina from which 289 cases
come. This is veritably a ' customary past ' treatise, for it is for the
most part a discussion of the customs of the old Romans in matters
pertaining to speech. Accordingly nearly all the imperfects fall under
this head. Plautus and Terence furnish 112. The remaining 61 are
pretty well scattered. As illustrations of this usage I will cite
(arranging the cases according to the classes of verbs) : I.
1. Plautus, Pseud. 1180, Noctu in vigiliam quando ibat miles, quom tu Has
simul, Conveniebatne in vaginam tuam machaera militis ? Terence,
Hec. 157, Ph. Quid ? interea ibatne ad Bacchidem ? Pa.
Cottidie. Varro, L. L. 5. 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum
e sacro auferebat, victi ad aerarium redibat. I. 2. Plautus,
Bacch. 429, Saliendo sese exercebant magis quam scorto aut saviis.
(cf. the whole passage). Hist, fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius,
patre libertino natus, scriptum faciebat (occupation) isque in eo tempore
aedili curuli apparebat, . . . I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex
semper maxumas Mihi agebal quidquid feceram : Varro, L. L.,
5. 121, Mensa vinaria rotunda nominabalur Cili- bantum ut etiam nunc in
castris. Cf. L. L. 7. 36, appellabant, 5. 118, 5. 167 &c.
1 This usage seemed to me formerly sufficiently distinct to deserve a
special class and the name 'occasional', since it is occasioned by
another act. It is at best, however, only a sub-class of the customary
past usage and in the present paper I have not distinguished it in the
tables. It is noteworthy that the act is here at its minimum as regards
repetition and that it may occur in the immediate past, cf. Rud. 1226,
whereas the customary past usage in its pure form is never used of the
immediate past. The usages may be approxi- mately distinguished in
English by 'used to', 'were in the habit of &c. (pure customary
past), and 'would' (occasional), although 'would' is often a good
rendering of the pure customary past. Good cases of the occasional usage
are : Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ; Terence, Hec. 804 ; Hist,
fragg. p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4 cases). Plautus, Bacch.
421, Eadem ne erat haec disciplina tibi, quom tu adulescens eras
? C. I. L. I. 1011.17 Ille meo officio adsiduo florebat ad omnis.
II. 1. Auctor ad Herenn. 4. 16. 23, Maiores nostri si quam unius
peccati mulierem damnabant, simplici iudicio multorum rnaleficiorum
convictam putabant. quo pacto ? quam inpudicam iudicarant, ea venefici
quoque damnata existutnabatur. Cato, De ag., 1, amplissime laudari
existimabatur qui ita lau- dabatur. II. 2. Plautus, Epid.
135, Illam amabam olim: nunc tarn alia cura impendet pectori.
Varro, R. R. III. 17.8, etenim hac incuria laborare aiebat M.
Lucullum ac piscinas eius despiciebat quod aestivaria idonea non
haberent. III. 3. Plautus, As. 212, quod nolebant ac votueram,
de industria Fugiebatis neque conari id facere audebatis
prius. Cf. the whole passage. Varro, L. L. 5. 162, ubi quid
conditum esse volebant, a celando Cellam appellarunt. III.
Terence, Phorm. 1 90, Tonstrina erat quaedam : hie sole-
bamusfere Plerumque earn opperiri, . . . Varro, L. L. 6. 8,
Solstitium quod sol eo die sistere videbatur . . . The influence of
particles 2 and phrases in these cases is very marked. I count about 1 10
cases, more than I of the total, with which one or more particles appear.
Those expressions which emphasize the contrast are most common, e. g.
turn, olim, me puero with the imperfect, and nunc, iam &c. with the
contrasted present. This class also affords excellent
illustrations of the reciprocal influence of verb-meaning' and
tense-function. In Varro there are 50 cases, out of 289, of verbs of
naming, calling, &c, which are by nature evidently adapted to the
expression of the customary past. Such are appellabam, nominabam,
vocabam, vocitabam, &c. But the most striking illustration is found
in verbs of customary action, e. g. soleo, adsuesco, consuesco, which by
their 1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 19. s
Note as illustrations the italicized particles in the citations, pp.
175-6. 3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p., with note.
meaning possess already the function supplied to other verbs by the tense
and context. When a verb of this class occurs in the imperfect of
customary past the function is enhanced. Naturally, however, these verbs
occur but rarely in the imperfect, for in any tense they express the
customary past function. It is interesting to note the struggle for
existence between various expressions of the same thought. A Roman
could express the customary past idea in several ways, of which the
most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with an
infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these
possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There are
but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect
indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9 of them
are imperfects of customary past action. 1 One would expect to find in
common use the perfect of these verbs with an infinitive, but, although I
have no exact statistics on this point, a pretty careful lookout has
convinced me that such expressions are by no means common. 2 Periphrases
with mos, consuetudo, &c, are also rare. Comparing these facts with the
large number of cases in which the customary past function is expressed
by the imperfect, we must conclude that this was the favorite mode
of expression already firmly established in the earliest literature.
8 I C. The Frequentative Imperfect. In the proper
context 4 the imperfect may denote repeated or insistent action in the
past. Although resembling the imperfect of customary past action, in
which the act is also conceived as 1 Terence, Phorm. go; Varro,
R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor ad Herenn. 4. 54. 67 ;
Lucilius, IV. 2, &c. s A collection of perfects covering 18
plays of Plautus shows but 15 cases of solitus est, consuevit, &c. My
suspicion, based on Plautus and Terence, that these periphrases would
prove common has thus been proven groundless. 8 The variation
between imperfect and perfect is well illustrated by Varro, L. L. 5. 162,
ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique quos
obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even
in the perfect the customary past function. For the variation
between the customary past imperfect and the perfect of statement cf.
Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda
nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare
5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35
qua ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter
dictum. 4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, § 59). repeated,
the frequentative usage differs in that there is no idea of habit or
custom, and the act is depicted as repeated at intervals close together
and without any conditioning circumstances or contrast with the present.
I find only 13 cases of this usage, 7 of which are syntactically
independent, 6 dependent. All occur in the first three classes of verbs.
The cases are : Plautus, Pers. 20, miquidem tu iam eras mortuos,
quia non visitabam. Ibid. 432, id tibi suscensui, Quia
te negabas credere argentum mihi. Rud. 540, Tibi auscultavi : tu
promittebas mihi Mi esse quaestum maxumum meretricibus :
Capt. 917, Aulas . . . omnis confregit nisi quae modiales erant
: Cocum percontabatur, possentne seriae fervescere : As. 938,
Dicebam, pater, tibi ne matri consuleres male. Cf. Mil. Gl. 1410
(dicebaf). True. 506, Quin ubi natust machaeram et clupeum
poscebat sibi ? Epid. 59, Quia cottidie ipse ad me ab legione
epistulas Mittebat: cf. ibid. 132 (missiculabas). Merc. 631,
Promittebas te os sublinere meo patri : ego me[t] credidi
Homini docto rem mandar<e>, . . . Ennius, Ann. 43, haec ecfatu'
pater, germana, repente recessit. Nee sese dedit in conspectum corde
cupitus, quamquam multa manus ad caeli caerula templa iendebam
lacrumans et blanda voce vocabam. Hist, fragg., p. 138. 11 (Q. Claudius
Quadrigarius), Ita per sexennium vagati Apuliam atque agrum quod his per
militem licebat expoliabaniur. This class is so small and many of
the cases are so close to the simple progressive and the imperfect of
situation that it is tempting to force the cases into those classes. 1 A
careful con- 1 How close the frequentative notion may be to the
imperfect of the immediate past is well illustrated by As. 938 (cited
above). In this case we have virtually an imperfect of the immediate past
in which, however, the frequentative coloring predominates : dicebam
means not ' I've been telling ', but 'I've kept telling', &c. Cf.
also Pseud. 422 (dissimulabam) for another case of the imperfect of the
immediate past which is close to the frequentative. In its pure form,
however, the frequentative imperfect does not hold in view the
present. sideration of each case has, however, convinced me that the
frequentative function is here clearly predominant. In Plautus, Pers. 20,
E pid. 131, Capt. 917, it is impossible to say how much of the
frequentative force is due to the tense and how much to the form of the
verbs themselves ; both are factors in the effect. Verbs like
mitto,promitio, voco, and even dico, are also obviously adapted to the
expression of the frequentative function. It is noteworthy that in
this usage a certain emphasis is laid on the tense. In eight of the cases
the verb occupies a very em- phatic position, in verse often the first
position in the line, cf. the definition on p. 177. I D. The
Conative Imperfect. The imperfect may indicate action as attempted
in the past. There must be something in the context, usually the
immediate context, to show that the action of the verb is fruitless.
There are no certain cases of this usage in early Latin. I cite the
only instances, four in number, which may be interpreted as
possibly conative : Plautus, As. 931, Arg. Ego dissuadebam,
mater. Art. Bellum filium. Id. Epid. 215, Turn
meretricum numerus tantus quantum in urbe omni fuit
Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus : Eos
captabant. Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum pluribus aliis
ire celerius coepit. illi praeco faciebat audientiam; hie
subsellium, quod erat in foro, cake premens dextera pedem defringit
et . . . Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte coepit hostibus
castra simulare oppugnare, eum hostem delectare, dum collega
id caperet quod capiabat. But in the second and fourth
cases the verb capto itself means to 'strive to take', 'to catch at'
&c, and none of the conative force can with certainty be ascribed to
the tense. In the first case, again, the verb dissuadebam means 'to
advise against', not 'to succeed in advising against' (dissuade).
Argyrippus says : ' I've been advising against his course, mother', not '
I've been trying, or I tried, to dissuade him'. The imperfect is,
therefore, of the common immediate past variety. 1 1 Cf. a
few lines below (938) dicebam. In Auct. ad Herenn., 4. 55.
68, the imperfect is part of the very vivid description of the scene
attending the death of Tiberius Gracchus. Indeed the whole passage is an
illustration of demon- stratio or vivid description which the author has
just defined. The acts of Gracchus and his followers are balanced
against those of the fanatical optimates under Scipio Nasica:
'While the herald was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio
was arming himself &c. Though it may be true that the act indi-
cated by faciebat audientiam was not accomplished, this seems a remote
inference and one that cannot be proved from the context. If
my interpretation of these cases is correct, there are no certain 1
instances of the conative imperfect in early Latin. There is but
one case of conabar (Terence, Phorm. 52) and one of temptabam (Plautus,
Mil. gl. 1336). Both of these belong to the immediate past class, the
conative idea being wholly in the verb. II. The Aoristic
Imperfect. The imperfect of certain verbs may indicate an act or state
as merely past without any idea of progression. In this usage the kind of
action reaches a vanishing point and only the temporal element of the
tense remains. The imperfect becomes a mere preterite, cf. the Greek
aorist and the Latin aoristic perfect. The verbs to which this use of the
imperfect is restricted are, in early Latin, two verbs of saying, aio and
dico, and the verb sum with its compounds. There are 56 cases
of the aoristic imperfect in early Latin (see Table II), 48 of which
occur in syntactically independent sen- tences. Some citations
follow: Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei dixit
contumelias. Adulterare eum aibat rebus ceteris. Id. Most.
1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare : Ideo aedificare hoc velle
aiebat in tuis. Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi. Id.
Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere: Ingenuas
Carthagine aibat esse. 1 Faciebat audientiam seems a technical
expression, cf. lexicon. 2 The case cited by Gildersleeve- Lodge, §
233, from Auct. ad Herenn., 2. I. 2, ostendebatur seems to me a simple
imperfect and there is nothing in the context to prove a conative force,
cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. In these cases note the parallel cases of
dixit, cf. id. Trin. 1140, Men. 1 141 &c, &c. I note
but three cases of dicebam: Terence, Eun. 701, Ph. Unde [igitur] fratrem
meum esse scibas ? Do. Parmeno Dicebat eum esse. Cf. Plautus, Epid.
598 for a perfect used like this. Varro, R. R. II. 4. 11, In
Hispania ulteriore in Lusitania [ulteriore] sus cum esset occisus,
Atilius Hispaniensis minime mendax et multarum rerum peritus in doctrina,
dicebat L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duabus costis
. . . Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos sacrificanti tibi, Varro,
ad tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas ad extremum litus
atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . . In these cases the verb
dico becomes as vague as is aio in the preceding citations.
Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua mater
fuit, Pater tuos is erat frater patruelis meus, Et is me
heredem fecit, Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob oculum habebat lanam
nauta non erat. Py. Quis erat igitur? Sc. Philocomasio amator.
Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui in navi non
erat, Neque domi neque in urbe invenio quemquam qui ilium
viderit. 1 Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus eius
mulieris, Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat
domum. In such cases as the last the imperfect has become formulaic,
cf. quam maxime poter at, &c. 1 Rodenbusch, pp. 8-10, after
asserting that the imperfect of verbs of saying and the like is used in
narratio like the perfect (aorist), cites a number of illustrations in
which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But a case in
which the imperfect force may still be felt does not illustrate the
imperfect in simple past statements, if that is what is meant by
narratio. Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and
these are all cases of aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most.
1002). The same may be said of the citations on p. g, of which only Eun.
701 is aoristic. J. Schneider (De temporum apud priscos latinos usu
quaestiones selectae, program, Glatr, 1888) recognizes the aoristic use
of aibat, but his statement that the comic poets used perfect and
imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. The Shifted
Imperfect. In a few cases the imperfect appears shifted from its
function as a tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present;
or (2) an imperfect or pluperfect subjunctive. The cases
equivalent to a present 1 are all in Varro, L. L., and are restricted to
verbs of obligation {oportebat, debebaf) : L. L. 8. 74, neque oportebat
consuetudinem notare alios dicere Bourn greges, alios Boverum, et signa
alios Iovum, alios Ioverum. Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis
formas ternas ut in hoc Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam
binas . . . ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam
multi- tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici
oportebat. Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non]
dicere debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.* The
cases equivalent to the subjunctive are confined to sat &c. + erat (6
cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and sequebatur (1 case). As
illustrations may be cited : Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti
hercle : nam idem hoc homini- bus sat [a] era\ti\t decern.
Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo quod
esset satis, curarent poetae. = ' would have been,' cf. ibid. 4. 16. 23
(iniquom erat), Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = '
might be ' or ' might have been '. Id. Merc. 983 b, Vacuum
esse istac ted aetate his decebat noxiis. Eu. Itidem ut tempus anni,
aetate<m> aliam aliud factum condecet. Varro, L. L. 9. 23, si
enim usquequaque non esset analogia, turn sequebatur ut in verbis quoque
non esset, non, cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . .
This is a very odd case and I can find no parallel for it.* 1
Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present
of general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times
as equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit =
oportet). The perfect infinitive is equivalent to the present, e. g. in
8, §61 and §66 (debuisse . . . dici). The tenses are of very little
importance in such verbs. 8 Note the presents expressed in the
second and fourth citations. 3 The remaining cases are: Plautus,
True. 511 (poterai), id. Rud. 269 (aequittserat), Lucilius, Sat. 5. 47 M.
(sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23 (iniquom erat), ibid. 4. 41. 53
(quae separatim dictae infimae
erant). Total. Imperfect. Aoristic. Shifted. Progressive. Cust.Past. Frequent. Terence Dramatists
Historians Auctor ad Her. Inscriptions The fragments of Cato's historical
work are included in the historians. 'Including the epic fragments of
Ennius and Naevius. Verbs and Functions. Cases. Imperfect. Classes
of Verbs. Progressive. Cust. Past. Frequent. Aoristic. Shifted.
Ind.Dep. Ind. Dep. Ind. Dep. Ind. Dep. Ind. Dep
.I. Physical. Verbal commun. Rest, state, &c. (tram
220) Psychical. Will Auxiliaries. american
journal of philology. Historical and Theoretical. The
original function of the imperfect seems to have been to indicate action
as progressing in the past, the simple progressive imperfect. This is
made probable, in the first place, by the fact that this usage is more
common than all others combined, including, as it does, 680 out of a
total of 1226 cases. This proportion is reduced, as we should remember,
by the peculiar character of the literature under examination, which
contains relatively so little narrative, and especially by the nature
of Varro's De lingua latina in which the cases are chiefly of the
customary past variety. 1 Moreover, the customary past usage itself, and
also the frequentative and the conative, are to be regarded as offshoots
of the progressive usage of which they still retain abundant traces, so
that if we include in our figures all the classes in which a trace of the
progressive function remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are
true imperfects (see table II). Another support for the view
that the progressive function is original may be drawn from the probable
derivation of the tense. Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect
from the infinitive in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of
progression was thus originally inherent in the ending -bam.
Let us now establish as far as possible the relations subsisting
between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D), turning our
attention first to the simple progressive (IA) and its variations.
The relation between the progressive imperfect in its pure form and
the usage which has been named the imperfect of the immediate past is not
far to seek. The progressive function remains essentially unchanged. The
only difference lies in the extension of the time up to the immediate
past (or present) in the case of the immediate past usage. The transition
between: ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when
l See p. 175. 2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 §
113, p. 376. Lindsay, Latin Lang., pp. 489-490, emphasizes the nominal
character of the first element in the compound, and suggests a possible
I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of Latin -bam, -ids, -bat. He
also compares very interestingly the formation of the imperfect in
Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin formation,
except that the ending comes from a different root. 3 Cf. Plautus,
Merc. I saw him at a more or less definite point in the
past) and ibat exulatum = ' he was going (has been going)
into exile' (but we have just met him) is plain enough. The
difference is one of context. In this imperfect of the immediate past the
Romans possessed a sub- stitute for our English compound perfect tense,
'have been doing ', &C 1 In the imperfect of situation
also the function of the tense is not altered. The tense is merely
applied in a different way, its progressive function adapted to vivid
description, and we have found it already in the earliest 2 literature
put to this use. In its extreme form it occurs in passages which would
seem to require nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must
guard against the view that the imperfect is a stronger tense than the
perfect; it is as strong, but in a different way, and while the earlier
writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect grew gradually
in favor until in the period marked by the highest development of style
the highest art consisted in a happy combination * of the two.
The imperfect of customary past action is, as we have seen, already
well established in the earliest literature. A glance at Table I would
seem to show that it grew to sudden prominence in Varro, but the peculiar
nature of Varro's work has already been pointed out, so that the apparent
discrepancy between the proportion of cases in Varro and in Plautus and
Terence, for instance, means little. It should be remembered also that
this discrepancy is still further increased by the nature of the drama,
whose action lies chiefly in the present. While, therefore, in Plautus
and Terence the proportion of customary pasts is i, 1 Latin also
exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925, te carens dum
hie fui, Poen., ut tu sis sciens, and Terence, Andr., ut sis sciens. Cf.
Schmalz in I. Mttller's Handb. s In the Greek literature, which
begins not only absolutely but relatively much earlier than the Latin,
the imperfect was used to narrate and describe, and Brugmann, indeed,
considers this a use which goes back to Indo- European times. Later the
imperfect was crowded out to a great extent by the aorist, as in Latin by
the (aoristic) perfect. Cf. Brugmann in I. Mailer's Handb. i
The power of the perfect lies in its simplicity, but when too much used
this degenerates into monotony and baldness. and in Varro f , the
historians with J probably present a juster average. The
relation of this usage to the simple progressive imperfect has already
been pointed out, 1 but must be repeated here for the sake of
completeness. If we inject into a sentence containing a simple
progressive imperfect a strong temporal contrast, e. g., if facit, sed
non faciebat becomes nunc facit, olim autem non faciebat, it is at once evident
how the customary past usage has developed. It has been grafted on the
tense by the use of such particles and phrases, expressions which were in
early Latin still so necessary that they were expressed in more than
one-quarter of the cases ; or, in other words, it is the outgrowth of
certain oft-recurring contexts, and is still largely dependent on
the context for its full effect. Transitional cases in which the
temporal contrast is to be found, but no customary past coloring, may be
cited from Plautus, Rud., Dudum dimidiam petebas partum. Tr. Immo etiam
nunc peto. Here the action expressed by petebas is too recent to acquire
the customary past notion. 2 The progressive function caused the
imperfect to lend itself more naturally than other tenses 3 to the
expression of this idea. 4 Although the customary past usage
was well established in the language at the period of the earliest
literature, and we cannot actually trace its inception and development, I
am con- vinced that it was a relatively late use of the tense by the
mere fact that the language possesses such verbs as soleo,
consuesco, &c, and that even as late as the period of early Latin the
function seemed to need definition, cf. the frequent use of particles,
&c. The small number of cases (13) which may be termed
frequenta- tive indicates that this function is at once rare and in its
infancy in the period of early Latin. The frequentative function is
so closely related 5 to the progressive that it is but a slight step from
1 Trans. Am. Philolog. Ass., Cf. Men. 729. s How strong the
effect of particles on other tenses may be is to be seen in such cases as
Turpilius, p. 113. I (Ribbeck), Quem olim oderat, sectabat ultro ac
detinet. 4 The process was therefore analogous to that which can be
actually traced in cases of the frequentative and conative uses.
5 Terence, Adel. 332-3, affords a good transitional case : iurabat . . .
dicebat — (almost) ' kept swearing ' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47
n. 1. It should the latter to the former. Latin 1 seems, however, to
have been unwilling to take that step. The vast number of frequentative,
2 desiderative and other secondary endings also prove that the
tense was not the favorite means for the expression of the frequentative
idea. Nevertheless since the progressive and fre- quentative notions are
so closely related and since frequentative verbs must again and again
have been used in the imperfect subject to the influence of the
progressive function of particles such as saepe, etiam atgue etiam, and
since finally a simple verb must often have appeared in similar
situations, e. g. poscebat for poscitabat, the tense inevitably acquired
at times the frequentative function. We have here, therefore, an
excellent illustration of the process by which a secondary function may
be grafted on a tense and the frequentative function is dependent to a
greater degree than the customary past upon the influence and aid of the
context. That it is of later origin is proved by its far greater rarity
(see Table II). If the frequentative imperfect in early Latin
is still in its infancy, the conative usage is merely foreshadowed. The
fact that there are no certain instances proves that relatively too much
im- portance, at least for early Latin, has been assigned to the
conative imperfect by the grammars. Statistics would probably prove
it rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed
for the expression of the conative function. The most
powerful influence in moulding tense functions is context. 3 In the case
of the conative function this becomes all powerful for we must be able to
infer from the context that the act indicated by the tense has not been
accomplished. The also be pointed out that the frequentative
imperfect is very closely related to the imperfect of situation. To
conceive an act as frequentative necessarily implies a vivid picture of
it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to interpret as vivid
imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4; Plautus, True.
506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me that the
frequentative idea predominates. 1 In Greek, however, the imperfect
was commonly used with an idea of repetition in the proper context. This
use is correctly attributed by Brugmann (I. Milller's Handb. &c.) to
the similarity between the progressive and frequentative ideas as well as
to the fondness for description of a re- peated act. 5 Ace.
to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no iterative
formations in Indo-European. 8 Cf. Morris, Syntax, pp. 46, 82,
&c. 1function thus rests upon inference from the context- The
presence in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that
the conative function, like the frequentative, was a secondary growth
grafted on the tense in similar fashion, but at a later period, for we
have no certain instances in early Latin. This function of the imperfect
certainly originates within the period of the written language.
The fact that the preponderance of the aoristic cases occurs in
Plautus and Terence (see Table I) indicates that this usage was rather
colloquial. This is further supported by the fact that the majority of
the cases are instances of aibam, a colloquial verb, and of eram which in
popular language would naturally be con- fused with/i«. In this usage,
therefore, we have an instance of the colloquial weakening of a function
through excessive use in certain situations, a phenomenon which is common
in secondary formations, e. g. diminutives. The aoristic function is
not original, but originated in the progressive usage and in that
application of the progressive usage which is called the imperfect of
situation. Chosen originally for graphic effect the tense was used in
similar contexts so often that it lost all of this force. All the cases
of aibam, for instance, are accompanied by an indirect discourse either
expressed (38 cases) or understood (2 cases). The statement contained in
the indirect discourse is the important thing and aibam became a
colorless introductory (or inserted) formula losing all tense force. 1 If
this was the case with the verb which, in colloquial Latin at least, was
preeminently the mark of the indirect discourse it is natural that by
analogy dicebam, when similarly employed, should have followed suit.
2 With eram the development was similar. The loss of true
imperfect force, always weak in such a verb, was undoubtedly due 1
Cf. Greek iXeys, tjv <5' iyi> &c. and English (vulgar) ' sez I '
&c„ (graphic present). Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p.
183) denies that the Greek imperfect ever in itself denotes completion,
but he cites no cases of verbs of saying. Although one might say that the
tense does not denote completion, yet if there was so little difference
between imperfect and aorist that in Homer metrical considerations
(always a doubtful explanation) decided between them (cf. Brugmann,
ibid.), Brugmann seems to go too far in dis- covering any imperfect force
in his examples. The two tenses were, in such cases, practical
equivalents and both were colorless pasts. 8 Rodenbusch, p. 8,
assigns as a cause for the frequency of aibat in this use the
impossibility of telling whether ait was present or perfect. This seems
improbable. to the vague meaning of the verb itself. Indeed it
seems probable that eram is thus but repeating a process through which
the lost imperfect of the root *fu} must have passed. This lost
imperfect was doubtless crowded out " by the (originally) more vivid
eram which in turn has in some instances lost its force. If
the aoristic usage is not original, but the product of a collo- quial
weakening, we should be able to point out some transitional cases and I
believe that I can cite several of this character: Plautus, Merc.
190, Eho . . . quin cavisti ne earn videret . . .?
Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn conspiceret pater?
Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti, quia tuam gnatam es
ratus ? Quibus de signis agnoscebas? Pe. Nullis. Phi.
Quarefiliam Credidisti nostram ?* In these cases the
tense is apparently used for vivid effect (im- perfect of situation), but
it is evident that the progressive function is strained and that if these
same verbs were used constantly in such connections, all real imperfect
force would in time be lost. This is exactly what has occurred with
aibam, dicebam, and eram. The progressive function if employed in this
violent fashion simply to give color to a statement, when the verbs
themselves {aibam, dicebam) do not contain the statement or are
vague (eram), must eventually become worn out just as the
diminutive meaning has been worn out of many diminutive endings.
In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper
sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense stripped of its
main characteristic, the progressive function, though still in possession
of its temporal element as a tense of the past, in the shifted cases both
progressive function and past time (in some instances) are taken from the
tense. In those cases where the temporal element is not absolutely taken
away it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently due
in the first place to the contrary-to-fact idea which is present in the
context of each case, and secondly to the meaning of some of the verbs
involved. In many of the cases these two reasons 1 There was no
present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf. Lindsay, Lat.
Lang., p. 490. 'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu
</«- in fui &c., then the fact that it was assuming a new function
in composition would help to drive it out of use as an independent form,
eram (originally *isom) taking its place. 3 Cf. Terence, Phorm.;
Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339. are merged into one,
for the verbs themselves imply a contrary- to-fact notion, e. g. debebat,
oportebat, poterat (the last when representing the English might, could,
&c). In Varro, L. L. the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies
that the Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911
Bonus vaies poteras esse implies that the person addressed is not a
bonus vales. In these peculiar verbs, which in recognition of their chief
function I have classified as auxiliary verbs, 1 verb- meaning coincides
very closely with mode, just as in soleo, conor, &c, verb-meaning
coincides closely with tense. The modal idea is all important, all other
elements sink into insignificance, and the force of the tense naturally
becomes elusive. 2 Let us summarize the probable history of the
imperfect in early Latin. The simple, progressive imperfect represents
the earliest, probably the original, usage. Of the variations of
this simple usage the imperfect of the immediate past and the im-
perfect of situation are most closely related to the parent use. Both of
these are early variants, the latter probably Indo- European, 3 and both
may be termed rather applications of the progressive function than
distinct uses, since the essence of the tense remains unchanged, the
immediate past usage arising from a widening of the temporal element, the
imperfect of situation from a wider application of the progressive
quality. Later than these two variants, but perhaps still pre-literary,
arose the custom- ary past usage, the first of the wider variations from
the simple progressive. This was due to the application of the tense
to customary past actions, aided by the contrast between past and
present. Later still and practically within the period of the earliest
literature was developed the frequentative usage, due chiefly to the
close resemblance between the progressive and frequentative ideas and the
consequent transfer of the frequentative function to the tense. Finally
appears the conative use, only foreshadowed in early Latin, its real
growth falling, so far as the remains of the language permit us to infer,
well within the 1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1.
8 The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought
from a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler,
Uebergang zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c.), he
also con- siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar
meaning of the verbs themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts,
§ 3. »Cf. note. Ciceronian period. In all these uses
the progressive function is more or less clearly felt, and all alike
require the influence of context to bring out clearly the additional
notion connected with the tense. The first real alteration in
the essence of the tense appears in the aoristic usage in which the tense
lost its progressive function and became a simple preterite. This usage,
due to colloquial weakening, is confined in early Latin to three verbs,
aidant, dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-
literary in fact, but later than the imperfect of situation, from which
it seems to have arisen. A still greater loss of the essential features
of the tense is to be seen in the shifted cases in which the temporal
element, as well as the progressive, has become insignificant. This
complete wrenching of the tense from its proper sphere is confined to a
limited number of verbs and some phrases with eram, and is due to the
influence of the pervading contrary-to-fact coloring often in combination
with the meaning of the verb involved. In his Studien und Kritiken zur
lateinischen Syntax, I. Teil, Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted
considerable space to my article, "The Imperfect Indicative in Early
Latin" (American Journal of Philology). Since Blase professes
to present the substance of my article, except to the 'relatively few'
German scholars who have access to the American periodical, and since he
makes a number of errors in mere citation and statement, it becomes
necessary for me in self-defense to make some corrections. 1 But apart
from these errors of detail, which will be pointed out at the proper
places, Blase disagrees with some of the more important conclusions of my
paper and it is with the purpose of elucidating these views in the light
of his criticism and contributing something more, if possible, to a
better understanding of the problem that I offer the present
discussion. The functions of the imperfect indicative in early
Latin may be summarized as follows: I. The Progressive 2 or
True Imperfect, comprising several types or varieties: A.
Simple Progressive. 1. dicebat = il he was saying."
1 That such corrections are justifiable is proved by the fact that K.
Wimmerer, who knows my article only through Blase's presentation,
reproduces several of Blase's in- correct statements. I regret the
unavoidable delay in the publication of this paper the less because it
has enabled me to use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im
Hauptsatze irrealenBedingungsperioden," Wiener Studien. The first four
pages of his article are devoted to a general discussion of Blase's
critique of my views. 2 In this paper technical terms will be used
as follows : progressive = German vor sich gehendes (less exactly fortechreitendes)
; continuative or durative = wiaftrendes; nature or kind of
action=^Lfc<ionsarf; shifted = verschobenes ; descA\)tive=
schilderndes; reminiscent = erz&hlendes (see p. 365) ; relation
(relative, etc.)= Beziehung, etc. Other terms are, it is hoped,
intelligible or will be defined as they occur. Classical Philology. The
nature of the action may be either progressive 1 or con- tinuative
(durative). The time is past, but the period covered by the action of the
tense may vary with the circumstances described from an instantaneous
point to any required length. The time is contemporaneous with, usually
more extensive than, the time of some other act or state expressed or
implied. When the tense- action is continuative and extends into the
immediate past or, by inference, the present of the speaker, I would
distinguish a sub-class : a) The Imperfect of the Immediate
Past: dicebat—"he was saying" or "he's been saying."
The action may or may not be interrupted by something in the context. If
interrupted, it ends sharply and we may term the tense the
"interrupted" type of this immediate past. 2. The
Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in description) .
dicebat="he was saying" (in English often rendered by
"said"). This is in its purest form a simple progressive
imperfect employed in the vivid presentation of past actions or
states. 3. The Reminiscent Imperfect (better, the imperfect used
in reminiscence). dicebat=^ u he was saying" (as I
remember, or as you will remember). In this usage the
imperfect is a simple progressive implying an appeal to the recollection
of the speaker or hearer. B. Customary Past Type.
dicebat="he used to say, would say, was in the habit of
saying, etc." The nature of the action is the same as in A
except that with the aid of the context there is an implication that the
act or state recurred on more than one (usually many) occasions.
These recurrences are usually at some considerable distance in the
past and contrasted with the present, but cases of the immediate
past usage (Ala)) with customary coloring occur. i Hoffmann
Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the
im- perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der
Phase ihres Vollzuges, ein Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein
Vergangenes Sein noch wahrend seines Bestehens." Impebfect
Indicative in Eably Latin 359 C. The Frequentative or Iterative
Type. dicebat = "he kept saying" (at intervals very close
together). This type is like B, except that it has no customary element
and the repetitions refer to one situation within comparatively
narrow limits of time. The link connecting all these
varieties with one another is the progressive function. 1 II.
The Aoristic Imperfect. aibat = "he said" (equivalent to
dixit, aoristic perfect). The time is still past, but the progressive
force is lost. III. The Shifted Imperfect. debebat = "he
ought" (now). The time is shifted to the present and the
progressive force is very much weakened, in some cases wholly lost,
because of the auxiliary character of the verbs involved. For
a more detailed treatment of the foregoing classes (except the imperfect
in reminiscence) I must refer to Am. Jour. Phil. In what follows I shall select
certain points for discussion by way of elucidation and supplement to
what was said there. the impebfect of the immediate
past The simplest progressive usage is well enough understood,
but the usage termed by me the imperfect of the immediate past or
interrupted imperfect 2 calls for some remarks. As a type of this
imperfect in its interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam ego ibam ad
te. — et hercle ego istuc ad te. Here the action is con- ceived as continuing
until interrupted by the meeting of the speak- ers. The fact of the
interruption does not, of course, inhere in the tense but is inferred
from the context. Indeed, the interruption may not occur at all, as will
be seen by comparing the second type, e. g., Stick. 328 f. : ego quid me
velles visebam. nam mequidem harum miserebat. Here visebam is interrupted
like ibam above, 1 The nature of the action seems to me the most
distinctive feature of the tenses. In this I differ radically from Cauer,
who considers contemporaneousness the essential feature of the imperfect,
cf. Grammatical militans, against Methner, whose Untersuchungen zur lat.
Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not seen. 2 B.
Wimmerer Wien. Stud., Anm. 2, calls attention to the fact that this
imperfect of the immediate past in its interrupted form is still common in
Italian. 360 Arthur Leslie Wheeler but the
action of miserebat is conceived as continuing not only up to the
immediate past, but into and in the present of the speaker. But again
this continuance in the present is not inherent in the tense; it is
inferred from the context. The nature of the action is in both these
types still progressive, or more exactly, continua- tive, but temporally
stress is laid on that period of time immediately preceding or even
extending into the present. 1 In this usage the Romans possessed a
somewhat inexact sub- stitute for the English progressive perfect
definite, e. g., mequidem . . . . harumnusere6a/ = (practically)
"I've been pitying,"a form which, like the Latin, may be used
in the proper context to indi- cate that the pity still continues in the
present. 2 On the other hand, the English "I was pitying,"
superficially a more exact rendering, does not so clearly indicate this
continuance in the present, though "I was going to your house,
etc." is an exact rendering of Cas. 178. Blase himself
has collected some exactly similar cases, 3 of which he says:
Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die zwar
in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie- hung
auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae- ritas?
Demaenetum volebam. Das Wollen dauert fort, aber hier ist es nur in
Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende Zeit bis zur
Ankunft vor dem Hause gebraucht. 'Blase {Kritik, p. 6)
misrepresents my statement concerning this usage. He cites from my paper
Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro- gressive
use in its simplest form and of this immediate past usage, although it was
used as an illustration of the immediate past usage only. Again he quotes
me as believing that in the immediate past usage the action takes place
within exactly defined limits ("genau bestimmten Granzen").
Here is atwofold error. My statement (Am. Jour. Phil.) is "fairly
definite limits" and refers to the simple progressive usage, not to
the immediate past usage. Blase's critique confuses the two usages.
2 There are traces of a tendency on the part of the Romans to express
these shades of thought with greater exactness, e. g., by the combination
of a present participle with the copula, Plautus Capt. 925 : quae adhuc
te carens dum hie fui sustentabam. Here carens .... fui is exactly
equivalent to the English "I've been lacking," whereas
sustentabam is inexactly equivalent to "I've been supporting." But
Latin did not develop such expressions as carens .... fui into real
tenses, and remained content with the less exact imperfect, cf . also iam
diu, etc., with the present. See Am. Jour. Phil. XXIV, p. 185, and Blase
Hist. Syntax, p. 256. A complete collection of such cases would be
interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens est, Rud. 943 : sum
indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens (Poen. 1038), etc.
"Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi, p. 148, Aran. This book
had not reached me when my article in Am. Jour. Phil. XXIV was
written. Imperfect Indicative in Eably Latin 361 With the
first part of this statement I fully agree, but is it true that in As.
395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf die Vergangenheit,
etc." ? If, as Blase says, "das Wollen dauert fort," then
we are forced to say that the imperfect is used not merely with reference
to the past, but with reference to the present. The speaker really has in
mind both past and present, and uses the imperfect to express this double
temporal sense, the action continuing from the past into the present, because
at the moment of speaking the past is somewhat more prominent. The tense
is, therefore, as explained above, only an approximate expression
of the thought. Had the present been more prominent, other elements being
equal, some expression like iam diu volo would have been
employed. Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the
speaker has in mind both beginning and end of the action is not
capable of proof. It is true, I think, that the speaker has usually
no definite point in mind at which the action began. He simply
indicates the action as beginning somewhere in the past and con- tinuing
in the present. But in the very numerous "interrupted" cases he
has in mind a sharply defined end of the action. Blase's criticism seems
justified, then, only with reference to those cases of which Stich. 328,
.... harum miserebat is a type. But Blase classifies cases of this usage
under no less than three different heads in his Tempora und Modi. In
addition to the case cited above, As. 392 volebam, which he interprets,
as I have tried to show, almost correctly, he cites Trim. 400: sed
'Of. also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc.
884; quo nunc ibas? , Ter. Andr. 657 f. : iam censebam. 2 B.
Wimmerer Wien. Stud., says: "Sohalteich .... die Konsta- tierung
eines," imperfect of the immediate past or the interrupted imperfect,
"fiir einen glucklichen Gedanken," though he would not make a
special type of this use. It seems to me so common (about 200 cases) as
to deserve the degree of special notice which I have given it (Am. Jour.
Phil He adds in a note: "Hier tut Blase m. E. Wheeler einigermassen
unrecht, wenn er dessen Behauptung, dass der Sprecher in diesen Fallen
Anfang und Ende der Handlung tiberschaue, unerweislich nennt. Wheeler
kann dies mit Becht behaupten, wenn es sich um einen Gedanken handelt,
der einen beherrschte bis zu dem Augenblick, wo man ihn
konstatiert," pointing out also that Blase would be justified only
in criticizing the form of my ex- pression so far as I wished to apply it
to the cursive " Aktionsart" (i. e., those cases where there is
no interruption?). 362 Arthur Leslie Wheeler
aperiuntur aedes, quo ibam 1 as "erzahlendes" (p. 148), Merc.
885: quo nunc ibas as "sogenannt. Oonatus." The function of
the tense is essentially the same in all these cases, the only
variant being the presence or absence of interruption which is inferred
in all cases from the context. Since Blase classifies so many
of these cases under the head of the conative imperfect, a consideration
of that usage seems here in place. A "conative"
imperfect ought to mean an imperfect which expresses attempted action,
but since there is no trace, at least in early Latin (cf. Am. Jour. Phil.
XXIV, pp. 179, 180), of such a function, the term is a bad one. 2 Why then
retain it, as Blase does, for those imperfects which express "den
wahrenden, aber nicht zu Ende, geftihrten Handlung?" These
imperfects are chiefly of the type which I have termed
"interrupted," where the context implies it, or imperfects of
the "immediate past," where there is no interruption. 3 In
neither case is there anything more than a simple variation of the
progressive (here more exactly continuative) imperfect. But
most of Blase's cases are not even of this idiomatic inter- rupted or
immediate past variety. They are simple progressives in contexts which
imply that the action was interrupted 4 or not liftam occurs often
in this use : True. 921, Cas. 178, 594, Merc. 885, Tri. 400, etc. ; cf .
Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168-70. 2 Blase Syntax, p. 148,
recognizes the inexactness of the term by his expression,
"sogenannten Oonatus." In Greek its unfitness is well expressed by
Mutzbauer (cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick, Vergl. Syntax II,
p. 306): "Ungenau werden solche Imperf ekta conatus bezeichnet, von
einem Versuch liegt in der Form nichts" (Grundlagender griech.
Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264 : "
In der Form liegt allerdings von einem Versuche nichts."
^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264, remarks that he does not see
why Blase appears to think that there is a difference between his
conception of the imperfect de conatu and mine. Blase says (Kritik, p.
11), after defining these imperfects as above : " Die hier
vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu passen, die
Wheeler," the interrupted imperfect " nennt." This is the case,
so far as Blase confines his citations to instances of the interrupted
type. There is, then, no essential difference in our interpretation of
the function of the tense in these cases. Blase clings, apparently
against his will, to the old terminology to which everybody seems to
object, whereas I would group these cases under a new term which seems to
me more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all
the cases that belong together. 4 1 use interrupted here not
of what has been termed the "interrupted" usage, whose
distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past,
but as Impeepect Indicative in Early Latin 363
completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus
simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469: pallam ad
phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis pariebatur (just like
all the other imperfects in the passage — progressive of the descriptive
variety); id.Milo 9: interfectus ab eo est, cui vim afferebat (simple
progressive, the interruption being expressed by interfectus est) ; id.
Ligar. 24: veniebatis in Africam (progressive, the interruption being
implied in prohibiti 1 five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex
silvis rari propug- nabant nostrosque intra munitiones ingredi
prohibebant (but prohibebant is exactly like propugnabant — both were
interrupted by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and
note the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti
lenie- bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of
mitigating, but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy:
mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna .... aderat et
Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive in description —
that the act did not succeed is shown by reppulit) ; Curtius vi. 7. 11:
alias .... effeminatum et muliebrieter timi- dum appellans, nunc ingentia
promittens .... versabat animo tanto facinore procul abhorrentem (again
graphic description: there is here nothing in the immediate context to
show that an effect was or was not produced. In fact versare animum does
not mean necessarily to succeed in turning one's mind, but merely to work
on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius .... ver- sare muliebrem
animum in omnes partes, where versare sums up the preceding infinitives,
but no effect is produced. So in Cur- tius, loc. cit. , versabat has the
same kind of action as is indicated by the participles appellans ....
promittens, which are summed up in versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his
et similibus notos pariter et ignotos ad faciendum f ortiter accendebat (
again graphic description, cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus
adiuvabat). referring to interruptions in the more distant past.
Where the interruption belongs to the immediate past I have so indicated
in the following criticism. 1 Surely the hearer in such a case as
this would not have connected even the idea of " nicht zu Ende
gefiihrten Handlung " with veniebatis until he heard prohibiti, i.
e., the interruption belongs purely to the context and not the immediate
context at that. This is true of many other so-called conative
imperfects. 364 Arthur Leslie Wheeler Vergil
Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant (graphic description = what
Juno "was doing" at the time, and only the outcome of the story
proves that she did not succeed). : hoc equidem occasum Troiae tristisque
ruinas solabar, fatis contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros
.... inse- quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast
in nwnc = I have been in the habit of comforting .... but now, etc.
This is one of the transitional cases between the pure custo- mary part
and the pure immediate past; cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 186, where
Plautus, Mud. 1123: dudum dimidiam petebas partem, immo nunc peto; Men.
729: at mihi negabas dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante
oculos, attines, are cited. In both of these passages, though there is no
customary coloring, there is the same contrast between continuance in
the past and the present as in Vergil loc. cit. Blase would probably
term both of the Plautus passages "erzahlende"). Tacitus Ann.
i. 6. 3 trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very common form of
graphic description in Tacitus = the soldiers were being crowded into
.... but (ni) . . . . i. e., the effect was partly produced, but was
prevented, cf. Sallust Jug. 27. 1 above). In all these cases, then,
I can see no essential alteration in the function of the tense. The idea
"der nicht zu Ende geftihrten Handlung" is derived in each case
wholly from the context and there is no reason for making a special
category of imperfects which happen to occur in contexts of this kind.
Moreover, the meaning of the verb has often been overlooked, e. g.,
prohibebant (Caesar B. G. loc. cit.) may easily, with but slight aid from
the context, express "die nicht zu Ende gefuhrte Handlung;"
cf. redimebat, mittebatur, versabat, etc. Whether the idea of
real attempted action ever became con- nected functionally with the
imperfect remains to be investigated. Certainly this did not occur in
early Latin, and I doubt whether it ever occurred. Among the cases cited
by Blase are two which more closely approximate this idea than any
others. These are Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo
belli moram redimebat, existumans sese aliquid interim Romae pretio aut
gratia effecturum; postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1:
reducebat. Impebfect Indicative in Early Latin 365
It is hard for us to feel the progressive force as the more promi-
nent in such cases. We regard as more important the attempt which is
implied in the context, but the Romans preferred to rep- resent the act
graphically as in progress, leaving the idea that it was not successful
to be inferred. When a Roman wished clearly to express attempt (real
conatus), he chose a clear conative expression, 1 e. g., conari with
infinitive. In strict accuracy we ought not to speak of a
"descriptive" imperfect, but of the progressive imperfect in
description. The term "descriptive" imperfect would be
justified only in case we could distinguish from the simple progressives
those cases in which the tense is used purely for graphic presentation of
actions which might more naturally have been indicated by the perfect.
Such a distinction may often be drawn, especially after the development
of a consciously artistic style, but the separation would be worth little
since the progressive function is equally characteristic of both. The
tense was chosen for graphic purposes because its pro- gressive function
made it the most vivid of the past tenses. The chief difference
between Blase's treatment here and my own will become evident from a
consideration of his definition (Hist. Syntax) : Aber seiner
Hauptverwendung nach ist das Imperf. im latein. ein Tempus der
Schilderung geworden welches einmal im Nebensatz seine Stelle hat zur
Bezeichnung von Zustanden und Handlungen, die wahrend anderer genannter
Zustanden und Handlungen dauerten, und dann im Hauptsatz bei
Schilderungen von Zustanden, Sitten, Gebrauchen, welche in Beziehung
stehen zu irgead einer vorher oder nachher genannten praeteritalen
Handlung. ! This whole question needs investigation. All the forms
of expression of real conatus should be collected and compared with the
tenses as has been done for "cus- tom" by Miss E. M. Perkins
The Expression of Customary Past Action or State in Early Latin, Bryn
Mawr dissertation, 1904. 2 " Reminiscence, reminiscent"
are here proposed as equivalents for the German "Erz&hlung,
erz&hlendes, etc.," since the English "narrative," whether
noun or adjective, does not, as may the German "Erz&hlung,"
etc., imply an appeal to the memory or recollection. Blase points out
(Kritik, p. 12) that I misunderstood the Latin equivalents narratio,
etc., as employed by Rodenbusch (De temporum usu Plautino, Strassburg,
1888) who thus translates this peculiar German "Erzahlung" into
Latin. My error may seem pardonable under the circumstances.
366 Abthub Leslie Wheeler This elevates the descriptive power
of the imperfect to a higher position than seems to me justified, unless
one defines all cases having the progressive function as descriptive
which Blase evi- dently does not do, for he makes separate categories of
the "erzahlendes" (reminiscent) function and, as has been seen,
of the conative, 1 in all of which he recognizes the nature of the
action as progressive. Again it is to be noted that he speaks
of the 'description of customs,' etc., i. e., he does not regard the use
of the imperfect to indicate customary action as important enough even
for a sub- class, although he makes at least varieties of the reminiscent
and conative uses. I shall take up this point more fully below, 2
merely remarking here that the cases usually termed customary are
fully as peculiar as those termed by Blase conative and far more
numerous, at least in early Latin. 1 would, then, understand as an
imperfect used in description one which is used in a descriptive passage
to present any act or state vividly to the hearer or reader. What Blase's
conception is, I can not discover. He appears to make a distinction
(Kritik, p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here
"narrative"?) and"Schilde- rung" ( — description),
e.g., in Plautus Bacch. 258-307, Capt. 497-515, Terence Andr. 48ff.,
74-102 — passages which I had cited as descriptive, 4 he sees "reine
Erzahlung, keine Schilde- rung." On the other hand, in Terence
Phorm. 60-135, which I had also cited, he sees "eine Erzahlung mit
einzelnen Situations- malereien." Without quibbling over our
characterization of the i "Conative" is used in this
passage merely as representing Blase's classification. 2 With
regard to Blase's peculiar distinction between imperfects in dependent and
independent clauses I would remark that in the study of probably two or three
thousand cases of the tense I have never been able to see any essential
difference in function due to the presence of a case in a dependent
clause, cf . Am. Jour. Phil. And certainly customs, etc. ("Sitten,
Gebrauchen") maybe described in a subordinate clause as well as in
an independent clause. sif " Erzahlung " is here used by
Blase in its technical sense as explained on p. 365, note, my objections
are strengthened, for there is certainly no special "appeal to
recollection" in the imperfects of these passages. One might as well say
that the descriptive presents and infinitives (so-called historical) in
the Bacchides passage, etc., are different from the same usages in, say,
Livy, because here the speaker is supposed to be telling of personal
experiences, which is chronologically impossible in Livy's case.
4 Some of the imperfects are primarily customary.
Imperfect Indicative in Early Latin 367 passages in question
let us consider the main point, so far as it can be discerned in Blase's
discussion: that there is to him some difference between the imperfects
in the first group of passages and those in the Phorm. 60-135. With his
characterization of the latter passage I agree, and I had classified the
imperfects in it as imperfects used in description
("Situationsmalereien"). 1 But what is the difference in the
effect of imperfects in this pas- sage and those in the Bacchides or
those, to take a typical passage from Blase's Tempora und Modi, in Caesar
Bell. civ. i. 62. 3 ? I give the essential parts of the three
passages: Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est
puellulam .... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque
quod daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, ....
nos otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum
ilico tonstrina erat quaedam, etc. Bacch.flf . : dum
circumspecto, atque ego lembun conspicor .... is erat communis cum
hospite et praedonibus .... is ... . nostrae navi insidias dabat. occepi
ego opservare .... interea nostra navis solvitur .... homines remigio
sequi, navem extemplo statuimus .... Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in
which Blase expressly characterizes nun- tiabatur, etc., reperiebat as
" schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar .... hue iam
reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat, possent tamen
.... flumen transire, pedites vero ad transeundum impediuntur. sed tamen
eodem fere tempore pons in Hibero prope effectus nuntiabatur, etc.
To me there is no difference between the imperfects in the passages
of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and those of the
Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All seem to me to be
progressive imperfects in description, some are also customary (see the
collection) and have been classified under that head as the more
important element. Is it not better to separate such cases as Phorm. 87
operant dabamus, 90 solebamus from the progressive-descriptive types than to
group all together, 3 as is done by Blase?* 1 This term
refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify
exactly what he means. 2 Primarily customary. 3 Blase
apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf. Kritik,
p. 7 and see below. 4 In his Kritik, p. 7 Blase attempts to refute
my assertion that the words of Quad- rigarius are not exactly given by
Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res
368 Arthur Leslie Wheelek The usage termed by Blase
"erzahlendes," for which I have proposed in English the term
"reminiscent," seems to me to be closely related to the
so-called descriptive imperfect. Blase not only considers this an
important variety {Syn. Ill), but is inclined to regard it as perhaps an
original function. 1 According to his definition {Syn., loc. cit. after
Delbriick) the imperfect is thus used "wenn der Sprechende etwas aus
seiner personlichen Erinnerung mitteilt oder an die personliche
Erinne- rung des Angeredeten appelliert." Both the descriptive
and reminiscent uses, therefore, result from the use of the
progressive function to represent a past act vividly. The reminiscent
effect is due to the fact that in this usage the past acts are restricted
to those which concern the personal experience of the speaker or
hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from Blase's
list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non vitiosam, ut
heri dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est plane nullam esse rem
publicam. Here Cicero clearly indicates that he is repeating the
substance of his own words of the day before = " as I was saying
yesterday, let me remind you." 2 So Catullus 30. 7: eheu quid
faciant, die, homines, cuive habeant fidem ? certo tute iubebas animam
tradere, inique, me .... idem nunc retrains te, etc., where the poet
reminds his friend (?) of the latter's advice. In both cases the
progressive force is clear, and, as Blase says, the tenses stand in no
clear temporal relation to any preterite in their context. Now since the
peculiar .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But
profecto refers to the content, not to the exact, words of the passage in
the libri annates. And when Gellius gives a word-for-word citation, he
introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba Q. Olaudii
.... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut
quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion
of Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of
Quadrigarius is not given, but Gellius was probably taking the substance
of the account from him. I have excluded this passage from the certain
remains of early Latin. iKritik, p. 15: "War die
vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des Alt-Indischen
(vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s , §
539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine
uralte Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f. 2 The English
imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as
fol- lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like
" Warn't I tellin' ye?" Usually the time is denned by some
adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the contrast between past and
present as expressed in both passages by nunc. Impebfect
Indicative in Early Latin 369 appeal to recollection is the
distinguishing feature of this remi- niscent imperfect, it would seem
proper to confine the usage to those cases in which such an appeal is
clear. Without discussing doubtful cases I content myself with indicating
those found in Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent.
Plautus Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past
of the interrupted type). In the same category I would place Cicero
Att. i. 10. 2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo nunc tamen et
agam studiosius et contendam — -except that here the action of faciebam
is not interrupted, but is continued in the present, cf. agam et
contendam. Other immediate pasts are Ovid Fasti i. 50: qui iam fastus
erit, mane nefastus erat; ibid. 718: si qua parum Komam terra timebat,
amet; ibid. ii. 79: quern modo caelatum stellis Delphina videbas, is
fugiet visus nocte sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si
quis Borean horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit.
Varro R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me
absente patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia e
villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive and (also
against Blase) contemporaneous with vidi just above. dicebat is difficult
and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the exact details given by
the speaker ; or did the phrase in annos singulos influence the choice of
the tense ? So in Cic. Off. i. 108 : erat in L. Crasso, .... multus
lepos; 109 : sunt his alii multi multum dispares .... qui nihil ex
occulto, nihil de insidiis agendum putant ut Sullam et M. Crassum vide-
bamus, the imperfect seems to be progressive used in description. In Ovid
Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat 'Agonio' sermo, the imperfect
seems to be customary; cf. antiquus and Paulus s. v. Agonium: Agonium
dies appellabatur quo rex hostiam immolabat; hostiam enim antiqui agoniam
vocabant. But however much the interpretation of single cases may
vary, this is clear: the progressive force is discernible in all these
cases. It would be better, therefore, to content ourselves with this and
not to discover an additional appeal to recollection, unless such force
is perfectly clear, since the real imperfect function is not altered
whether the reminiscent force be present or absent. lOf. p.
359. One more remark needs
to be made concerning the remini- scent imperfect. This category has
served as a convenient catch- all for many cases of the imperfect which
are difficult to classify and especially for those in which it is
difficult or impossible to discern any progressive force, many of which I
have classified as aoristic. To classify these last cases as reminiscent
is doubly wrong ; first, because it usually involves a petitio principii,
i. e. , an effort to discover imperfect function because the form
is imperfect; secondly, because the reminiscent coloring is con-
nected only with instances in which the imperfect (progressive) function
is clear. The shadowy appeal to memory does not exist as a separate
function It has already been pointed out that Blase would not
elevate this variety of the progressive imperfect to the dignity of a
sub- class. The tense, however, occurs so often in the expression
of custom, habit, method, etc., that it seems to me worthy of sepa-
ration from other varieties of the progressive. In early Latin I have
counted about 450 instances in which the customary coloring seems tome
the most prominent element (see the table). Blase (Kritik, p. 9)
has objected to my statement ( Am. Jour. Phil.) that verbs whose meaning
implies repe- tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well
adapted to the expression of the customary past function. He gives
no reason with regard to the first group, vocito, etc., where the
mean- ing is connected with the form. With regard to soleo, etc.,
he says only that the reciprocal influence of verb-meaning and
tense- function appears "nicht nachweisbar, da doch der
Verfasser selbst ihr seltenes Vorkommen im Imperfekt natiirlich
findet, weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit 'the customary
past function' ausdrucken." There appears here to be some mis-
understanding on Blase 's part and perhaps my statement was too brief. I
did not mean by reciprocal influence of verb-meaning and tense-function
that the tense borrows anything, as Blase seems to understand me, from
the meaning of the verb, but that when a verb whose meaning implies
repetition or custom occurs i See p. 378 for further remarks.
Imperfect Indicative in Eaely Latin in the imperfect tense,
the expression of custom becomes especially clear. The meaning of the
verb and the function of the tense are mutually helpful to the expression
of the thought. 1 Verbs like appello, voco, vocito, dico
(="name") imply not merely a single act of naming, but usually
many acts at intervals. 2 There are numerous instances of such verbs in
the imperfect (see the collection) and nothing seems to me to be clearer
than that these verbs are especially well adapted to the expression of
custom — • past, present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17.
2: iique quos obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162:
ubi cenabant, cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first
case the tense merely states, while the verb-meaning, together with
the context, gives the idea of custom or habit; in the second (voeitabant)
the verb- meaning is reinforced by the imperfect tense — both aid in the
expression of custom. This does not mean that a Roman more often used the
imperfect tense of such verbs when he wished to express custom, but that
when the imperfect was used, a clearer expression of customary past
action resulted. 3 As to soleo, consuesco, etc., the same principle
holds, for cus- tom and repetition are inseparably connected; but since
these verbs imply by their meaning the very function (custom) in
question, it is clear that the imperfect tense would occur more rarely.
When, however, the imperfect was used, there was, just as in vocito,
etc., a more emphatic expression of the customary idea; cf. Phorm. 90:
Tonstrina erat quaedam: hie solebamus fere plerumque earn opperiri ....
Here tense, verb, and particles all lend their aid to the expression of
the idea of custom or habit. The same idea would have been expressed less
clearly by hie fere plerumque opperiebamur, or by hie fere plerumque
soliti sumus opperiri, or by hie opperiebamur. In the last form only does
the i Cf . Trans. Am. Philolog. Ass., where I first expressed
this view. That verbs like soleo "dominate the tense" I no
longer believe; they aid the tense, but it is impossible to say whether
the tense or the verb-meaning is more influential in the total effect.
Cf. also Morris, Principles and Methods in Syntax, 1901, p. 72.
2 If the intervals are very close together without the implication of
custom, I would classify as frequentative ; see below. 3 Am.
Jour. Phil., and the dissertation of Miss Perkins cited above.
tense-form become entirely dissevered from the influence of verb-
meaning and accompanying particles, and even here context is operative.
The progressive function inherent in all true imperfects renders the
tense well fitted to express repetition in the past. The repeated acts
may naturally occur at wider or narrower intervals, as the case may
require. All expressions of custom, for example, involve an idea of
repetition, but it is only to cases of the imperfect which indi- cate an
act as repeated insistently, usually at intervals very close together,
that I would give the title "frequentative" or
"iterative," i. e., imperfects in which this element of
repetition becomes more prominent than any other. It seems to me that the
existence of a few such cases in early Latin is not fanciful. In
Plautus' Captivi: aulas .... omnis confregit nisi quae modiales
erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a single
situation is described wherein the parasite repeatedly and insist- ently
asked, kept asking, whether, etc. There is something more than mere
progressive force, on the one hand, and there is no idea of habit or
custom, on the other. The primary element of the tense is here
repetition. When, therefore, Blase sees in As. 207 ff. repetition, he is
right, for repetition in a general way is present in all cases of the
customary imperfect; but he is wrong in viewing repetition as the more
important element. The more important element seems to me custom and in
accordance with this we ought to classify these cases as customary.
3 iln a review of Miss Perkins' dissertation Woch.f. kl. Phil.,
1904, cols. 1277-80, Blase has since admitted the truth of my assertion
with regard to the influence of verb-meaning: "Die Verbalbedeutung
ist massgebend z. B.bei alien Verben, die 'nennen,' 'benennen,'
bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der Name entsteht durch ein
gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand gegeben (by Miss Perkins)
fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler bezweifelt habe."
2 Blase (Kritik) misses among my cases Rud. 540, which was
nevertheless cited, but escaped him because by a misprint the imperfect
was not italicized. On the same page he cites ten passages and says that
I "hier uberall gewohnheitsmftssige Handlungen erkenne." This
is very inaccurate, unless "hier" refers to the last two
passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two of the list which I have
classified as customary. My classification of the other eight passages
may be seen by referring to the collection at the end of this
paper. 3 Blase (Kritik) seems to imply that I have said that the
frequentative imperfect is commoner in later Latin. I have nowhere said
this and my statement, Imperfect Indicative in Early Latin
373 the aoristic imperfect Excessive deference to the
principle that a difference of form implies a difference of meaning and
the well-known tendency of investigators to abhor an exception are
chiefly responsible for the unwillingness of some scholars to admit that
the imperfect occurs in Latin with no progressive force, i. e., as an
aorist. While I can not pretend to criticize this method as applied to
Sanskrit and Greek by Delbruck, 1 it seems to me that there are reasons
against its application, in the same degree at least, to Latin. The
situa- tion in early Latin differs essentially from that in Sanskrit and
in Greek. In the first place there is no 'great mass' 2 of cases of
the imperfect in which real progressive force is not discernible,
and the cases (about sixty) are restricted almost entirely to two
verbs, aibam and eram. This seems to indicate that the phenomenon
arose on Latin ground alone and has its explanation in some peculiarity
of the few verbs concerned. Again the greater wealth of tenses in
Sanskrit and Greek would lead us a priori to expect Am. Jour. Phil,
"Latin seems .... to have been unwilling to take that step,"
implies the opposite belief. When I added (ibid., p. 187), " If the
fre- quentative imperfect in early Latin is still in its infancy,
etc.," it was naturally not implied that it ever passed out of its
infancy ! The facts in later Latin are not known because they are not
collected. Wimmerer naturally repeats from Blase's Kritik both these
errors ( Wien. Stud., 1905, p. 263). He, too, is of the opinion that it is of
no ad- vantage to separate so-called iterative imperfects from those of
customary nature: " wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des
gewahlten Tempus aus dem Zusam- menhange erkannt wird, dass es sich um
eine Gewohnheit handelt." To this it must be answered, first, that
it is by no means always, and often not at all, on the basis of the tense
that we recognize the presence of customary action. Such action may be
expressed in many ways, the tense being but one element ; and, secondly, if the
cases interpreted by me as frequentative are really essentially different
from any other variety of the progressive, then they should be classified
separately, at least until it can be proved that they belong
elsewhere. 1 It will suffice to quote two of Delbruck's statements.
He says of the Greek tenses : "Man muss sich eben mit der Erwagung
begnugen, dass es einem Schriftsteller bald gut schien, zu konstatieren,
bald zu erzahlen, ohne dass wir uns seine Motive immer klar machen
konnten" (Vergl. Syn. II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method
is evinced ibid.: " Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt
(of Sanskrit) in den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr
im Stande." This is at least safe agnosticism, biding its time until
the lost distinctions shall be found. Blase is in entire agreement even
as regards Latin with the first statement of Delbrflck, cf . Kritik, p.
12. 2 Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt
doch auch eine grosse Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund
fur die Wahl des Tempus nicht ausfindig machen konnen."
374 Arthur Leslie Wheeler in those languages a larger number
of instances in which it is hard to differentiate similar tenses, whereas
the much narrower tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the
functions of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated
per- fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance
with this preliterary development we should expect indications of
the same tendency in the literary period. The aoristic imperfect
is, I believe, an illustration of this tendency, resulting from the
merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in certain
verbs. The restricted range of the phenomenon and its probable
explanation (see below) would make it unlikely that we are here dealing
with a survival of an Indo-European confusion. As illustrations of
the aoristic usage I will cite : Plautus Poen. 1069 : nam mihi sobrina
Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit), pater tuos is erat frater patruelis
meus. Here there seems to be no difference between erat and fuit. Ibid.
900: et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere: ingenuos
Carthagine aibat esse, where aibat and dixit seem to be equivalent. For
other cases see the collection. It is quite possible that
others may be able to detect true im- perfect force in some of the cases
which I have classified as aoristic. Blase, though not quite certain of
his own classification, has con- vinced me that I may have been wrong
with regard to Varro H. r. ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in Lusitania
.... sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax ....
dicebat .... L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus
costis, etc. There are so many exact details here that we suspect
Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice- bat. 1
But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the total of those
which seem to me aoristic, enough remain to establish this category on a
firm basis. The exact process by which the progressive function
became lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am.
Jour. Phil.) that it is a weakening due to the constant
'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as
customary. I neglected to exclude this from four cases cited from
Rodenbusch. It was classified on my own slips as customary. 2
1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.
Imperfect Indicative in Early Latin 375 use of certain
verbs in ever-recurring similar contexts, until in the case of aibam the
originally graphic ' force was used out of the form and aibam became a
mere tag to indicate an indirect discourse. 2 With eram the vagueness of
the verb-meaning and the frequency of its occurrence side by side with
fui were the chief influences. In contexts where there are many other
imper- fects all of a definite time, these usually colorless verbs
naturally take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208
aibas. In his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase
expresses his belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert
and J. Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit-
partikeln 2 , pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems
absolutely to have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says (Quom,
pp. 156 ff.) that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris- tic perfect
and the imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der Unterschied
zwischen beiden gering war." "Grering" indicates that
there was to him some difference, even though it was slight. Schneider's
statements are not consistent. In his De temporum apud priscos scriptores
latinos usu quaestiones selectae, Glatz, he says correctly that in many cases
no difference can be seen between aibat and dixit, and that "aibat
aoristi munere fungi," but he adds that the imperfect represents an
act as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam."
Hoff- mann's supposed refutation is very weak. In the first place
he 1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for
the reminiscent usage is due to the speaker's effort to represent a past
act graphically. 2 Cf. Am. Jour. Phil., where it is stated that the
indirect discourse is always present or implied (rarely) with aibam.
Occasionally the object is represented by a pronoun. Bacch. 982: quid
ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc. 8 Cf. Blase
(Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der wieder-
holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich anders gef asst
werden kann." 4 But cf. O. Seyffert in Bursian's
Jahresb.: " Das Imperf. findet sich. bekanntlich bei den Scenikern
mehrfach in einem so geringen Bedeutungsunterschiede vom Perf . und
bisweilen unmittelbar neben demselben, dass man ohne wesentliche Anderung
des Sinnes und oft auch unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das
eine Tempus f iir das andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei
den verba dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende
Perfect;" cf. ibid. LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement
that aibat, e. g., Ps. 1083, represents the lost perfect of aio. In Am.
Jour. Phil. I had overlooked this
remarkable anticipation of my own conclusions. confuses different
uses of the tense, asserting, for example, that in Plautus Tri. 400:
aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly analogous to that in
Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat. commotus est Tiberius,
etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus, donee, etc., and that in the
last two cases the imperfect jars on us because such an action is not
usually presented "in der Phase ihres Vollzugs." Such an
application of the tense may seem strange to a German, but to one who
speaks English, it is entirely natural and could not for a moment be
mistaken for anything but a simple progressive imperfect. To refute such
a usage as a supposed aorist is to knock down a man of straw. The
supposed analogy of these cases to Tri. 400 does not bear on the point,
but it may be remarked that ibam is analogous only in the fact that its
action is progressive and interrupted, but it belongs to the immediate
past type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which
may be taken aoristically, and asserts that the tense is in all
used "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on
entirely inadequate foundation. 2 the shifted imperfect
Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one class
(Kritik) = an imperfect subjunctive with present meaning; for, as he
says, there is no real shifting if the preterital sense remains. But when
he adds 3 that "ein sicherer derartiger Fall ist weder bei Plautus
und Terenz, noch sonst im Altlatein vorhanden," I can not agree. He
accepts as cases of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci nostra
senis casibus .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est
analogia, and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in
patrico denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque
esset analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset,
non, 2 J. Ley Vergilianar. quaestion. specimen prius de
temporum usu, Saarbriicken, 1877, apparently believes that eram and fui
in Vergil are so nearly equivalent that metrical convenience often
decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm. I have not seen
this dissertation, but the explanation is, on its face, insufficient.
S0f. his Syntax: " Der Indikativ des Imperfekts hat erst seit Beginn
der klassischen Zeit eine allmahliche Verschiebung aus der Sphfire der
Vergangenheit in die der Gegenwart erfahren."
Imperfect Indicative in Eably Latin 377 cum esset
usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these are real cases of
shifting, how do the following differ ? Plautus Merc. 983 e : temperare
istac aetate istis decet ted artibus .... vacnom esse istac ted aetate
his decebat noxiis. itidem at tem- pus anni, aetate alia aliud factum
convenit; Mil. 755: insanivisti hercle (perf. def.): nam idem hoc
hominibus sa/[a] era[n]t decern; ibid. 911: bonus vatis poteras esse: nam
quae sunt futura dicis. 1 If the passages from Varro move in the
present (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct.
ad Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant.
2 That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei
Per- fekten" (Blase) is accidental. 3 This peculiar
shifting was explained by me Am. Jour. Phil. as due to the unreal
(contrary-to-fact) idea present in the context or in the meaning of the
verb (oportebat, etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill, p. 149) who also
calls attention to the auxiliary character 4 of the verbs involved and
thinks that the shifting began with verbs of possibility and necessity
which seems a probable view. In conclusion a few words are
necessary with regard to some general aspects of the subject and its
method of treatment. The original function or functions 5 of the
imperfect can not, of course, be certainly inferred from a syntactical
investigation of material which is relatively so late even with the aid
of etymology and comparative philology. My statement (loc. cit., p. 184)
that the progressive function was probably original was therefore
intended i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511 poterat, Aul. 424.
For the other eases see collection. 2 But not iv. 16. 23,
which I now see is not shifted. 8 And both are cases of debuerunt!
In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion (loc. cit., p. 181, n.
1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these verbs are
shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50 ; viii. 61, 66.
I am glad to find my view supported by Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264
: " Denn da der Grund der Ver- schiebung hier vor allem in der
Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise ebenso gut ein
debuit wie ein debebat verschoben werden." «Cf. Am. Jour.
Phil. XXIV, p. 190. 6 It is uncertain whether the original meaning
of the tense was vague, admitting several uses which gradually became
narrowed to one (the progressive), or whether there was one original
meaning which split into several related uses. The facts seem to point to
the second alternative. 378 Arthur Leslie Wheeler
only as a probability based upon the existence of this force in
nearly all the cases and upon the generally accepted etymology of the
imperfect form. But nothing like proof was claimed for this theory. Blase
is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to regard the reminiscent
usage also as an original one (cf. p. 26, n. 2), but he rightly says that
no statistics can prove which of these two is earlier. If my view that
the reminiscent usage is rather an application of the progressive than
itself a separate function is correct, then the progressive is older. The
existence of the reminiscent imperfect in Sanskrit and Greek
certainly makes it very probable, as Blase says, that it existed in
preliterary Latin also. If this is so, I am inclined to refer it to the
same general origin as the so-called descriptive imperfect — to the
effort to present a past act (here a personal experience) vividly.
1 But the search for original meanings must ever remain
within the realm of theory; nor can we hope even theoretically to
reach any considerable degree of probability in the establishment
of such meanings without the most careful collection and
classifica- tion of the facts within the period of written speech. And
this should precede the appeal to etymology and comparative phi-
lology. What is actually found in any given language, not what according
to comparative philology ought to be found, should be our first aim.
Although I would not minimize the importance in syntactical study of the
comparative method, it seems to me prop- erly applied only as a
supplement, not as the controlling factor to which all else is
subordinated. Indeed, a premature appeal to comparative philology may
result in premature conclusions, for an investigator whose head is filled
with preconceived notions drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to
imagine peculi- arities in Latin phenomena which he would not have
perceived at all, had he approached by a Latin route alone; and
such peculiarities have little value unless they can be recognized
as Latin without foreign assistance. Once recognized they may, and often
do, receive much additional light from comparative philology. While it is
true, then, that scholars will differ with •Cf. Am. Jour. Phil.,
where it was surmised that the descrip- tive application of the tense was
Indo-European. Imperfect Indicative in Early Latin 379
regard to a few cases' in any given syntactical phenomenon and the
ultimate classification must not neglect the aid of comparative
philology, yet the chief basis of investigation is agreement among
scholars with regard to the great majority of such cases viewed as purely
Latin phenomena. If this agreement is lacking, comparative philology can
rarely bring reliability to the results. The statistical table shows that this
investigation is based upon a collection of 1,223 imperfects. It has been
my aim to exclude from consideration (and from the table) all passages of
dubious authorship, corrupt text, or insufficient context. About 170
cases have thus been excluded, a seemingly large proportion, but it
must be remembered that much of the literature of the third and second
centuries before Christ is fragmentary and very often there is not enough
context to render classification at all certain. In so large a body of
text it is probable that some cases have escaped my notice, but most of
the ground has been examined at least twice and such omissions can hardly
be numerous or alter essentially the results. I have subjected the
material to a careful revision and the table differs slightly from that
published in Am. Jour. Phil. It would seem unnecessary nowadays for
any syntactical scholar to state that he lays no stress on statistics as
such, but when a reviewer 2 attributes to me the conviction that I
have proved this and that by just so many exact figures, it seems
proper for me to disclaim any such conviction. The fact that exact
figures do not in themselves mean anything does not, however, excuse one
from being as exact as possible. iCf. Wimmerer Wien. Stud.:
"die syntaktischen Einzeltatsachen sind viel zu sehr umstritten als
dass auf sie allein eine brauchbare Klassiflkation und Erkl&rung der
Arten eines einigermassen verzweigten syntaktischen Gebrauches gesttizt
werden kdnnte." With this I agree, except possibly as to what is a
"brauch- bare Klassiflkation," but when he says (p. 61), with
reference to my inference that the progressive function is original:
"Den Begriff aber hat die vergleichende Sprach- wissenschaft langst
festgestellt," I would suggest that such a conclusion could not be
regarded as 'firmly established' except with several investigations like mine
as chief ies. 2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p.
289. 380 Abthuk Leslie Wheelee The method of
citation adopted in the collection will doubtless seem to many
inadequate. It is especially true, however, of the classification of
tense functions, that very often a large body of context must be taken
into consideration. For this reason very many of the citations even in
Blase's "Tempora und Modi" are quite useless and misleading
because of their brevity. It seemed best, therefore, to cite as fully as
possible in the body of the article, but in the collection to cite only
each form and the place of its occurrence. Those who are interested in
examining a given usage in detail will in any case revert to the complete
context, as I know by experience. I. Progressive Imperfect A.
Simple Types, including imperfects in description, reminiscence, and the
"immediate" past variety. Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed.
minor, Lipsiae, 1892-96. Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant ....
fugiebam; 251 com- plectabantur;
aiebas; 385 sci[e]bam; 429erat; 597 credebam; 603 stabam;
711 solebas; 1027 censebas; 1067 confulgebant; 1095 rebamur; 1096
confulgebant. 14 As. 300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392
volebam; 395 volebas; 452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889
suspi- cabar .... eruciabam; 927 ingerebas .... eram; 931
dissua- debam. 13 Aul. 178 praesagibat .... exibam; 179
abibam; poterat; 376 erat;
424 aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625 radebat ....
croccibat; 667 censebam expectabam .... abstrudebat; 754 scibas;
827 apparabas. 15 Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam; 282 erat
dabat; 297 dabant; 342 censebam; 563 erat; 675 sumebas; 676
nescibas; 683 suspicabar; 788 orabat restabant; 983
auscultabat .... loquebar. 14 Capt. 273 erat; 491
obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat; 654 assimulabat; 407
audebas; 913 frendebat. 7 Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432
trepidabant .... fes- tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578 praestolabar;
594 ibam; 674 volebam; 702 volebam; 882 erant erat .... erat
.... erat. Cist. 153 poteram; 187 exponebat; 566 perducebam; 569
adiura- bat; 607 ai[e]bas properabas; 721 rogabat; 723
quaeritabas; 759 quaeritabam. 9 Cure. 390 quaerebam;
541 credebam. 2 Imperfect Indicative in Early Latin
381 Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138 desipiebam ; .... mittebam;
214 occurrebant; 215 captabant; 216 habebant; 218 ibant; 221 prae-
stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam .... fallebar; 241 ibat; 409
apparabat; 420 adsimulabam; 421 me faciebam. 482 deperibat; 587 vocabas;
603 dicebant; 612 aderat. 20 Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195
amabas .... oportebat; 420 advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564
ferebat; 605 censebas; 633 negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636
cense- bas; 729 negabas; 773, 774 suspicabar; 936aiebat;
1042ai[e]bat; 1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053 clamabas; 1072
censebam; 1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat .... vocabat; 1136
censebat; 1145 vocabat. 28 Merc. 43 abibat; 45 rapiebat; 175
quaerebas; 190 abstrudebas; 191 eramus; 197 censebam; 212 credebat; 247
cruciabar; 360 habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845 erat ....
quae- ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15 Miles 54 erant; 100
amabant; 111 amabat; 181 exibam .... erat; 320 ai[e]bas; 463
dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale- bat .... amburebat; 853 erat;
854 erat; 1135 exoptabam; 1323 eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat;
1430 habebat. 18 Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar;
257 erat; 787 erat; 806 aiebat; 961 faciebat. 6 Persa 59
poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar; .... censebam; 262
erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477 credebam; 493 occultabam; 626
pavebam; 686 metuebas. 12 Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485
accidebant; 509 scibam; 525 properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178
aderat; 1179 complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam.
12 Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492
nole- bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam; 502
aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam; 698
arbitrabare; 718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas .... erat; 800
sedebas .... eras; 912 circumspectabam .... metuebam; 957 censebam; 1314 negabas.
24 Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307 exibat;
324 suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519 age-
bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846 sedebant; 956a
faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete- bas; 1186 credebam; 1251
monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat; 1308 erat. 24 Stich.
130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat; 365 superabat;
390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545 erant; 559 postulabat.
11 382 Arthur Leslie Wheeler Trin. 195 volebam;
212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam .... quibam; 901 erat .... gerebat; 910
vorsabatur; 927 latitabat; 976 eras; 1092 agebat; 1100 effodiebam.
12 True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201 celebat
metue- batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719 eras;
733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat .... petebat;
921 ibat. 16 Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2
Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2 Plautus,
IA, Total 291 Terence, ed. Dziatzko, 1884. Ad. 78 agebam; 91
amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153 gaudebam; 234 eras; 274 pudebat;
307 instabat; 332 iurabat; 333 dicebat; 461 quaerebam; 561 aibas; 567
audebam; 642 mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas; 821
ibam; 901 eras. 19 And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60
gaudebam; 62 erat; 63 erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant;
90 gaude- bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat;
108 curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat; 175
mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat; 533 quaerebam; 534
aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar- abantur; 657 postulabat; 792
poterat; exit, suppositic. I expec- tabam. 31 Eun. 86 eras;
87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113 scibat .... erat; 114
addebat; 118 credebant; 119 habebam; 122 eras; 155 nescibam; 310
congerebam; 323 stomachabar; 338 volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378
iocabar; 423 erat; 432 ade- rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant;
569 erat; 574 cupi- ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620
faciebat .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat
.... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000 quaerebat;
1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089 ignorabat. 43
Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-
bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta- bat; 445
erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta- bam; 781 dicebam;
785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat; 924 aiebas; 960 aiebas; 966
erat. 22 Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat;
162 erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322
poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422 expectabam;
455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam; 581 rebar; 651
optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23 Imperfect
Indicative in Eaely Latin 383 Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat
.... supererat; 83 servi- ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat;
97 erat? 99aderat; 105 aderat; 109 amabat; 118 cupiebat ....
metuebat; 298 duce bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468
erant; 472 quae- rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570
manebat; 573 commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat
.... quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat;
652 ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam;
760daba- mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900
iba- mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013
erat; 1023 erat. 47 Terence, I A, Total 185 Cato
ed. Jordan, Lipsiae, 1860. p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur.
Total 2 Dramatic and epic fragments. Naevius. Bell, pun., ed.
Mueller, 1884. 5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65
inerant. tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98. I
p. 16 IV habebat .... erat; p. 322 II proveniebant. II p. 30 VII
faciebant .... tintinnabant. 9 Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903.
Annal. 28 premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant; 87
expectabat; 87 tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147 volabat; 190
sonabat; 202 solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307 agitabant; 309
explebant .... replebant; 343 aspectabat; 408 sollicitabant; 459
parabant; 497 fremebat; 555 cernebant. 21 Scenica. 15 eiciebantur; 123
erat; 127 inibat; 251 petebant; 324 scibas. Saturar. 65
adstabat. Varia. 45 videbar; 64 ibant. 8 Pacuvius, ed.
Ribbeck 3 1, p. 65 XVI conabar. 1 Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V
ostentabat; p. 162 VII scibam; p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat;
p. 210 XII commiserebam .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251
XIII mollibat. 8 Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII
hortabar; p. 285 XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4
Turpilius, ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam;
p. 120 X videbar. 3 Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II
aibat. 1 Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217
XII sup- ponebas. 2 Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303
II cubabat. 1 Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat
simulabat. 2 Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60
384 Arthur Leslie Wheeler Historicorum fragm., ed. Peter,
1883. p. 70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72.
27 can- tabat; 73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat
.... habebat .... sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5
erant; 137. 8 concedebat; 137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista- bat;
138. 10 audebat; 138. 11 licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant; 143. 46
captabat; 145. 57 erat .... erat .... sciebant .... apparebat; 149. 81
mirabantur; 150. 85 sauciabantur .... opus erat .... defendebant; 178. 8
erat .... tegebat; 178. 9 pot- erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat;
184. 86 erat. I A, Total 34 Orator, fragm., ed Meyer, Turici,
1842. p. 192 narrabat .... poteram; p. 231 existimabam ....
arbitra- bar .... stabant .... erant; 236 ferebantur ....
lavabantur. I A, Total 8 Lucilius, ed. Marx, 1904. 393
stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531 serebat; 534 ibat; 1108 gemebat;
1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174 volebat; 1175 ducebant; 1187
haerebat; 1207 premebat. I A, Total 11 Auctor ad Herennium,
ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's text in C. F. W. Mueller's
Cicero, Vol. I, has been compared throughout. 1. 1. 1 intelligebamus ....
attinebant .... videbantur; 1. 10. 16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13.
23 defendebant .... erant; 2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2.
2 videbatur; 2. 5. 8 faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat ....
videbat .... sperabat .... verebatur .... hortabatur .... remove-
bat; 2. 21. 33 erant .... habebat; 3. 1. 1 pertinebant .... erant ....
videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur; 4. 9. 13 pote- rant .... videbant;
4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19 ingenio- sus erat, doctus erat, ....
amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15. 22 removebas .... abalienabas; 4. 16.
23 damnabant .... ini- quom erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19.
26 proderas .... laedebas .... proderas .... laedebas .... consule-
bas; 4. 20. 27 oppetebat .... comparabat; 4. 24. 33 putabas; 4. 24. 34
habebamus .... habebam .... erat .... obside- bamur .... videbar; 4. 33.
44 adsequebatur .... profluebat .... erat; 4. 33. 45 pulsabat ....
ducebat; 4. 34. 46 videban- tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41.
53 veniebat .... occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat.
I A, Total 62 Corpus Inscr. Lat., Vol. I. 201. 6 animum ....
indoucebamus .... scibamus .... arbi- trabamur. I A, Total
3 Imperfect Indicative in Early Latin 385 Varro,
De lingua Lat., ed. Spengel, 1885. 5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5.
128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat; 7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59
erant. 8 De re rust., ed Keil, 1889, 1. 2. 25 ignorabat
.... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12 ibam; 3.2. lstudebamus; 3.
2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice- bat .... erat .... cenabamus; 3. 5.
18 dicebatur; 3. 16. 3 erat; 3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat.
14 Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1.
9 findebat. 2 I A, Total 24 Grand Total, I A,
680 B. Imperfect of Customary Action. Plautus
As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;
208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-
ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-
vectabant. 13 Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2
Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;
429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8
Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3 Cist. 19
dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3 Epid. 135 amabam. 1
Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717
ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123
vocabant; 1131 erat. 11 Merc. 217 credebat. 1
Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat
.... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com
- plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11
Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731
erat. 5 Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat.
3 Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3
Pseud. eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4 Rud.
389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam. Stich. 185
utebantur. 1 Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2 True. 81
memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba- mus; 393 habebat;
596 erat. 6 Pragmenta fabb. cert. 24 erat; 26 monebat .... erat.
3 I B, Total 84 386 Arthur Leslie Wheeler
Terence Adel. 345 erat. 1 And. 38 servibas; 83
observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90 quaerebam ....
comperiebam; 107 habitabat; 109 conla- crumabat. 8 Eun.
398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407 abducebat. 3 Heaut. 102
accusabam; 110 operam dabam; 988 indulgebant .... dabant. 4
Hec. 60 iurabat; 157 ibat; 294 habebam; 426 impellebant; 804
accedebam; 805 negabant. 6 Phorm. operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364
con tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6 I B, Total
28 Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan,
1860. 1. 2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur ....
laudabatur. Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant ....
deverte- bantur; 64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. habebatur
.... laudabatur; 83.1 mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat
.... studebat .... adplicabat; 83. 4 vocabatur. I B, Total 18
Dramatic and epic. Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat.
Scenica 355 suppetebat. 3 Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I
aspectabant .... obvertebant. 2 Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V
flabat .... erat. 2 I B, Total 7 Historicor.
fragg. p. 64, 114 unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128
temptabam .... spectabam .... donabam .... laudabam; 83. 27 faci-
ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6 proficiscebatur .... seque- bantur;
123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur; 202. 9 claudebant .... educebant
.... continebant .... cogebant .... insuebant. I B, Total
16 I B, Total 2 I B, Total 1
Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355 solebas. Lucilius, ed.
Marx 1236 solebat. 1 Perhaps different versions of the same
passage ; cf . Peter. I count them as one case.
Imperfect Indicative in Early Latin 387 Auctor ad Herenn.,
ed. Kayser. 4. 6. 9 videbat .... poterat; 4. 7. lOerant ....
poterant; 4. 16. 23 putabant .... existimabatur .... putabant .... opserva-
bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4. 54. 67 solebat. I
B, Total 11 CIL. I. 1011. 17 florebat. I B, Total 1
Varro, De ling. Lat., ed. Spengel. 5. 3 dicebant .... dicebant ....
significabant; 5. 24 dicebant; 5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33
progrediebantur; 5. 34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant
.... vehebant .... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant ....
colebant .... possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat .... advehebantur
.... escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat .... putabat; 5. 68
dicebant; 5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur; 5. 82 dicebatur; 5. 83
dicebat; 5. 84 erant .... habebant; 5. 86 praeerant .... fiebat ....
mittebantur; 5. 89 fiebat .... mittebant .... pugnabant .... deponebantur
.... subside- bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5.
95 perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;
5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant condebant;
5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant .... vocabant; 5. 108
edebant .... ferebat .... decoque- bant; 5. 116 faciebant .... habebant
.... opponebatur; 5. 117 fiebant; 5. 118 appellabant .... erat ....
ponebant; 5. 119 infundebant .... figebantur; 5. 120 ponebant ....
ponebant; 5. 121 nominabatur; 5. 122 erant; 5. habebat dabant sumebant erat vocabatur ponebatur
erat vocabatur habebant solebat apponebatur .bibebant coquebant arcebantur ministrabat
vellebant utebantur iaciebant corruebant muniebant exaggerabant
portabatur sepiebant relinquebant condebant circumagebant faciebant vocabant
fiebat erat erat aiebat coibant vehebantur adibant relinquebatur
dicebatur impluebat compluebat volebant cubabant cenabant vocitabant
cenabant exigebant legebant ponebant dicebant involvebant erant dicebant calcabant
insternebant appellabant operibantur Scandebant dicebatur erat valebant volebant
erat dicebant petebat inficiabatur Wheeler deponebant auferebat
redibat exigebatur; dicebant erant ponebant stipabant componebant
pendebant accedebat dicebant inspiciebantur dicebant dicebat videbatur
dicebantur putabant persolvebantur erat fiebant dicebat circumibant conveniebant
dicebant consumebatur vitabant ponebant legebantur spondebatur appellabatur dicebant
promittebat consuetude erat dicebant dicebant acciebat videbatur intererat
fiebant dicebant appellabant putabant relucebant legebantur poterant dicebantur
fiebat erant habebant conducebantur ascribebantur habebant committebant dicebat
animadvertebantur arabant dicebant dicebant erat vocabatur erat erant erat dicebantur
erat notabant erant utebantur dicebatur pendebat dicebant valebat dicebatur constabat
dicebatur dicebant. De re rust., ed. Keil, Lipsiae solebant dicebat poterat
.... effodiebat appellabant faciebant vocabant pendebat dicebantur faciebant
erant laudabatur providebant dabant dicebant inserebantur vocabant praeponebant
putabant appellabant reiciebant hibernabant .... aestivabant vocabat solebat dicebant
dicebant habitabant sciebant alebantur redigebant; credebant habebant serebant
pascebant habebat ostendebas accipiebat .... dicebat dicebat dicebant erat
pascebantur erat erat habebant erat laudabant aiebat dicebant
vocabant dicebantur iubebat putabat appellabant appellabant dabat consumebat
habebat adgerebant coiciebat erat laborabat aiebat .... despiciebat Sat.
Menipp., ed. Eiese P. erat radebat vehebantur sol vebat loquebantur solebat;
suscitabat habebant habitabant. Total Imperfect Indicative in Early Latin
Imperfect of Frequentative Action. Plautus, Asin. dicebam;
Capt. percontabatur; Epid. mittebat;
missiculabas; Merc. promittebas; Miles dicebat; Persa visitabam negabas;
Kud. promittebas; True. poscebat Ennius,
Ann. tendebam vocabam. Historicor. fragg. expoliabantur Total Aoristio
Imperfect Plautus, Amph. aibas erat; As. aibat Bacch. aibat;
Capt. aiebatis(?); Cist. ai[e]bat ai[e]bat; Cure. Aiebat aiebat; Epid. Aiebat agnoscebas;
Men. aiebas aiebat; Merc. poterat ai[e]bant aiebat 8aiebant aiebat aiebat aiebant;
Miles ai[e]bant aiebat erat erat; Most. aiebant aiebat aiebat; Poen.
aibat aibat erat; Ps. Aiebat aibat aibat; Eud. Aibat erat aiebas(?); Stich.
aibat; Tri. aibas aibat aibant aibat aiebas aibat. Terence, Adel. erat erat aibat;
Andr. aiebat aibat; Eun. Scibas dicebat; Heaut. erat; Hec. aibant; Phorm. Aibant
sat erat. Historicor. fragg. poterat Varro, Der. dicebat dicebas Auctor ad
Herenn.poterat erat 2 Total Shifted Imperfect Plautus, Merc.
6decebat; Miles sat era[n]t; 911poteras; Rud. aequius erat; True.poterat Terence,
Heaut. poterat Lucilius (Marx) sat erat. Varro, De 1. L. oportebat debebant
oportebat sequebatur oportebat. Auctor ad Herenn satis erat infimae erant.
Arthur Leslie Wheeler I.PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEKFECT Total II. Aobistic III. Shifted A.
Simple B, Cast. G. Fre- Prog. Past quent. Plautus Terence Cato
Dramatic and Epic Orators Lucilius Auctor ad
Herenn. Varro Except historical works the citations from which are
included among the historians. Laberius and later writers not
included. 3 Nepos and later historians not included. 4
Hortensius and later fragments not included. Grice: “Ceccato developed a
theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio
Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella
di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria
della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di
Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione,
adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale,
modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- -- l’aspetto
perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. Ceccato.
Grice Cecina: il circolo di Cicerone -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of CICERONE,
and an expert on divination. According to Seneca, he wrote a book about
lightning. Aulo Cecina. Cecina.
Grice e Cecina: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. The husband of Arria Peto Maggiore ,
and both belonged to the Porch. Cecina became involved ina plot against the
emperor Claudius. He was condemned to commit suicide and his wife encouraged
him to go through it be committing suicide first, and passing the knife in the
proceeding with the infamous utterance, ‘It does not hurt.’ Cecina Peto.
Cecina.
Grice e Ceila: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Cheilas.
A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Celestio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Celestio became an ally of Pelagius, and argues that
because sin is a act of free will, the existence of sin proves the existence of
free will. Celestio.
Grice e Celio: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. He wrote a history of medical thought and translated
some of the works of Sorano. Celio Aureliano. Celio.
Grice e Cellucci: l’implicatura
conversazionale del paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand
vertreiben können -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa
Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on
Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s
earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice:
“Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of
Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena,
Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione,
filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre
opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento”
(Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no?
“La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia
e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria
della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della
storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La
logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo
Novecento [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza,
Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e
matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della
dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti
di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica,
Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio
Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia.
Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica. Periodicodi
Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has
zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze,
Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica
ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione,
mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia
della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi,
I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per
l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La logica della macchina,
in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della
matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in
Italia nel ‘900, Angeli, Milano; Bolzano, Del metodo matematico, Boringhieri,
Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione
(Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza,
Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità
delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica
Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle
teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza
e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui
fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di
coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La
filosofia della matematica. Laterza, Roma. C. Cellucci ha illustrato gli
scopi della logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali
scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente
nell ' ottenere. Infiniti LM Prima di addentrarci nelle questioni
concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura di quello che
sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è iniziato ad
opera del matematico tedesco CANTOR Infiniti Cardinalità di
insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci sono 10
appartamenti? Infiniti
Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti abbiamo
associato univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e
10. In termini matematici, abbiamo determinato una corrispondenza
biunivoca tra l’insieme degli appartamenti e l’insieme ω10 =
{1,2,3,4,5,6,7,8,9,10} Infiniti LM
f è un’iniezione di A in B se è una corrispondenza biunivoca tra A e un
sottoinsieme di B Siano A e B due insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione,
ossia una legge tale per cui per ogni a ∈ A esiste uno e un solo b ∈ B tale che f (a) = b.
Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca) f è una
corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b ∈ B esiste uno e un solo a ∈ A tale che f (a) = b.
Definizione 2 (Iniezione) Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 13 / 75 LM Esercizio 1
Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze
biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f : {esseri
umani} → {donne}, figlio → mamma (c) f : quadrati → R, quadrato → area del quadrato (d)
f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e)
f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato → area del
quadrato Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 14 / 75
LM Esercizio 1 Dire quali di queste funzioni
sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la
risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f : {esseri umani} → {donne},
figlio →
mamma (c) f : quadrati → R, quadrato → area del quadrato (d) f : {quadrati
centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e) f : {quadrati
centrati in O} → R, quadrato → area del quadrato Soluzione
dell’Esercizio 1 (c) niente (d) corrispondenza biunivoca (e) iniezione
(a) corrispondenza biunivoca (b) niente Questo caso scriveremo |A|
= n; LM Cardinalità degli insiemi finiti In conclusione, per contare gli
elementi di un insieme finito ci servono l’insieme dei numeri naturali N = {0,
1, 2, 3, 4, 5, 6 . . .}; i sottoinsiemi di N della forma ωn = {1,2,3,...,n}; la
nozione di corrispondenza biunivoca. Definizione 3 (Cardinalità
degli insiemi finiti) Sia A un insieme e n un numero naturale.
Diremo che A ha n elementi (o anche che ha cardinalità uguale ad n) se esiste
una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme {1, 2, 3, 4, . . . , n}. In
Diremo che A è un insieme finito se esiste n ∈ N tale che |A| = n; Diremo
che A è un insieme infinito se non è finito. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 15 / 75 Proprietà della cardinalità di insiemi
finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben
note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. Proprietà della cardinalità di insiemi
finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben
note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A ⊆ B di un insieme finito è un
insieme finito. Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La
cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1)
due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A ⊆ B di un insieme finito è un
insieme finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B,
allora |A| < |B|. Riflettiamo un po’ su queste proprietà. Due insiemi finiti
hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra
loro. Ci sta semplicemende dicendo che le corrispondenzee
biunivoche A a b c d e f g h B 1 2 3 4 equivalgono
a A a b c d e f g h B La nozione di corrispondenza biunivoca
vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza
sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta). La nozione di
corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti
di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una
retta). Questo ci permette di estendere il concetto di
"equinumerosità": Diremo che due insiemi A e B
(qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste
una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un
numero. Nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo per
l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione
astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli
insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di
"maggiore numerosità". se A è un sottoinsieme proprio di
un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se
esiste un’iniezione di A in B B a b c d g h A
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di
un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo
|A| ≤ |B|. La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a
disposizione gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi.
Prima di procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli
insiemi infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini
tratte da "A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito
protagonista di questa storia è l’insieme dei
numeri IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla
all’Hotel Infinito, noto per avere infinite stanze.
Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso di
zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da
alassie, e di galassie ne esiste un numero infinito, tutte le
stanze erano occupate. tutte le g Soluzione del problema... Il
direttore dec ide di spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello
della 2 nella 3 e così via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale,
viene spostato lo zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1» Il problema
si complica perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni galassia
per partecipare al congresso interstellare dei filatelici Il direttore,
come soluzione al problema, decise di spostare l’ospite della 1 nella 2, quello
della 2 nella 4, quello della 3 nella 6 e così via... In generale mettere
l’ospite della stanza «n» nella stanza «2n» Così, gli zoologi occuparono
l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono l’insieme
delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo nella coda
ottenne il numero di stanza «2n-1» rimettere tutto in ordine e a chiudere
tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos I costruttori dell’Hotel
Cosmos avevano smantellato tantissime galassie per costruire infiniti hotel con
infinite stanze. Furono costretti, però, a
Quindi venne chiesto al direttore di mettere le infinite persone di
infiniti hotel nel suo hotel, già pieno. COME FARE ?
Ion propose di usare solo le progressioni dei numeri primi poiché se si
prendono due numeri primi, nessuna delle potenze intere positive di uno può
equivalere a quelle dell’altro. In questo modo nessuna stanza avrebbe
avuto due occupanti! Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia.
Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti
sottoinsiemi propri (1) A={n∈N, n≥7} (2) A={2n+1, ninN} VediamLo cosa ci ha insegnato
quMesta storia. Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi
seguenti sottoinsiemi propri (1) A={n∈N, n≥7} (2) A={2n+1, ninN} Soluzione 2 01234 n 7 8 9
1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9 2n+1 L’ultimo partecipanti, che
sostanzialmente ci racconta che l’insieme prodotto N × N ha la stessa
cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo più tardi. I risultati
dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del pensiero. caso
descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con infiniti
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75 Povero Euclide! LM
Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi n0 termini (pensate n0
grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente la stessa cardinalità
di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da Euclide: "il tutto
è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300 a.C.) Ricordiamo che
Euclide è probabilmente il più grande matematico dell’antichità e i suoi
Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale opera di riferimento per
la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno degli 8 enunciati di
"nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello in cui vengono fissati
tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la geometria nota
all’epoca. Povero Galileo! D’altra Lparte, di questo problemMa si era
accorto anche Galileo, senza trovarne soluzione: "queste son di quelle
difficoltà che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto
finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose
finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi
attributi di maggioranza, minorità ed ugualità non convenghino agli infiniti,
dei quali non si può dire uno essere maggiore o minore o uguale all’altro"
(Nuove Scienze, 1638) Parafrasando Galileo, possiamo dire che la teoria della
cardinalità di Cantor è esatta il giusto attributo di maggioranza, minorità ed
ugualità che convenga agli infiniti mente Riepilogo e domande Finora sono
stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.
Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o
sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo
caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è
minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In
questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.
LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi
di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e
B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una
corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella
di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo
|A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci
sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? Finora sono stati solo
definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che
due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi)
se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A|
= |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di
quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso
scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche
domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una
"cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? Finora
sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità
infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa
cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra
loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un
insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione
di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento
di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è
una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una
"cardinalità infinita" più grande di tutte le altre? Finora
sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità
infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa
cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra
loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un
insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione
di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il
momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità
diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le
altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le
altre? Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora
discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in
corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme
proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo
e N. Facciamoci aiutare dalla teoria... Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 34 / 75 Se A ⊆ B, allora |A| ≤ |B|. Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert
che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in
corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme
proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra
questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. La funzione f : A → B, a → a è un’iniezione di A
in B. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Ripartiamo dal caso dell’albergo di
Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione
(m,n) →
2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un
sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza
biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A ⊆ B, allora |A| ≤ |B|.
Soluzione. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Sia A un insieme
infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A,
ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera
ricorsiva. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75
LM Teorema Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤
|A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad
ogni n ∈ N un
unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a
n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in
grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim:
Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A.
Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi
elemento a0 ∈ A.
Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di
associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai
numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A
è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare
al numero n+1 un elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del
Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni sottoinsieme infinito di N ha la
stessa cardinalità di N. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.
Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n
∈ N un
unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a
n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in
grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai
numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A
è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare
al numero n+1 un elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del
Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni sottoinsieme infinito di N ha la
stessa cardinalità di N. In particolare, {p ∈ N della forma p = 2m3n, n, m ∈ N}, ha la stessa cardinalità
di N. Quindi N × N ha la stessa cardinalità di N. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 35 / 75 LM Cardinalità
numerabile Quindi la cardinalità dell’insieme numerico N è "la più piccola
cardinalità infinita". Per questo si è meritata un "nome
proprio" e un simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’
NUMERABILE. Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera
dell’alfabeto ebraico. Diremo che un insieme A è numerabile
se |A| = א0, cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con
N. 14/3/18 36 /
75 LM N⊂Z⊂Q⊂R Ricordiamo brevemente cosa
sono per poi confrontare le loro cardinalità. Esistono insiemi infiniti con
cardinalità diversa (maggiore) da quella numerabile? Per rispondere a questa
domanda usiamo gli insiemi numerici come prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z =
{...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri NATURALI numeri INTERI p Q = q , p intero, q ̸=
0 naturale numeri RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni
strette: I numeri interi Z =
{...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi sono un’estensione dei numeri
naturali, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la sottrazione. Si
ottengono considerando tutti i numeri naturali e tutti i loro opposti. Possiamo
rappresentare l’insieme dei numeri interi tramite punti di una retta ordinata.
Basta fissare un punto che determina lo zero fissare un’unità di misura
disegnare tutti punti equidistanti dal successivo. -6-5-4-3-2-10 1
2 3 4 5 6 In un certo senso, i numeri interi sono "il doppio" dei
numeri naturali, quindi è ragionevole pensare che siano un insieme
numerabile. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 38 / 75
Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM an = n 2 sen=0oppuresenèpari
−n+1 senèdispari 2 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 39 /
75 Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 14/3/18 n 2 sen=0oppuresenèpari an
= 2 −n+1 senèdispari 012345678 39 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 40 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 44 / 75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4
Ann 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 14/3/18 46 / 75
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1
senèdispari 012345678 Abbiamo così ottenuto che Z è
numerabile. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 47 / 75
LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali
sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare
liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni
con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della
frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di
"quanti siano" i numeri razionali. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 48 / 75 (i
numeri interi sono discreti). LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0
naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata
dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando
tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi
determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo.
Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali. Tra
un numero intero e il suo successivo non c’è nessun altro numero intero
01 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 48 / 75
Densità dei numeri razionali Invece tLra due numeri razionali dMistinti
c’è sicuramente un altro numero razionale (ad esempio la loro media).
0 12 1 In realtà ce ne sono infiniti (tutte le possibili medie delle
medie). 01131 424 113 084828481 Si intuisce che i numeri
razionali coprono abbastanza bene la retta. 1537 Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 49 / 75 LM Da quanto abbiamo detto sembrerebbe
che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla
retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a
stupirci: Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 50 / 75 LM
Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più
dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli
insiemi infiniti tornano a stupirci: Q ha cardinalità
numerabile. Per dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza biunivoca
tra Z e Q, che possiamo pensare come un modo di "etichettare" con
numeri interi gli elementi di Q. Per fare questo utilizzeremo il cosiddetto
(primo) metodo diagonale di Cantor. Trovare un percorso che passa una sola
volta per ogni stellina e numerare le stelline man mano che si incontrano
(nota: verso il basso e verso destra ci sono infinite stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· . . . . . . . 11 20 ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ ⋆14/3/18 1 → 2 6 → 7 15 → 16 ⋆ ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ⋆ ⋆ ↓↗↙↗↙ 4 9 13 18 ⋆ ⋆ ⋆ ··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12 19 ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ ↓↗↙ 52 / 75
Primo metodo diagonale di Cantor: costruire la tabella... LM 1234567
1111111 ··· ··· ··· ··· ··· 1234567 2222222 1234567 3333333 1234567 4444444
1234567 5555555 . . . . . . . ... e percorrerla con il metodo che
abbiamo determinato LM 1→23→4567··· 1111111 ↙↗↙ 1234567 ··· ··· ··· ···
2222222 ↓↗↙
1234567 3333333 ↙
1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . . Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 54 / 75 LM Abbiamo così mostrato come mettere in
corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri
naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi
hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i
numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 55 / 75 LM Abbiamo così mostrato come
mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i
numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali
positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che
tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da
dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A ∪ B è numerabile. Questo
produce una corrispondenza biunivoca tra A ∪ B e N. LM Abbiamo così
mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali
positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri
razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra
che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da
dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A ∪ B è numerabile
Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi numerabili, allora esiste
una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei numeri pari e una
corrispondenza biunivoca tra B e l’insieme dei numeri dispari. A ←→ {pari} B ←→
{dispari} =⇒ A ∪ B ←→ N. Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 55 / 75 Voglia di misurare... LM 0? LA
DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO UNITARIO NON HA LUNGHEZZA RAZIONALE! Abbiamo
visto che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. I Pitagorici
pensavano che tutte le lunghezze fossero razionali (ossia che i punti
corrispondenti ai razionali coprissero tutta la retta) e invece scoprirono
presto che manca qualcosa... 1 ? Quali numeri
mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte
le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere
come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9).
Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R =
{allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre} ed
è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca
con i punti della retta (difficile da dimostrare). Quali numeri mancano?
Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le
possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come
allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo
l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti
decimali con un numero arbitrario di cifre} ed è quella
giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i
punti della retta (difficile da dimostrare). −π −2−√2−101 √22 π 22
Quindi, geometricamente, possiamo pensare di aver "tappato i
buchi" sulla retta lasciati dai punti corrispondenti ai numeri razionali
(abbiamo aggiunto tutti i numeri irrazionali). Non sembra che siano stati aggiunti
tanti elementi... invece... Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 57 /
75 LM l’insieme dei numeri reali R NON ha cardinalità
numerabile! Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 58 / 75
LM R NON ha cardinalità numerabile!! Dimostreremo questa
sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non è numerabile; due
intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa cardinalità; ogni
intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci che R è in
corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due insiemi hanno la
stessa cardinalità) Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 59 / 75
Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo, per assurdo, che
l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per assurdo:
supponiamo che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed enumeriamoli
nel modo seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 = 0,a11 a12 a13
a14 ... r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj ̸=ajj, βj ̸=0,
βj ̸=9, ∀j
appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero),
ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver
enumerato tutti i valori nell’intervallo. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 60 / 75 LM Quindi sicuramente la cardinalità
dell’intervallo (0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo a
dimostrare che tutti gli intervalli della retta reale hanno la stessa
cardinalità, dando solo un’idea grafica della dimostrazione. Esercizio
4 Determinare (geometricamente) una corrispondenza biunivoca tra
due intervalli aperti (a, b) e (c, d) della retta reale. Suggerimento:
allineare i due segmenti e considerare un punto P come in figura: a c b d
P Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 61 / 75
LM Soluzione dell’Esercizio 4 P a c b d si
proietta ogni punto di (a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai
due segmenti. Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in
formule utilizzando la geometria analitica e si trova la corrispondenza biunivoca
cercata. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 62 / 75
LM Infine, per mettere in corrispondenza biunivoca un intervallo
limitato, diciamo (−1, 1), con tutta la retta reale, serve una sorta di
“meccanismo di amplificazione” (proiezione stereografica). Diamo un’idea
geometrica della corrispondenza biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla
retta reale “stacchiamo l’intervallo (−1, 1)” e disegnamone una copia; −1
1 R Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75
LM Proiezione stereografica disegnamo la semicirconferenza di raggio 1
tangente alla retta reale in 0; indichiamo con P il centro di tale
circonferenza; P −1 1 R Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 64 / 75 −1 1 LM Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18
Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1);
P R 65 / 75 Proiezione stereografica
fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo
verticalmente sulla circonferenza; P −1 1 R
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 66 / 75 LM −1 1 Proiezione
stereografica tracciamo la retta per P e il punto della circonferenza;
associamo al punto di partenza in (−1, 1) i punto intersezione tra la retta
considerata e la retta reale; P R Se facciLamo
questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1) costruiamo una
corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta reale. −1 1 Il
meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite una
semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto vicini
a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 68 / 75 M LM
Cardinalità del continuo La cardinalità della retta reale prende il nome di
cardinalità del continuo. Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi:
razionali irrazionali algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a
coefficienti interi (ad es. tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...)
irrazionali trascendenti: tutti gli altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo
esplicitamente tantissimi irrazionali algebrici e abbastanza pochi
trascendenti. Abbiamo visto che i numeri reali sono molti di più dei numeri
razionali (ma ricordiamoci anche che i numeri razionali sono densi in R). Si
può essere più precisi sulle informazioni riguardanti la cardinalità dei numeri
irrazionali. Precisamente, si può dimostrare che i numeri irrazionali algebrici
sono una quantità numerabile; quindi i numeri irrazionali trascendenti sono
veramente tanti! Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75
QuantLe e quali altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi
numerici abbiamo trovato due cardinalità distinte, quella del numerabile e
quella del continuo. E’ del tutto naturale porsi due domande: ci sono
cardinalità intermedie tra queste due? ci sono cardinalità superiori a quella
del continuo? La prima apre una questione particolarmente affascinante (o
frustrante, dipende dai punti di vista) che prende il nome di Ipotesi del
continuo nda ha una risposta stup ci sono infinite cardinalità (infinite)
distinte! La seco efacente: Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 70 /
75 LM CH “Continuum Hypothesis” non
c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella
dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse
vera. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 71 / 75
LM CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna
cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei
reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel
1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si poteva dimostrare che CH fosse falsa. CH “Continuum Hypothesis”
non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei
naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che
CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria
degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen
dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno
dimostrare che CH sia vera. Per fortuna i modelli della matematica
applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua
indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale
(fisica, ingegneria, informatica...) CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra
quella dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto
del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della
usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel
1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile
nell’ambito della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto
coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 71 / 75 ∅ {a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c}
{a,b,c} LM L’insieme delle parti Per rispondere alla seconda domanda
introduciamo una nuova nozione. Insieme delle parti
Dato un insieme X, il suo insieme delle parti P(X) è dato da P(X) = {A
sottoinsieme di X}. Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è l’insieme
formato dai seguenti 8 insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n allora |P(X)|
= 2n > |X|. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 72 / 75
LM Esistono infinite cardinalità infinite Teorema di
Cantor Sia X un insieme. Allora |P(X)| > |X|. Come conseguenza
del Teorema di Cantor, otteniamo che esiste una sequenza di
cardinalità infinite, ciascuna strettamente maggiore della precedente.
Partendo da |N|, che sappiamo essere la cardinalità infinita minima,
basta iterare il passaggio all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| <
|P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < |P(P(P(P(N)))))| < · · ·
Dimostriamo il teorema di Cantor. L’applicazione ”x → {x}” è un’iniezione di
X in P(X). Quindi |P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione
biunivoca tra X e P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con
”x ↔ A(x)”. Consideriamo l’insieme C ∈ P(X) C = {x ∈ X tali che x ̸∈ A(x)}. L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 ∈ X tale che C = A(x0). Si ha
che se x0 ∈ C =
A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ̸∈ C = A(x0) se x0 ̸∈ C = A(x0), allora, per come
sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ∈ C = A(x0) Le contraddizioni
trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto che ”x ↔ A(x)” sia biunivoca.
Se ne conclude che non può esistere nessuna corrispondenza biunivoca tra X e
l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 74 /
75 Aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben
können. Insiemi infiniti 1. Introduzione Finch ́e gli insiemi che si
considerano sono finiti (cio`e si pu`o contare quanti sono i loro elementi
mettendoli in corrispondenza biiettiva con i numeri che precedono un certo
numero naturale) la nozione di insieme pu`o fornire un comodo modo di
esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto Cantor per primo elabor`o la
nozione di insieme per risolvere problemi di quantita` di elementi in insiemi
infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si dice che due classi hanno la
stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a tra le due classi. In tal caso
si dir`a anche che le due classi sono equinumerose. Definizione. Si dice che un
insieme A `e finito se esistono un numero naturale n e una biiettivit`a da A
sull’insieme dei numeri naturali che precedono n; in questo caso diremo che A
ha n elementi. Se ci`o non succede, si dice che l’insieme `e infinito. Se un
insieme A `e finito e un altro insieme B `e contenuto propriamente (contenuto
ma non uguale) in A allora A e B non sono equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna
biiettivit`a tra i due. Questo risultato dipende dal fatto che per nessun
numero naturale ci pu`o essere una biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo
precedono e l’insieme di quelli che precedono un diverso numero naturale.
L’ultima affermazione non si estende agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo
con un con- troesempio gi`a considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo. I numeri pari sono un sottinsieme
proprio dei numeri naturali, ed entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre
la funzione che a un numero naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a
dai numeri naturali sui numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali
sono tanti quanti i numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio
dell’insieme dei naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se
hanno lo stesso numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un
altro o meno. Per fare ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i
numeri naturali che contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli
insiemi infiniti non si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora
quando un insieme ha piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare
a dire che un insieme `e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari
insiemi infiniti porta naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una
gerarchia simile a quella fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le
stesse propriet`a degli insiemi finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A
e B due insiemi. Diremo che la cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a
quella dell’insieme B, e scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale
iniettiva di A in B. Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e
stretto n ́e largo. Non `e stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta
considerare la funzione identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o
accadere che |A| ≤ |B| e anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio
quello in cui A `e l’insieme dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali
pari. Scopo di queste note `e di studiare le propriet`a di questa relazione.
Attraverso essa potremo arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e
ci`o che ci interessa. 1 2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e
un insieme e B ⊆ A,
allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme dei numeri interi e N quello dei numeri
naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o apparire paradossale, ma vedremo che non
lo `e. Consideriamo infatti la seguente funzione: 2x se x ≥ 0, −2x−1
sex<0. Si pu`o facilmente verificare che f : Z → N `e non solo iniettiva, ma
anche suriettiva. Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme infinito, allora
|X| ≤ |Y |. Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo induzione su n. Se n = 0,
la funzione vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo la tesi vera per insiemi
con n elementi e supponiamo che X abbia n + 1 elementi: X = {x1, . . . , xn,
xn+1}. Per ipotesi induttiva esiste una funzione totale iniettiva f:
{x1,...,xn} → Y. Siccome Y `e infinito, esiste un elemento y ∈/ Im(f) (altrimenti Y avrebbe
n elementi). Possiamo allora definire una funzione totale iniettiva g : X → Y
che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la definizione che ci interessa
maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due insiemi. Diremo che A e B hanno la
stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A| = |B|, quando esiste una funzione
biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la definizione di cardinalit`a, per la
quale occorrerebbe molta piu` teoria e che non ci servir`a. Sar`a piu`
rilevante per noi scoprire le connessioni fra le due relazioni introdotte. 3.
Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti (C1) Se A `e un insieme,
allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| = |B|, allora |B| = |A|.
(C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|. Queste tre proprieta`
sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la funzione identit`a; nel
secondo si prende la funzione inversa della biiettivit`a A → B; nel terzo si
prende la composizione fra la biiettivit`a A → B e la biiettivit`a B → C. (M1)
Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2)
SeA,BeCsonoinsiemi,|A|≤|B|e|B|≤|C|,allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste
due `e facile (esercizio). C’`e un legame fra le due relazioni? La risposta `e
s`ı e sta proprio nella “propriet`a antisimmetrica” che sappiamo non valere per
≤. Il risultato che enunceremo ora `e uno fra i piu` importanti della teoria
degli insiemi e risale allo stesso Cantor, poi perfezionato da altri studiosi.
Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder, Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤
|B| e |B| ≤ |A|, allora |A| = |B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono
una funzione f : A → B iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva
totale. Per completare la dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva
h: A → B. Un elemento a ∈
A ha un genitore se esiste un elemento b ∈ B tale che g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b ∈ B ha un genitore se esiste a ∈ A tale che f(a) = b. Siccome
f e g sono iniettive, il genitore di un elemento, se esiste, `e unico. Dato un
elemento a ∈ A
oppure b ∈ B,
possiamo avviare una procedura: (a) poniamo x0 = a o, rispettivamente x0 = b e
i = 0; (b) se xi non ha genitore, ci fermiamo; (c) se xi ha genitore, lo
chiamiamo xi+1, aumentiamo di uno il valore di i e torniamo al passo (b).
Partendo da un elemento a ∈ A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina;
scriveremo che a ∈
A0; 3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura
termina in un elemento di A; scriveremo che a ∈ AA; • la procedura termina in
un elemento di B; scriveremo che a ∈ AB. Analogamente, partendo da un elemento b ∈ B, possono accadere tre casi:
• la procedura non termina; scriveremo che b ∈ B0; • la procedura termina in
un elemento di A; scriveremo che b ∈ BA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b ∈ BB. Abbiamo diviso ciascuno
degli insiemi A e B in tre sottoinsiemi a due a due disgiunti: A = A0 ∪ AA ∪ AB , B = B0 ∪ BA ∪ BB . Se prendiamo un elemento
a ∈ A0, `e
evidente che f(a) ∈ B0,
perch ́e, per definizione, a `e genitore di f(a). Dunque f induce una funzione
h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a). Questa funzione, essendo una restrizione di f,
`e iniettiva e anche totale. E` suriettiva, perch ́e, se b ∈ B0, esso ha un genitore a che
deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a ∈ AA, allora f(a) ∈ BA: infatti a `e genitore di
f(a) e la procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una
funzione hA : AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva,
perch ́e ogni elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente,
se partiamo da un elemento b ∈ BB, allora g(b) ∈ AB e g induce una funzione iniettiva e totale hB : BB → AB che `e
suriettiva, esattamente per lo stesso motivo di prima. Ci resta da porre h = h0
∪hA ∪h−1. Allora h `e una funzione
h: A → B che `e totale, B iniettiva e suriettiva (lo si verifichi). Esempio.
Illustriamo la dimostrazione precedente con la seguente situazione: sia f : N →
Z la funzione inclusione; consideriamo poi la funzione g : Z → N 4z se z ≥ 0, −4z−2
sez<0. Quali sono gli elementi di N che hanno un genitore? Esattamente
quelli che appartengono all’immagine di g, cio`e i numeri pari. I numeri
dispari, quindi, appartengono a NN, perch ́e la procedura si ferma a loro
stessi. Consideriamo x0 = 2 ∈ N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1; poich ́e −1 ∈/ Im(f), la procedura si ferma
e 2 ∈ NZ.
Consideriamo invece x0 = 4 ∈ N; siccome g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti,
perch ́e 1 = f(1), dunque x2 = 1 ∈ N. Poich ́e 1 ∈/ Im(g), abbiamo che 4 ∈ NN. Studiamo ora x0 = 16 ∈ N; siccome g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo
x2 = 4 ∈ N;
siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 ∈ Z; siccome 1 = f(1), abbiamo x4 = 1 ∈ N. La procedura si ferma qui,
dunque 16 ∈ NN. Si
lascia al lettore l’esame di altri elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o
allora vedere non come una relazione d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto
come un ordine largo fra le “cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o
definire il concetto di cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le
relazioni introdotte. Il teorema seguente dice, in sostanza, che la
cardinalit`a dell’insieme dei numeri naturali `e la piu` piccola cardinalit`a
infinita. Teorema 2. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.
Dimostrazione. Costruiremo un sottoinsieme di A per induzione. Siccome A `e
infinito, esso non `e vuoto; sia x0 ∈ A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi esiste x1 ∈ A \ {x0}. Ancora {x0, x1} ≠
A, quindi esiste x2 ∈
A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo stesso modo: supponiamo di avere scelto gli
elementi x0, x1, . . . , xn ∈ A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste
xn+1 ∈A\{x0,...,xn}.
Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la
funzione n →
xn `e iniettiva.
Questo risultato ha una conseguenza immediata. g(z) = 4 INSIEMI
INFINITI Corollario 3. Sia A ⊆ N. Allora A `e finito oppure |A| = |N|. Dimostrazione. Se A non
`e finito, allora `e infinito. Per il teorema, |N| ≤ |A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e
A ⊆ N. Per
il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. Un altro corollario `e
la caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito.
Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme
proprio B ⊂ A tale
che |B| = |A|. Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo
sottoinsieme proprio non pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che
A sia infinito. Per il corollario precedente, esiste una funzione iniettiva
totale f : N → A. Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: f(n+1) seesisten∈Ntalechex=f(n), x se x ∈/ Im(f). La condizione “esiste
n ∈ N tale
che x = f(n)” equivale alla condizione “x ∈ Im(f)”. La funzione g `e ben
definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x = f(n) per qualche n, questo n
`e unico. Osserviamo anche che x ∈ Im(f) se e solo se g(x) ∈ Im(f). Verifichiamo che g `e totale e iniettiva. Il fatto che sia
totale `e ovvio. Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x ∈/ Im(f), allora g(x) = x;
dunque non pu`o essere y ∈ Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • Sex∈Im(f),`ex=f(n)perununicon∈N. Allorag(x)=f(n+1)∈Im(f). Perci`o g(y) = g(x) =
f(n + 1) ∈ Im(f)
e quindi, per quanto osservato prima, y ∈ Im(f). Ne segue che y = f(m) per un unico m ∈ N e g(y) = f(m + 1). Abbiamo
allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f `e iniettiva, n+1 = m+1; perci`o n = m e x
= f(n) = f(m) = y. Qual `e l’immagine di g? E` chiaro che f(0) ∈/ Im(g). Viceversa, ogni
elemento di A\{f(0)} appartiene all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se
allora consideriamo la funzione g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa
`e una biiettivit`a. In definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \
{f(0)}, abbiamo il sottoinsieme cercato. Notiamo che, nella dimostrazione
precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come esercizio si trovi in modo analogo
al precedente un sottoinsieme C ⊂ A tale che |C| = |A| e A \ C sia infinito. 4. Insiemi numerabili
Il teorema secondo il quale per ogni insieme infinito A si ha |N| ≤ |A| ci
porta ad attribuire un ruolo speciale a N (piu` precisamente alla sua cardinalit`a).
Definizione 3. Un insieme A si dice numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di
N `e allora finito o numerabile. Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z
(insieme dei numeri interi) `e numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare
alcune propriet`a degli insiemi numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e
numerabile, allora A ∪
B `e numerabile. Dimostrazione. Se A ⊆ B, l’affermazione `e ovvia. Siccome A ∪ B = (A \ B) ∪ B possiamo supporre che A e B
siano disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora
scrivere A = {a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo
una funzione f : N → A ∪
B ponendo an
se 0 ≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) = f(n) = 4. INSIEMI NUMERABILI 5 E`
facile verificare che f `e una biiettivit`a. Teorema 6. Se A e B
sono numerabili, allora A ∪ B `e numerabile. Se A1, A2,..., An sono insiemi numerabili,
allora A1 ∪ A2 ∪ ··· ∪ An `e un insieme numerabile.
Dimostrazione. La seconda affermazione segue dalla prima per induzione
(esercizio). Vediamo la prima. Supponiamo dapprima che A ∩ B = ∅. Abbiamo due biiettivit`a f :
N → A e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A ∪ B ponendo: f n 2 h(n) = n − 1 g 2 Si verifichi che
h `e una biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo A∪B = A′ ∪(A∩B)∪B′; questi tre insiemi sono a
due a due disgiunti. I casi possibili sono i seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono
infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e
finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito,
B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e
infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito. Ci basta applicare quanto appena
dimostrato e il teorema precedente. Si concluda la dimostrazione per induzione
della seconda affermazione. Il prossimo teorema pu`o essere
sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un insieme
numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n ∈ N, sia An un insieme
numerabile e supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = ∅. Allora A={An :n∈N} `e numerabile.
Dimostrazione. Per questa dimostrazione ci serve sapere che la successione dei
numeri primi p0 = 2, p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita. Sia,perognin∈N,gn:An
→Nunafunzionebiiettiva. Sex∈A,esisteununicon∈N tale che x ∈ An; poniamo j(x) = n. Definiamo allora f(x) = pgj(x)(x). j (x)
Per esempio, se x ∈ A2,
sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f : A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|. MaA0
⊆Aequindi
|N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| =
|N|.
Il teorema si pu`o estendere anche al caso in cui gli insiemi An non sono a due
a due disgiunti; si provi a delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una
conseguenza sorprendente. Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile.
Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n) : m ∈ N }. Gli insiemi An sono a due a due disgiunti e ciascuno `e
numerabile. E` evidente che n∈N An = N × N. Ancora piu` sorprendente `e forse
quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri razionali `e numerabile.
se n `e pari, se n `e dispari. B′ =B\(A∩B) INSIEMI INFINITI. Un
numero razionale positivo si scrive in uno e un solo modo come m/n, con m, n ∈ N primi fra loro (cio`e
aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che l’insieme Q′ dei
numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m e n primi fra
loro) possiamo associare la coppia (m, n) ∈ N × N e la funzione cos`ı
ottenuta `e iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| = |N|. L’insieme Q′′ dei
numeri razionali negativi `e numerabile, perch ́e la funzione f : Q′ → Q′′
definita da f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per concludere, possiamo
applicare altri teoremi precedenti, tenendo conto che Q = Q′ ∪ {0} ∪ Q′′. C’`e un altro modo per
convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si 1/5
1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1 5/1
Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia dove
segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo percorrere
tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo modo a ogni
numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti. Trascuriamo naturalmente
i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e un numero razionale gi`a
incontrato precedentemente (per esempio, nella prima diagonale si trascura il
punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale 2/2 = 1, gi`a incontrato
come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4), (3, 3) e (4, 2)). 5.
Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la domanda se ci sono
insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei numeri naturali. Non ci
siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei razionali che,
intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri naturali. C’`e una
costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o definiamo con preci-
sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono insiemi, diciamo che A
ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e scriviamo |A| < |B|, se
|A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|. 5. ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7
Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e questo: • esiste una
funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una biiettivit`a di A su B.
Notiamo che non basta verificare che una funzione iniettiva totale di A in B
non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente una funzione totale iniettiva
di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come abbiamo visto, |N| = |Q|. Un
altro esempio: l’insieme N ∪ {−2} `e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N ∪ {−2} non `e suriettiva.
Infatti la funzione f : N → N ∪ {−2} definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una
biiettivit`a. L’idea per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo
da un insieme X `e dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme,
allora |X| < |P (X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione
totale iniettiva X → P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x ∈ X } cio`e la funzione che
all’elemento x ∈ X
associa il sottoinsieme {x} ∈ P(X). Dobbiamo ora dimostrare che non esistono funzioni biiettive
di X su P(X). Lo faremo per assurdo, supponendo che g: X → P(X) sia biiettiva.
Consideriamo C ={x∈X :x∈/ g(x)}. La definizione di C
ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X, dunque si hanno sempre due
casi: x ∈ g(x)
oppure x ∈/ g(x).
Siccome, per ipotesi, g `e suriettiva, deve esistere un elemento c ∈ X tale che C = g(c).
Dunquesihac∈C
oppurec∈/C.
Supponiamo c ∈ C;
allora c ∈ g(c) e
quindi, per definizione di C, c ∈/ C: questo `e assurdo. Supponiamo c ∈/ C; allora c ∈/ g(c) e quindi, per
definizione di C, c ∈
C: assurdo. Ne concludiamo che l’ipotesi che g sia suriettiva porta a una
contraddizione. Perci`o nessuna funzione di X in P(X) `e suriettiva. L’insieme P(X) ha la
stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo con 2X l’insieme
delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e un sottoinsieme di
X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X → {0, 1} definita da 1 sex∈A, χA(x)= 0 sex∈/A. Possiamo definire due funzioni,
f:P(X)→2X eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per A∈P(X)siponef(A)=χA;perφ∈2X sipone g(φ)={x∈X :φ(x)=1}. Teorema 11. Per
ogni insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione. Proveremo che g ◦ f e f ◦ g
sono funzioni identit`a. Sia A ∈ P(X); dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA): abbiamo g(χA)={x∈X :χA(x)=1}=A, per definizione
di χA. Sia φ ∈ 2X;
dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x ∈ X : φ(x) = 1}.
Occorreverificarecheφ=χB. Siax∈X;seφ(x)=1,allorax∈BequindiχB(x)=1; se φ(x) = 0, allora x ∈/ B e quindi χB(x) = 0. Non
essendoci altri casi, concludiamo che φ = χB. Ora, siccome per ogni A ∈ P(X) si ha A = g(f(A)), g `e
suriettiva e f `e iniettiva. Analogamente, per φ ∈ 2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e
suriettiva e g `e iniettiva. 8 INSIEMI INFINITI 6. La
cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a
disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei
numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo
l’intervallo aperto I={x∈R:0<x<1}
e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2
1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che
Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2
arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti.
Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento
decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 =
0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i
puntini indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema periodico
nei primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri
irrazionali. Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso
modo sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri,
scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 =
0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 17 =
0,001001001001001001001001001 √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . . . π4
=0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora periodicamente
nei primi tre casi. In generale un numero r ∈ I si scrive come r = 0,a0a1a2
..., dove ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se escludiamo tutte le
successioni che, da un certo momento in poi, valgono 1. Questo `e analogo ai
numeri di periodo 9 nel caso decimale. Dunque abbiamo in modo naturale una funzione
f : I → 2N: f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1} definita da φ(n) = an dove a0,
a1, · · · sono le cifre di r nello sviluppo binario di r. La funzione f `e
totale e iniettiva, quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|. se x̸=0, se x =
0. 7. IL PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire una funzione g: 2N →
I. Prendiamo φ ∈ 2N; la
tentazione sarebbe di definire g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo
binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . . ma questo non funziona, perch ́e, se per
esempio la funzione φ `e la costante 1, il numero 0,111111 . . . `e 1 ∈/ I. Se anche escludessimo
questa funzione, avremmo il problema del “periodo 1”. Dunque agiamo in un altro
modo. Alla funzione φ associamo il numero reale il cui sviluppo binario `e g(φ)
= 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e intercaliamo uno zero fra ogni termine. E`
chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ) ̸= g(ψ), dunque g `e iniettiva e totale.
Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|. Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione
le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I, entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤
|2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|.
Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N| = |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| =
|P(N)|, come voluto. Occorre commentare questo risultato. Per dimostrarlo
abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo
potuto scrivere esplicitamente una biietti- vit`a di R su P (N). Ma non `e
questo il punto piu` importante. La conseguenza piu` rilevante del teorema `e
che non `e possibile descrivere ogni numero reale, perch ́e, come vedremo in
seguito, i numeri reali che possono essere espressi con una formula sono un
insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor Un’altra applicazione del teorema
di Cantor porta alla costruzione del cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa
espressione vuole indicare l’esistenza di una successione di cardinalit`a
infinite ciascuna strettamente maggiore della precedente. Allo scopo basta
iterare il passaggio all’insieme dei sottinsiemi, per esempio a partire
dall’insieme dei numeri naturali, per ottene- re una successione di insiemi la
cui cardinalit`a, per il teorema di Cantor, continua a crescere strettamente:
|N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)|
< ··· Si potrebbe ancora andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X,
Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora possiamo considerare l’insieme Y1 = Pn(N), n∈N e si pu`o dimostrare che
|Pn(N)| < |Y1|, per ogni n ∈ N. Dunque abbiamo trovato una cardinalit`a ancora maggiore di
tutte quelle trovate in precedenza e il gioco pu`o continuare: consideriamo Y2
=
Pn(Y1) n∈N e
ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di
cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della
successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto
naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a
strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se,
dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | <
|P(X)|.
10 INSIEMI INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N|
< |Z| < |P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del
continuo. Non `e questo il luogo dove discutere questa questione, risolta
brillantemente da P. J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile
rispetto agli assiomi della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto
coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di argomenti
semplici, tanto che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields Medal che,
per i matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi che kN
indica l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei numeri
naturali maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali
strettamente maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli
insiemi 3N ∪ {2, 5}
e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca una
funzione biiettiva tra gli insiemi 4N ∪ { 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni
insieme finito X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si
dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste.
Esercizio 4. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale
e suriettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in
cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione
biiettiva tra gli insiemi Z ∪ { 32 , √3 2} e 3N. Esercizio 6. Si dica, motivando la risposta,
se gli insiemi (5N \ {5, 15}) ∪ {√3, 25 } e 2N ∪ {11, 17} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica,
motivando la risposta, se gli insiemi N≥50 ∪ 5N e 3N ∩ 2N hanno la stessa
cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme numerabile e sia a ∈/ A. Si costruisca una
biiezione tra gli insiemi A e A ∪ {a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a ∈ A. Si costruisca una
biiezione tra gli insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π l’insieme dei numeri
reali irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio 11. L’insieme di tutte
le funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile? Esercizio 12. Sia P =
{I | I ⊆ N e I
`e un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la
cardinalit`a di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme
P(3N) `e numerabile. Carlo Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico
filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la
rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo,
platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine,
regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella
storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista,
prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di
nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege,
logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor,
parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il
problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e
connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno
uno)’, ‘il,’. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library. Cellucci
Grice
e Celso: l’orto a Roma sotto il principato di Nerone– filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. A follower of the Garden who lived during the
principate of Nerone.
Grice
e Celso: Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. The son of Archetimo and a friend of Simmaco, he taught
philosophy in Rome.
Grice
e Cefalo: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Siracusa). Filosofo italiano. Cefalo was a rich friend of Socrates who enjoyed
philosophical discussions.
Grice e Centi: l’implicatura
conversazionale di Savonarola e compagnia – dal pulpito al rogo -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo italiano. Grice: “I like
Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas,
o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also
philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the
expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice:
“According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della
filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottora presso l'Angelicum
di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San
Tommaso d'Aquino, Maestro in sacra teologia dal maestro generale dell'Ordine
domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il
Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato
per i tipi di Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma
Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di
san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli
(Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae
etc.) e varie Questiones Disputatae.
Oltre al commento d’AQUINO, si occupa anche di altre importanti figure
storiche come SAVONAROLA e Beato Angelico. È stato membro della commissione
storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha
difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui
attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo
che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua
condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro
VI. Altre opere: “La somma teologica,
testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei domenicani italiani, C.,
Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA (Torino); Catechismo
Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto
del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che
sconvolse Firenze (Città Nuova, Roma); “La scomunica di Savonarola. Santo e
ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “AQUINO: Compendio
di Teologia e altri scritti); Selva, POMBA, Torino); “Il Beato Angelico. Fra
Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos
Biffi); Le altre due Somme teologiche Studio Domenicano. Nel segno del sole. Aquino,
Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano
intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare,
segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della
metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e
rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura –
segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un
segno particolare o particolarizato è
quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della
grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo
essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno
e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un
concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita
(efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione
del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno
naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De
interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei
opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la
relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il
rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla
combinazione di queste parti. AQUINO, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa
un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata
interpretata e commentata durante il corso di logica tenuto da Gimigliano presso
l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso il tutee elabora un’interpretazione
su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un
contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i
contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione
sono ad opera di Gimigliano. Praemittit autem
huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc
libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis
sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti
tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum
oportet constituere, id est definire quid sit nomen et quid sit verbum. In graeco
habetur, primum oportet poni et idem SIGNIFICAT. Quia enim demonstrationes
definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones.
Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia
ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro
praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum
de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum
triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute
significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum
praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes
enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub
ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum
tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem
dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur
secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de
eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari
quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet.
Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit,
sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex
necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo
simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et
ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.
Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam,
quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest
dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non
differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et
melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius
cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter
ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit
in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo ARISTOTELE praetermisit tractatum de hypotheticis
enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Si
quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est
quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis
philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione
animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad
constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium.
Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter
est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per
consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat
enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem
continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione:
quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum.
Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae
possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam
esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo
dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur.
Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea,
de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel
incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de
vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat.
Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam
significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum
et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem
significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum
sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et
cetera. Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum
uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones,
ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et
sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter
animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus
conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam ARISTOTELE. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus ARISTOTELE nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione
Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem
sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce
sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam
manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens
hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces,
significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et
diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae
eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam
in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in
Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur
elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur,
sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius
exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce,
sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba
quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde
cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter
significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter
significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud
omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae
naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde
dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum
primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae,
idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas
sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae
passiones. Ad quod respondet BOEZIO quod ARISTOTELE hic nominat PASSIONES
ANIMAE conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem,
quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et
divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas
in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo,
sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo
quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel
cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem.
Quod quidem sic patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum,
est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit
per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem
sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde
opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum
aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res
naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I
physicae, formam nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per
comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine significationis
vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia
principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in
qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo,
determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi:
enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim,
determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales
ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est
enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa
primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam;
secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem
procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera.
Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit;
ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae
perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.
Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia
includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem,
cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem,
cui scilicet definitio conveniat. Et ideo quinque ponit in definitione
nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab
omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus,
cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de
significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit
quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quaedam res naturalis,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum,
quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam
convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam
si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed dicendum quod
artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere
autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt.
Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales,
ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione
ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum
figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si
nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas
artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit:
secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis
procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter,
sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium. Quarto, ponit
tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo.
Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus.
Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine,
sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore
mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter
tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum
quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem
secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in
quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur
motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium
significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest
considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia
temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto, ponit quartam differentiam
cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto
nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto.
Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars
separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam
humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat
separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in nomine enim
quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam
particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera.
Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem
particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in
tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per
nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina
simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo
primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in
quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars
ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus
ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum
simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus.
Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad
significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab
aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod
significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est
quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id
enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc
significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris
significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam
animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis
proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est
nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat
naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam
opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant:
nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina
omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines
rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad
hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit;
quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit
naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus
significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex
diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est
autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium
non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus
leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum
est. Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis
ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem
vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim
nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam
determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod
dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat.
Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non
ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum
natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum
natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit: CATONIS
autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni
et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter
nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi
autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam
declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit.
Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur,
eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur
rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut
stilus qui cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius
etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit
quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus
nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel
erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in
obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt
quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum
vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur
ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed
contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est
praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum
Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem
nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio
non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum
significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum
instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic
determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo,
excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.;
tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se
dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem
verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et
cetera. Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non
ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea
intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem
tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine,
in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in
definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula
est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars
nihil extra significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione
nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox
significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione
nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur
ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam
orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut
ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur,
ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in
subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina
locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est
quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem;
proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem
actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam
res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio,
cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a
substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum
modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia
actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde
est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam
actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut
nomina prout significant quasi res quasdam. Potest etiam obiici de hoc
quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum
dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum
curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem,
sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res
quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur
materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum dicit: dico vero quoniam
consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod
dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod
est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera.
Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non
exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod
verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia
significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se
existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit
verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus
tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem
supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam
particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut
cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de
cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam
autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur
ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum
semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet
esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur
subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel
in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter
praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto
praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel
passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae
dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et
ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de
subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione
utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles
dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est
sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum
praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt
quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum
quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio
fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid
essentialiter sive accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et
non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum;
secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel
currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur
verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel
passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel
passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent.
Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae
supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat
tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio
eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum
est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia
negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat
actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita
praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si
quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo
sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo
communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia
deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum
huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in
aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo
vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum
indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim
negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis.
Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba
a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba
vero negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem
curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit
quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod
est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt
verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum
consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde
circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter
praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in
instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens
tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per
actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non
sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel
pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est
agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est
secundum quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis
rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia
praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum
quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens. Cum autem
declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio
quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis
variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae
est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit
casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et
verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis
temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum
dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa
hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum;
ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba
secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae
sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico,
currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed
haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non
respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout
communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam
rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa
verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus
comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur,
significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se
existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. Deinde cum dicit: et
significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba
significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant
verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera.
Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum
significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio
perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se
dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere
velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum
est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui
dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam
operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit
audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius
prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam
operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel
nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. Et
ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum
significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi.
Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa
verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet
ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum
neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde
multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis.
Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc
consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non
esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet
esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non
esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat
hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Et hoc consequenter probat per
id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum
nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non
significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius
esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit),
quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per
se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius
significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non
est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur
proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur
de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil
significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam
accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem
praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat
naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat
quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem,
quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur
dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset
neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo
aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest
non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit:
consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit,
consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed
consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem
significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc
commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse
secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam
speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod
ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum
ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest
non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens:
quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per
hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens
significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul
dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in
hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in
quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis
non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit
veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat
enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam
est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum
verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est
communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis,
inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter
inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter
vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid
autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat
compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae
sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc
determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus
eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem
orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit
errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Circa primum
considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud
in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio
orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum
significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid,
ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc definitionem
Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt
enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut
puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod ARISTOTELE prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et
compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit
soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus
partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum
mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis,
scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis
principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio
imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio
convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico
autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum
esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una
hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis
esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione
nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum
quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt
huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. Deinde cum
dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur CRATILO, ARISTOTELE obviando dicit quod omnis
oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis:
quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo,
quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat AD PLACITUM, id est secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis,
sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem
corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur
ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo
ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis
non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis
enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars
haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de
diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi
adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio
et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit
enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc.,
in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est
enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem
enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio
ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit
quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem
relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit
instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum
rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo
fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae
est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est
affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex
hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem
generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per
unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter
hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione
entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis,
quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam
rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc
melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non
sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de
nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si
interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret
primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur
interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem
definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et
interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium
inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur ARISTOTELE valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione
proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod
considerandum est, secundum BOEZIO, quod unitas et pluralitas orationis
refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas
voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine
et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est
etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed
tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale
mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae
quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione
est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen
multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia
plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est
pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in
praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta
si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures
enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam,
Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod
enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex,
sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur
quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio,
vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si
vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura
significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia
ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum;
ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec expositio
non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per
disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod ARISTOTELE, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit
quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est,
quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem
aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est
sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen
haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius
est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat
quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis.
Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura
significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus
pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod
secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae
non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae
est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et
non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam
quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est
simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in
quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque
significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles
quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia
plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen
multa significans. Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum
innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad
interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus,
magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut
cum dicimus, “Petrus currit.” Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante,
vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso
proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando
respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est
proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum
quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum SIGNIFICAT. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat
secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur
in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit
enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi;
et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex
enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad
affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod ARISTOTELE hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo BOEZIO
dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem
enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum
quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet
enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non
esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas
et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non
esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio
falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum
permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas
negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam
cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit
affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum
dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit
negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non
est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc
quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel
non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit
vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est
albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens.
Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus,
idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu
praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est,
contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit
affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari
nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non
est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod
affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita
sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod
quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium
illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod
negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc.,
manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo,
manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera.
Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e
converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio.
Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum
nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis,
ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, PLATONE non disputat, non
est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim
dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio,
requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen,
sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est
quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio
una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est,
quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non
sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem.
Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur
omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim
esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio.
Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo,
secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur,
Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus
ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde
et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non
est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex
habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures
quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et
quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in
disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et
litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I
elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis
esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit
distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur
quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam
divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum
assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et
cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum
differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum
enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est
enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco
nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus,
quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per
divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt
singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per
definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari,
singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno
solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, PLATONE
autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut
probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res
existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt
nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio
rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales,
sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum
quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est
autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo
oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in
intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest
distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem
re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est
haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est
considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod
Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando
igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec
res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive
dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem
dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod
referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum
aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam,
quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod
est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod
intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu
definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium
intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio
alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc
impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si
omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter
conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi
solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est
alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est
quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus.
Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatae, sicut posuit PLATONE, essent individua. Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba ARISTOTELE. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit:
necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim
semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia,
quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel
non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est
suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem
rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de
universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut PLATONE posuit,
sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu.
Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic
considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si
dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species.
Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae
intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam.
Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet
apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet
ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae
sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc
enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet
homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes
homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione
intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei.
Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc
dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum
attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur
principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis.
Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur,
puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum
dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno
modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est
singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae
communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui
ipsius; ut cum dicitur, “Socrates ambulat”. Et totidem etiam modis negationes
variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra
dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus.
Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero
coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur
secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex
et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem
et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur
secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est
pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad
qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod
differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae
sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno
solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc.,
ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem
subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum
in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones
diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile
est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum
praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato,
qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem
adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur;
et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid
praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est
homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum
universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando
autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero
quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum
dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et
negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo,
manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.;
tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et
cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur
aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes,
sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico
autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est
quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter.
Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis.
Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus
subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est
albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur,
est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia
non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed
modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de
subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de
eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod
dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc
videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate
rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur
hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in
indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur
subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est
vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non
praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati
si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem
universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur
ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte
praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus
determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes
ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando
universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex
oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo
tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi:
contrariae vero et cetera. Particularis vero affirmativa et particularis
negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur
circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa,
altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis
negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia contradictio
consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem
affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex
necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest
nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis
affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod
universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et
particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum dicit:
contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit
quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut,
omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.
Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se
habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non
sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat
propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod
facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera.
Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis
propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum
subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio
et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod
quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter
sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed
possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et,
homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. In
quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod
indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc
astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata,
se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis
trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa,
quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse
sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum
destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem,
sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod
indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt
quod philosophi, et etiam ipse ARISTOTELE utitur indefinitis negativis pro
universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res;
et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes
non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur
pro peiori, verum est secundum sententiam PLATONE, qui non distinguebat
privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in
Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia
non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita
semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori,
non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere
affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote
particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis
negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est
potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius
etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen
adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro
particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest
aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde
sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod
designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae
sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas
particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia
similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel
ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis
pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et
utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de
universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc.,
probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt
quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et
fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in
permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis,
quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam
homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est
vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae
sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit:
videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et
dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut
huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec
negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed
si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est
sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex
sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero
negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae,
in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio
affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare,
sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed
hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod
affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola
negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico
autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur,
Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud
praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino
diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates
est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates
non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est
universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est
albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae
aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis
subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic
affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio,
nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis.
Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite
sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria
eius negatio illa quae est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias,
lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod
negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem
non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit
de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur
intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc
potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini
ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio
negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui
singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio
etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod
uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et
negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae
sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut
supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel
falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione
affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper
una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non
verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae,
sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem
et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul.
Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia
scilicet in his quae vere sunt contradictoria. Deinde cum dicit: una
autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod
quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum
significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo
universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit
ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo
facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per
multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo,
ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur
sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod
una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum
quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale,
sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si
subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista
affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa
quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia
exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae
requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est
praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem
enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se
multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis
singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in
uno communi. Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola
unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis
ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod
si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est
affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi
dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno
universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat
utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum
quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod
ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et
differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales
alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale
praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod
illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum
modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum
quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est
nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est,
ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et
sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una.
Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si
tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba,
aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus,
et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam
ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum
ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem,
nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo.
Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus,
et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem.
Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera
nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione
facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret
distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed
hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum
dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui
attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.
Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in
his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper
oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud
negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum
oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum
scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus
enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem
divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem
enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione
una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est
affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de
praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de
futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem
impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et
particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus.
In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus
vel praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam
dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera
oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in
singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit
vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem:
nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in
futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen
Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad
singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus
de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum
sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod
omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si
hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat
consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat
aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem
ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in
singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam
vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non
autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere,
sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat
consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod
verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat
consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate
sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur
quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis talis.
Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit
vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat
verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non
esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est
omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint
ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. Quaedam
enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam
vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem,
quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in
pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si
autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo
dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent
contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter
causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in
paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod
significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi,
manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera,
oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic
tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum,
nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit
tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea
proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest
dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque quoniam
etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique
oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum
dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est
verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque
non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus
rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et
falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam
esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse
quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus
et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit
inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit:
primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo
circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. Circa
primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo,
ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim
prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi:
quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis
rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod
necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram
esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet
nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex
necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum
est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum
quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de
contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod
omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae
est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex
necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed
hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et
negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid
aliud, erit alius finis. Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc.,
probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili
posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud
non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse
impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat
praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod
hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc
non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est
quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex
necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex
necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc.,
ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt,
quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum,
alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum
fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel
negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae
enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter
etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit
affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic
ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum,
ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod
necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri;
consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel
praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident,
quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens,
semper verum erat dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si
haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo,
per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis;
secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum
autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod
homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus
existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod
quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et
omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas
persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus
homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota
civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod
homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc
quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis
contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent.
Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id
quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non
fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse,
contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non
fieri, esse et non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc.,
ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova;
manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec
ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod
possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo
supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per
assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita
possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non
inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et
ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu
semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate
sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis
ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum
contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod
altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in
pluribus. Est autem considerandum quod, sicut BOEZIO dicit hic in
commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati.
Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud
esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit;
possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero
distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium
esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod
semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non
prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima
distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper
erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in
aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est
necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista
distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod
in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est
determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino
determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat
aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod
BOEZIO attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc
loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem
quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod
materia est in potentia ad utrumque oppositorum. Sed videtur haec ratio
non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur
in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus
invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter,
sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad
utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi
etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad
unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest,
consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem
modo. Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in
ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad
unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu
connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet
causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se
non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae
sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed
hanc rationem solvit ARISTOTELE in VI metaphysicae interimens utramque
propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed
solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam;
quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato
dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod
est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis
huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti,
necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens
sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa
combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur
combustio. Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera,
infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet
effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut
post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque
esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in
praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem
causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit
salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur
a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo
Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum
esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes
quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui
est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est
per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut
musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et
similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa
aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se,
quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed
causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam
suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur. Quidam vero non
attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere
omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam
ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes
nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest
provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex
intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti
caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in
ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima,
impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas
virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se,
nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium
per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro
de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit
his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis
caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet
intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod
passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati.
Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per
philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non
provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec
in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per
accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in
causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad
unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod
haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat
unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum
signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et
tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis
illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam
caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in
aliquam causam naturaliter agentem. Sed considerandum est quod id quod
est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum,
quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in
quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc
contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in
aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum
locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de
alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc
quod in certo loco sibi occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia
quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia,
reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc
quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum
intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam
intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius
sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum
scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum
intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum
velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est
bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius
cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex
hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse
perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Sed si
providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem
bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte
scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit,
videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim
Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex
necessitate eveniant. Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio
divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum,
quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo
quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad
cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis
cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae
totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest
ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et
posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in
tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet
eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de
praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes;
quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se
sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non
potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in
aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem
simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in
comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo
unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine
temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo
necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est
quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et
futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu
aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem
non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum
quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in
seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non
tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen
certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet,
quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur
relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt
in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet
quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem
contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi,
aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex
necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt
esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis
videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse
impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando
est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est:
et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest
simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod
non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando
est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam
primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem
absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse;
quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate
non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra
dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod
etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum. Deinde cum
dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et
necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem
ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod
non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia
necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute
fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod
sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et
haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est
contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque
non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum
accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum:
quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est
necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium
non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est
quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit: quare quoniam
etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa
orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate,
sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis
magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non
tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera
vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit
principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse
in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate
esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et
falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt
esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia
scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum
falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic
terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de
enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum
quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in
enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel
subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel
praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid
additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est
affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio
est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod
duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex
nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare,
ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit
quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim
supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim
praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco
nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen
infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio
illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non
accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc
quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in
enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur
veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel
ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens
praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est
quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates
est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in
rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale
praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum
subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut
asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante
hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali
praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia
est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato
facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in
tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando
est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus,
in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum
erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter
sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando
est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto
existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum
vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est
iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus.
Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum
est, quod est nota praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est
iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum
dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam
tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen,
prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia
dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus
magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad
hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde
cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo,
ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae
quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et
cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium
adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes,
consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium
adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum
dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum
ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad
affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum
correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae
vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a
diversis expositum est. Ad cuius evidentiam considerandum est quod
tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque
enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes,
una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est
iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum,
secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo
non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen
privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic
exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae,
quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem,
quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut
privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim
duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad
illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam,
scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non
iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum
consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est
iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus,
affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod
Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et
similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum
consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus,
ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec,
homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura.
Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato,
scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa
de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa.
In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo
duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et
negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt
de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto,
scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non
habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur,
duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed
hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes,
duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas
subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur
intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt
de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur.
Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Et ideo, ut Ammonius
dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor
propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad
affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes.
Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito
praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum
privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter
affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec
hic sensus convenit verbis ARISTOTELE. Dicit enim infra: haec igitur
quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur
ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum
dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo
praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius evidentiam considerandum est
quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo
totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec
enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere
potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est
iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non
est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex
negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod
sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum
iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non
habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim
est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non
iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut
etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus.
Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit
homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod
penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam
negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de
homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de
quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest
dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent
habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est exponere praesentem
litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae
quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest
ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum
consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut
duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur
negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus),
ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in
plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam
affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex
sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex
quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae
est etiam privativarum. Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae
relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime,
idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent
ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam
negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita:
ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed
affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet
quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae
se habent ad infinitas. Quamvis autem secundum hoc littera philosophi
subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam
littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas
respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo
habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu
infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est
expositio Porphyrii quam BOEZIO ponit; secundum quam expositionem attenditur
similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas.
Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet
affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum
consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam
sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa
infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero,
scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut
scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur
negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut
infinitae. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam
quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes:
loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum
praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta
secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod
adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum
negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni
autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra
dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in
supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim
quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo
est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est
iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum
est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc
diversificantur quatuor enunciationes. Ultimo autem concludit quod
praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout
dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem,
quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco
homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et
non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus
quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur
ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in
quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro,
quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit
sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut
ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice:
“You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call
him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even
non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus,
Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando
infirmus signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why
Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool
Library. Centi.
Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale
della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Calci).
Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in
the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani –
notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the
Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” –
how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most
importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration
on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee
for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner,
Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the
nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si
laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore
secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli;
“Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e
sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE
che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica.
I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità
del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse.
E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per
tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a
Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e
il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto.
Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!)
vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua
scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono.
I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il
servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno.
I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio
finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima
vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in
un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo
di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi
della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è
facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità
loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza
e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei
tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia
alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e
gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando
surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime
umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai
separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture
delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di
quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto,
e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di
densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti
usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore.
Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello
di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non
impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono
cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il
più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea
religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella
setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione
dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto
fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione
del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo
interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto.
Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se
veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna
imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer
sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al
sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a
goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile
schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il
riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio
esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura
trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che
procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri
ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa,
la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno
prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto
e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare
sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la
compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di
Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra
ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo
è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente
desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata
a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a
disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione
favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico,
perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”,
dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut
cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón
te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII,
21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito
a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των
φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo
abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della
vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo
fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si
dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato
con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di
ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo
magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità.
Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero
dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa
o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si
lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma
all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della
cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi
per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara,
finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata
non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo
e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere
intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di
quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per
anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro
senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso
e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che
così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse
dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè
nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo
attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di
grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione
valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe
detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal
quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come,
secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e
adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella
assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture,
accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel
precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con
più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo
dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per
due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella
vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la
baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non
diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione
sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il
giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado
questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E
allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante,
discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla,
ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento
quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso
ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto,
non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte
uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma
qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere
religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla
classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più
simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata
la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco,
condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente
ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la
geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo
intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario
attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero
l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione
filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di
perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per
eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno
seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando
quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia;
gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’
pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi
il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo
doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa
confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico,
probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII,
etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio
comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser
desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa
parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente
decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una
all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa
come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della
natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al
concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto
a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il
con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia
argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane,
miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile
negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa
imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al
quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo
imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo
chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi
canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e
diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua
vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola
ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso
dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza
di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc
vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.,
1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica
secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo
vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo
conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella
esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di
atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e
contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale
anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e
singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria
a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una
sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo
ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata
dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e
materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito,
popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo
parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità
col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla
varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento
nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella
civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta
diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi
quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente
riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di
Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in
due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune
condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina.
Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a
rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda
alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con
la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale
conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente
un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il
paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha
incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua
vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla
general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa
unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità
logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi
la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni
possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una
filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno
che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario
valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è
solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose
favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora
non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire
di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per
rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la
esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e
alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia
irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate
reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων
TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per
la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di
Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare
storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la
sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle
parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21).
Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a
suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di
sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla
concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a
quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e
maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in
senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis
opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam
quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula
rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico
nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento
istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il
quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità
non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di
lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri
filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o
molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie
della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella
Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam
Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής
φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana
(“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus,
aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis”
-- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella
traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono
obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune
principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea
filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano
(Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe
far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit.,
19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα
παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei
vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana
di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica)
tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento
organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato.
L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e
la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto
intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in
Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno
nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa
velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta
occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra.
Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico
testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica
dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca
che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione
puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più
alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia
anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e
di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e
l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società
religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato.
Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata
con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi
non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente
confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici:
l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser
simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice
la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Alcuni videro in
questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri,
a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà
allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo
toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου
μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν”
– “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae
radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di
Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico
ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima.
Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo
governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali
cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora
qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue
instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è
sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno
altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini,
capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le
greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa
cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand'
opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio
suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e
instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il
tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella
costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee
correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui
esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane
nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora
ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana
eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella
sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per
rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella
vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime
congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà
furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più
addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario
fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo
con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il
quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio,
che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e
considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma
sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è
fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in
alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse
vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose.
Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo,
per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento
suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto,
l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di.
qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia
necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una
verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e
sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il
principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano
ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a
intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo
facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono
di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se
altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna
in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù,
Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες
το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è
creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è
ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue
istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora?
Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις
Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo
pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni
getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e
connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e
generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina
pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo,
favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa
all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito
pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma
primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la
verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali
si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il
Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma
dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo
lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti
i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo
la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola
pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci
generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di
Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini
legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento
a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide
istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro
il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche
anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con
giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio
che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io
veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e
quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente
introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal),
congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole
di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il
sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo
un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V.
P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare
anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra
occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti
nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi
questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non
solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui
perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall'
Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono
esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al
curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all '
incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà
sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa
-- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea
non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé
gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li
curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del
comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII;
Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale
saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio
eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede
questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la
civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica
di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra
filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min.
ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella
studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte
le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo
presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una
disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo
le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia,
ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda
vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi
e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più
razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il
Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa
notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la
formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini
legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva
la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non
osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e
ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi
nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo
gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea
pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole
sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al
nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine
jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo
nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo
per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni.
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea,
fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo
della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e
di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la
concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste
sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina
jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità
cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle
misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare
un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi,
fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre
considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola
Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero
aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa
cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi
viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi
cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele;
perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con
la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete,
a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la
felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel
Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un
cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei
) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed
orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p.
339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli
ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i
mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il
luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani.
Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce
intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a
riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario
della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un
valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine
orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle
opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad
Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli
almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e
poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un
impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla
terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di
tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per
dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi
recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di
beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà
che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che
testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle
sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo
secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti
pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma
se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi.
sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli
erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi
comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla
Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra
tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio
dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra
questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto
appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX.
Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post
mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in
hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi
col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie
illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E
anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia
pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna
Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri
antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più
copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra
le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che
possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture,
potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una
radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la
bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e
di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La
tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere
cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la
nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta,
ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi
del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la
pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità
fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino
proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei
primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu
pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna
cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi
poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della
romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi
all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella
cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici
secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato,
simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini
conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal
gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da
principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi
lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo
Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta
nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno
specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di
riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi
esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni
tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta
caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili
congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che
non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando
della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è
scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano
di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in
colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il
perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che
nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano
alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere
più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche
religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari
costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che
fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella
costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua
pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi
ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione?
Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario
all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro
i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le
possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e
religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e
molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche,
la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore
istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell.
Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano
Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique
magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire
profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in
specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus
effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem
bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la
Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della
musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il
grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi
a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica
mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne
vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati
nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia
e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore
è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato
vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora
dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche
generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica
con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea
scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli
ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la con
clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale
abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima
parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la
sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute,
repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni
pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e
lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori
tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str., IV, 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i
pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè
perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di
credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che
ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte
principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della
istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse
essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve
anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città
alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore.
Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non
conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise
in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e
le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede
leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo,
venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa
società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello
almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma
essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a
generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe
dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione
miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma
di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino
dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla
vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de'
singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia
tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella
società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime
intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui
disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe
spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la
pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne
risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli
necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella
quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico.
Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo
consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella
sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era
libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che
fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che
egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia,
nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si
potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè
ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o
genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da
quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do
mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi
col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come
a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non
potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro
di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che
ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero
arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione,
e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del
numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina,
e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica,
e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna
ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano
tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della
scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale
nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica,
in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica
universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime
cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io
credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale
Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone
della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi
nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico
che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo
è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con
quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero
essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin
cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a
principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le
cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si
vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano
la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E
cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna
cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una
perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se
stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente
e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose
essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce
ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da
ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome
che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p.
48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per
rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a
penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου
κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del
punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica
generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella
metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò
bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di
atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore
principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione
dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam
detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di
Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente
attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità
straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio
arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le
maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne,
non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare.
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L.
1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri;
XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se
poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a
tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque
informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e
la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose,
che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità
istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero
mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta.
Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee
confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia.
Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la
segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la
proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa
vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non
sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e
solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma,
guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo,
rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate
più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente
comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica
il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter
massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria
è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del
pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli
studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini
e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena
educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua
cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali
condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere
ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli
formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro
i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi
coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza
pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e
come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella
virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere
am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e
procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre
sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a
miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica,
coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni
buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è
la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come
già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a
corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un
valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in
quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle
dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella
potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità
di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse.
Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe
esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse
adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità
opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità
del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini
della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti
della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria?
qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero
conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento
ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un
ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da
quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra
tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione
necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando
aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi
la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della
loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche,
e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma
ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e
necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non
comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane
ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni
religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo
filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per
le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici?
da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl '
intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a
suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva
ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in
istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società
ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si
sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua
famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla:
aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire
un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre
tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior
sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio
assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione
favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali,
fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità
poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se
Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il
perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima
arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le
passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero
que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur
somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio
che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora
avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che
dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse.
Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità
nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si
convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno
ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali.
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni
tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non
sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu
opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata
religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno;
quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa
pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più
solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida
ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte
misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione,
il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante
per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori
della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava
testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi
psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma
nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima,
ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, VIII, 15, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199,
da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo
ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον
δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin
guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a
farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica
non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti
coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni
loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il
principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano
lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il
deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato
alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di
formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di
usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica,
quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda:
forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane,
che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par
conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla
pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà
furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie
jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero.
L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a
estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è
piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali
spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle
città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del
secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle
gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico
scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero
destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è
nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e
i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si
compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente
copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al
magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della
mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e
là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a
riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni,
e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi limiti
bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i
paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e
formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere
nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre
sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i
Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose
mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta
cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o
rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano
solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo
volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano
per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi
divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano
a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi
insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e
Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici
antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di
Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e
vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza
delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce
a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde:
a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine
liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d'
Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono
stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima
dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil
morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga
materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le
passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni.
Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle
anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi
oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le
imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore
di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu
fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta
di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle
arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in
errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a
perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La
speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla
scienza; e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini
della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli
ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico
di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione
prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora,
come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes
Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da
ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali
argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti
presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se
veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia
bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il
piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai
sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle.
Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè.
Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo:
semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar
l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le
anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede
dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne
restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose,
questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti
vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril.
phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato,
accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è
alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente
desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni
ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un
pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il
resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio
fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità
dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis
sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc.
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv
fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio
(VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il
detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose,
"κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide,
i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre
punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia.
E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti
centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e
l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè
l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con
leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa
fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola,
s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè
spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che
presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a
fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la
presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione
radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le
vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne
abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non
bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e
sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono
essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde
l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita
esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza,
ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti
erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione
assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e
insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso
ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive
Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione
valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto
Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse
ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" --
come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di
*sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche
alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e
dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza
il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea
conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du,
tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità
del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la
baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa
nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo
proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto
ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado
questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine
stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini
discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi
impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi
i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio
austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa
cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro,
potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo
intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari
attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle
cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi
la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai
gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con
gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V.
P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la
casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che
sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere
nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne'
due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo
ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente
astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano
la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual
musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse
eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le
cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei
templi. I maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano
argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane,
miele ed acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai
civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino,
ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle
cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun
pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii
lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali:
e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E
prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante
fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali
alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri
i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio,
rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero
le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente
si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche
storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente
Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos?
ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud
ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini,
questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via
formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate
ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella
dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella
feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col
mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così
il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la
sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare
dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era
necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e
quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa
bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa
essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità
degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si
consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto,
quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una
certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima
cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia;
e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal
quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui
quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro
apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia
moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi
con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora,
vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli
uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una
sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel
nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica, ne
vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che
sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta,
Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer
tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi senz'ombra pure
di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica
instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi
risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni
risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità
molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto
della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia
contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un
ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un
personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato
senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il
contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che
Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte
le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla
sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare
anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che
venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse
assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia,
sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi
conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe
di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini
razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza
istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo
della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le
orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e
con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di
Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle
barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima
intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων
) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa
viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed
Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più
che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e
scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la
cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino
(Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice
erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente,
la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa.
Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di
Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra
conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una
filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque
vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes
Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia
secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio,
id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci
dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo
nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo
Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non
per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con
quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il
nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di
una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla
divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda
eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma
Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo.
Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno
antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto
antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie
della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di
Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod
huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT
atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo,
aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che
è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione
latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad
un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta,
non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione
del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice
Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da
Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche
conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι
παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature
animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele,
è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella
divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento
organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati:
l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava
oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che
risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota
nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si
fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei
Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual
proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle
essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa
contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre
dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si
ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità
recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora
essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e
l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e
perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia
anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di
perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e
l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua
società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome
vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del
fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio.
Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e
mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de'
Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora.
Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che
dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa
Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il
tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro,
altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da
Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali
riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento
pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως
ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem
perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio
sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del
giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa
sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV,
$ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre
sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a
Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini
delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è
sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un
ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli
uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli
viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e
costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una
grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo,
che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un
principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica
applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera
stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella
vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica
e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la
persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume
ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo
agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica
della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli
fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello
che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore
di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il
pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie
massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee.
Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo
forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle
quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un
concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol
ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che
son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno
arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito,
non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua
propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni
posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti
a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non
confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose
vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il
mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia
nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di
dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che
dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di
un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in
sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo
secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente
determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse
eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla
comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della
sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le
origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni
e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a
questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà
sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era
organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde
il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa
forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti,
che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una
setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina
siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa
naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi.
Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono
di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se
altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna
in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù,
Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες
το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è
creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è
ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni
a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto
reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις
Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo
pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni
getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e
connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e
generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina
pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo,
favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa
all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito
pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma
primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la
verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali
si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il
Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma
dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo
lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti
i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo
la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola
pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci
generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di
Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini
legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento
a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide
istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro
il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche
anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con
giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio
che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io
veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e
quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente
introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal),
congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole
di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il
sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo
un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V.
P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare
anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra
occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti
nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi
questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non
solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui
perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall'
Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono
esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al
curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all '
incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà
sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa
-- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea
non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé
gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li
curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del
comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII;
Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale
saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio
eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede
questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la
civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica
di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra
filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min.
ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella
studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte
le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo
presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una
disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo
le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia,
ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda
vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi
e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più
razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il
Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa
notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la
formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini
legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva
la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non
osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e
ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi
nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo
gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea
pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole
sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al
nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine
jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo
nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo
per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni.
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea,
fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo
della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e
di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la
concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste
sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina
jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità
cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle
misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare
un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi,
fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni
non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di
Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza
ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella
storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita
pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime
sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi
di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto
disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione
della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità
suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel
sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem
psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam
sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis
illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., Prodigiosi
effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i
fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora.
Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella
filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e
degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si
diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa
antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei
miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione
con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare
questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar
feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi
l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma
attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e
nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della
scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali
carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di
un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli
gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre
meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali
cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le
leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa
sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte
le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora
in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V.
P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati
post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea
in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi
poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre
memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E
anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica,
e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi
potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli
dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio
questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e
le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia
col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non
recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno
quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di
colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano
gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a
Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse
spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la
via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola
orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri
abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I
Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il
quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle
Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e
d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di
boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in
questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche
gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di
vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native,
o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è
chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora
nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29;
Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla
de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum,
ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et
diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae
praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas
esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου
καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per
isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo
sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit.
Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la
teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol
1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la
instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee,
alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de'
popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a
Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle
consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che
se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le
parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di
cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio
alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e
congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura
umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già
ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata
grandezza. Questa è la con clusione grande che ci risulta dai
preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi
nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause
che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad
esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c.
V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse
eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche
in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e
volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti
divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga
moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se
stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione
degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi
guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica
primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver
civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e
conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi.
Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed
esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici
aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione
dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde
si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa
piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina
dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e
scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di
Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale
collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero
appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente
far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti
poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare
questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi
privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed
ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali
dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per
meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo
vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue
idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e
le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo
di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una
società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da
stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco,
era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di
elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento
di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la
presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a
poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im
perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il
nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il
principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e
quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali,
desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque
chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere
inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente
molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la
sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale
e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de'
suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità
ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale
principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore
storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua
propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora
note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do.
veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente
della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria,
nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia,
nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per
supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro.
Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la
sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal
fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto
il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or
dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di
ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità
dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το
όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos. Che se l' uno è presupposto
sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono:
e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi
conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le
intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si
adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e
costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di
combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli
ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale,
non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo
secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e
quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita
cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose;
e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e
coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la
ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si
determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella
geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa,
questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici
precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde
gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura.
Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella
morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è
il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai
profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl'
iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del
principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le
condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro
essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine,
fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero.
E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della
psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti
leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla
filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh.
Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia
esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele
veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici
antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι
αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che
questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo
concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se
non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di
quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la
condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano
che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a
un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che
eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti
nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai
vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar
loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica,
che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da
Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o
generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire
quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee:
γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica
delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione
corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che
qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque,
inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci
di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo
scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co
smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee
esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi
all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di
una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli
di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose.
Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a
una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere
consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina
tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le
cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la
dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli
furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro
nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e
linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse
le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio
ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare.
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L.
1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri;
XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se
poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a
tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque
informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e
la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose,
che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità
istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero
mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta.
Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee
confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia.
Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la
segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la
proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa
vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non
sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e
solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma,
guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo,
rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate
più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente
comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica
il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter
massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria
è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del
pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli
studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini
e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena
educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua
cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali
condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere
ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli
formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro
i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi
coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza
pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e
come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella
virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere
am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e
procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre
sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a
miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica,
coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni
buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è
la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come
già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a
corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un
valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in
quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle
dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella
potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità
di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse.
Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe
esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse
adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità
opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità
del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini
della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti
della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria?
qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero
conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento
ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un
ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da
quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra
tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione
necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando
aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi
la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della
loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche,
e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma
ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e
necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non
comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane
ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni
religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo
filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per
le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici?
da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl '
intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a
suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva
ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in
istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società
ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si
sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua
famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla:
aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire
un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre
tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior
sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio
assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione
favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali,
fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità
poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se
Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il
perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima
arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le
passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero
que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur
somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio
che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora
avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che
dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse.
Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità
nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si
convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno
ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali.
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni
tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non
sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu
opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata
religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno;
quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa
pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più
solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida
ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte
misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione,
il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante
per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori
della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava
testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi
psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella
storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima,
ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da
Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto
fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα.
Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere
le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne
sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non
avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro
che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro
opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio
fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al
giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito
delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla
memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche
pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non
creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata
ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti
elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può
argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto
imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la
filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta
alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla
natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non
sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi
sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono
il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque
natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un
fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di
tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente
ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o
professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il
secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed
accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i
loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose
pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali
che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui
mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed
imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle
cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo
amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente
profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là
egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare
il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e
danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio,
e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno
della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII
Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al
primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C.
Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal
l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma,
la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli
scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città.
" * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori
l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de'
Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il
Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma,
quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello
che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser
favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era
uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su
questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia
stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi.
Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti
che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor
narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come
quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj;
tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i
quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide
scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore
anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la
storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso
più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri
ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma
altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte
del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad
abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri
vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso
delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del
Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle
rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e
di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito
alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da
prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno
al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non
avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti
ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono
la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che
fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar
nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand'
ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli
uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano,
Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e
ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne;
ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la
Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era
nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen
significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo,
contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e
Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone,
presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma
appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ).
Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono,
prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli
Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un
secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana
eravi in Italia una città nomi nata Roma.
Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed
altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città;
altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo
di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini,
il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in
Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città
questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori
gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di
Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo,
e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi
placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor
di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni
pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco,
partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di
Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente
raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in
casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si
mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un
membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e,
ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a
Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale
nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per
gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue
figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania.
Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in
Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel
primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali
tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi
Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco
siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de'
secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione
appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con
quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una
fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece
prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta,
4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una
certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di
tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine
di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti
due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier
loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava
poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando
minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e
meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che
finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo
vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la
Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha
moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la
prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi
luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per
ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che
nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento
erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla
guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli
Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in
moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi
luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito
Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut
reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque
l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri
storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani
alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353
anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio,
sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio
presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio.
Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto
al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno.
Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva
Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla
figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai
sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri
Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge
alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio,
Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa
in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona,
acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due
bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo
ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni
dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma
quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in
una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir
giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la
riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente
dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale
ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè
chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico,
il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior
parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre
Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di
Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre
conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e
Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa
vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale
calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu
concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito
Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto
per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu
chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del
nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti
di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a
canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di
loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i
Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a
colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella
affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse
per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere
armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere
un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto
favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale
specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal
carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per
altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel
mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella
festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la
chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato
anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si
era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La
conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i
casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola
straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro
istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que'
primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che
accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere
la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di
questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23
di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si
festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma
Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor
romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio
di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care
a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume;
e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa,
e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima
pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti,
e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una
cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche
pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo
cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che
il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla
piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse
amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze,
che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era
senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la
sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa
lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto
celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo,
dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro,
perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per
quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?.
Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo,
coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co,
incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano
si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i
Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da
Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a
Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede
faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che
si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta
la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1.
XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse
i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più
probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale
di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi
pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte
l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono
chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La
nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede
subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole.
Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un
coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però
mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle
conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini,
facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi
nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano
essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano
de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami,
considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro
eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano
gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un
uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce,
i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla
violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati
in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli
fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che
diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso
dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica,
e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia
d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior
sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s '
appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo
via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero
loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della
preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano
molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez
za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era
dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi
con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta
tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente
vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed
accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del
fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva
di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava,
egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani,
persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a
rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore
ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di
lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo
nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere,
e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i
fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e
soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando
unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od
a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno
alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce
mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi
prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più
» re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli
rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da
prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due
fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e
calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir »
sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da
farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per
quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde
fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti
a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati,
siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri
cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume.
Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi
caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono
essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi
morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene
corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella
speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente
abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora
strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo
e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede
allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo
addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto
basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente.
Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine
pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle
guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon
dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si
accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra
di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar
via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte
della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba
qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero
esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da'
caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito,
fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale,
essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si
tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi
ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar
menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse
volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi
figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che
con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio:
conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di
Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era
pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque
costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma
sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già
egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di
quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto:
im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui
fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne
aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati
distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava
legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le
quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche
presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo
avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 *
Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo
l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche
critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto
come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non
è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a
tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò
che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di
partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per
sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque
asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il
primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di
favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser punto
increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e
che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di
possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e da non
essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e
tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver
essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go
verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se
medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti,
essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita
erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di
necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi
questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che
quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia
que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra,
principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo
cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far
mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta,
poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i
primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo
sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano *
Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo.
Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco
rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi.
3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni
persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a'
creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo
d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo
modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi
dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose
addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero
subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un
luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur
quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai
forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e
Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de
cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere
separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo:
alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia
mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne
Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj
specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea
rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa,
conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non
guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso
degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende
animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza
ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono
pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo,
Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è
Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi
d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò
può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte
Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il
presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più
gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno
sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne
sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua
discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto
rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce,
non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi
Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per
alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi:
finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di
Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un
certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur
morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo
ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua
chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto
Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un
combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far
quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia,
si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che
con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa,
come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare
intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le
primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e
per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità
i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto
il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia
contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo
veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli
augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete
discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà.
di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono
insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman
anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la
città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero
di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in
giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli
vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva
l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il
muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o
dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando
l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il
muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non
potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie
e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia
stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo
il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non
sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse
conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor
patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo
giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei
mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono
ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le
fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra
pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe
all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole.
Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice:
l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di
numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i
moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di
G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione
dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese,
e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono
essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno
terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i
Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo
anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a
quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era
eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e
de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si
dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le
risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della
speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona,
da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la
maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo
considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della
vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto
pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre
il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il
giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente
ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo,
circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il
nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè
stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il
suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine,
relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più
altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle
varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale
merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con
molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone,
che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius
Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano
riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la
città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di
tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi
bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il
restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri
cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato
chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un
collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj,
perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto,
secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa
non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o,
secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome
chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl'
inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo
Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva,
e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare.
Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo
cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i
principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed
amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i
più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro
affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi
ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli
stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma
dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter
muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi,
essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti:
e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine
senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri
uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli
clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro
una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli
obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi
clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro
consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei
loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero
in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o
magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i
clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando
tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i
magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste
cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come
scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni
che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi
oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le
guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i
Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole,
siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi.
Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena
in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più,
essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra
va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria,
ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza
e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano
all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato
avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si
fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza,
essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così
dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle
contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano
consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior
dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre:
conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo
tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono
che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che
l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto,
fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di
combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta
gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga
purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era,
quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente
d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu
dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso
a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi
che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite,
dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che
furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual
cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere
stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per
mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far
ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le
genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria
corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’
Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche
prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per
ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo
alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma
Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori.
XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire
aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa
condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di
persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de'
maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la
conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e
dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste
acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad
accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di
cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi
nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo:
conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua
moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie,
diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e
che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo
mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali
è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al
lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora
confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa
non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come
i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè,
quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le
donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro,
che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi
novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che
accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo
Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro,
che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa,
passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma
ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per
forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la
consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere
state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose
abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno
decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente
Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e
numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle
quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi
colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si
grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che
facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le
fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer
amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e
legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava
pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel
consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di
valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite
imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per
quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più
tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra,
e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui.
Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si
sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli
eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di
appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e,
attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non
fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad
atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime
condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi
crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se
stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo
spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la
recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi
sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo
zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto
l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una
tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E
questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo
ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di
atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome
chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno
appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione.
L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan
dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il
capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il
primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio
Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé
Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei,
entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si
servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di
Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i
trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio,
fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il
rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco
s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie.
Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles
delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui
appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso,
quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale.
Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati
in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero
unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono
costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino
ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui
Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta
da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi.
Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio,
mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a
motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed
eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine
Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi
Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie,
di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel
luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano
alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una
porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi
vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser
tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il
tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un,
sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno
avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro
l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando
ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia,
co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei
nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la
smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo
tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla
quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da
Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi
da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser
creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di
Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò
quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi.
Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi
mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne
parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del
Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver
letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo
sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli
diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le
battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di
morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei,
finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono
trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che
appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci
pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li
provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche
venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura.
Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani,
essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione
il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto
breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume
non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma
cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne
si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri
colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini,
accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto
pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed,
en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di
cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che
ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione
sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il
pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo,
quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che
fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV.
Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è
probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale,
essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso,
ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati
dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi
alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e,
ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma,
veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non
essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le
mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose
dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la
preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e
il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente
durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe
interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo,
e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio
di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono
da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le
figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e
fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e
a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta,
e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e
quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e
diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi
da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e
vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te,
passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano,
fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si
infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a
viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono;
e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e
da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con
saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose
» sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono,
e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi
già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma
» ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi
misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel
tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera
compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre
» ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed
avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa
questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e
rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve
ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di
guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur
anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In
que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a'
fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano
i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della
casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con
amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che
ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e
da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città
fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata
Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e
che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si
fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire
chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti
cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di
seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù,
altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da
Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per
cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono
poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre
appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche
presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci
compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne;
il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi.
Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono
anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di
turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun
cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. »
Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si
chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre
questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una
tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati
due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti,
nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il
non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti
capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la
bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura
simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito
unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima
separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava
Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono
que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal
Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo
sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall'
Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si
profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque
molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel
legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di
corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come
la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi
si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi
mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea
subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar
soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano
da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per
quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno
e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco.
I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che
tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli
scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser
giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. ·
Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè
Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima
scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non
avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra
nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle Matronali,
4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e quella delle
Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere
alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri
dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed inspirata da Febo,
la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli oracoli in versi,
mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero nome era
Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che
più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per mo strarsi
fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser privo, e
mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in
quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra,
che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti
del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel
giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa
lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella solennità
molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma, comune essendo
quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere che una tale
appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå
comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo esposto.
Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che si
celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a
Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha
celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla
porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva
Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di
Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per
che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi
scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni
toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono
subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono,
convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie,
discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando
scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le
percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente;
ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo
Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate
da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio,
corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a'
bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i
nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade
in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello
insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora,
e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio
Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami
guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in
traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono
d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una
purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal
animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle
purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che
chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che
scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del
popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da
Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in
latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in
ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si
sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità
quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel
mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la
consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate
Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli
storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan
di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por
tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del
cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa
verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa
da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa
dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita
era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella
che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi
che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso
di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro
motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so
stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo
che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare,
ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero
ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse
questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età
parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità,
" S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le
Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che
questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3
Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo
sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni
attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com
messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale,
Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però
basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi
alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano
a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi
resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria,
Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si
andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi
il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in
tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con
senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in
alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo
in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si
diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni.
Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino,
presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell'
uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita
gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo
che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di
sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel
regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero
punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano,
altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come
un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur
* Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi
ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di
Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a
purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli
antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui.
Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni,
repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle
porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri
dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in
molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo
loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non
volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati
avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX.
Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine
senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i
bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè
s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che
le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno,
che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto
sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra
città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si
videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con
que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta
Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire
i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come
impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse
tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila.
Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi
anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie
che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in
Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di
sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti
o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj.
ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio
maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che
vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini,
sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da
Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di
Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria.
Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla
di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti.
Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non
pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi
a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali
possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi
fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di
loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo;
perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo
ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano
poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque
aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in
due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se
n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila
Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila
dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da
tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo
ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo
gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per
altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te
incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della
metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della
Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi
anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad
Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti
Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re
stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma
quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza,
anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento,
rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette
magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre
datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria
avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri
prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in
quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si
convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando
sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta
per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il
banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i
Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu
l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a
molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e
straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però
di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già
si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto
contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia
dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne
d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei,
cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio
spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non
procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della
costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone,
s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la
Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione
standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli
poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano
ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora
da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da
essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi,
dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che
questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima
Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i
Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba
l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per
far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno
in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche
quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed
arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati.
Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte
alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi
in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano
tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non
aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i
primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor
importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte
di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que'
patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria
persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier
non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli
considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani,
l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con
tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo
alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista
degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed
allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e
d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente
si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento
di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto
essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde
poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni
dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso;
altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo
assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva
esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea
dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte.
Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di
lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i
senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato
n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser
via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli
sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in
un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero
subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni
incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida
e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ,
e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si
vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione
Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece
per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse:
Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con
tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta;
onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero
insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la
luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo,
dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero
che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che
esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli
Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo
adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo
adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj
principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi,
fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi
nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse
alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo,
che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo
addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una
tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o
per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e
malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che
quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io
per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di
gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, »
donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che
colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre
dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io »
sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani
degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che
fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto
divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi
alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si
diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha
della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo
Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto
sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per
dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano
da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella
strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e
gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e
furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di
fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse
nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli,
raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e,
avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu
possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che,
spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde
stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla
Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche
svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in
iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma
raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta
e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel
tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della
risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non
appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando
le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E
per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è
cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra
col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro,
si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo
ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché
questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen
ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo
al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto.
Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di
Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo,
come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo
cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s
' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli
uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime
per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di
uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre
espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale
e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità
e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi,
ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di
Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che
cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri
pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l '
asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora,
riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il
primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli
Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e
Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che
valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde
affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume
bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto
Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo,
e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla
palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti
nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi
vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che
questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine,
riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano
occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed
indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti
de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco
lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini
suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela,
coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che
però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne
senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo
l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la
guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo
stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una
serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di
non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto
l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide
medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone
li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed
allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno,
e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini.
Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro
ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse
da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro,
subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi
spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati
allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal
festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None
capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno
poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si
portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo
giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come
allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel
conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di
chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra,
come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima
ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel
giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato
dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di
regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al
suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia
della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco,
la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia
romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formola
logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio. Refs.: “Grice e Centofanti” – The
Swimming-Pool Library. Centofani.
Grice
e Cerambo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania).
Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.
Grice
e Cerano: la filosofia sotto il principato di Nerone -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher
in Rome in the time of Nerone. Cera
Grice
e Cerdo: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) –
Filosofo italiano. Only the soul resurrects.
Grice e Cerebotani: l’implicatura conversazionale
della botanica linguistica – e il
prontuario -- il toscano di Ceretti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lonato).
Filosofo. Grice: “Ceere-botani is a genius, and I’m amused of his surname,
since a linguistic botanisit he surely was! His ‘prontuario del periodare
classico’ charmed everyone, including his ‘paesani’ of Brescia – the little bit
on Lago di Garda! There’s a stadium in his name! He also played with Morse,
which means he was a Griceian, since he was into the most efficient way of
‘transmit’ information! ‘quod-quod-libet, he called it, what Austin had as
Symbolo!” Presentato da Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo e
l’estetica della lingua italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro,
il tele-spiralo-grafo, ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo
fac-simile, cioè apparecchio a comunicare immediatamente e per via elettrica il
movimento di una penna scrivente o disegnante ad altre comunque distanti.
Emise idee sulla tele-grafia multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento
della regia Legazione italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che
serve misurare la distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza
stadia'. Fa costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a
trasmettere La Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della
geodesia, inventa il teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le
distanze fra due punti che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro,
per misurare le nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata
nelle montagne del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado
di comunicare le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali
a radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si
dovevano ricare ogni due o tre anni. Il teletopometro serve a misurare la
distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la
misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze
papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi
topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro
monostatico. Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato
con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che
rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni,
come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito
un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale,
esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a
trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo
che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente,
comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un
segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione
del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo
Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata
individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito;
il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o
telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da
scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una
ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario. In
trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo
invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come
nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al
segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere
ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in
trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica. Questo strumento
permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni
al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca),
e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse. Usato per le
comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani. Inventa
un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri
orologi collegati con la stessa fonte d'energia. Studia la luce fredda.
La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per
effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con
dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di
illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio
della luce fredda è anche alla base della tele-visione. Altre opere: Direttorio
e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN
SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano (“I () i.
ABBOZZI E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:(1 )
NI ) () (i I, I S(H: I l 'I ()1: I ANTICHI a) V 1, I ' () N A “. 'I' AI;. 'I'I
l'. Vl. I; l 'I l'IN EI. I, l E i FROENAIO ('n i grande mov/r, l'archi: o
c', ''a / ) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a m. ' -
/Xivisione -. 1//a f, ggio in cem, l ’ abi/e, intangibile il valore dimo, fra l
' - l ' 7 de /fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le me/a/ore non
sono la lingua - Voi: i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1 del tessuto
la psiche della lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio del
sopito genio italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra cosa
dal Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la c/o
cuzione può essere cosa convenzionale e arbitraria -. I mularne un mom/i le//a
ne va del /'intrinseco valore e della. ila importanza adunque e valore ancora
didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo ad ogni pemma e gra - devolissimo il
PRONTUARIO l/aniera di la S (17 ) a 62. Sono agli sgoccioli della
povera vita mia, e sarebbe gran peccato se mancando questo uomo mancasse anche
quel po’ di bene che mi sono lavorato per la patria mia adorata. sicura,
un repertorio, l’archivio della sua bella lingua. Se niun’opera dell'uomo può
essere mai si conipletº e perfettº che non sia anche suscettibile di
modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò affermare di un saggio
che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e più riposte di una
lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui indirizzo. o dirò
meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e con la scorta di
acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre dell’italico
idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera perfetta e
completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di semplice ABBOZZO
E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe dirlo alla scoperta:
i) DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole, ove lo spirito
comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido di nuove cose,
ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito di lavorarmi mano
maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le discipli te nelle
quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali era vago. E così col
decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum, sia delle Sacre
Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora delle cosidette
scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e finalmente di una maniera
di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º brava non solo diversa dalla
comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi andava all’animo che nulla
più. Andò poi tanto nn, i 'anore, la delizia, la vigoria che veniva il sito
spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300 e 500 che mi misi alla dura
di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni ieg he, sapere dell’onde e
perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio divario, e presi subito a
sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia slie il più bel fior ne coglie
i propone si come maestri di;ingua ed ai quali dà nome di “classici”. II
l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a dismisura, di che man in no
che si accumulava il materiale, anche l’aculeo della me, e venivº ogrori più
assottigliandosi, ghiotta come n'era, avi da vi più e brenese di elaborarsi
sicuri, costanti criteri qual che la m sria e lo stile del saggio classico si
fosse, mercè dei quali riconoscer ip os e I i s ! º º ci, sicuº, che giammai in
n saggio volgare e moderno. Sgom:onto e in caſi piacciº insieme a ripensare le
aspre fatiche Che con diuturnº i reità ho durate per anni ed ºnni, solo di
vederla a purtg di ragione e chiarirmi di quel tanto encomiato ma non mai
spiegato non so che. Stupendo, meraviglioso i tito quello che il lorno i.ll l I
l CAN/ A r ci lasciarono scritto un Varchi, un Bembo, un Cinonio, un
Corticelli, e molti altri. Sottili le disanime di un Bartoli, amplissime le
ricerche, gli si udi di un Gherardini, da sim fuor g. gr mi. Ai. le
dissertazioni di un Padre Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere classico
non si è porta e discussa altra cosa che gli accidenti e le apparenze dell’essere,
non il suo vero essere vitale, quidditativo, sostanziale. L'essere. ia ma, ura
dell’ELEGANZA si rii i ſino tuttavia og cilta, e cgili a loro hº e rºg, vi
i ce.re ch: i ganzo è al postutto un non so che. Ma è appunto questo non so che
che io voglio a tutt’uomo tor di mezzo, e farla intuire, non che sentire,
l'essenza, la quiddità immanente di quello che dicesi: Il ci º N / A.E
stimulato dall’ardore di questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e
faticoso quanto niun’altro: mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti
luoghi del 300 e 500 che più mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti
poi che mi vennero per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº
luindi nenie a tute le più minuti circostanze del differire che fa il
linguaggio º di riº: d l 'ic: classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle
voci, tutti quei momenti del logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera
di costrurre che è sol proprietà di ogni scrittura antica e classica, di º cosa
all’opposto niente cc:nsine º una cenna volgare e moderna mi notai da prima di
ogni penna classica, e di ogni stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di
un medesimo assetto e tornio periodale, sia di certe singolarissime locuzioni:
ci; mi sfuſi i denti qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti -, ingr. l
Ti s. “I e investigandone ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli
intimi rispetti e le più riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto
veduti e costantemente confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio
senno di genera l’eleganza: e sono appunto le parti della prima sezione di
questo saggio. Cose di indole organica e che più strettamente si rife riscotto
al tessuto periodale: inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche
ecc. Parole e forni e notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del
DISCORSO e all'ossetto costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note,
ma dal cui retto uso alla elocuzione garbo si deriva e vigoria. E' in 'b
e º ci reggi e 1 in to gº e sº ort che: - 'n - 1 v altri studi, altre sollecitudini
me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato alle stampe, malgrado l’indole
del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era naturale che, compenetrato
come era di questo purismo, gli scritti che misi poi fuori intorno alle mie
elucubrazioni scientifiche º v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A vedere
lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì,
basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca
ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche puº e re. p
v. i), c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla
uscita vi si scorgea» (simile a: selle scura el la dii iita via era smarrita)
per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro
che.... ». E dove: i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne
» (simile a: non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº
lo vidi inve::: Inp. 1a così: non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi dovessi
accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al viadon sss
(tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè egli vi
adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una cosa a
spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala ventura
º, di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che invece
mi freero dir el "vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva pensato di
noti so che, che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo grande per
ecc.. ! ! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono Sconciamente straziati
e snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella mediazione di chi non
aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi agevole immaginare lo si
to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a pubblicarle queste mie
fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo linguistico d’oggidì.
Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole imporre cose vecchie e
smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere e da cassoni. Ma ad
enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e mi conforta, ed è
che di questo saggio, quantunque in contrario sia per seguirne, col l’immensa
copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma e di ogni stile, riun
critico, per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il lato DlMOSTRATIVO, che
cioè il Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che ti si dimostre, ed è
altra dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui lascio la parola a nomi autorevolissimi,
e prima a quell’entusiasta che fu del 300 e 500, l’abate Giuberti, il quale
pieno di sdegno verso lo scrivere moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza
una pietà al mondo. Pedestre, terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e
colore, di mezza temperatura, non si alza dal suolo e striscia per ordinario,
allia e svolazza, non vola mai, una fosca meteora, non un astro che scintilla. E
più avanti si rifà all'affrontata, e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato,
scompaginato, rugginoso, diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un
bastardume: un intruglio, un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe
straniere, uno stile da fare stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le
ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione e venerazione verso gli antichi prosegue
e scrive: a Paiono talvolta ritrarre gli aculei sentenziosi dei proverbi e le
folgori dei profeti. Quanta leggiadria e gentilezza non annidassero nel maschio
petto di quegli uomini a cui la schifiltà moderna dà il nome di barbari! In
quella era vera coltura Ciò che oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto
un'attillata barbarie. Anche il laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia
non sa più come parli e ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono
tutte le nazioni e dove tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I
l m g II a S m 0 I I i C a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n
0 re, St 0 p er di re S e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli
senza studio e fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella
lingua in cui si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine
curata mai, atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe
di chi vi li a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso
Salvini deplora esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e
nota. Guai alla lingua italiana, quando sarà perduta affatto a quei primi padri
la riverenza! Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno
farà testo nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un
mescuglio barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un
portento in opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi
tempi facevano a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di
vederla (la nostra antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di
nobilissima donna, maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella,
quanto amorevole, ma ferita sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta
laida di fango, e che ella vi dica piangendo e vergognando. Guai a me, che
straziata sì m’hanno, come voi, quì mi vedete, quelle mani straniere. Io vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a
me, sotto l’egida e fra le trincee di questi valorosi, di dire brevemente
quello che ne sento, ciò è a dire chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere
l’opportunità ed il valore non solo dimostrativo, ma anche didattico di questo
DIRETTORIO. Asserendo che nei dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria,
quel garbo, quel candore, quel non so che di soprasensibile che regli antichi,
non è già mia intenzione di censurarne le alte concezioni e menomarne
comechessia il valore e la spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle
metafore e delle immagini, sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia
in questa o quella cosa, che del resto, i cn è, vi, p v': c velli rs it:li no,
ma che può essere comune e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il
valore di una lingua dimorasse sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè
ièci traslati, nelle metafore e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne
andrebbe del carattere non ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto
lingua le varie lingue tornerebbero ad una, e renderebbero immagine di III la
sola cantilena che sia suonata ora con uno, ora così altro istrumento,
differendo l’una dal l’altra solo quanto può differire il suon di una tromba da
quello di: 1): l ri: ti:.I e concezioni, il modo di pensare, la disposizione e
l’ordine del le idee sono di una persona che ne ha la lingua, non altro che il
suo stile, cioè un fatto suo individuale, una maniera di DISCORRERE secondo
intende e sente. Come non può essere che un uomo si cessi la sua individualità
e ne prenda un’altra, così sarebbe opera disperata chi si affidasse di pigliarsi
lo stile d’altri. Ma la cosa che negli ameni dettati degli antichi si impone
alla nostra ammirazione e vuol essere oggetto di considerazione e di stu si o,
è l'intrinsec. e sei le ferma sostanziale, c S nip e la medesima, di
qualsivoglia stile, dalla quale allo spirito più che al senso quella soavità
viene cottel diletto che mal si cercherebbe nella materialità delle voci, è la
grazia, quel vago ascoso e nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi
stile elegante: simile alla luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e
al senso della vista non è solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta
subitamente risveglia, e alle molteplici individualità del visibile dà vita e
vigoria di ghºzzo infinito, la lingua è rispetto allo stile quello che la luce,
la forma sostanziale delle cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e
l’essere di tutte le infinite individualità della luce, le quali sono perchè
sono i sensi, è un solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori
della ragion di quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come
al - tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente
una, inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi
che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda,
specie od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue individualità,
così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente UNA, un “non
so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle sue
individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile più
o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione
intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non
nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua
essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il
senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli
accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E
poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima
considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi
non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza
(a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza
dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove
manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile
elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l:
ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi.. he cioè la natura, la forma
sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua
italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben
altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato,
non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della
mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore
architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere
costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti
organiche di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita?
Di Apelle si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio
intorno all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella,
l'hai fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º
di lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si
tiene che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di
sofisticone. Non meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene
da villanzoni o solo alle canzonette da piazza e da trivio e
altri volesse di punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e
bastardo, e recarlo per niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi
delle grazie vereconde di un Pergolese, delle profondità pottoniche di un
Palestrina, di un Orlando di Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle
poderosità melodiche di un Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di
chi non vede più là delle Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli
imbratti di un pennello pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la
decadenza, lamentasse le turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili
sublimità degli antichi in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e
confessiamo ch’è oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico,
e non che sopito il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che
irradia nelle opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando
languore. Che altro ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che
adoperano, secondo scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla
riforma, ad una sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a
vita l’originale candore, il sopito e per poco spento genio italiano è l’elaborato
mentale, soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al
linguaggio, che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o
l'ariasse un nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si
afferma, e si tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico
del l’umana intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato,
e che solo il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è
così, ed è la cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che
lo spirito eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo
dimostrano i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme
dei gloriosi antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio
antico. O l’indole dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine,
che fanno del pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile,
onde è incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo
scettro del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi,
l’individuo, la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra
è oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e
dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e
non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma
non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente
soffocato il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta
e recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio
che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita
intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente
ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano
coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un
Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino
di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si
pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più
conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi
sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio,
e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle
queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei
studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi
scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato
intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di
asserire che codesto mio DIRETTORIO sarà per essere appunto il saggio
desiderato, quella scorta sicurº ed unica, quella palestra nella giale
addestrerº: chi vi si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, le occulte virtù
dell’italico idioma. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa
farvi di buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il
terreno è stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito.
nulla giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima
la zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che
non sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre
maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi
guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non
sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di
chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire
nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº,
non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei
cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo
stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno
viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e
tornare t:sso e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo
lº::.looue liuis o oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei.l.
It us el ' i' i ti - e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl) ºl!
Sº! ).le daiºlº slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos
gllep luo!. ilo Ao olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto
o.lilt: uou o 55eniull ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni
civili lonn 'ouo; o il 9 AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº,
lui: ºtti.lo ol olodlu o l illoulillº ºa so Qrº uviu:I i poi il tt i tr.
ss Lt: lº), ci uo:t., e o isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti:: ti io lº
t:l lido su tre et 't i3: lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i
lili è il trilos i luopll S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti
3llit 8 º A i el: tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si
s... 'ti i.i....lºli i; ss ',...... i - i ! i ti&ui o soli º in
l It:ISS º o loti u - Rutp li ºt toº, ti o, i poi tu º 3 lt è loM o.lgIl
lli t..li) op. N..lo slp: 01S, clti, pu Sclip ci, i Ip º lossº t'il pº 'it:5 s:
i isl il pºp OiiSAS º al! Se oè, si va 1 otIº tifos. º ºlio p: 0.it tios oso.I
-05! A osio; op: i n.lip top t millus G, i tº o 3 As il il 3 osseti lap ei liti
in el o Isoi cui il bis '09: loui.it o!!isso) ſi è is 'Glös tipicº -.10ul ti o
º lill A i, 5 ti! Sii ! s ºu (olis 10S il q.li i ſiti allº guas iA liliti Il ci
º ! A O, 0i) (ſili) i lº!a il p iù.tvi336 | Il ſul SI, riu aus ottiliº I iosi
pe.oſse.I l º d lp Girl: Iº tunio.lui uli olei è eluoul el gu: A è tºiplit; o
tiri uſi:p 3iiiiSpo otto i p up:I o Aoati olsanb Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o
illo5 luntti iiiis ol.Iodp e oilun W o S.- “Si - Si – s S. S -
S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono
al tessuto periodale Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte
più che nel valore dei vocaboli e delle l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi
i tg ei p..iiil I pil, ivi op oi il I attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p
!.lvi 5i A º 3 op.It: ci.vt mt! pſ. I; ii ti Iguas sº Aoin:il nr. - i s
Istºnli a reput. 5 o islip i 51 o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi
i IIIess: lp Oliput ouvs 1: i su Ifil si al c. 5 i.In 15i giri i rp:5ucu. li
odita, uno º Iovi ouault: sti: è o niti: ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI
aulluas Ip o piis lgido opuali ti OIAi().L.: St | (l Gisonb Ip guided uso
'ofoni dr5 lui ig.it, i Jr. sp: l o, aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3
oood: oSod il mio zn glpo. I p o puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e
insis AIA e W ologIpo o Soduco l oillouap bus Uieto n.. nip o Ies gipol.I
riolle pº oluopeA lap e Cisgiº Iap 5 i5sti p.s. p r, iº le p.It, i gol
q -uoo 'oullios opinismq Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri
i pure di vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui
niun atto, niuna parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la
Pace. Lungi da me la pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente
meccanico, ma è pur cosa ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio
semplice di un corpo animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e
che gii è (are a ciò di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico,
che tanto sol che intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d. -,
uf,3 giui tura o cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo,
ma talora si spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto
della bella, delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco
e della vita non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di
certe articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata,
l’ordine dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito
od esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste
parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO
vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi
starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti
appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e
avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo
cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà
assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO,
e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col
DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la
mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la
parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il
PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da
effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di
un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed
ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla
penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione,
virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRON TUARIO ti
darà tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua.
ii fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di
dire con brevi istruzioni ed esempi che ti ammoniscano come e quando
rettamente adoperarli. Ti dirà quale verbo o predicato sia proprio o meglio
convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che
egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od
avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere
o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti,
cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i
componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti fornirà da ultimo o più
veramente vorrebbe fornirti, e lo farà completamente quando sarà opera compiuta
i vocaboli propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come
altresì di mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del
muoversi ed agire di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri
modi di ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gli antichi, e dove
questi ci mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da
maestri di buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO cioè ritagli di alcuni vapitoli
delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole
organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e
l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e
delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una
singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma
compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di
raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci
forniscono a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e
separazione. Particelle e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di
alcune altre voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1, i cº II, N cºrsi
o 1, i SEC.) NI): ) (; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI
("I Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io
voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne
hanno scritto ii (il lio, il l'1 l. ll (1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il e
tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne
e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni
scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità,
nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne
acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio il Tommaseo), e molto meno di
porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo
saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia
di esempi il dicario che ella il linguaggio così dello classico e quello di
oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo opportunissimo,
collo studio cioè degli esempi, di rieccitare nei nostri pelli lo spirito
classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la le penne di
quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo col
vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il
diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso
secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il
collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e
comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto
antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad
allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre
frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è
qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V
l'elolo a pezzi il dili al dolo. La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella
particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne,
la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò (doardo,
la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che tu per
niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li vedere e
non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non le
motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere?
Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla
vita? º Scull.: o una semplice inversione di parole umana cosa è aver
compassione degli allilli. Zali.. e me anche quel tanto a loro il vello il
fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e
inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche
alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le
abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa
dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a
dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in
un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera
mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio
divisale in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia
di rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a
guardarli lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella
gran massa d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile
particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per
disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato. 1. ignal, o poco
pi illico irl cosl li e o per dar rassic, valido V. gl’illel'11lare clic:
non llll'olio cagione di... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri
limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a
11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma
ecc. L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche
disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei
mi i licesse, il t.... Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il
grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun
articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e
IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un
argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero
rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico. Signor mio,
io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn
è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli
vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la
milo..... l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che gli
bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o
propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della
ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e'
mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri
nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo
saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli
renne reali lui....... I; i carri. rispose che ben si ricordava che andalo era
ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area
bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua
sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere:
lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il
1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo,
si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo,
quindi il relativo che e finalmente il verbo: sol per l'amore che io nutro per le,
non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi da
ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di: per quiet
n lo ch. Al, i ciò sara: i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel [..
lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r. Cilf: pronome relativo di
quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si
attiene posponendolo al verbo e appar tenenza relativa al primo
inciso. a... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le
pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii, le ri sono che la mi
all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n...... I3oce. “. Quanti
leggiadri gorani, li quali, non l'alli, ma Gallieno, Ip poci di li' o li si
illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi lor per
l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº, la sera i 1 nºn lo appresso nel
l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai ril,
e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i cºsti
letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i gogna, l
rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai, rielen le che le rii li li la I
l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di blu nel
nulli. I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e colui l'ha
per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.(nche di esse e il conlessore
nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re o sos le me
l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa V.Con questa melajora e
somma bi erità diciamo: uno aver dipinto 1) Anche la lingua francese
offre esempi di costruzione non guari dIsstmlle; tel brllle au second rang qui
s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per l'appunto che
non polea star me glio ». Davanzati. « Quando.... tal cosa verrà ben falla che
non si pensa. Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che riballo mi putre o
l?occ (coslui che.... dee essere...(Oggi si direbbe saper di guerra o ragion di
stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe un time in I)av. i gi
ii) si | | il ll es.. si direbbe. E in colal guisa, non senza grandissima
utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e scherniti, che lui.
Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro so. I3 cc. E quello
essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in sti c. moglie mia, uomo
tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I ro il nos/ I o cuoi e
o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che non rºtolo rirºre sul
no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che poco desidera ».
Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono
dai prigionieri con tanta guati liti sei riti. Rocc.a Indò per questa selra
gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che elli si crºllera in noi
in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come a un porto, in perocchè
saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano andare dietro in ogni luogo
e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli era in un altro ma vener, do
in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri occulti ed il nostro fine, che il
giudicio umano molto è fallace: che spesse volte tal cosa ci parrà buona ch'è
ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono Cav.rispose che delle sue cose e ai nel
suo rolere quel farne che più gli piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al
mostra lo luogo, e di redere se ciò fosse rero che nel sonno l'era pari lo.
I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel lirario era che già S. (toslino futc, ct
da Futu sfo mi al nicheo, suo maestro, a S. (n broſio: l'uno lullo fiori e
legge rezze. l'altro frutti e saldezza, Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla
nasce che si semini, pur semina o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul
ri le fu mi. I)il V.a Quella potenza con ragione si stima maggiore d'ogni
altra, la quale con sussidio di minori mezzi può conseguire più felice nºn lº
il suo line o Segneri.a gitta l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il
tributo per lite » (esari. ARTICOLO (5 Due nomi, aggettivi od
avverbi relativi ad un sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il
verbo. b) Anche il complemento indiretto disgiungesi talora dal
rispettivo diretto, pure frapponendovi i verbo. c) Gli aggettivi si
trovano talvolta framezzati dal sostantivo. \ l 1 g.... l sl e silli, i -
i scolla la, l I l: - Il l i pez, a il II iscir: \l::: ' s." ;
i viaggi chi blo s.... il liri. I sing il il suº pensi li stili e li - si
si i. II. Il li sºlº lirli resi i vigli, sl 1 il II, Lici II l ' s l; in
ºsservazioni. Vs sa sono li al rialli, ss nel s', i rºssi,. maestri s, l.
I li alll I castigatori. I 3. l: ln i ritiri il ', con i tiri, l isp, N..
ll delle sue cose era nel suº i, lei e quel farne cºl pari ai li pºrti ss
i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l. i qui i rolli
per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli ucnini, in
quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e lungo, quando
si n: a 'sso si mossa la si l: Nali, lº si l ri'il miº l.l l ' i '', un
fiero i nº, l un forte. I 3, i. lº, i Trori i no, in luogo, le loro
i rom: mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni.I)i ſanta ma i tiri lui e di
cosi nuova in i pieni..... l3 o. E l appresso, questo non si lanci le la rozza
rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN, il ct oli canto
lire' i no mi tr Nl l o r, li suono, e nel cui calcoli e nelle cose bellich
cosi noti in come li lei i t. snc: lissim ſi l lira' il n. li mi rilici e, in
grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit.... I 3 c'e' I n uomo di
scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il lla Alu Nsti e.
lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e ricco. l ore. A piè
di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a sluirsi se n'urnalò
». Bocc. Voi ordineremo onorevole compagnia di buone donne, e anche
di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci cessare la gente
ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la infermità e più
puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa all'inlermo, e di
più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse loro, il lil tulo
come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e fedeli che rendessero
queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco vestimento e sottile
loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13,:C.1ncora quegli rampolli che sono
occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore sa di moltitudine
delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira rili. Cresc.«....
oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val ornato Giambillari.«
Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e parere rallen le chi
altra ra l il ll, un ali di uli I e. l): I V ill.1 rera ad un'ora di sè stesso
paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era di reale e o lui oi so
o del lupo si rangolare... I3 cc « e oggi se fiore ho di sapere e nome rie il
più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi mai rimane mene o.
I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile. la remule's li
molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si...., Stºgli.« Non prima dir
parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa lorº. Sºgn.chi
men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo in lui piccolo
a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e vezzosi; mi ai coni
e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l), no... Silvi! i.a I
greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa lode, ed inutile
ma...... Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma nca che insieme le
leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in orle qui il li catal
'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par questo luogo buono,
lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che mena i più dolci
pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica mollat gen I e
che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA … CHE.... quando
in luogo di: Il0ml.... prima che e quando a valore di: C0mle prima....; come....
così.. II0Il Si toSto.... che....; appena.... che. il IIIala pcIld.... Che... ;Non
selzi il l ' 1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl., Inl \ 1 Il Sºl la colla
illica l 'Inghi e prol di sci i tagli, il lis, rag olio logica, la Virli, il
vigo e l'uso vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime
strutture, molto più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun
poco diversa, sono questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo
hanno scritto sulle orme degli antichi Inºltre colle scril (Il re del 300 e 500
colesto I)il el Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro
Direttorio, e appena che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i
radisca. Mello ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole
quasi egli li SI 'I Il III non... prima... che..., ma che l' Illo e l'all si
ass: il live si. e la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl: non..
primat. che.., e sia l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili: l: I - Non
lo volle prima al suo cospello che egli si fosse pentito e avesse le testato il
sile) fallo no. Non venne prima al suo cospello che egli nel cuore con
punse e sl, il sl 1, ſtillo Mentre il vago del primo periodello consiste
manifestamente nella separazione dei due incisi della forma avverbiale
demolante precedenza di tempo: prima
che: lasciando cioè il che solo al posto
suo e antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto
alla rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel
secondo pe riodello la stessa forma: non... prima.. che.., indica invece
simultaneità di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e
orna al 'il II ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè
prima..., con '... così: ecc. Noli Irli esſendo il considerazioni che,
più che le mie parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo,
la spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto
negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN: Il0Il.... prima.... Che....
ed anche senza la negazione, I)I UN: prima... che …in luogo della forma volgare:
Il0m... prima che; oppure:.... prima che Delºrm inò di non prima mi torri
e a lui il riglia che egli gli arresse alloltrinali e costumi ali ai la licati
e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n. Nani e le lissº, si esse il piu' recel et
lui ci al ogni suo comando: ma prima non potei e che l e onl, inola lo Iosse in
Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all
I o le c', che ella s in ſegnò li reale i lielli di tiro …dirò come una di
queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1 e si lil e si mostri - li, osse lui ll, il
ſei no, l'unº su di lui ci ti i prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla
che i lioli di rºsse con sei il I.lasciano slal e i pensieri....... e gli e li:
i in I so mi ci li. che prima siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e
apparecchio lo le cose oppo lui ne (('un l'ºliº e li ill ci, la r il.Prima
prelerirebbe cioe' ini, l be tullo il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di
falsità pure in un primº lo Iºr (ii rel. a nè prima ri formò che il di s.
gueul, 13oce. perchè messosi in cammino prima non si listelle che in Londra per
rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo disporre, ma intera nºn le conchiudere il
patrºn letali, nè prima reslò li lire che non utlisse: l'in l?elier cui ci
ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di lell'utilull ºrti, di lui con lolla
nel le mi pio, quando non prima di parola le rolle di correziose, che dileguato
si fosse ogni accusa lo re... Segri.« ('osì comerse la nudità della Santrilotti
at. a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimprororare la rolle
di disonestà, che rili ralo si fosse ciascun apostolo. Segni. I 1.« e rolera
parlargli, se ne scusò Luigi per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare
che il generale l'a resse a ciò licenziato, di che il cardinale ne prese
grandissima edificazione ». (es.« Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola
andarono, che sei canzonette cºn tale furono o. I3o c. 15.a Prima sofferirebbe
d'esser e squal lato che tal cosa contro l'onor del suo signore nè in sè nè in
altri consentisse, Doce. ESEMPI DELLE FORMI E COMPAGINATIVE, DIMOSTRANTI
CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE Il0II prima l Il0Il...... I10Il Si toSto.....
che... ilppella il IIIilla perla..... EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI:
C0mle primiù....; C0mle.... prima....; come piuttosto poichè prima....;
come -... così... slli il tille V lgi l'I e ci li Nlo che su bilo, che,
ci. I. Non prima e libri al boillu lo il gºl in cesto in lei l a che la cugion,
della noi lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re. I 3.Il ct c'Ncat e 5 in bella,
per ogni sorta di tici ll e non li di prima Nºli - di alo uno che gli li o I il
sºlo se mio lo sta la a lola. Caro. l. Il ct: l tesle in tilt ne reni ſono i pi
ppo, e il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila che gli l'ha. I lav …l doll,
che sarà, io li promello cli gli non ne senti il prima l' al re', che lei riti
liti e li isl il l il c. l 1 l'. Idilio. lisse, li Il 1 li lo i cui, e non
elilu il n 1 l o di lirilli, lo che ſli si coni in tal il pil irli, e lº ri.e
non elil, e li rile, l'intillnerali la mia sl i il che il reti lo si l irolse
al l l. in on lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l.Non prima al talli lo ri mi
li a mo di ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no ci ri li di lui. I l at col 1.
se non lo sº e nelle di ''I I I nosissimi al ligut. Segl. Nè prima il rule o
che pi ruppero in lullo da disperati, in gen il il ct o. Se gliL'isl, Nso (io
li ho li sui bocca in lesina lo conferma l'orch è mor prima, l lorº letto: \ un
renis/is. el modo ricºnles plagotn mi rotn linells. che nel rersell seguente
soggiunse su bilo: \ un quid dia i: a lei le mili il l cle su lislam lidi resl
rat clona le mih l'. Segli. Inzi non prima r han con le rila una grazia
alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto che lui lo il dì roi li dobbiate e
accompagnar ne' corteggi, e apportar ne' cocchi, e servire nelle anticamere ».
Segn. \ on rel lissº io º non prima io roglio, cominciare a parlare, che il
Santo P ofele I)a riele mi toglie le parole di bocca ». Se gli. Non prima riule
ro ossequiosi sol lorni eIlersi i mari alle loro pianle'. e tributarie
stemperarsi le murole ai loro palali: non prima sperimentarne a loro pro
luminosa la molle, ombrato il giorno, rugiadose le pietre, fe conda la
solitudine, non prima cominciarono a debellare i popoli con la forza o a
premerli con l'impero, che si ribellarono arrogantemente dal culto del vero Dio
ecc.. Segn. Non prima contemplò quiri assisa la forma pubblica di giudizio ap
prestatosi a condannarlo, non prima i giudici apparsi nel tribunale, non prima
gli (ircustlori uscesi sui l os/ri, nºn prima il popolo concorso (t)) ol
lalamente a mirarlo, che non potendo più reggere alla rergogna, ristelle un
poco, e di poi, tra lo furiosamente uno stile, si diº la mortr. Segn. Troppo
indegna cosa è il reale e che non prima risolva usi quelli donna, quel
cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con maggior sempli cità, o a con
rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior rili ratezza, che subito
cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli. Segli Non prima l'innocente
colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne di un rapace sparriere.
Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder ſardo, un pati lar grare,
un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che non gli c prima messo un
lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot o. Caro. « Non si
tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe ritornar gut ». Sºgli.
E appena ebbe letto le predelle parole, che li subito sopra di loro renne una
luce con la n la chiarezza, che essendo il rore nelle oscuro e' si redeano
innanzi chiaramente come di bello di chi ti o. Cavill a. ()uiri appena ) il che
ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl in al riale ro i nostri, diede
l o l u llo insieme in col mal e latin li li li. I 3: l'1. Appena egli posò il
piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll ' 'n i. quiri
l'inchiolarono..... Si gn.E a mala pena e libe apri la la bocca, che gii, o
rinò misert nºn le. l'iore 17.Ed appena erano le parole della sua risposta
ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo o Docr'.a.... e'l
figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit. appena era il ferro
entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a gridare i Sacchi.« Appena
si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso negli animi i di un lierna
raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui nºn le I lilli ignuoli
correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi.... Segn.« Appena era comparsa nel
campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi alla risſa di un insolito,
lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ». Segn.Il ralen l'uomo senza
più tranti andare, come prima chlie tempo questo racconlò.... ). I3cc ('.a riri
sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi saresti slalo (tm mazzalo) ».
ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece al messere grandissima festa
». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la stessissima frase: « Ella,
come prima el be agio fece il Saladino, grandissima festa »..... la qual cosa
come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li credi lo o, (iiamb. “e
promellendogli ancora largamente di levarsi in aiuto suo. come egli prima possº
in campagna. (iianl).la cui poichè prima ne in lese, si son li prende i si.
che…). 3il 'l. « L (quila come piuttosto di ciò s'accorso'. enl, è lui la
sol lo sopra e così s'andò la (iiore, e con togli il caso, lo pregò che......
l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è e come tu mi senti, cosi il ia en
li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I ro. I3 cc. con le prima, lº sl he.
Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe. I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li
tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº ce Come ride corre e al pozzo. cosi
ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 ).... per le quali parole il mio
marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al lorni en la lo il set le cosi
tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si con m cco e questo non la lla
mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni, l'irl ro 13ore 19 NOte e
Aggi U1 1 m te all' articolo 8 12) Simile alla coes-ruzione
tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure bevor, che sta per l'
itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r. I s-li alti - Ilpi, a 1 lie
della sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per il la ai valori e i
Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del guasto e dello storp
Io a dire: che udisse. 14, l'oni Ine!lte il lesto e i i pr. e le 11 e le
1 di... II, 'il:lo all'ait, si rassolini, li, i lle 11. Il perdori sl il 1.
l)llº I – Il re 1 il ll li si, gol i. 15 Il Corticelli si l plico Ia, il
il 1, par. 1, se qui con le e di ragione, imperocchè rilerenido, lo stesso -
Impio, osserva che la par ticci la prima con la negativa ha la proprieta di
significare talvolta infi nattanto che, e talvolta subito che. I - Il ll il 1,
si l: i 1ei la se conda parte di questo Inedesimo al tiroio S. Mia che li
citato non prima fol mi da se S lo frase o modo avverbiale colli e vorrebbe e
valga infin tanto che, non so cui possa Ilia I capire nella 'lini, che il grato
sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i lill 1. Il nel significato di
infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil - la l l'avverbi, prima che,
tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o leve sllssegllire. 16 Qil -
o prima 1 e 1::l'i; 1: de l eher li di piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo,
resta sempre il grafo della di sgiunzione e trasposizione dell'inciso
che, 1, Binda che i ll'en III al clie fa r, ti ra questa o qllelia for
Inti in coInfronto di un'altra clle III i dl o con i lille e volgare, non è In
lo avviso che questa sia sempre lilello bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr
IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che non solo a ragi m d' s III pi - II:
il 1 li che non ne usasse quando ben torni, anche il I recenti e cinque º to
Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu gaia e pil ſorte è il da te si o
ratto che:....... ed r si lev o ratto Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int (m.
18) Al che i Latini usarono ut i greci o snello stesso siglli l'rim.1 di
passare a l alti e altri tazi, i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il
testº: come.... così..... è ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es.,
del sieguente passo: nè sia chi ne stupisca, perche come l'uomo è vissuto cosi
generalmente muore. Notisi però che di questa forili º comparativa ai buoni
scrittori piu che il diretto: come... così..., a: a Va assil I
lll'ill Ilio l'assetto in V clso: cosi... come...; che cosi in alti e non come
l'ho citato lo trovi questo inedesimo passo nel testo originale del pil dre
Seglieri: li siti e li I tre still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore generali
Irelle, come è vissuto n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime anche
negli eseIl pi se gllenti:Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all III:
estrº l e, a Irl III ollire...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1 l. -
- - - - - e ce, aci per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed
intelligenza il ogli i sa, e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l
Illi.Io potrei cercare lulla Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i
s.esse belle come il si.La li la dre, che le tl, l ire l: I 1:. ll ll l: I g il
va Il ferirla, poi, le le seppe Il rito Il. dI S. l a no esco con lido che cosi
or: la p 1 l el l e l'Isll st 11: l III, I | 1, come, Zi l', i Vrebbe potuto
risal lia l' iller IIl l: illo. ll, cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si
gel1 o 1 pl il 1, rot! S si III in id), Il Irgli ». I3: l.«...... ll I II li
assi. Il ril. ll I 1:1 e-1 r il pil sapere di V (I, cosi II slla l la
legg.. I 1st a 1 il ss 1 vs 1 1, come voi ora il I persl 1: i let ss. l
la s. l '. I 3: l. e … se li, V. - ti.. ll cosi !) il liti e In Il lidosi come
il l V el'elil e la V il si, 13a l.« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole
il Il le:is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I
geg. l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re:
le cosi -: S I lllll liti de Vizi, come li virtll,. lPass: l V.lº, il vero, li,
cosi come lei, il... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li.. -. I 3, i.“. - -
- - il ilse la V I rl I si sa delle liti.... per le cosi come, lisa V
Vedula trielite: so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere per o!: ºr i li
ll li i' l I l: il ct, lì 11. - lo Il Vila: “i sa slla i livi gli in stra
quella cosa la qual e egli ha più cara, a flernlando che se egli potesse, cosi
come questo, ma lto pit volentieri gli mostreria il suo cuore », l?occ. “e che
cosi fosse servita cosi ei come se sua propria moglie « I (lsse ». I3C) (('.«.....
rispose che così era il vero come quello Irti le aveva detto ». Fioretti.« E
son certo che cosi a V verrebbe come voi dite, dove così a ndasse la e bisogna
come avvisate ». I3 a.« Ma non illte:ldendº essa che questa fosse così l'ultima
come era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio Irli conoscessi cosi li pietre
preziose, come i ini, sarei e buon gioielliere ». I.ib Motl.19; Ho annesso agli
ani e li liti in li Il testo esempi di un come.... e...., e sì per mostrare
l'allal - ia, mie a 1 he per rilevar e la diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l
Il s.o come.... e.... alla con impara nella di dlle atti, Ina Vi senti al che
la relazione | 11:1 lo di: in quel mentre, in quella che..., precisamente al
fora..., e qlla ido, di quando..., tanto....; di che ti sia l all o p III, l i
rili pari le lilli e si ra., il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini
leva diritto, e come i i vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e.,
Iri esser I.: Inler 1 1: v. I l sul l. 1 litot e 2, 3oCome noi pro lia il e s
II h, a e ge')till III: I mie!'e V (Ing Il i: ll' ! ! li,, (si ri.Come pili i
vecchia la V. AV relIl mio tilt li in li iori -: l:di. l il bit. ll e pill
ripostigli, e più si cerebb il le s II -, e come piti adoperate e liti per
ferite e ! ti ve nio, poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili
solo lo rientate, e pii - empiono,. (.ar.()sserverai lili -1 e si pllo talora
sotſi' il lil re, ti: nel I e torni bene, e punto illlia n soffra il
senso. l'rima di uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti
sulle penne degli alti li, p la eliri per il III: il clii il 7 Zii e
collettivita, di completare e mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s:
rebbe materia del capit, i gli ºli,,,, il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un
semplice come, che, -: l li a lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che,
conci ossia che, subito che, li quale il. col... quale, precedute dalle voci
modo, via ecc., e quali (lo di che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come
spesso, come presso?) e talora lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa
e simili, sia de 'I I riport come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I:
Ido li in qualunque marie ra che, e talora anche di uli semplice come (siccome.
“e com'è Illisse di verilo e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di
que” bacherozzoli o F, ronz. a Come villan che egli era il canili, di
lilltalli, gli illò della s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier
liz. I concia -si: chè egli era villa li, cosi ſi celido come si lol la r
llli Villa lì lì. ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l
3 ct'. “..... un giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi
valle hella e vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di
seta e d'argelli avea intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser,
(iozzi a.... e com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava
all'arle º Bart. e dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la
donna udi ques.o levatasi in pie, comincio a dire....» Doce. E dire il
vero, com'e' l: rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è
lllli il n. St gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III
l'il' li lllllg, si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e del
pesce, ilscira fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni,
Fiºrenz.“ - - - - - - come pervennero alla città di Gaza li l iuoli
inlerinarolio si gra veli elite d'ulio Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l (il
Val 1. Io voglio andare a trovar modo come il s 1 di qlla elitro » lº - e
segretamente deliberero io che si dovesse trovare ogni via e ogni modo, come
poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e da quivi innanzi penso sempre modo
e via come e glieli potesse ll l':ll'e o li l el'. … che per certo se p
ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V esse » i 3. li Il l..... l Ebbe l:
nuova come (ialobal era il is l il V..... come ti se lui spesso ad Ira..
I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea voi? Vlessere, dlle tl):17 /:ll di
ma lo » 13. In Itlal I l 'lieri, i 11: il prezzo).Come è il V, si ro Il le? e
il V I l come li, il 'll? e lº quale, di ſlal lo fila. e... e di li a 1 lo come
li -: -st:: Il a I.:i giova:le, plai lig il, l ' s -. ll avev. a - la li
paglia nei a selva sli tirrita, i ri. I come presso lo ss o il Vlag::l, i cui I
l bilo: ll il si se...... l3 e. I ) Iss i llora l: i giova il lº come i l
so io: l italizi presso di di ver il berga l'? » I 3 i.Veduti e gli allegati i
seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri come il form la selm plice, passiamo ora
agli esempi del collip - come che, in quell'lls, e val(il chilo (li: i
rizi: (*) Notale queste forme: come avete mom e? com'è il vostro nome?
Vostro padre corn e ha nome? Sono st m.lli alle tedesche ed inglesi: Wie
heissen Sie? Wi e ist der Name? What is the name? ecc.Usane anche tu, e la sera
il francesismo: come vi chiamate? ecc. e simili. Si che l'ha anche il Boccaccio
questo chiamarsi in significato di aver nome, ma ne us a tm maniera ben diversa
e più leggiadra, che non fa il moderno. Esempio. « Domandò Giosefo un buon
uomo, il quale a capo del ponte si sedea, come qui vi si chiamasse. Al quale il
buon uom, rispose: M a sera qui si chiama il ponte all'oca ». I) al qual
esempio ognuno intende che quel si non è particella pronominale riferita a
quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man th ey the people - e qui si chia:n
a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice, qui tutti chiamano, o cosa stmlle.
Di esempi del modo aver nome in luogo di chiamarsi abbonda ogni libro classico:
“ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno ch'ebbe nome Teodosio, Il quale era
Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli Idoli... “ Cav., ed io non Glan
noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec. - Nel tempo d'un Imperatore pietoso e
santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un senatore della città di Roma, il
quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare, e molto congiunto al detto
Imperatore... Tolse questi mog te, una donna, la quale ave a nome Eufrasia,
donna religiosa, e molto temente l ddlo n. CaV. 33 a) L'avverbio
come che non ha quel senso di perciocche nel quale tanto frequentemente è in
bocca d'alcuno. Il suo natural significato e d'avvegnache, ancora che,
ben che (Bar toli). Notisi però che anche in questo senso trovasi il piu SOVC
Ilte, l) Ull al principio del periodo, ma entro a questo acconciamente
innestato. In testa al periodo prelerilai: quantunque, quantunque volte,
benche, avve gnaCChe ecc. « AVVisando che dell'acqua, come che ella gli
piacesse poco, trovereb º be in ogni parte » Fierenz. “......e sempre che
presso gli veniva quinlo poica (n mano, come e che poca forza l'avesse, la
lontanaval o 13o. "...... ed oltre a questo, come che io sia al
titº, io sono inoltro, colite « gli altri, e con le voi vedete, io: io, i s a I
r; i vec li a Lioce. º...... il quale, come che II lotto - ingegnassi di
pir, r, salito:ier, º al flat ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III.
Il tono liv st 1. alore di hi a piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei
le s III sse » l?occ. a Ella ll (lilediCa Il li l' ', conne che li l s, il lit:
i rito, se la ll I li « fallo llli crede. 1 e esser III, I » I 3 t.« L'ira in
fervelllissili lo Il rore accenti si r.:; e come che e questo -C Vento 1: egli
iol 1, 1, 1 a VV 11: 1, 1: là con ni:::::: danni s'è nelle donne Veillllº º
Bocc. º...... si è adoperato i 111a Iliera di ri..., come cime inolfi il
Liegano, a ((Il dann, a lido d'errore il dire.... » I3: l'I. «...... e
come che gran moja nel cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la
pose al famigliare e dissegli: te..... 13 cc. « I Inalla cosa è aver
rimp.issione d gli: Il Il ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a
colori e mass III, III e 11 e 'I l ' st, ' quali.... » 13 r. b) Anche per
comunque, in qualunque maniera, e ad i era lui si desimo come che, scrive Il I
al I l l', - lizia Illi. Il sospet lo d'errore.In questo caso pero e il come
non il come che) l'avverbio risolv: toile lei sului (le111enti: in qualunque
maniera, e ii che li e la rispettiva. giunzione o pronome realivo, congiuntivº:
nella quale ecc. o Nuovi tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg, Ill. l'I1,
come che io, « mli Inuova, E come che lo li li V l il.... » l)a ille. « Come
che questo sia stato o no.... o lorº. a Come che in processi di tempo
s'avvelisso. Docc. « Come che loro venisse fatto » l?occ. « Ora come che la
superbia si li renali, o per l'un modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma come
ch'ella li governi e volga l?rili lavora per me non tol la « mai »
Petrarca. c) Notevole anche il come che dei seguenti esempi, nei quali
sia il valore di un complice come i siccome, « E come che il povero corvo
fosse persona antica e di gran ripºrta « zione....., molti lo venivano a
visitare, e come si usa, pil con le parole « che con fatti, ognuno gli
profferiva e aiuto e favore ». l'iel'eliz. 3 - - - - - - m:
disposi a non voler più la dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè
sua lettera, nè sula 1 Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se
li lu fosse perseverato,..... veggendolo io consu « Illare, colli e si fa
la neve al sole, il limito dll r, proponilla mt, si sarebbe a piegato »
Boce. I3mila però che il come che di questi ed allrl siiiiili esempi
senza nu Intero, 11, li si vuol leggere i dlli filo e pr. llllll iare con
quell'accento che il comme che a valore il quantunque, benchè, che sarebbe
imbra il o troppo rincrescevole e noi ne aver sti a lei in senso, ma
profferirlo in guisa che il come risalti e recli egli solo l'impronta di
siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a far nulla col come, nè
sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione o nesso di puro
OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle appllll., fece, tra
l'altri, e assai si velli e il lºlere:lzuola. Particelle e compagini a
foggia ed uso classico; avverloi, cioè, col ngiu 11 azioni e voci il n go
- I nera n lo è o li in iu 11 i valore altro cl neº rela a tivo, 1 r) a tu ltto
i 1 n t rii msec », i1 in in nea 1 nerì te Clirò cosi, e il nero 1 i te al
costruutto, con i lcº il gran to del tcsst 1to l crio la ale, il va ago. lo il
coro lit collega - 1T nel nto gli slo: nrtite i lec. Ad alculle di
sili. Il l Irella l. I li gi i tiri lici li nomine di 1 - pieno, e ci sono ce
le colali particel.... ess, proprie della lingua toscana, le quali, oli e il 11
11 11 -si l i i s ll la III, il alla tela gl a - Intili: Ile, clie pi l'eblo
sl. 1' st 117 -s. l II l' - I lil a cle aggli Ingallo a - l'orazione forza,
grazil. ori a 111 mil... se li n. I ro. Il cerla maliva pr - prietà di
linguaggio... C. rl Icelli. CIl mio ed altri. Ma vorrei qui rilevare che
codesti autori fanno appunto oggetto di particolare osservazione le l ' Vlt i l
(..l'.I l.E che non inati, o ti ifici o altro cile di ornamento e di ripieno;
men.re le l ' V l l I (I, I l l. e 4 t ), il V º il N I, e le V () ('I IN (i I,
NIEI è VI,E, di cui e parola in questo e in altri capitoli del I)II E
I'l'ORl(), sono argomento di studio da quindi addietro al tutto igno rato e
assai più rilevante che non sia cosa puramen le ori:arm2miale, come quello che
adopera all'origitial candore e alia NEI VA I V del perio dare classic. NON SI
(tanto)... CiiE NON... Per squadernare che io faccia un libro, il derio
di penna volgare o colta, a gran pena ch'io vi Irovi pure il periodo a lornia e
sll'ulltila clie negli esempi che qui ſi allego. E dire ci clia è si bella,
strella, evidente e di un garbo tutto ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed
usarolila di Irequente scrittori non pur del [recento ma e ti i cinquecento ed
anche dei piu recenti, – di età cioè, non di sonno e di ullura, ch'ella è
antica e non invecchia mai. ltisport pressa poi al 11 sl 1 o: per
quanto... lulla via..., e talora a 11 ne ai cori e tali vo: qui un lo...
all.rellan lo.... Cili è però mestieri di ben altri, i lilo a 1 il ri: il lique
suscellibile sia dell'uno che dell'altro 1 ggi il coinvºlte i Sy Pochi
esempi, ma quanto basti ad aguzzarlene l'appetito: .... e le giustizial to
a sioni in calesine in diverse lor pan li debbono a re e al rei si nun
li, nè si l ruora alcuno muri e o cosi bello e leggiadro, che ustio li', pur
intenſe non luiuslidisca e generi sazietà. Varchi. E dunqu su penso che l'osse
un re libero di carila, che non è si poco site noti avarizi, e, a lui pia, che
li lle le cose ci colle, onde ella di mld l'a, più te, e l'uni, e in. ch ella
non la ceca se medesima. Cavalca. .... m. a e la loro si alla lo alla mia
che una paroluzza si che la non si può dire, che fiori si senta o.
liocc. ....pei e che mai uomo non mi vuol si sce, e lo parla e che egli
non roglia la sia pari udu e, e se ci cruene che... i 13ove..... Mi ss, i disse
la donna, il giovane con che alle il laccio non so, ma egli non e un casa uscio
si serrate, che come egli il tlocca non s a lui a... I c.percio, che egli non c
alcun si o bito, al quale io non ardisca di da ciò cl, bisogna, ne si lui o o
zolico che io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di ciò che io cori di litrº.il
in ii...... ancora che egli non loss mollo chiuti o il dì, ed egli s ci sº in
sso il cappuccio in util: li li occhi, non si seppe si, io ci o cali non posso
prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co che oltre a diecimila
dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo piale, non dil cosi, io
non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i sempre non mi i colºssi i sa,
i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi ricordassi dal ci, ci e, a qui,
in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80 t. ve mai enti e così ci rendo
cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si s., lo sa, ne tanto magnifica,
che ella non sia di molli, per molli mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il
re in guardi, che i cari sia le nulle si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase
a degli uomini quanto l'ºrº ristº: niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la
quale non stia oscura, e sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il. - -
E la chi potremo noi lidire' più il vero, che da voi, il quale si"
riputato sion tanto spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si
le massaie, tale che non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli,
a I, sperar mi ero cºſiº I)i quella ſera la gaietta pelle.; del I n po, la
dolce slogionº, Ma non si, che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un
lºrº º l)ante. - - - - - i vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º
orticº ". o alcun primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l'
iamme" « Non ci sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del
sºlire,.... che egli non vi debba altresì essere utilissimo il al re... C -
sari. (29).« e dilellami di pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù
e maggior ſortezza: e so bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci
avesse da pensare a Caval a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo
si gr. 1 nel, che I, lali, non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo
si accal.. per I l pºnilºnso o per altro modo, se llio non gli ha misericordi,
si e ci rius I., Cavalca. non è si aspra e malatgerole che alcun pur non la
les, le i Cav.« non è si magro carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo..
S º..... con piacere inci 'dibile del mio stillin, che son d se la trº Sloi (),
che per si la lo on i re non si l is 'n lor e il tr..... );...a Io ne ho
parecchi esempi ma per dir crro, non son cos: i ſissini: che non possan
ricevere latin lo accorcia in n 1 l in I pm la l... li « Qual luogo è si sui
grossi nto, che i c. coli non ti tra il ct 1 nel 1: insidie alla loro incut u
lui one's là?, S gl, 30« un lento morire di dodici anni, per una penosissimi a:
i riti iii: nè tanto leggiera, che quasi sempre non isl ess, in agonia. se
tanto il re alle forze della sua carità, che sempi e non in licasse i sei zio
di Dio e delle anime n. 13a l'I.« Non istelle o però sempre quiri in Tucuscima
fermi si ciºe l'uno e l'altro non iscor esser tal rolla a seminatre e mielere
il lle tll re isole di quel contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto aspro
dolore che il len per non lº distri li ed anco non lo annulli, perchè la
prudenza e la costati ai rom l dr G almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però
tanto di rii li sterile che qualch. n e si ri; i non producesse ». Dav. - «
Sicchè bisogna guarda i ri da animo delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non
è si difficile impresa che non riesca. Fiºr º.a V ero è nondimeno che in questa
pati (e di nasconi, si tl riti º gli renne fatto di conseguirlo si interamente
che ti º di quello, che fuor che agli occhi di Dio egli pensava essere occill
I, r; l uſ gli atll ri. nºn si palesasse ». Dart. – 38 – NOte
all clrticolo 7. ?S) To II: Ilive e per i 1:1 1: la..... Il Not so.... but
that.... Es.: I noi so but that I l l:lve g ancd at rva - sonº l'1: v. l. ll,
Willls ver not so Il 1 l v d... A cºl bu:i tinat i -li si stile t:
2!) ();: non si u, le motº..... ! ! (r -,, e al I li e !::i ll l: llll rºl, l
tall ll...... o si pºte:to... o tre.... vi il lla -. v. l i non
meno,,, cime VI, ina: qui li a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V
i l IV V:) 11 egua i rincari e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l.....,
l i i 30 (). li è in ſo..! i; iprimo incis, l' ri: Ni: in It:ogo è si s -::
cin e voi i pl: i non te !, trici 1 e ti. 13 n0n Ciii... (anzi, ma...)
l' vi l' non rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti
li e ſi ha - - il l e per le fornire e c i cl: ssi i: I l. E li ul:
ssaggio dei model i i non cli: « E vi la lo il tg ci li:. spicca il I l.
non v li e' viali ecc. il III il s lis.. l si gli e il solo cile
gialnili: li si riliv li i ll ': 1' ll -: il lassiche, | Non sº, l l: li
lilai i ". I sici in l:il guisa, ma luitino, se lingua a que”
gloriosi. l:s il de vi: il re ciò e,i lire: si oln in he uscir de
condo pari a me, pole a riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso
questo modo, non che dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici
vale a dunque quando non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi
altri sottili investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che
definì il non che: Particella e crersalir. e di negazione, e corressero
aggiungendo: alcune role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola.
Io non pretendo crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene
regola, al sia di lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli, di
altri li grande autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in
passato e talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale
sempre o quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse
ch'io inal, apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei
asseverarlo. Il ma od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di
lando. vi è inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come
si farebbe direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la
relazione di non solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille
miglia di assumere il torto significato di siccome anche e ancora (C('.Senza
inversione di frase può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come
fecero, Boccaccio. Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi
ravvisi il non che moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago
non pur della frase, ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c,
lo bistrattano, e pare che i cciano a chi più lo strazia.(38). Non che io
faccia questo.... ma se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io
piacere, mi sarebbe diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole
era più alto..... ra si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han
contristati gli occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena.
Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a
Quanti leggiadri giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o
Esculapio arrieno giudicati sanissimi..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che
alcuna donna, quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne
fù mai chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in
miglior senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ».
Bart. 40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi
tano si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per
isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di
rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la
perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. «... e non che il
desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ».
I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non
che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da'
grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di
Dante). « Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra
aggradirono, che non che l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò,
anzi a doverci essºre si lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci.. l
occ.() la che il San lo ri in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i
temi pi di ſtuciulli e il mal dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi
a pil del nº iro, poi l' noi in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che
la ni avvenisse il lor che anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a
nolo di Sai, i rol rol, della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n.
1 li s l alti i l. ll. I 3, l.Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N l
li li, l.. o si ritirasse in sè i cd 'simi per non lo si ut e r, i ma, ma anzi
con sembian Ie e modi d' ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri i
tiri in li, lui lo aggradira, fino a bere per man loro..... l?arl. - - « l'
rciorch è c'illi era di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le
con giustizia vendicasse, anzi in limite con valup eroli, illà a lui fattene
Nosl e ne rai. I 3 cc.«.... e questo set persi sì con la meml, la e, che quasi
mini no, non che il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che li
domasse che anzi maggio in ente gli inasprì: itl che.... ». I3:art.« Ma non che
cessasse con ciò la l. 1, in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente le
crebbe a 13ari.a Le mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi
occulle rinchiuse, le quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º,
IP:ulldolf.« Ma, non che il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra
o. l 31 t ('.a... se ce li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e
lorda rila dº coi lipi, poi, non che, gli ºli (il malco si juta la cris' il
mio, ma s', gli lossº cºn i si tro la sen-a fell, giudeo si ritornerebbe
l'oce.illiri o il rili, e scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo lui
il ſì dal tempio per nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava, (es.
41).e nessun alito di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che
gentile ma nè un erno si è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v (s.
Il salarmino cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno ch'elli
nacquero. Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire sopra i
lrulli e scull picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa sdºrnire
º, l)av. (ppena el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ». Bocr'. 13',
si r, tutti di tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non che a ritm-i
le bicicl, o. Segn (1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può dare ancor let
maltra, ſia pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici lo ſtraziº che
io debbº ". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico si' rolesse
l'asin nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc. (ſf).« Madonna,
se voi mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch' altro ».
BOCC. «.... e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate per beffa
nudar chi dorme non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ). Sogn. «.1
dunque, come ha rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua
salvazione, mentre passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò
mai ri ricorra alla mente un leggier fantasma? ». Segn. (46). «... non
sorrenendoli prima, per sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di
alcun più onorevole funerale ». Segn.«... al sentirsi rimbombare quellº ch m !
nella mente, Don Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si
pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47). NOte e
Aggiunte all'Articolo 13. (38) Non sarai poi di si corta vista che
non ti avvegga di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non
altro vedere e inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un
che accanto alla particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come,
disse il ge « loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna
disse: « Non che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi
stato « presente: Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal
che, intendilo nel senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è
chiarissima. Ma col senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto. (39)
Traduci: non solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente
costrutto egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e
rendendosi certo che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio
dover operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('.
cioè: non solamente non procedè a peggior operare, ma.... E chi dubitare a
dunque che in costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e
l'uno e l'altro, come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e
breve forma avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e
potrei allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il
non che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im
perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il
non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel
costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come
sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del
Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca
il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti
leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello
costan.emente adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la
costruzione, il vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli
altri, ma il saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia
ne troverai soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43)
Inversione: non che di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e
così negli esempi (le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non
ostante l'inver. sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non
ch'altro, la quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore
I3arbieri. L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una
sola predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma
perfino....(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che
a consultare il contes, e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non
solo, l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire
violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li
avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po'
diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on
\bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino
del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che
sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca
di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le pagine. SE
NON SE NON CHE SE NON FOSSE (che, giù) forli e li dire
costantemente risale dagli antichi e buoni scrittori, ed oggi invece s degli
sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non che ad alcuni oratori,
specialmente da chiesa, pare di rammentarsene profferendo assai volle un
solenne se non che, ma a grande sproposito, e insignificato di ma che non l'
ha. (48;.40) Sulla penna a classici le dette forme hanno ben altro valore
e vo gliono dire: se non fosse stato che, a meno che, lollo che, salvo se,
salvo che, altrimenti che. Il Bartoli ragionando di questa ed altre
sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso, brevità e leggiadria | IIIa
italiana, soggiunge: (((“ () - Inuti Ilie poi abbiano a servirvi, o sol per
cognizione o ancora, per uso ». Grazie dell'avvertimento, ma noi seguiremo più
che le parole il suo e Sempio. L' Asia del Bartoli è uno stupendo velluto
contesto e lavorato ad opera di ricami, Irapunti e compassi di così fa la
gioielli, º le sullò tali Nso e se non che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi
del calore, ella ne ſacerat mille pezzi. Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col
slot. e se non che la lati della Iu, io non la ('re' le roi,. I 'i rel/.()nde
non è lui in pºi lati e in sè a lijello il non di rerlo, nè di colpa (trerne l
l'oppo; se non fosse già che atll li desse o all' uno o all'altro la cagione,
la quale....?... Passav« Il miglior piacere, e 'l più sano è il ſitcºre
boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº brut clen I l o sl i rino, nel loro
luogo: se non fosse già che la persont a resse losso o asmat. o altro in ſei
mili, che lo facesse ambascia, o noja lo slar boccone. Passav.« E se non fosse
che egli temera del Zeppa egli arrebbe della alla moglie una gran rillatnici
così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se non fosse ch'io non coglio
mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se non fosse ch' egli era
giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo troppo a sostenere ».
Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor dentro non era, mi chiese
mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di tutti un poco riene del
caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ». Rocc. (49.« Cosa che
non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in segnare, se ciò non
fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si trattasso di....).« Era la
terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che rennero in Firori: o yo. G.
Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro Comune ri mandò così Sit bito.
la città di Rologna era perduta per la Chiesa. G. Vill.« Se non fosse il
rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». (; Vill. (5ſ).« E se non
fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le lorº ambasciatori,....
Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.«... e niuno seppe mai il fallo suo, se
non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete, dicendo la cagione e 'l
processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m. Passav.« Queste nuove
cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al cielo, e piangere
d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà nella costa di Comorin,
dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se non che Tuiri (tre a
presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac cogliera, sarebbe
incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola cristiani di m. I3art.
º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle nostre fortezze, con (tl di
cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non quanto cerli pomli vanno (i con
il nicare il passo della gola dell'uno, a quella dell'altro ». Bart. Era
donna di gran nascimento e ricchissima, se non quanto i Bonzi l'acerano a poco
a poco smunta fino a spolparla ». Bart. 51). « E non sarebbe rimaso riro
capo di loro, se non che gilardo l'armi e gridando mercè, rende ono i legni
rinti e sè schiari ». I3art. (.... e l'arrebbon linito, se non che un di
loro gridò che il serbassero (Il riscatto ». I3art. º - - - - - -. ri diò
in altra parte con la nla foga, che del tutto arenò: e se non che tagliarono
tosto da piè l'albero della rela maestra, agli spessi e gran colpi che dara,
coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e ondeg giante, si aprira »
lºart. « Egli (un cerlo 13onzo tanto più infuriara e ne faceva con lulli
alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare come un ribaldo fuori di palagio.
e disse: che se non che egli era in quell'abito di religioso, a poco si ter
rebbe di fargli spiccar la testa dal busto ». I3art. NOte
all'articolo 1 f. (48). Quante vol. e si vedono questi ora Iori riprender
fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi quando più grave e quando più di
messa, e lentamente, articolando un solenne: Se non che! lo non so di ninno
scrittore antico e se del più recenti almeno puro e corre.to, che adoperasse
mai il se non che in quella forma e senso che in certi dettati o a dir meglio
imbratti moderni.(49). Da questi esempi del Boccaccio si vede che gli era
tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed usava indifferentemente l'un
per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse meglio il costruito diretto e
senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta o s'inserisca un verbo
torlìa (Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse che 'l nostro Comune «
Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella elissi: se non fosse
stato che i Bonzi la impoverirono a segno che.... oppure: a meno che ella
s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i Bonzi i quali la
smunsero fino a.... NON Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come
che di buona, anzi ottima lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di
questa particella. « Però che, dicº egli, considerandola secondo la natura e la
forza che ha di negare e distruggere quello a che s'appicca, pare che
contradica, dove talvolta, se nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon
orecchio sa dirci quando vi stia bene e quando no ». Così avvisa il
Bartoli, e con lui ogni allro scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non
m'acquelai e volli non per tanto esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a
punta di ragione, intenderne cioè e discernerne il come, quando e perchè. E non
fu fatica inutile, parini anzi averla colta che nulla più. Tre costantissime
osservazioni mi vennero fatte che ogni caso comprendono del non che non
nega. Non oso erigerle a norma o regola di eleganza. Menzionerolle e me
ne passo. a). La congiunzione salvo, salvo se, salvo che, a meno che e
simili, e l'ammonizione altresì di guardia, cautela, accortezza, vigilanza
che cosa non si faccia, non si dica o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque
metta male, è costantemente susseguita, –- simile al se garder dei Francesi –
dalla particella non. b, che, commessura di comparazione risolvibile nel
suo equiva. lente: di quello che, è susseguito dal non sempre che nel primo
inciso non vi abbia non od altra voce negativa o comunque avversativa. In caso
contrario non ha mai non che vi aderisca. – Appunto come avviene del que dei
Francesi, nesso comparativo or seguito or nò dal ne senza il pas. – (55).
c). L'inciso dipondente dai verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed
anche dalle voci: per timore, paura, e simili – espresse o sol tintese – il
quale si governa comunemente a guida di che o che non, solº reggosi e sta
elegantemente senza il che pure a nodo o tramezzo della particella non, ma sì
che il soggetto tramezzi e l'una e l'altro. Seguono gli esempi divisati,
conformemente al ragionato, in tre dif ferenti gruppi. « La casa mia non
è troppo grande, e perciò esser non vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi
a modo di mulolo, senza far mollo o zillo alcuno ». BOCC. « salvo se i
Bonzi non levassero popolo e li ci allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa
vi ricordo, che cost, che io ei dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna
persona. Iº occ.º l'irºgli da parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo
cre - dilo o di non credere alle lavole di Giannotto, l3 cc. º l
Ittºsto la rete, che coi diciate bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non
ri renisse nominato un po' il n till I...... 13,. « e sta bene accorto
che egli non li l'ºnºs le luci ni tdosso o locc. º e lì la loro lo luna
in quello che la olerano più la col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano,.
13,ce.“ Ma lullo al rinculi addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º
tºndo più animo che a sci co non si appartenera, Bocc. º... Se non ci chi è di
rim alo e pli lori che non s no io o l?art. (.... che io ho l'oro lo donna da
molto piu che tu non se', che meglio mi ha conosciuto che tu non laces, 13(Compagni,
non ci lui bale, l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi
polºssi più esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più
cara cosa, che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che
per più spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.«
Assai volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più
cari che io non sono. l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che
queste non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una
persona non cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io, (aro.« Ma troppo
altro gli incolse che non avere di risalo. Ces. « Perchè dunque sì rall risluti
ri, che gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però
inquiela, li deriderli, disturbarli? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la
grave: sa del mio pericolo mag giore ancor che non di le...... Segm.« Forse a
rete voi li rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che
non portare nel suo slam pali irolamo. Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre
alimento il set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo
ch'ella non è o. Boce. « Dubitando non ella confessasse cosa, per la
quale.... ». lRocc. «.... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via
». Boce. « I)i che egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi
vuol fa, e la cosa ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ».
Davanz. "Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ».
Bocc. “.... i quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce.
“ Di che Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto
amore preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. «... sospettando
non Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a
bada il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di
Filippo si compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza
le intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le
donne per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ».
I3occ.(0r questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse
egli losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi
sono teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli
qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma
gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli noiasse
(tenendo non forse....) ». Cesari. «... presso in che di letizia non morì ».
Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. - NOte
all'articolo 18, (55). A prova di quanto atºserisco non basta si
alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche
mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel
primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un
saggio: «..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più
(più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non
ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf«.... nè avete voi più
desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2.
articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di: di
quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a
quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte,
cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non
sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che
all'orecchio ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che
non ci avesse luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si «
sia, non molto più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?»
(In cambio di: molto più alle vaghe donne che non agli
uomini...) Alcune altre voci il cui valore ed uso vario secol
ndo lo scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a
talora al l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che
alla frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore. Nel precedente
capitolo allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di
una forma e ragione tulla interna, coesiva dirò così e inerente alla
struttura e nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il
grato di tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed
adoperino sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale
che a lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e
n'anderebbe di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua
antica.Dada neh ! che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è
mia intenzione che tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i
quali si danno l'aria di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a
dir il vero, che odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche
ai meno avversi. Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro
dettati di maniere solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è
scrillo sì elegante che non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai
bellezza quella che si distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la
teoria siati adunque criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè
di lungo studio e severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri
classici. ARTICOLO 4 MISSfil Delle novità che ci venite a
raccontare! Chi non sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce
assai è altrettale che molto? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque
fosse quel benigno che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose
molissime, non è il valore 4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune
voci e particelle, anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare.
Mai, sol rarissime volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne
scontrato l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli
esempi, fra mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s.
very di aggettivo e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il
moderno, ma giammai, o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli
medesimo in ogni genere e numero come che invarialbile.E quant'altri e più
minuti scandagli restano tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale
le avite bellezze dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance!
Sollecitiamo a che la via lunga ne sospinge ». (71). E disse parole assai
a Paganino le quali non montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che
nella strada pubblica o di dì o di molle lini a mo. l 3occº.senza le rostre
parole, mi hanno gli effetti assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13
cc....Spero di tre e assai di buon lempo con le co. lioco. Entrati in
ragionamento della valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3
' ('.... applicò subito l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle
cose da farlo ra eredere della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte
assai. I 3arl. «... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello
riguardo) º. Cesari.« Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un
manicº retto troppo buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla
Religione essendo anche tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari
che egli ride assai da discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra
faccia ». Fiorenz.In compagnia di assai numero di soldati per andare di danni
il l live) lo. (iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che
forse assai sºn di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da
prigionieri con lan la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci
udele Ch'a rendo un damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele? ».
Lorenzo de' Medici (73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno
ºrgognº di noi, i ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura
disonesti uomini assai, i quali.... essendo buoni uomini repulati dagli
ignoranti, (tl lim0mº di sì gran legno son posti ». Bocº. t. A rispondere,
assai ragioni vengono prontissime ». Bocc. «..... nel quale erano perle mai
simili non vedute, con altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali
essendo stoltissimi, maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.«...
dove molti dei nostri irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. «... che
assai faccenda ce ne troveremº tuttavia ). Ces. NOte all'articolo
4 (71) Della frase: essere assai a checchessia (per basilare a,...) che
l'ha delle volte assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori,
parlerassi ad altro luogo. (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui
avverbio Ina sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc.
La forma obbligua assai di, del.... suona talora Ineglio che la diretta.
Osservala negli esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto
di...). (73). Uomo d'assai significa valoroso. NUIIIII, NIENTE
NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc. Negli esempi che senza più qui allego –
alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle
proposte voci – vuolsi singolarmente notare: a) come le particelle
negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai
confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano
governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e
sostantivo; b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non
nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e
il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io
non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non
sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il
Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la
negazione « o particella senza, hanno senso affermativo... Sì che alcuni esempi
ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia non
negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia. Leggili questi
esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e
sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta
convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei
libri mastri di nostra lingua. .... invincibili dicendo i romani cui nulla
ſorza vincea ». Dav. .... si stava così a spellando senza piegare a nulla
parte ». a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca impedimento
all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ». Bart. «... in
tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo Cav. « Se
nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav. senza molti segni
che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa, l'iel'eliz. ....
di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se a cosa nessuna si
potesse appigliare ». Cav. 1 llora disse la 13adessa: se tu hai a
disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa tua
fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º....... (.av. Quando la mia
opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna...... o.
Martelli. Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in
questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa
che ne manchi nessuna e. Varchi. non intendo però di quella lunghezza
asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone,
al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna
lerare si po le ru m. Varchi. Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia
le compassione alla mia miseria n. Fiorellº. tssaggiare qua e là un
nonnulla di... ». Bocc. a... alla quale (allezioncella) mi sento
attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai
domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha
niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il
cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua
trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a
cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli
essere ch' io a ressi nulla? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il
domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.(Come noi facciam nulla nulla, e non
hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ». Fier.º...
º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo acconsentendogli
acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere coron (tl (1,
peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in en le se ne fa
brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con sente ». Cav.« Non
perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare l'autorità e la ſede
o. I3ari.«... e per sangue e per rilli d'animo superiore ad ogni interesse, che
punto nulla sentisse del basso, non che, come questo dell'empio, Bart. «
Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa scusa legittima,
scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla prorerebbe anche che
non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta diligenza, che non... ».
Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel predicare, se nulla raglio
». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram sempre pronti, chi nulla nulla
gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se nulla può sull'animo rostro la
voce della ragione, sia le religioso, perchè religione e ragione è tutt'uno ».
Tomm.« per la qual cosa furono tutte le castella dei baroni tolte ad Ales
sandro, nè alcun' altra rendita era che di niente gli rispondesse » Rocc. (83).
« Ed arrisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli
disse.... ». Docc.« Trorossi in Milano niuno che contradicesse alla potestade?
». No Vellino antico.«.... e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena
a doverla dare... ». Bocc.«... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del
fatto tito, o... ». Fier.«.... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse
Cristo, il fa ceva pigliare e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe
necessario che tu li guardassi da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti
domandasse di qualche cosa, che lui per niente non rispondessi a persona, ma...
». Bocc. (84). NOte all'articolo 9 S?, voleva ci lir qualche
cosa, alcun che di..... e così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di
Iu -! IIIedesimio gruppo S3). Il niente d quest, i del s..: 1: es n
i I Il tv l':la a in l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V,
niente, ed i ll Il..:ll (Ill. ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile
all'avverbi, punto del N. edente. Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle,
in n in mo,do ive Iles Wegs, iIn gering S[.(ºll ((''.E spaurita e sbig || 1o
per le pelle e per gli gravi tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri
nell'altra v.a, la rendogli i parenti e gli amici carezze e le sta, non
si ra! grava niente ». Pass. «....il quale l'est e. Irle lº rili la si vide i
pescatori adosso, salito e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando
l'esser in ort, tu preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a
riposare in sul « letto, niente, vevano voglia d'esser consola | I, quando
vedevano, () a pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo
figliuolo a a patire tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua».
Cav Si avverſa, si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di
non) quando si usa senza il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e
quando si unisce col non si pospone al verbo. (84). No.a anche qui la
maniera per niente in quel senso che nella nota precedente. ARTICOLO
21 IIITRI (che) – filiIR0 (che) – AllTRIMENTI (che) Quan! inque il
significato e l'impiego di queste tre voci a base di una medesima radice e a
governo di un comune valore, poichè in ognuna vi senti con prevalenza
l'allributo allro cioè altra persona, allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo
singolare e peregrina che anche una penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia
la maniera di usarne appo i classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il
vago e vario foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo
ſarò cosa non meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne
di ciascuna e di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non
altro, che è fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo,
altra persona, un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici
tanto in caso retto che obliquo. « Molto dee indurre a dolore o al
dispiacere del peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel
sangue di G. C'. e altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati
». Passav.« Per non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare
». I30cc'.« Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le
liberala, e' che ad altri non resta rai (t (lire.... ». I30cc. « Il che la
donna non da lui, ma da altri sentì ). I30(''. «... in tanto che a senno di
minima persona rolea fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.«.
(ndiamo con esso lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui
ragionare ». Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. «
Irrere pertugio dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n
che con rien che ancor ch'altri si chiuda, Dante.« La confessione per la quale
altri si rappresenta a quegli che... ». Passa V.a... non solamente i peccati
veniali, ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ).
Passa V.« Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1.
si è innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si
restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri. Vill.« Non
hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a... che
per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al chiaro ».
Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici lºnſo più
va ritenuto in condannare ». Bari.... nè teme punto ciò che altri di lei dirà.
Segn.... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose sogge e della
bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia alcun polso,
º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che noi n. 13 del.
Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che altri clº noi ci
sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono entrambi fuor
che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna al dire:
altruomo, qualunque alla prºsolia che..... ed altro che ad altra cosa
qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra
maniera... che, ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al
valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la
Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia: Io non so potersi
dire di... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non
conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed
accellarono. Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi
non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene
al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a
capo in parecchie centinaia di migliaia. Al lllllo simile a questi luoghi
del Bartoli è l'altro del Bocc.: « non º avendo avuto in quello convif [o) cosa
altro che laudevole o: e altrove: (AV ea grandissima vergogna, quando uno dei
suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel del
Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che
mantener libertà o « morire? ». ſar al Ira cosa). Bammento l'intercalare
non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi
ancora menzionare il modo: senz'altro..., che opplre, e talvolta anche rileglio:
senza... altro che: « senza amici altro che di mondo o invece di senza all i
amici che...: « senza famiglia allro che bastarda o, o senza affelli altro che
brutali o ecc.. IBart). Ed oltre a questo anche il seguente, gli alissimo:
niuno, nessuno, reruno... altro che....: « aspirando a niun fine all ro che
nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e rello o
a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». «... I rallenendosi con niuna
femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui l'allro a
forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc. sarebbe ad
uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae queste forme
anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza autorità altro
che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di legge e di «
decreto ». Tom. c). Analoga a questº forma avverbiale altro che è
l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi dimoriamo qui,
al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone di quanti corpi
morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè che si
ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a rivederlo
». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo, oppure sì
reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da ultimo di
questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che qui
sopra: come cioè la voce altrimenti in molte guisa ad altre
collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo
leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai
inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col
Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in
nessun altro modo. a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne
sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.«... e pauroso della mercatanzia non
s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.« recita
fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I Siluri,
oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di Spagna,
e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non potendo per
ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari..... il nostro
bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore che noi
portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi,..... ». I3arbieri.«
E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle speranze
immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono altrimenti, da
una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi sogni, che....
». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la ſede.... ».
Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per poco che sia, al
niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia troppo ». Ball «...
non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ». Giamb. «... non arendo
altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo (iiamb.« Le sue cose e sè
parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse rimise nelle sue mani ».
Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp uomiios ilf ouuxupuoqqu
o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu Auuuulo ot ouo. I touo A
olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp ipotu itino le outleti
oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º trou olto.o un o o Iuliud lop
el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol Ru.i uoo Illu) I tollo
olios cui lu u uutti i litio o.ilto. llo i - lo tºllo Alun ottu.tellulos 'ortll
lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I. “ Isopullios o
Iosso otiosso i “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip:lloti - lllllº º oil.
Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio A o.it: i sºli. Il 1 li
tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u Iso:) Il ) A LI - Ipotti i
lotti e io lº otlos IA ". eodo]uttlollo outsioloou otus olos: li
titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o totu lo vos luo. I lºtti I
I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o eluuun oli l'illS º il
ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod os os, ou o alle p
letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un 1: Is ll It,
looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto puºiolli:
Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il od oil.Il
leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p.olio III lo o.olio o.I l: \ Il “Il
d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull l' "lº
ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo.In lon.o utin o
55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds ezilos
essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori olio
lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes oil.it
il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N. Ierio. In oiloti in
love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld Ilesse
litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | |. ll tº o
lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II) ml. ll
los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi Iloil
oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A
otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito.
el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o
Iellios II, lo (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I
-Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA
-I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po auloIllla
Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia,
iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e
m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei
più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani,
e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità
del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or
quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del
Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera
di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e
le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di
una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che
di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla
suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel
manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte
cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci
rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di
frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è
affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il
linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si
vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e
malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai
Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle
proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor
connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia
mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non
importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro
l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò
di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla
i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via
ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal
sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo,
tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a
conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi
il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a
singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo
studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena
balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da
ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare
il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia,
legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere,
trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più
elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a
dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo
idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi spontaneo
scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile. Io ho
memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai salto
tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po chissimo
tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per convnizione di
fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si contenta di
vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo sollecito di
recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico, non gli verrà
mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi ch ei faccia,
di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio sarà sempre
suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è mestiere di una
radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non rile analisi o
scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando sapremo
parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero del
favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi imprimerci
che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo il giusto
sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed anche usare
convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi, ci
bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli
esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore,
schierati in due di sliIl le classi e solo: I. Voci e il dtsi che comporlot no,
e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.
("LASSE I. Voci e frasi che comportano reticenza l: previlegio
di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono,
di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e
lorse più che non si otterrebbe esprimendole. Molte di colali reticenze
sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste
non accade occupal selle. Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente
non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono
sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori. Te ne offro,
caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi
esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e
cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno
di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in
qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto
della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà
niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del
mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il
costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno,
mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in
numero tanti ! ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa
ecc.) L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste
particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e
come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101). «... e così
dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli
ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle). « Di ciò che... so io
grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che
bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc. « Diceva un chirie e un
sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC. (ad ora'
Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse
in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli
ci abbian luogo? ». Bocc. «... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te,
di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor
gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ».
Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della
mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della
chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa
che).«.... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con
lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc.
(talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui
che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e
maniera). “... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien
mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle
contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse
conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì
perfettamente.“... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ». Bocc.
“ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar che
pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e la
scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto
che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere...
Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare
». Fier. 104.() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio,
che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita,
che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105)....
roi l'a re le colta che niente meglio... Ces. talmente, sì bene che...), \ on
gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora,
che... m. Fiel'eliz. (t... ... e conchiuso di appiallargli un bel
figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente
bello e caro, che non vedeva.... « Guarda come ciascun membro se la
rassomiglia, che egli non ne perde nulla. Fier. (in modo, il glisa, sì
perfettamente. « Per ciò bestemmia, che non par suo fallo. Malin. Se ne
scantona, che non par suo allo. Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o.
I 3el ll. lilli. « Se non fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non
m'arrem mo bisogno, ed in rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un
modo di vivere tale che..).« E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio,
che non si po - Irebbe dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita
passata, che con - - grande empito si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che
piacesse a Dio o. º CaV. «... che se io fossi serrata e rinchiusa tullo
di domane in prigione e tenuta ch' io non potessi andare a cercare di lui,
penso mi che immansi che fosse sera, io sarei trova la morla ». Cav. - «...
e andò la infermità montando che i medici il disfidaro (l'ebbero. per
disperato). Cavalca.- a Giunse alla porta e con una verghella. L'aperse che non
ebbe alcun - rilegno ». Dante (106), in modo, sì presto, sì facilmente. « Si
reslieno una cotta che non si potra reslire senza aiulo d'allri ». - Vill.
(Iale foggiata che...). NOte all'articolo 1, i101) Analizza un
po' la frase nostra lombarda: egli è afflitto come mai, e mille altre di
somiglianti, nelle quali vi senti oltre l'elissi di tale talmente, anche quella
de verbo essere che regge la frase: la quale omis sione è, tra l'altre cose,
oggetto di ossrvazione nel seguente articolo. (102) Guarda come ai valenti in
itatori del Trecento uscissero della penna spontanee le frasi e maniere dei
loro Inaestri.(103) Qui si è forse la voce quale che con leggiadria sta sola e
cessa la corrispondenza di tale. Simile all'allegato è quel del Petrarca: «
Piaceni a almen che i Iniei sospir sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ».
(caliz. 29). (104) cioè quel tal modo acconcio e sicuro; non un, nè il, la cui
onis sione dice assai piu che l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa
adoperata spessissimo dai buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a
In 1o avviso, anche il secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II
mezzo del cali Iilin di nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che
la diritta via era sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a
quel che, senso, chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed
altri). Con questo modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che
pervenuto all'età delle tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale
oscura che non ne vede più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso
al tutto opposto; quello che è causa diventa effetto. ARTICOLO
2. flilSSI DI UN VERB0, quando in maniera subordinata e quando a
SS0luta u). I no stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro
comunque copulati, l'una o l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di
ambiguità o bisogno di precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ».
Fior. – che avvenne alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso
secondario, dipendente subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e
tal'altra il secondo. Assai vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur
del verbo, ma e di sua appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il
cui membro principale suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel
modo e grado, quel... che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè
nel quale si ha o si deve avere un padre. Si osservi di più che ornettesi
talora tal verbo, che anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un
uomo del saper che il Padre Nugnez ». Bart. – cioè a dire che sia del sapere
onde è il Padre Nugnez, opp.: fornito di quel... ond' è fornito). b).
Anche il verbo soggetto ad un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al
quale risponda un modo – qualità o grado di azione – che sia più che il verbo
da avvertire e rilevare, si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase
e sapor di stile. Il vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il
farebbe volentieri la qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro
verbo (es.: disse, rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così,
il più e « lºd egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe
o non fu mai la mag giore). Gli esempi che li reco, disposti in
quell'ordine che dianzi, non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma
anche farlene sentire il grato e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di
questa e mille altre somi glianti venustà. ... perchè egli chiama rimedii,
quei che gli atlli i Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri chiamano
a rate ciri, ha questa tarola della penitenzia da quello mºdº da cui la
navicella dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ». Passa
V. « E poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e calun
nie ». 13art. e poichè non potevano gilla' sassi. ... se la faceva la
maggior parte dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più
sontuosamente, con un pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se
la faceva tºll llli lº d'erbe...) º 107): a punzecchiò un poco la donna e
disse: ºdi l' quel ch' io? ». Bocc. (quel che odo io). Io non so,
disse... se a coi sia intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di
questa notte m'è andato in un sºgnº" continuo di...». Ces. e però re
intervenuto quello che (tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?. «
I)eh, non..., che redi che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è
persona ». lSocc. - - «... sforzandosi tutto di di non parere quei dessi
che dianzi, tanti oltraggi gli dissero e così luidi: l)av. ierata del
parto e daranti di linº renula, quella reverenza gli fece che a Padre ».
Bocc. «... i quali tenevano il Saverio in quell'amore che Padre, e in
quella reverenza che santo ». Bart. si tiene un santo). º
indicasso di ufficio e nei lºdºsini ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed
essendo ºi medesimi ferri nei quali era stato il re ). (nel quale si
tiene un Padre..., nella quale “... fare a modo che la madre al lº ºillo
quando lo ſa bramare la pOppſl n. Fioretti. « Ma di sè non curò punto più
che se non bramasse di rivere, e non le messe di morire ». Bar. di
vivere). «... stimerebbono le anime del l'ill galorio rose quel che noi
Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli. Segni. ºi Iliello che
avrebbe curato se non braInasse “... trendosi a credere che Tºllo a lor
si convenga e non disdica Che alle altre. I3occ.... che si conviene e l 1 l I
disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno in India l'iti li e
gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono i lottolº roli
costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone l'oro, così l'arrersi
di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi sanamente, Pietro, che io Non
l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che l'altre; sì che l'ºrch º io
non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da di menº male, I3 cc'.“ -
ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella medesima fortuna che lui,
nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il pericol, della sua vita ».
Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi, maestri e promotori del l'
idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi... I 3ar[.." l'Ili all'incontro
era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio che ºsi, parendogli la r da
mercenaio, non da buon poi sloi e', se at bbandonass la greggia... o. I3art. Se
io piango ho di che o. I; rec. di che | Iilliger. “ La ſan le piangeva forte
come colei che arera di che, Boce. “ Le quali ſcortesie, molti si sforzano di
fare, che benchè abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le l'anno assai
più comperar che non ragliano che ſale l'abbiano. I loce. (di che doversi
sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò fatto e quel che no, Ifoc,« Voi
l'avete colta che niente meglio ». (les in maniera che meglio non si poteva
cogliere).“ Di certo non lu mai uomo innamorato così l'alcuna persona che ne
facesse o sentisse quello che Luigi per amore di Dio « Dice il Sere che
gran mercè, e che... ». Il che vi tiene obbligo di gran mercè). « E
rispose a sè medesimo che mai no o l'assav. “... e se di niente ri
domandasse, non dite altro che quello che vi ho detto. Messer Lambertuccio
disse che volentieri e tirato fuori il coltello... come la donna gl' impose
così fece p. Bocc. - « Tornali a Sacai, si ad una ono loro intorno tutti
i cristiani a udire voda Lorenzo che norelle recasse: ed egli a tutti,
che felicissime: e contò...». I3: il 1.Prese una tal gentilezza e proprietà che
mai la maggiore ». Ces.... ri con cerrebbe a lui lornare e sarebbe più geloso
che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno 1S33 lu incorona la 1 nn 13olena con la
maggior pompa che lei ma mai o. I )av.Fracassata l'armalat. g) e mite le lilora
di cadaveri, con più virtù e lierezza che mai quasi ci esciutti di numero....
Dav. 108).... godendo che l'ossei o così vilipesi e br amando che peggio ».
Fier. li e li avveri sso di peggio.Vli repliche il lorse... V e di mente che
si, ma.... Caro. ! Il rint ºn li, come lo dimosissimo del noti li io, sarebbe
quinci pus sotto dentro le l a a predica e ad l abi e a Persiani, con quella
riuscita che pochi mesi aranti un lei ren le religioso dell'ordine di S.
Francesco, e certi all il seco, li aliili con stelle e mo) li la saraceni.
Bart. N Ote all' alrticolo 2. 10), I, I.issi, a lui lo
rigore, sarebbe anz doppia: e quando la faceva pI i sontuosame te, se la faceva
con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte si adducessero le reticenze vaghe
parimenti e vigorose di questo potentissimo scrittore Guarda, per dirne pur
qualche cosa, con quanta grazia. I 13artoli adoperasse un altra eissi simile a
questa che abbiam tra Irlano e, non qualche volta soltanto, Irla soven, che due
e tre la riscontri talora nella Imedesima pagina, cd e quei 1 di una
proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di ll li V el'ho (olillllle e
generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato essere fare, mettere,
ecc.), che !., una sola volta ed a cui guida reggonsi le altre voci di riol:
liti il che, come, dove e della diversa azione attri butiva: debboni prenderla
alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli rrendi e le andi or vizi, e
metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini in abboninazione del
popolo ». « Ciò farebbono levando popolo in Funai come si era fatto in
Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in preda, la nave a fuoco, e
quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o invece dei gerundi predando,
incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come padre comune, a tutti dava
albergo, (a tutti largamente di che sustentarsi ».10s Simile il modo nostro
lombardo: contento, allegro, tristo, afflit, come mai, che fu già menzionato
alla nota 101. Anche la lingua te desca ci somministra esempi non guari
dissimili, ARTICOLO 12. I VERBI: VOIERE, DOVERE, p0IERE
(mögen, können. diirien) comportano reticenza ove all'ombra di altra
idea, verbo o qual altro sia si termine, sì leggiadrati len le riparano che più
grata ed eſlicace torna la loro parte assenti, che non ſarebbero
presenti. Come e in quanlc guisa e li chiaris ono gli esempi. Non
leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di prenderne dilello. Egli è
in questa maniera che il pensare e, per conseguente, anche il dire prende a
mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi di eleganza che nei
dettati dei migliori scrittori. « E vede ra la bruttura dei peccati suoi,
e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in molti modi, vedendo ch ella
non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che cosa dovesse o polesse
rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi mangiarla ». Cav. chi potesse
O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è chi mangiarla ». I30cc. «...
ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ». Dav. « I)i tanta santili che
li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o. Fiorelli. (non avevano
persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per sospignerlo quindi
giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse al sasso lo
stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse filggire.«
Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma: ed ella
disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia rila
acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo dove
andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta ro
». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri naldo
nostro compare ci renne in quella... I 3 t.« I)i Giusea, do ho io già meco
preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi. I 3
('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad
intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo,
e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n.
Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa
in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque
e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln
lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con
cui: che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro
con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e
d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non
ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche... chi
saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così '.
Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che
lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci
losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo
mai alcun altro (19.trasporta casi dove il vento.... Bari dove voleva il
vento). (110). (atlandrini... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser
malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò: Che fo? l)isse lº uno: A me
pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello. I clie dello io il re?... A
me pare l'ori i ba riare a...V (Ilen l uomo, io ho la più persone in leso, che
lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per ciò io
saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace, o la
giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per la sua
presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | |.Ella rimase
lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e rimase a
pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l '. (il V: il n.\ 'il'
atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno or l'altro,
non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere. l?irollosi
tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò di lot rºlli
una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che noi andassimo
a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo andare.Ma se
alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat, ad 1 ml mio innanzi
che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così avesse sovvenuto
all' all I o ”. Cav. avesse potuto..... E fallo questo, gli disse: quello che a
me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi di molti pesci e
ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino al buco della
serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse
». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale io mi dica
ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer,. I3, c. non saprei qual dei due
io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i piacere.a Ond' io
a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me satisfaccia: 'h'io non
potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini debba, o mi abbia a
sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto limido dire nulo....
cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n. Docc. « E
perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati di maraviglia?
». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere). NOte all'articolo
12. (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla penna i
classici e con lume alla lingua tedesca e inglese. (110) Negli esempi fin
qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che, dove, onde,
ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui - riferisce con
il lique l'azione del III do elit Iro. i 111) Gustalo, anche negli esempi
che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa l'all l'o, veri o ill
de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al: mögen, dirfen delle solite forme
tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno a quei facessimo
del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi facessimo » (oè che
noi potessimo Irlai fare V. - sione del testo di S. Iº:nolo: « non ex operibus
ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion degli stampa [ori, che e il
rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del traduttore e chi l'una e chi
l'altra (º belleria. Il Bartoli all'incontro, che se l'era il trecento tornato,
per così dire, in natura, sente in quel facessimo non il fecimus e II è anche
il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano quel che nel la Inal sone.
rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a dire: quantunque ne
facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1 nelllsi i le cºllº, i
militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia mai deti',
espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno dei verbi
potere, volere, dovere. Il'INDEfINITO DI UN VERB0 obbligato ad uno
dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala scia alcune volte, con un
sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del ragionato all'articolo
precedente: là questi verbi, non espressi, erano sottintesi in un altro
verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi che ne sottintendono un altro.
Quando e come agli esempi. “ Ti orºlli (o di notti in ono onor quanti
seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e Irovare Sºnº lºro non
può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce. (non può soffrire. l:
I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no, ma più a ranli, per la
solenne guardia del geloso, non si poteva. I; ci ma di più non si po teva
fare).º... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in prologhi. Quando volete
cose Che io possa, but N lui il m con lo... (il l'. lo era un asinaccio
che non poteva la rila, Fiorenz. non poteva reggere).l'ºr la qual cosa ci ri
unº, che ci e scendo in lei a mor con linuamente, ed una malinconici sopralli
di aggiungendosi, la bella giovane, più non potendo, in fermò ed eridem le
mente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumara o. I3 cc. pil non
potendo reggere.Voi mi ſono aste e mi accarezza sle allo, a assai più che non
dove vate una persona non conosciula e di sì poco a fare come son io o, Caro.
che non doveva e onorare una persona, o fare con una....... Spatccia la mente
si lerò e come il meglio seppe, si resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio
in la parte che non potea meglio per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in
pole a fare, accadere meglio.....lºra bassello di persona, e pieno e grasso
quanto potea (quanto pol ea mai esserlo, divenirlo.E già tra per lo gridare, e
per lo piangere e per la paura, e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a
ranli non potea. ». Bocc. non po leva andare, reggere, sostenero).('on gen le
sì laccagna, crudele e superba puoss' egli altro che man temere libertà o
morire º v. l); V al 17.E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco
che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altrimenti che non sia
troppo ». Bari (non può essere, non può fare).« Ma lulli erano a campar la
vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se potessero mai farlo con).« Ora con
quante più dimostrazioni di riverenza sapevano, di nuovo l'imarbora ramo.
I3art, la croce sapevano fare, esprimere, tributare). « Adorni il meglio che
sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon sì munta Vell'andar su, ch'io non
potea più oltre a Dante, Maniera comune ad altre lingue).« l 'ea finalmente
preso sì allo grado di perfezione che non si potea più là ». Ces.« La natura
della cosa porta così e non se ne può altro ». Ces. (dire. fare altro). «...
se ne rennero in un pratello nel quale non vi poteva d' alcuna parte il sole ».
Bocc. (non poteva avere azione... -- Nolalo anche negli esempi che seguono
questo particolare uso del verbo potere, che è bello, forte e tutto
italiano). « La bottega dello speziale debbº essere posta in luogo, dove
non possano l'ºn li e solo o. I): I V. (... pendici boscose, per i venti
di tramontana che molto vi possono smaltate di così duro ghiaccio... ». I;art.
Segn. «... in paese di terren magro e sil restro, e in lornia la i là
d'allis simi monti, onde il lreddo vi può eccessivamente: e pur r è caro di Ie
gne ». Bart. () [LASSE II. Voci e frasi cui si attiene il
pretermesso Meritano all'enzione in modo particolare e studio quei
costrulli che l'erario ad l Il senso che grammaticalmente non hanno, od è
altro, e ! all le avanza il malural valore delle parti onde si compongono. La
qual costi procede, io m'avviso, da un colal modo di significare, dirò così la
lente e lºroprio soltanto di questa o quella voce, alla quale, in tale lal all
ra forma ad perala e convenientemente collocata, viene una forza e indi alla
mente un' idea che il senso e l'intelletto subitamente appren dono, ma il
maniera assai più vaga ed evidente che non farebbe un se gno di valore
letterale ed esplicito. Le elissi della classe precedente erano quelle di
certe voci mani festamente pretermesse ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora
vuolsi al l' incontro allegare e proporre allo studio del giovane filologo
molti esempi di quelle voci le quali, non che si tralascino, ma stanno per più
altre dicono più assai che non faccia il material suono. (). () A me
sembra, dirò col Gherardini, che, indirizzando la mente a ritrovar questi
ascosi concetti, si abbia a ritrarre dalla lettura un diletto ignoto a chi non
penetra più là dai lievi egni delle idee che l'autore intende
risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più che non l'isogni, la
materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare il lettore ad
altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini dell'Articolo e dire
di altri usi più notevoli. ARTICoLo 1. lascio le discussioni
intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere, secoli l g'
sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il posto il
luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di semplice
pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli altri, il Ghe
rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia dessa all' in con
l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee, torna a l lIn Se
gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il re parole, la con
i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore e il vago di II li
ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re, prima di lillo, esempi
di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice preposizione, e di un gol I loro,
di rina belli, virli cd elicacia, che non si potrebbe a pezza con la lunque al
ra v. e. ()sserver: li: il come l'essere una al parlicella ora articolata
e ora no, iol è, con le dicono, allar di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto,
ma adopera sull'essenziale valore e quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion
d'esempio: con lo scudo di pello: stendersi di un vento a poppa: pianura di
mare: quardare al concupiscenza, ecc. ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero
non chi altro ad incorporare comunque l' articolo con un a co tale; laddove altre
coll'articolo, p. es.: male allo al camminare: virer.' all' altrui mercede ecc.
ecc., perderebbero lor sapore e forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente
colesl a risveglia nell'animo un senso che torna pressº a poco ai modi: allo
scopo, a fine di, ad elfello di, al hoe ul: in confronto, per rispello a..., al
rispello di..: in forma di.., in modo di... a guisa di.., conforme, i clatira
nºn le t... quanto d..: a lorsa di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di
lì a., a distanza, ad inter rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e
come talvolta li par che codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si
continui alle ideº sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi.......:
guardando, ponendo mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto
ecc.Dopo gli esempi di un a che mi avviso altra cosa che una semplice
preposizione e voce cui si attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a
complemento di quello che parmi doversi dire intorno all'uso antico e
commendevole della particella a, altri esempi di un a che, se pur è segno di
semplice preposizione, non però a quel modo comune e volgare d'oggidì. Si
leggano e rileggano colesti esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad
alta voce, così cioè da gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il
peregrino che lor viene dalla particella a, e gioverà a render sene al tutto
padroni, e ridirli e riſarne, occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano
cosa naturale e tua, non opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più
assai che non ſarebbero vaghe teorie, mille sacciute definizioni e divisioni,
che in materia di eleganza guastano talora, non che n'aiutino lo studio,
ciò è a dire il pratico profitto. (138) « Mi metterò la roba mia dello
scarlatto a vedere se la briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp.
e sarò vago di...a Che senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a
vedere se io posso raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza
di preda, nè odio ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a
dovervi in mezzo mare con armata mano assali, c. lioccº, º allo scopo di...
aſlinchè vi dovessi.....() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed
esot minuti e sè stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren
litrº nascoso si stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo
morello a vedere s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore
nostre, V. SS Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della
Itaſſio nº si fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.«... disse che egli
sarebbe a sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. «... or mi bacia ben mille
volte a vedere se lui di rºm o. I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e
bruto non a necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho
mangiato e bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida
mi l'accosto. l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi
a lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo. Dante. (a fine
di pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a
diletto ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e
diletto degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo. lºsop.
Cod. Fars. « onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº
º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ».
Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto
sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139....
nondimeno a cautela si ordinò che....... Caro. « Io ro che l campo là do Sul
(teini l omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a
titolo, a modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa
damigella. roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser
vostra moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon
cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo
andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia, per ottenere,
o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a speranza di
merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov. ant.« Chi
potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga romsi
nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo
dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ».
I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141).
La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono.
Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la
rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria:
roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ».
Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a
moglie nella e il là ali Patriot, Vill. (i. i trad. destillandola a esser
moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo
gliossi alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati
». Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo
gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare
a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò,
sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che
ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i.
142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ».
Sacch. cioè fatto per servire a due persone), Ed assai bene circonda la
di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare. I3 # 1 (3). a V
elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier. a
Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il
taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro
stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi? ».
Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe
onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella
povertà).“... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º
ammonimenti a mio proposito ». Pand.«... e molti altri che a narrar li saria
fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a
narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a
ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga. Segn. Sta ma
nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a
stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì
dicesi: Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore
del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser
('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina,
alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. «... e saranno solleciti a quello
che da maggio i sa, i loro coman dalo ». Pand. (a far quello). « I)i
seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml. Gir.
(con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle
grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a
campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal
malliera....« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a
simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza
d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a
sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. «
E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci
ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo
lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).«
Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il
meglio ». Sacch. (145).«... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre
o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo
cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a
Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a
pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di
G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ».
Med. Alb. Cr. (Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione
con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla
liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ».
Dante, vanno in modo simile a ruota,(0r chi se lui che ruoi sedere a scranna?
». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale.« La licina
prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra
lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a
lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la
campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai
fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto: voi,
vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom
scºrre mai se non a suo senno, I ): ille, Conv. 147. v I na
gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra,
spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll
not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo, l 3,.\ (ii resse l?omolo a senno
suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità,. I ): V.lo roglio del I
e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi non l'abbia
merita lo. Pass, come mi pare e piace).... fallo a ress' io a senno del mio
cane figliuolo e non egli del rec chio padre !. l)av.Dorma ri e da cantar
l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le.Ma non si arendo con
quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h e a senno
vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on ne corrò
meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo piacere,
perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in cuore di
colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra quando ella
era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e ci lui
piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che rila t
ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose corporali, impe
rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà ». Cav. i
149). ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art. 150). (posta
vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare. ('a
mm e rut a tetto, (la zzi. I Ncio a strada. I3oe('. ... e se la
collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia ramo ).
I3arl. ... incontra un rento che le si stende a poppa. l?art. I che sollia
e spinge innanzi investendo soavemente la poppa). « Portava a carne
cilicio aspro. Cav. ſrad. a strazio di viva carne “... faceva asprissima
penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un rozzo vestimento o.
Cav. “... negozi che non si fanno tutta ria col notaio a cintola, ma con
fede e lealtà di semplice parola. liocc. (par che dica: col nolajo attaccato O
appeso alla cintola. ma con ballerano pianali, dove i nostri con iscudo a
petto e spada in pugno, sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav. «
Messa si prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote,...
si mise a sedere in coro... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le
gole) a La moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ».
Vill. G. a petto, in confronto di....« Ma io credo a rei rene dello pure assai.
Aſſà sì, a quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n.
Ces.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse...... Bocc.
(per rispetto, relativamente a....« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a
quello che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle
che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che
non sia lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.«
Ma che è a Dio la oll racola la superbia di un rerne? ». Dav. « Dall' età di
Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra
possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un
batter di ciglia ». I)av. (15 l.« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno?
tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o 2.«
Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole
all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le
conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono
cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così
allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè: tutto il
mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla
famiglia che siamo ». Cecch. « Domandò quanto egli dimorasse presso a
Parigi: a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc.
(153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle
sue terre a tre giornate ». Sacch. «... io vi era presso a men di dieci braccia
». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse
all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad. “ Lo l'isloit
rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe
chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch. “ Egli è la fantasina,
della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse
o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse
a otto dì alla sua promessa vicini. I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio
grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle
a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la
lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi
buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi
tempi « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti
che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a
costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a
trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi
al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di
morte cagionata da grave e crudel supplizio).c... in un suo orlo che egli la
cort ra a sue mani, l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù dalle
scale ». Bart. (a forza di..«... aggrappandosi a mani e piedi su per greppi
inaccessibili ». Bart.... miun alti o di sua grandezza aver avuto due nipoli a
un corpo: recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).« Vi dico
che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il puledro ſu
noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di pugne a
coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si difendono, e non
se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se non se ne medica
no ». Fra Gior (cioè: « punge cacciando mano a coltello ». Gherardini). «
I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane ed ad altre cose da
mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta di...). a che parimente l'
uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a danari e renderano e compra
citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual destino, Fastidire il vicino
Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire, e 'n disparte Cercar gente,
e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo ». Petrarca, Non
per vendere poi la sua scienza a minuto, come molti fanno o. Bocc.
Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I;occ. “ Vicere
all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè dell'altrui... (158). -º 1
ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ». I;occ. (cioè: la nave
commessa a la vela. 159.“ Malacca, tornata peggio che prima su gli sparenti e
su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore, l art. 160,“... e mise il
mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual tro molti corsero perduti
a fortuna, senz'altro miglior governo che..., Bart. abbandonati alla fortuna,
in balia della....; 1 - « Non è sì magro cavallo che alla biada non
rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la biada.« Non possiamo a certe
stravaganze tenerci di non le motteggiare. Caro. « E molte volle al fatto il
dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al redessi ad altro, si le ne dei a
rivedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, Bocc.ſt Ma dimmi:
al tempo de dolci sospiri. A che e come concedette Amore Che conoscesſe i
dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che cosa, facendo attenzione a che cosa.
« Conoscere all'abilo. alla furella, e simili. « La città si reggeva a
consoli o Vill. (i. (con governo di.... (161. « La della città si resse gran
tempo a governo e signoria degli Impe r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai
ricordare di qual patria lu sii nato, conoscerai che ella non si regge a
popolo, come ſacera già quella degli Ateniesi, ma è gorer nata da un signore
solo ». Varchi.« ("h e la città allora si reggesse a Consoli o con
l'autorità del suo con siglio o senato, lo dicono chiaramente gli
scrittori nostri » Bargh. Vin. Seguono altri esempi di un'a ad altro
valore che di semplice pre posizione e di usi assai diversi, ed in parte anche
noti. Non ne faccio serie distinte, che sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo
alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un dopo l'altro. " " º
"gli º º º ninno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince
». Bocc. la quale sia da darsi a chi ": lº º l'"ºn lºrº in su
un ronzino a vettura venendosene ». Docc. destinato a lirar la vel | I
ra”. “... con le note rele a chi più mi esalli, I; art. tale [llo, ad
hoc: chi pil...). Inler indire a morte o l'iel'eliz. º lº Iºsti a
baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc con lº e' Illanti da
compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era poi l'lilo...... Fier
eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello... vicinissimo a dove ºggi all
blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a pena della testa. I3 c. (bel
Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto cento viene su questo letto »
Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal rete in sino a Pisa a questi
freddi i... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi lo i diesel villeº la donna
rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo dorso, l30cc. (sì che facesse
pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la resse, quantunque il tuo amore
onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata p) i loslo che a te. l oce.
(cioè: l'avrebbe egli ama la destinandola a sè per sposa, piuttosto che cederla
ti le o. (illerardilli.“ Ed il popolo tutto a grandi voci ringraziò ladio. Vi
ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini ben forniti a denari e care
gioie... ». Doec. cioè: il lallo, per quello che spella, relativamente.....1
Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce, perchè si arriva sempre i radicio
e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64.l'ol re, in li a prendere q. c. ad
istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V. I 3:ll'1. I tesla
finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad ufficio di semplice
particella prepositiva venisse allora adoperato dagli autori classici il lima i
maniera assai diversa che non si faccia comunemente e volgarmente col linguaggio
di oggidì ed è pur degna di osservazione e di studio. « lo estimo,
ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Do menedio me manda altrui
o. IBocc. (165). c ('he cosa è a ſarellare ed a usar co' sa ri? ».
I3oce. lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare e dormire con
sobrieldì m. 13art. Giunto (un cervo) a una stalla di buoi, entrò fra
essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa nuova e
disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a
perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare
chi non sa m. Fior. Virl. A. M. « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi
di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166. «...
ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli
belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc. « 1 cciò che
a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello
che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167. ...
ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari,
senza metter muore angherie, (iial b. Ma siccome noi reggiano l' appetito
degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168. «... e len
negli ſarella infino a vendemia. I3occ. (169. « L'ora ju a sospetto; la
cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ». DaV. « Da
lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo parlare. Bari.
« Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a fidanza richiederò I3occ.
(con conſidenza) (170. «.....passalo a Mantova il cerno, il Padre lo tra
millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e la bella postura del luogo
lo risanatsse di... S. « Non pensando che li mandassero a processione
cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro (17 l. « Era fornito l'
altare a bellissimo disegno e con molto splendore col (tlchè..... »
IBarl. « Gli parlava a capo scoperto ed occhi bassi (es. «
Arregnacchè a sua colpa la naricella sia fracassata e rolla º l'assav. «
Il peccato nº ha quegli che 'l ja, perocchè l la a mala intenzione o I'l'.
(iiol (l. « In due maniere sono perdule l'orazioni dell'uomo: s'egli non
le fot a buon cuore; o s'egli le fa, e non perdona a colui che natº lº ".
(i l'. S. Gir. a 1)unque loi lu ricordanza al Sere! Fo bolo a Dio
che mi vien voglia di darli un sergozzone n. 13, c. e Slot che lo: io li
lai di medico re al mastro 13anco che è molto mi o (1 mlico. Sacch. i 2;.Signor
mio, io son presto a contessori ci il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa
dire quando e dove io gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello cli e io ci ri
) la llo, e quel che no. 13 cc. (173.l'ulte queste cose in lesi io gia i ceti a
1 e a uno ricchissimo padre e lº la miglior rosli o di colo, l'alla loll.l
clendo º l'ucidide l e lui e ad Erodoto le sue storie, s'accese cla (I
'nº' Noi ci il bi: i ne'. Salvi i li. I 4. e l not figliol lat.... non essendo
ci slui ma, e udendo a molti cristiani.. -- mollo con nºi, la l e lui ci is
list not leale..... l oce. i menduni o alibi due li fece pigliare a tre
suoi servitori ». Bocc. ll fece prende e a' suoi uomini ». Sacch.chiunque per
le circostanti parli passa ra rubar faceva a suoi soldati.. l) co.e appresso.
Nè lece la rare e sl i picciare alle schiave ». Bocc..... Può e deve per sè dei
irare a tutti questi capi infiniti ed efficci - cissimi i corili rli, (al. I 5.a
guisa che la veggiamo a questi palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far
veggiamo a coloro che per allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa. 13o.Mollo
a reali le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri
ancora se slalo non fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi
a coloro che lollo gli avevano il porco. Docc. I., ol, ndo la r e nè più nè
meno che s'acesse ceduto fare al maestrº - ct tal, le... l i r.l mal ripo' a
gillossi alla mano di Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba)
bat i prende e la mano di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero..... A li
apost. | | 6.Sbigottiti per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti
Sos tº 7 ti, a peccatori li l': il ril Vlli... l'assveggendosi guastati e a
quelli che c'eran d'intorno... ». Boce.... e ad infiniti ribaldi con l'occhio
me l'ho ceduto straziare (il mai ») I 3, (-.. goira, di qui e beni che li reali
gode) e a questi padri ». Ces: a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla
speranza ». Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui. Caro.Lasciarsi
colge all'obbedienza del superiore, Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente,
l?art.Lasciarsi occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli
tutto fuoco lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. Ed io roglio che
lui gli conosca, acciocchè regga quanto discre º º men le tu li lasci agli
impeti dell'ira trasportare ». 130cc. t « V assene pregalo da suoi a
Chiassi, quiri vede cacciare ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e
diroiarla da due cani o Doce. (178). « ILa giovane sentendosi toccare a:
- nºani di c li l il, il 1 le ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l
la erº nell'a mm, quanto, se ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179). NO
te e Aggiti inte all'Articolo 1. :138) Gli esempi che ti allego,
divisati e ord. nati come meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte
forme e baster: illo; ma son ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che
mi vennero a mano. Non ne ver rei a capo in parecchie centinaia di pagine se
Illſ e prendessi a recitare le proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi
iroll eplici di cosi fatta particella, scandagliarne e discuterne le intime
ragioni logiche, erigerne teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di
n. llli pro e per poco no civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip
idiotismo, o maniera di dire leggiadra e propria della lingua italia tra es.
fare a chi piu Iman gia, beve, grida, ecc., e come tali e non in par (Illi
luogo da ragionarne, si come quella che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per
cosi dire si ſolide cogli altri elementi, che ad estrarla, appena la riconos i,
e vi si però sell irrle, gustarne ed apprezza; II e la fa, zii, il ll - da sè
sola, Ina nel suo tutto; il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte
di questo I)irettorio. I)i più l' a articolata (III en, preti ess: a 1 in
li od altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle
quali quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente
disposizione: a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do,
Iorma: andare a piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a
poco a poco, a otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1,
ora, quan-- do imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale
disposi Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei
quali nodi, cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino,
corredati al solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o
for me avverbiali in particolare, (139). Nota il modo andare a diporto, a
diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti: Guardare
a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si dovrebbe
intendere anche il modo (divenuto) Volgaro: andare a spasso, cioè non nel
significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere, leggere
ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.: (ull'allino,
col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº rili: lle
soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del molo luogo:
maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil, e lº iu vaga e lo I e la Irase
italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so a ore, il
cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li la V Vt di
Irle:lto e perdono continua Iel 1, ne a 1 I test Illlarsi i pc.I? Nota la rase:
eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i, (il... SIII il
ricevere a servitore. l'elilella, che Griseida non I s se l'all 1', ai loro
presi, e per lui el'. ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore... l 3, l
'Il sl, avere a maestro, a padre, a si giore, l Ne l il roll, il Sesil I
allegri da poi che l'elobo lo a signore, l'av. S. Analoghi anche i modi: avere
ad o more ad orrore:..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de zze, ma n
avrà ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere; a schifo,
a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N Il tr es.
i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo - rand i
poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i a tale
avere. » (ill 111. l.eli.: avere checchessia a misfatto: « A non « minor
misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo ». Bart. avere a niente. Anni 1
-1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza, prenda il
dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a niente.» l'isp.
Cod. Fars.| 13, l. a. arti, lata Ilo, di questo e del seguenti esempi,
dipendente lei il l l e V g. In - re: a portare, a dovere, a fare ecc. o in a 1
l di sol: Igli, l,, sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd: l'ast di
Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1 e fra
l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd si
li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e.I 6 Simile: Sopra
vestito a bianco come neve, Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la
vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a
brum le li:lle l'el -, l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la
limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno., l'i. e z! modo, secondo,
rili e il senno suo. No alo anche lº: li es. I | i le segli no, lui e sto
mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui.. che è bello e proprio
della Lingua italiana.1 - Si!! i:ll": lo misi a suo senno, a senno, a
talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo
ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a
posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a
governo di a.)l º Vl: si ro (i valra pare che piu che il modo: a senno piacesse
ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun che di
comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli slalo,
che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha ripetuto
la nota frase di Dante:....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio all'eterno, che
un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è tOrtO ». (152) Nota
il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153). Senza entrare in
discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma la lingua stessa
si vuole (Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni esempi di un a che si
riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a poco ai modi: indi, di
li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti metri ecc. Le frasi
dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per sei mesi) e
simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che quivi
arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la to
alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. (155 )
Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a
ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. (inf. V b. Recare, Parte
III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a
di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di ecc.(159
) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a (160) Nota
la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in rivoluzione, in
balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre: andare a rumore
Bart, levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc. ecc.).(161) Mefferai
a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a popolo ecc.(162) Simile
anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a p. prestare panni stati
del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali « come vestiti s'ebbe, a
suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è notissimo. a bocca aperta,
a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una rovina si vede Ina
donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta ad un suo... che
sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per ricevere il fanciullº o
Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia altresì por In, nto, tra le
altre molte che le son notissimo e non accade occuparsene, alle maniere: essere
a studiare, a giocare, a desinare, a dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare
a giacere; porsi a sedere e simili; il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella
semplice preposizione di vincolo o relazioni o come: venire, andare,
cominciare, disporsi a far checchessia, ma necenna attualità di azione ed
implica il senso delle parole: nello stato di, occupato in, attento, inteso,
dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le Suore sien l'uffe a dormire ».
Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì che M Iºa olo Trav orsari « e
la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor parenti, e il l'e. In A i a
piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.:. Venuta a dunque a con « fessarsi
la donna allo abate, ed a piè posta glisi a sedere... » Bocc.: « Costoro
avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC) c.:. Altre stallino « a giacere,
altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo:) Inc it:) veder l:i gli ri:
a Inostra ». Petr.; e Veduti gli alberelli de silli i colori, quale a
giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua e là e le figure tutte
il Illbrattate e gli isl, -: i bit, p lisò... » Sa ll.: Si III osse correndo
verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i...., (a: « I); pinse un re a (sedere
coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli. - l am dei Incrdi: am Studie ren,
am lesen, am spielen sein, e simili di alcune provincie della Ger II l: l Ilia,
e appllini o l'a del c: la lol V e In altri casi l'a di un in finito soggetto a
V el'lno, loli a m - Vlt; tl, i dll re, la zu.165, l 'a di questi esempi st:
l'a rti oli per altra preposizione articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n
a preporre talvolta all'infini, o, a maniera di sostantivo e soggetto
comunqil di una proposizione assolu ta o dipendente, la preposizione a live e
dell'articolo, ecc. (166. Trad. lel I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi
avvenga il ricorda l'ini, so oft, quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani;
a mano di alcuno e anche Iriodo figurato i le significa: venire in potere
d'alcuno.16S) Nota la frase: star contento a qualche cosa. Cont. Contento,
l'arte II, Capo V.).169) Simili i modi andare a città Vo' in fino a città per
alcuna « Irli:l vicelli la o lº si... per Vai l'll lno illo, cle andava « a
città, l o in illera el tº:ca e vale i nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di
un viaggiº (ore. ll e la sºsta di ll'i: in altri, iº fa e non dicessi che va a
città; andare a santo;.. ll v. l t. ll li i possº andare a santo, e nè il niun
bila il luogo ». Boc.; andare, recare a marito –.... e questa Il l:nti ! nº ll
e lo o ire a marito, e le festa bis lo fa a è apparecchiaio, Do..:.. lo - a: a
re dei di delle feste che io recai « a marito » l 30..: essere a riva di... e l
', a riva di Reno dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl
al de ll cisiolle di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione,
ma tutti li misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo
scambiare con l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso
dicas del In lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta
evidentemente in luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi
verbi: fare, lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono
un'azione in infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e
il Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire
collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni
latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il
soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione.
Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a
chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della
volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o,
come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al
cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi
e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti
asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte
locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di
cosa dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza
e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di
allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai
bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far
portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che
si porti e, altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e il
n vuºl essere scambiato col da: costruisci ((il comandare, e il 1:1 l 'lie
chessia: chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di
reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è
comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando
venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se
avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata, l'horen 1 e O ll ricevere materiale
involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti, sia che
llo, con l at Inzi - nzi; Il lil I l e i leti, udendo a, volle precisamente
significare l'an. zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o, l'udire (oli
attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11, l I questi
capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo callsativo e
sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di alcuni verbi
e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln l lin, la ti:
i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine permettere e saprai
li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di altre osservazio i cle
non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni verbi ci l'arte II. (179)
Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti recare venuta o pervenuta
alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di sentire il quell' alle mani, la
voglia altresi che aveva di pervenire a...180) Nota differenza tra la frase:
sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in checchessia, cioè aver
difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181) Nota la questa frase far
del...., simile alla precede le sentire, ave re del...), che è Imaniera bellissima
e nostro.º 182) E altrove: « Come state dello stomaco? » cioè per rispetto in
fatto di...., in quanto a... Cilf (cong.) Prima di farmi
all'oggetto da trattarsi, piaceni premettere cosa la quale non li verrà si
strana e Irivola che non ſi sia anche il lile e a grado altresì d'averla
udita. “ (lº è prontone, dice il vocabolario, ma è anche congiunzione
di frequentissimo uso dipendente di verbo, da avverlio, e da comparativi;
º coll'accento sta per poiché, perchè - l' “osi la pensano granai e
filºlogi che l'urolio e che sono, nè sa prei º solº cui cadesse in animo
di contraddirvi. l' olga il cielo ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a
censore di sì tillo, autorevole magistero º il falli, che in omaggio a al do
Irina pongo qui il chº, S! " ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato
estè. Ma se li pur in mia i a V, e - - irº che questo che di frequentis
sillo liso. I pendente ci v. l - Si p. ssa:ili le intendere o sentire
tuttavia pronone, cioè lº chº, nè più nè meno, del precendente numero A lizi,
diro 'll 'i'i, lº sll sl tit, ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo
tiri I l ss,, - i gºl.... l III di strano ch'io abbio di concepire, io
non so e A cdr e sentire nella voce che, adope, sola o al I e di altra
voce, Se non il pl o non e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una,
quando in altra forma. l' essi i S \ ºpi ilarli poi di questa ini
era l' intendere e sentire, ti Pºi lui appressº i monti e pon i no e
l'intrinseco valore Virli sillclica di Irla i - l\ ini: gli orsi, chi ben
la consi deri, in altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli
cinque differenti manici e di un colal che cong. | i l. I l a sla al riti
il che vo non, sale. I3 cc. 2a Mio fratello è pil dello che pio. :3a...
che vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona, Boc. ſa « Non era
ancora arriva lo che io e gi i partito.. ;)a lº si pensava che ingannando
i l i crilin fosse appresso al tutto signore n. Vill. (i. Questi
esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma
ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì,
e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice
cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom
ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al
suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei
modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio
intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis,
virtù di elissi, omesso. ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del
numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal
modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce
allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito
all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc. Più malagevole a
concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi basterebbe
l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai lorevolissime non li vi
confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso che quale pari ella ad
ollicio di pura e semplice congiunzione e punto capace di virtù
pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un congiuntivo od
indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito? Eppure ant'è.
Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo, il Villani e
lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale integrità: « E si
pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della città al suo
intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini da
ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un
congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro
verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a
nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza
che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un
colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo
che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la
scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se
io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono
transitorio nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia. I3 cc.
\ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il
giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali, I3oce. -– a Si ve dova
della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor « misda non
la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto
più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill.
– (Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse
rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio... Vill. – « Seco deliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso
che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – «.... la
precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso,
estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza
cagione inge «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc.
Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a
colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione, I
'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico –
a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico il
nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci
vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale stranissimi
li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del Boccaccio:
« E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi? Disse lo Scalza: Che il
mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega dirà
che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale questo,
questa cosa?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue ancora a dir
perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è all'esi
pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi tos. quod,
que, dass (anticamente anche das si scriveva dass, lh tl ecc. ecc. Talchè io mi
figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo, a cagion
d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren sollte. –
ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº questa cosa
(dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed altra voce –
ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi sentissero non
altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239. Neh! lo ripeto, è
una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del nostro assunto, dico
che il che cong.; ha virtù dirò così concentrativa e Irovasi nei libri
mastri di nostra lingua assai solvente. - I di comparazione e recante
senso di: di quello che - l. il significa di affinchè, sinchè, prima che, senza
che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili.. llpl calo a lil:inlera e valore
dell'avverbio di tempo: quando.... quando, alcuna rolla... alcuna rolla,
di quando in quando ch'è, ch'è ed anche parle.... ma le. Il che, per
dacchè 210, poichè, posciacchè, perchè 241 poi che (242) è notissimo e
comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne. \ iuno dice a trovarsi, il
quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit la rolul dl mi m signor e,
che se i ri rut ella, l?occ lo non coglio che lui ne I l a rl pii la
coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '. \ orella non quali i meno di
pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ). I 3 cc. ...
che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ». Bocc. lº migliori
ol) e le dando che li sali non e' di no..... lSocc. \ on le doti più dolore che
la si abbia. l occ. (n si era la cosa cºn il lut ut lanto che non illi in
en li si curatra degli uomini che morire no che ora si cui e're bbe di capre l
occ. \ on li molea renir molto più ni di doll in, nè di speranza, nè
d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo. Caro. « I
fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che del padrone. Pandolf.
che quello del..... a I)arano rista di non tener più con lo di lui, che
si facessero cogli allri ». Ces. ... io ri a cillà e poi lo queste cose a
Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo richiedere. I3 cc.
allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è..... (i uan da ra d'intorno dove
porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ». Bocc. «... gli
menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di sºlli' anni, ch are rai
nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd Ssº Comº gli paresse.
Cav. a... recatasi per mano la slanga dell'uscio non restò di ballºrni
che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz. (243). ...
precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro. «... juggì via e
non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello Bocc. ((...
nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed ordinato p). ROCC. - non si
ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Fede l g0 l'emisse ».
Bocc. ... si pensò di dovere per quello pertugio i tante volte gualare che
ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ». Docc. - “ Ma
fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì delle opere
lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti ricordi ». Doce.
244;. º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai ſi farellerà che
non ti rechi spesa. I'and. ((... “ Von posso passare per la strada
che non mi regga additare o I;oce. “... e l 'nsò non potere alcuna di queste li
e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non a resse la sua intenzione
». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che prima non abbiate fatto
ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque quelle grelole che sono
sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la molla acqua che ci si
versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da rete su due roll e col
becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che re ne potrete
andare a vostro bell'agio ». Fierenz.«... non canterà stanotte il gallo due
volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed esser de' miei
o. (es. 2..« E questo è il riro della fortezza al tutto inespugnabile ad ogni
altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I art. « I)onolle
che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien lo e che in danari,
quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o. I3oce. « Questo regnò
anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera loro n. I)a V. « I'(Il
li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V. « Fu ascolto con giubilo
unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che in roba, un ricco
presente ). I3art. NOte all'articolo 11, 239) Alle
congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che ecc.
rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo ()
was ed ora da 0 den – coll1 razioni (riduzioni di was e das, e sono: warum,
darum, so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc., 240). Dalla prima
volta in poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo.. Essendo
limiti i due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè solo
per l'enim, etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima giunta mi
fece un cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse: Beatrice, l da di
l)io vero Chè non soccorri quei, che ti amò alto Che Ilsi io per te della
V o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o costruzione fuori della
quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu go: tuttº si disarmo e
cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier. - è poi che egli ebbe
cenato - e... ci condurrà alla stanza della serpe, dove condotto che sarà, io
ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle da naturale istinto
forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e compito ch'io ebbi;
e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine noi fummo ecc. ecc.
243 Vlla pari e I V rti. S è par li di tl: la costruzione nolì guari dis simile
a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo differire l'una
dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è espressa, in que sta
può essere soltintesa. Ma sia che quest, che si trovi ad ufficio di finchè, sia
che si senta nel periodo l' omissione della voce prima, è sem pre vero che a
questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso. 21 ). Il primo che
vale: finchè, prima che; il second: senza che, Nota anche i tre seglie, nei
quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo futuro presente
il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre edeinte del F.
e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col be, che voi le
spezzeret (n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte che lui ben 1 l'e
negllera 1 dl conosce l'Illi. CHI In questo e nel segui le n il
loro li porgo una maniera di dire, che il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova
add ril lilla e se lendola se ne slrignº gli vien del concio e si con loro e,
per il la col l?arloli, più che non fanno i cedri troll (Iula ndo sentono il
tutor, Vla 1, il s o di lui. Chi -a all'epos lo e sente il..., e la virtù che
viene alla frase per l'elissi di alcune parti del dl scorso ci si allengono a
certe voci ecc., non che intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio
che un vezzo assai grazioso Il ll garbo sl l'.E sappi alunque che anche la
particella chi la quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al
discorso – simile alla poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a
valorosi nostri classici, ch. dice altro e più che non dica il letteral suono
della voce. Tien luogo quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il
segnacaso di, a, da, per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche
di se chicchessia, se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il
segnacaso e quando altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e
l'altra spiegazione egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni,
mal si ponno il 11 a parare chi troppo invecchia, ciò è a dire, soggiunge certo
lale, da chi troppo invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla
anche così: se altri, se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra
sì fatta guisa? « Ma qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su
questo che il chi (son parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa
spesso ed eleganlelneri le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di
potere le proprietà delle lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel
modo stesso ».Sentilo questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche
del simpatico nostro Manzoni. o «... la casa mia non è troppo grande, e
perciò essº non ci si por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo,
senso la r moll o zitto alcuno ». I30(C.« Molto da dolersene è e da
piangerne... chi ha punto di sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime
o. Passa V.«... e con tutto ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si
scontrava solo: e per paura di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno
era ardilo d'uscir fuori della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene
maraviglia, chi pensasse lo sterminato bene ch'elleno portavano alla persona
sua. Cav.Sì come veder si può chi ben riguarda... ». Dante (CoirV.. « Quinci si
van, chi vuol andar per pace ». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi
vorrà...». Cresc. « Sì come la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come
pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.«
Sì come per lo dello suo trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di
sottile intelletto ». G. Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così
arrien e chi è in rºllº di fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area
dal'ali Per le cose mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr.
(per chi, a chi, se allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre
rispose Chi la chitml ) con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei
pazzi cittadini, la misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione
di quelli inlºlici secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà
considerando, della tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior.
- Le quali lui le cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in
negamento di sè medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro
ragioni, sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche
la vita un duello... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre
pronti, chi nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o,
Manzoni.('osì il lurore contro costui il ricario, che si sarebbe scatenato
peggio, chi l'avesse preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der
nulla, o a con quella promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca
s'acque la ra un poco e... ». Manz. ARTICOLO 20 Sf (C0mg.) Anche
la particella se vuoi qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi qual
desideraliva, è appo i classici una di quelle voci previ legiale sotto cºlli
ripari in parole, ossia aggiunti, laciuli talora o non completamente
espressi. Il che avviene di un se. – a. recante senso:ì così, e in certa forma
di gi Iran lenlo, volo e simili: lo esprimente ricerca, indagini ecc. soppresso
e si linteso il verbo che lo precede: per ve: dei e, per sentire,
osservare e va dicendo. Non misteri della lingua al dunque, non licenze
degli scrittori come sano sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio volgare
e guasto, (246) | ma virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la ragione
intrinseca di cerle contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali sien
pur strane e niente intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non altro
sono, all'incontro, che vezzi e gioie. l;oce. Così l dio mi dea bene, con
l'egli è vero, ch'io mi veniva...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei mai
credulo o. I 30cc'.a se m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè che
tu fossi | Se Dio mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co un
pezzo. molto più o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non si
vorrebbe aver miseri cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona
ventura, diccelo come tu la guada gnasti ». Bocc. « Subilamente
corsi a cercarmi il lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.«... l'un
degli asini, che grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era
uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua
». Bocc.«... s'egli è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo
» Bocc.« Cercando d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. «...
brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per
vedere, per sentire se..... Cav.« Corse per tutta la città se per centura la
polesse trovare ». Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli
avrebbe mai tanti danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere
buona mente di lui ». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate
bene... Toccale i polsi se han molo tasta º il cuore se palpita ». (per
sentire...). Segn. (247). NOte all'articolo 20 (246). Uno di
questi cotali poi ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione
nel periodo e dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa
in aria, e senza filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli
esempi di questo numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende
fiato e soggiunge: a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le
lorstri allt l'i, ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo.
Sono | Igure, scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei
quali sono talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori
». –- Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli
alli e i decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi
si udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse, solleci'i,
sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio ed una
forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli acliti a
sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri lettori
scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli scerpelloni
nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con tutto lo studio
e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta incorreste!.... (247)
Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere e simili la luogo molto
leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è lecito º il nrola
d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima tocchi « la volta: come
si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per sapere, per stabilire
ecc.) ARTICOLO 24 VENIRE l)el Vario uso e valore così del
verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa nella III."
Parle di questo Direttorio. Quello che ora piacermi merilovare è una
certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il verbo reni e non è
quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la passivº in qualsiasi
verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e essere, ma è al arnese
mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro rispello, prende un ordine,
dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che dall'oggetto soppravvenga al
soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal concorso di mente e volontà
del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal verbo venire semplifica e t
duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo lui la mente, impensatla
mente che.... (286i. Intendila questa bella maniera nei pochi esempi che
ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di altra lingua che ne appresti
un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei netti dei l alini, parmi di
sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora questa cosa, che troppo vi
sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne poco o nulla rimonterebbe;
e passiamo subito agli esempi. «... e venutogli guardato là dove questo
Messer sedea e... il renne considerando ». I3occ. e essendo avvenuto ch'egli
vide.... « A queste la rete che coi diciale bene e pienamente i desideri ro
stri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro: e come delli li
arrete elle si parliranno o l'occ. (che per mala ventura non tv venisse di
nominare).a Credetlimi, quando presi la penna, dovervi scrivere una convene
role lettera: ed egli mi venne scritto presso che un libro ». Bocc. (ma trovo
all'incontro di avervi scrillo.«... spacciatamente si levò e, come il meglio
seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo
portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.« La prima cosa che venne
lor presa per cercare lu la bisaccia ». Bocc. «... le quali i
bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra che spesse volte mi vien presa
l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo ragiona e disse a Simone: melliti
più dentro mare, e gilla le reti a vedere se nulla ti venisse pigliato ». Ces.«
V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà pigliato un pesce sbarragli la bocca e
ci troverai lal monela che raglia il tributo per due o. Ces. «... così andando
si venne scontrato in quei due suoi compagni ». I30 c.a... facendovi qua e là
nola, quelle bellezze nelle quali ci venisse scontrato ). ((S.« Perchè io
entrando in ragionamento con lui delle cose di que paesi, per arrentura mi
venne ricordato Lelio. Filoc.Fu un giorno al suo Padre lui lo ama ricalo d' un
grave sospetto: cioè che cercando la propria coscienza con ogni possibile
diligenza, non gli veniva trovato mai nulla che a suo parere, arrivasse a
peccato re miale... gianni mai avvertiva ch'egli sapesse miai trovare.... Ces.«...
gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla conti
apposta parte scom)illa dal li a ricello, con lui insieme se n'andò quindi
giuso ». (avvenne ch'egli perse per ventura il piè....). Bocc. «... venne
questa cosa sentita al Fontarrigo ». Bocc.« I ll imamente essendo ciascun
sollecito venne al giovane veduta una ria da potere alla sua donna
occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di tribulazioni e d'affanni che
ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che ti avverà di dovere anche a
tuo malgrado ado perare..... (287). NOte all'articolo 24
(286). IRecasi, la mercè di un sil fatto costruito, ogni verbo a quella cotal
proprietà che è sol privilegio di alcuni, i quali senza mutarne altri menti la
voce si trasformiano d'uno in altro es - ºre; e dresi p. es. perdere alcuno
irreparabilmente fare che altri rovilli, spari-ra) e perdere, altre si,
checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il primo d ce azione diretta, il
secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº, ma oggettivamente in relazione
al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di alcuni verbi et. IParte
II.). (287)Che tu dei adoperare -offrire) non solo è inen bello e
languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V (l'O). N. ll Vi -(ºlti l'idea della
le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della volontà.: Tra. Dizioni
e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche alla vita e all'assetto
C0Struttivo Le cose che abbiamo vedute ſin qui sono senza dubbio gran
parte di quello oride il costruirre classico è altro dal volgare e moderno. Ma
non si starà contento a questo solo, chi desidera istruirsi davvero ed è
veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a quello dei clas sici,
recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di espressioni e tornio di
periodo che è sol proprietà della lingua degli antichi. E però, prima di
passare alla Parte il I., la quale somministra ordi natamente il correlazi. I1
e coesione con certi verbi e voci previlegiate un copiosissimo corredo di
lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma piaceni mentovare
collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non sempre s'accorda
coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora sapore e
leggiadria. Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl,i, suscettibili
cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o scenza, e
capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1 ne cº
rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro. Intendo qui
di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino quasi in
azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli accompagnamenti che
prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in cellano o rigellano
13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro, e diventino quel
che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o neutri passivi o
assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto cioè riguardo al
vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che sta ogni verbo,
e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui riprodurre tutte quelle
inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni che fecero e fanno
tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in Filosofia utilissime,
ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di que verbi poi, il cui
governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente al loro oggetti,
dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che il volgare e
comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri verbi, si dirà
alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona in proprio
delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [ ASSOLUTI, CIO È
VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V I PIt() NOMINA
LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE Sono alcuni verbi
che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori si trasformano
assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di attivi prol li il
trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni affisso o
particella. Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del rest o, anzi
pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili e senti il
garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e giusto di
una tal malliera e striltli. ACCIECARE - « In prima si commette in
occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa faccia, e
non si vergogna » Cavalca. Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a Maria
Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ».
Cavalca. Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono
in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - - «....più volte si
videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero
a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che
spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e ghiacciò
l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve a tutti
di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui causativo
to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle chiese,
infillo che non alzò l'acqua.... ». Vill.L'altezza del corso del fiume, che per
lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena dell'acqua ».
Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo senken, to
sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo.... » Cresc.
ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a petto e ora
a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal credendo che
un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre faceva tant'acqua e le
pareva di continui annegare ». I3art. « Alla guisa che far veggiamo a
coloro che per affogare solº quan « do prendºno alcuna cosa.... » Bocc.
APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser nu « triti i
sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc. APPRESSARE – « Più e più
appressando in ver la sponda Fuggelni er « ror ». I): lillte. «
Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante APRIRE – « La terra
aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la terra aperse ». I) il
tam.ARRATBBIARE – «..... per quanto ne arrabbiassero i demoni, mai però a
non ardirono più a valti che... » Bart. «...ed all'uscio della casa, la donna
che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò oltre.... » I20 cc. »«...nel
soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni: no, sono infe. « lici ». Cosa
riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, mi ha «
cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè: veggendolo che era assalit, lui essere
assalito).ASSII)ER ARE – «...assiderarono tutta la notte, senza pallini la
ascill « garsi, senza fuoco, ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE -
INGROSSARE - -. Il collo digrada va sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi
assotigliava, digradando con ragione ſino alla « punta della coda ». Vill.
Parla di certa serpe di fuoco apparsa in aria). ATTENERE – «.... lanciato
da banda tutt'o ciò che attiene a costumi ». Bart. ATTENTARE – «...
desidera ido e nº n attentando a fare imprese e ho a non fanno, che non
attentano di fare gli altri ». Bocc. BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina)
eria da ragionare le più ava lli). « Come costoro ebbero udito questo, non
bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli guarda come l'ha egli pure identica la
stessa frase. I « Bonzi come riseppero di quel così vituperevole
cacciamento, non « bisognò più avanti, perchè si inettessero tutti a rumore ».
– E qui dagli ai puristi, ai trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava
con sommo rispetto, ma di loro da vizi e studiosamente si arricchiva.
CALMARE – «.... il vento calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave «
appunto per poppa ». Bal'. COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà
compunsi ». Dittain. (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi
vellendo costoro cosi a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e
sl gli si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e
caduta in terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el
vocabolario noi e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui
adoperato, CONFONDERE – «.... onde se si messo nel pianto confondo,
maraviglia non « è ». Dittam. CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la
badessa e si contristare, disse « a lei: or che t'è addivenuto, figliu la mia
Fufragia, perchè così a crudelinelli e piangi e contristi? » (avalca.
CONVERTIRE - Si prop, sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill.
DEGNARE - «... nè v'è uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua
persona ». Bari. Simile al daigner dei francesi). I )EI,IZIARIE a.... e
se talvolta le llloghi a mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e
alcun poco di pesce allora deliziavano ». Bari. IDILETTA IXE - Vergognisi
chi le reglia in virtude e diletta in lus « suria ». Nov. Ant. DIMAGRARE
- INGRASSARE - I primi quindici di dimagrano e negli a altri quindici di
ingrassano ». Cresc. a Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ».
Vill. I) ISFARE a E di vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se
non al di « del giudizio ». Vill. DOLERE –. E cortamente di lui tanto
dolsi quanto donna del far di « buon marito ». I)itta in« La speranza del
perdono si è data a chi la vuole. E colui l'ha per a mio dono, Che del suo per
rat, duole ». Jac. Tod. ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò
il capitano di Mela a no, e il re Giovanni abbassò. Vill.a IDC lla sopra detta
vittoria la città di Firenze esaltò molto ». Vill. FENDERE - Vnche se ne
fanno convenevolmente taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ».
Cresc.GLORIARE - –... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella
beata a contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio
a riare, attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano
festa con somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE
- – Di questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso
passivo assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è
capace, e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma
attiva. Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di
ricevere un cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad
essere impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l
figliuolo messovisi a « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti
sbranare. INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi
fe a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE
– « I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll «
possono volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta
». Bocc. INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine,
inerpi « Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da
questo discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi
servigi un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in
casa un suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per
soverchio di noia infermò. Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a
Imorte ». Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La
povera donna cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – «
Non badavano n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani
infingardire ». I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi
l'ossa di quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo
infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti
infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro
fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle
anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.
INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.«....la
quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il ladro
surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto
scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo
a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – «... prestamonto lo menai a lavare ».
Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov.
aInt. « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC (c.
º llll'altra volta la ino MARAVIGLIARE – L'anime... maravigliando
doventare sinorte ». Dante. « Con tutto il maravigliare n'eran lietissimi
Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte: « adosso in aggiore »,
lºore. « I)ebb no alunque studiare i padri come ». Fia Ill.
multiplichi e con clue Iniestier ed uso s'allmeriti, e divenga
fortunata ſilli. -..... que rime 1tlti i cresce a io e moltip
Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo e per lollando
l)allte. « Assolver non si può li noli si sieme puossi ». l)ante. « (.lli
(li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert: quali a Inosca dello Iara ca
l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla ril nei luoglli caldi
Prontuario. I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE (tale a lui a contro
il Sallesi ». V Ill. al s'affr, tti si s old fa di pentire ». la
calca gli multiplicava ognora a ſalniglia, ! ». lPall.lol
licheranno llaraviglio -:1 fo, l'a ll vita Ne pentire e
llSciIlllllo ». V,iere iil l'laln. la ll pero in sul
nero e - apore ». l):) V. (.. ll noso aleli f. Pianta -
a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto raffredda e io sto
riscalda. Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e il riscaldarono
nell'i gue: ra IRIIP AI: AIRE L'inglese to repaire (on I. lo stesso
verbo, IParte Il I. « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano dei suoi
seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa e
sorrossi dentro ». I30 ('. «.... tutta la lla V e dis armi: i ta
dalle opere in m te, mal nu:i:a e dalla tempesta, e.. aver bisogno
di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi a sverl):n l'e ». 13:art. ROVINARE
- Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon
consiglio di chi li vuol bene ». l 'ieronz. a Mentre che io rovinava e li
è col reva precipitosamente a fiacca collo) o in basso loco, Dinanzi agli
occhi mi si fu offerto Chi per lungo si a lenzio parea fioco ». Dallite.
a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un fulmino, il a
tanta furia percossa, le gran parte di quel M:I (Ini:n volli. e
Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ». a l'asst, l'
illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn. pilona lo
rovino ). l3,) i t. rovinare... non è gradi a lºietro aveva gia
preso la china giù rovinando... se non che... » Cesari. e Clio non
rovini, lli vi i l i lil: r.:i bali: l'i slli trabocchetti, i 'l:º a
sopra saldisini p.I vini: i I, lov Ilie troverete?. Segn. SALI) AIRE -
It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal trovato - e a saldino in
ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ». Red. SBANI)ARE --....
le (-a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a del st ) Ve li sbandarono, l...
SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/: pll'1 o sbigottire, con voce assai piace
vele rie, ose.... » I3oce. SRR.AN ARF - Illvii “i i sll Ille. la do iº la
annata di lui ad un e desinare, l: qual, v. d. ll -t: IIIedesima giovane
sbranare ». B.)cc. Aggiungi i modi: mandare o menare chicchessia ad annegare, a
uc cidere, e simili, ci e ad essere annegato, ucciso Indi a quattro dl, col
ta:nto -piarne, scope, ta, fu mandata uccidere, I3a t. ccc., cliº li son
frequentissimi in tutti i lor li bilogia il guai del trecento e cinque ei to; e
li segi:iti a bella cosa a vedere: dura a sof frire; – « Case vaghissime a
vedere, comodissime ad abitare ». 3:1 rt. Demonia crribili a vedere ). V |!! -
V si lt l'1, l'ille, elle mi racolo furono a riguardare ». I3... solº i maravigliose
e pau rose a riguardare ». Vili.... l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt, il N' -
a stagio gravosa a comportare, che per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri
di ll 1 le; - l. I3, Forl II (ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1,
scrivi il 13 arioli, IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1:
pia in di....i e, v. altri si av veng: i il: l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l'
ignII llo. I ' ' ncere poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma, o
creda po tersi mai trovare un verbo:itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non
siasi talora uscito a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che
i rutissimili (.ss e v. 11 ri. di lirl II i qual. In Forli' ciarl,.le.::i: dimi
ed altri la intendono e - i ga: o l Iversalme, sarei tº itato il rigil:i ril: i
re corri ti 'i: 1:1, li i leli iti:itti vi si getti: l II l de' verbi: fare,
lasciare, vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare,
biasimare... Tizio a Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na
cosa a chicchessia o checchessia.Mlal, l. Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i
lil Il di al front i rili e Inl Itt e il:ì il tro: i:l ll 1: i: li si. I l it,Vli
sia però lecito di osservare le villa di irolti esempi in cui il soggetto i
porant e il preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº dei lati;
li, e li:: lì il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar 1:1 dollo la
sintassi: e bast, per tutti il - guente del Boern cio: Va -- e l og: 1o di suoi
a Chiassi, qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº. io va ti ucciderla
e divorarla a da due cani ». Si di: • i:) I cacciare, 'l'uccidere e divorare
che l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V., (belle sta, il lil:) di scorretto: velt
e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre ed eserla cioè: e la stessa
essere ) u (Isa e divorata da due cani. Qual'1 do invece s'oncordanza sarebbe e
sconnessione troppo rincrescevole e male ancora si atterrebbero le parti al
loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare quale verbo di
significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui soggetto, cioe',
cavalliere accusativo agente, ed og gettº, una giovane. Ed oltra ciò si ponga
mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio: Illvita i suoi
parenti ecc., Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº alle o l a o da,
e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma e non e egli
forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo precedente?
SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica, sentirono la nave
a sdrucire » I30 ('. SERIRARE rinchiudere ecc., Olm! che dolore ti venne
quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei lupi rapaci, che desideravano
di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che questo ti fosse si gravide il
dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non potere essere alcuno di voi,
che quello del la morte non fu maggiore. » Caval.Allora una delle suore, la
quale vide visibilmiente gittare lnel poz u ( e zo, gridando
forte.... » Cava! Tra due l: essere gittata (lal dellº - lli, nel pozzº ). SM V
I, I'IRE - - « (..il iarolo a smaltire ». Cres. STANCARE a E avvenendomi
così piu volte, e io pure volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè
io rimasi tutta rotta del corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di
se stesso paura o della giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da
lupo strangolare. » Boce. TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire....
» Fier. TIRARIRE i tirare) --. E come a messagger che porta uliv. Tragge la
gente « per udir novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () (corso
lor l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30
('C'.º..... il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce del «
leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia....» Voi gar. di
Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un topo per
la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di questa opera
di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade d'intorno, e per
tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti gl'infermi e
poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva recare, e vi si
riducevano come a « un porto. » Cavalca. e Un piovºnº i grillorando a
scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a chi trae come
ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi trae. »
Sacchi,«... tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. » Bocc. – Nota
la questa frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc. Anche del vento del
mare ecc. di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll e beccio ». I3a 1
t.Per nº lì tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui di por mente ad
altre II1:ì il lere che si ill bllo: le e dell'ils. Tirare da uno e cioè sol
Ili gliarlo); tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non badare che a
finirlo in fretta, anche st; pazza idol; tirar giù di una persona (dirne male
se, za Ibla discrezione al III ndo,: tirare al peggiore: a Egli 1tlti io che ſi
evin (i i lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc. « Ari ippò
l'insegna e trasse:: - la il I grida 'I l... » I)av. “...... e scorrendo per le
vie s'intoppano negli alimbasciatori, che udito « il l ril 1g (111 di (i e II,
1 lli, a llll traevano, e svillaneggianli...» I)a V «.... la vaghezza di ricolº
oscere i gran personaggi, sicche in calca la « gelite - ll al trarre il
vederli., (es. l ri. TI IRB.ARE –. Il cielo e lill!) io:i turbare. » Nov All.
VERGOGNARE - SVERGOGNA IRE.... a qual cosa -oste no, per lui, li a sia il lo,
temendo e vergognado ». 13ocr'.« Allor: il crav: lo tilt, svergrgnò ». I v.
Esoi). Conf. Disonorare, svergognare – Prontuario). V()I,(iERE - V () I,
I AI? E. ()r volge, sign(l' In 1, l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº,
al di-. go ». I'et: Noto e 'n ulso anche og gi(lì, ma chi pensa e
vi sento Ina i 'a fol'Irla assoluta?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr. In
queste ruote., I)ante. « Il tifone voltò e preso altra via, la burrasca subito
rallentò...» VERBI RIFILESSIVI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è superfluo, o NoN
NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO, L' posto di quello le si è vedi o
lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e per pc o
smesso, render reciproci alcuni verli: he (li la III l'a ll l solo. I
'alliss, mi li, ci, si.: Il paglia verbo si rive il Ft il naciari, a come forse
meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl '::: l'azione nel si
ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i grai lilli alici
dicono sul biellivo. Nella Serie IV seguente ragioni: Isi di alcuni
verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione d'allronde. E come
altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di questa serie: pensarsi,
sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc. volendosi esprimere azione
che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però, per esempio, mi penso,
voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io penso: mi vede, chec
chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di cordoglio, di crepa cuore,
ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare, cominciare, morire. e, che
è lo stesso, faccio si che io vegg, entro ecc. E quanti più altri co. strutti e
modi, che misteri della lingua si appellano, ci verrebbero piani e ne
sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original candore, se l' genio
studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei verbi, l'ordine
dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.! Sturdiali i
seguenti esempi, e saprai come e con quanta grazia. V V EIASI
Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS ARSI –.....
la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che « era e..... » IBO (('.
e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... » Boer, « Ma io vi
ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per avvelt Ilvo lli
v'avvisate. » l Bo.CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne con gli occhi
adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi rimandate?» I)av. (()NTINI
AI? SI e... liguarda ll do Emilia sembianti le fe”, che a grado li fossitº, che
essa i coloro che detto a Veano, dicendo si continuasse». I3 cc. I) I BITARSI -
« e saravvi, mi dubito, condannato in perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E
grillingtºndo alla terra, in vendo l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono
o. Vill. a Ruperto vi s'entrò dentro. » Vill. l'SSERSI - «... e messosi la via
tra piedi non ristette, si fu a casa di «lei ed entrato disse.... » B i.Sempiterne
si son le mºzzate, le ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):)
Vanz.“ In ogni parte dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla
tll ril trattati. » Boi ('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a
Frascati. » Caro. l'AIRSI - e Che monta a te quello che i grandissimi re si
facciamo?» Boce. “ Divano º sta di non tener più conto di lui che si facessero
cogli nl « tiri. » (esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si
mori di vecchiaia». Fioretti. «... e così morendosi in poco d'ora, mostrò
quanto ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì. NEGARSI – « E' il
vero che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come
io mi vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a
voi cosa ecc., che voi vogliate che io faccia º BOCC. PARTIRSI (v.
Dividere – IProntuario, –... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI –
(Conf. Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich denken dei
tedeschi. – Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil d'induzione,
d'imaginazi lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o
supposizione non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon
talnto. -- Solº parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io
dico che pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un
farsi o formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro
in cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di
quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti «...mi disse Parole per le
quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“
sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun
giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare,
escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º...... e si pensò
il buon uomo che ora era tempo d'andare.... ». Bocc. SPERARSI –- «... e
sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser
pace.... ». Bocc.USCIRSI – «....io vi voglio mostrar la via per la quale voi
possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove
usavano gli altri Inerendaliti ». TBocc. VERBI CAUSATIVI, cioè
INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E
FORZA TRANSITIVA. Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e
mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di
apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva
(imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre
intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su
cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il
natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di
frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº
svela is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i
stanza o termine cui si ri "sº, lº sºnº:. io h Fei io se stesso, e la sua
donna comini c'Io ct piange e. I 3 º li, o solº a se stesso...:....
cominciò º ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel
regno: ( Ma pure ingendo di non aver posto mente alle sue parole
passeggiò º due o tre volte il giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano
il giorno cerli pescatori al lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo
chi vi per cui rimando aliora le solita te libiche pianure '. Stroc chi;
e ci si dicesi: nº l'11tri il liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.:
rotſionati e discorre e un jail!; liti ti un pº' irolo: andai e una riu. –...
la via che ad andare abbiamo. I ce. passati e il fiume: passare ll no con il
coltello dare ad una donna in uno stocco per inezze il pelo e passarla
dall'altra parte I, centi si, desinarsi qualche ºsº, ecc. ecc., vuoi per rili
li erla p i licelli, preposizione, o altro aderente al verbo con piani e ai per
- con i re un paese: obe dire - ob - audire il padre, la madr: riandare un
lavoro, la vita ecc. – (ili cominciò a spiana e quella grand'ella, qual gli
pareva che fosse riandare l'ulta da capo la sua vita. I; il I., n. ll per reva
azione di rella che dal soggello agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma
lo è di verbi si illi e li vuolsi o li ragionare. Nella Serie II. allegai ai
verbi al liri-pi o nominali che sulla penna a classici ci si pre sellli II l '
il lillili il neutri se in plici, la cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi
sul soggello li a emoli si rel: il lasitiva, non più emessa. lira il rimanente
e inerente al soggello. Qui invece mi pongo alcuni altri neitli i di lor
nallira. In alli al sl 1 il lei e altresì il cagionars, altronde della
rispelliva azi si rie, si gg i è riori: hi la fa, ma a chi la la lare.
Nolissimo, a cagi li d'esempio, il doppio uso del verbo Non ci re. l)i esi: la
campana, l'isl 1 lu meri lo suona, lila allresì e bene: io suono, ed anche: io
suono la campana, il cembalo ecc. Il primo è neutro in Iran silivo: l'azione
del sil riare, ni: ridar lu ri suono, aderente al seg. gello, del sogg l sogge!
I ci: il si rondo e il lerzo invece non è verbo che dica azione chi si s Io, il
cli: i ar. vale: io laccio sonare io faccio sì che un isl 1 Imen lo renda silon
Vl tried sino modo spiegasi il III zionare al livo dei verbi qui soll shie ali:
e il di p. es. cessare chec chessia torna a questo: fare che una cosa
essi, linisca. (*) I, a lingua tedesca è ricca pi assai che l' Italiana,
francese ed inglese di tal maniera neutri intransitivi. Lasciando stare il gran
vantaggio che ha di collegare a nodo di una sol voce qualsivoglia verbo con la
rispettiva dipendente preposizione sia dell'oggetto diretto che indiretto o
complemento, gran numero di verbi neutri (che, spogli di ogni affisso, reggono
un caso obbliquo, o l'accusatlvo con preposizione, e però d'ordine e rispetto
indiretto relativamente al loro corredo) trasforma ad altro rispetto e indole
quasi transitiva attiva, premettendo ed affigen dovi la particella be, Es: den
Rath be folgen (den Rath folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen; einen
Freund beschenken; don Feind bedrohen; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen; Jemand
behelfen, beweisen, befallen, belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il
Vocabolario ne riconosce l'uso attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che
risponde bensì al senso della cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non
ſi mostra come il suo valor ma lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria,
avveglia che dipendente e soggetta a chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare,
attivo, vale rimuovere, sospendere, sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al
senso, ma non quanto alla ra. gione intrinseca e letterale della parola, secondo
la quale il cessare non è propriamente azion transitiva del soggetto che cessa,
v. gr. un pericolo come sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc., ma egli è
sempre azion leutra della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa, e il
cessarlo non è, a rigor di frase, un rimuover!, che si Iacria, ma vale far sì
che il pericolo, comunque non abbia più luogo. Il qual modo far fare, onde
spiegasi la forza transitiva di cui è capace il verbo neutro, vuolsi applicato
a qua lunque altro che comechessia il comporti. NI3. – Si fa qui menzione
di quei verbi soltanto il cui uso alliro - causaliro – il V Vegnachè
ordinariamente assoluti o costruiti neutral mente – è virtù, è particolarità
antica e classica. Di allri molli, dei quali una tal proprietà è tuttavia
comune di generalmente nola, non accade or cuparcene. Nostro compito è
richiamare a vita le smarrite o poco nole hellezze, proprietà, virtù e dovizie
dell'avilo, italico idioma. (*) Di tal fatta verbi è ricchissima fra
tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E per menzionartene alcuni eccoti: to
fall (cadere e far cadere, to drop (cader giù, gocciolare e far cadere o
gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......), to fly (volare e far.....), to
sink (calare, andar giù e far.....), to wave (ondeggiare e far.....), to fire,
to well, to play, to please ecc. –. Nella lingua tedesca, invece, si è mercè di
una piccola alterazione che il verbo di neutro si rende nel modo esposto attivo:
Steigen (ascendere), steigern (far ascendere); folgen-folgern; nahen - nahern
(e anche nahen cucire); sinken - se nicen; trinken – tranken, dringen -
drāngen; schwanken - schwänken; erharten - erhärten; erkranken - krānken;
fallen - fallen, stiche In - stechen; schwimmen - schwemmen; springen -
sprengen; wiegen - wagen; einschlafen - einschläfern; liegen - legen; sitzen -
setzen; stehen - stellen; rauchen - rauchern; abprallen - ab prelien; fliessen
- flössen; schwallen - schwelten, lauten - làuten; (es laPomba so...., es wird
gelePomba) ecc. ecc. Io non so di niun grammatico o filologo il quale
parlasse mai od accennasse a coteste verbali analogie, rispetti e relazioni
etimologiche. E quanti, a cagion d'esempio – non esclusi Ollendorf, Filippi e
Fornaciarl –, s'ingegnano per molte altre vie e a tutto lor potere, e per
dichiarazioni e per esempi, di mostrare e far capace il lor discepolo dell'uso
e valore, l'un dal l'altro assai diverso, di clascuno dei surri feriti verbi
stellen, setzen, legen, quando una parola soltanto basterebbe e farebbe più
assai; dicendo cloè che ll son verbi causitivi: stellen di stehen, setzen di
sitzen, e legen di liegen. S'io lavorassi o dettassi comunque una
grammatica, distinguerei quattro gran classi di verbi: I.a – Attivi
transitivi – lo anno. L'azione transitiva è mia. II.a –. Attivi causativi. – lo
guariseo alcuno, io risano, io suono, io cesso ecc. – Mio l'atto
causativo, ma non gli l'azione stessa del guarire ecc. III.a – Meutri
relativi. – Io corro (una via), io piango (alcuno) ecc. (Conf Il ragionato
testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io dormo, ecc. Il dire: vivere una
vita. tranquilla, dormire un sonno dolce, placido ecc. non toglie al
vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma é sol modo elegante che
torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente, e pºrò altro non
è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a zione o qualità del
soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “ Dormito hai, bella
donna, un breve sonno., Petrarca.CESSARE – «...da troppo più erano in lorze, ma
il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.«...e cominciò a sperare - e nza sia
per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III olt. l 3o t.Così a
dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta, Chichibio cessò la
mala ventura e la il 1 ossi col sito -... ». Bove. E se pure i liti e li rig.
Vi volesse soprarſi lº cessatelo con pazienza e sopp rti / i 'le..... l'a
ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l i s'1-s......it, livºr
cessare la neve e la notte e le sov l instil V a. l ore 11 i. Cristo
pregò il lº; i dr. lle cessasse il calice le! l -- i il di lui ». ( la
Val. e l'el terna li slla voli e, lil cessossi e la lº tissi da FI l elize ». V
ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei tºls e, rilla nerselle. (:) | Astenersi lº
l'a lt 1 l:ì i l. La terra fu cessata dai livelli lº stilt la c. l. «
l'el cessare i pesi d llllo si, it: i cl l - e gli stessi, con la Illiato
». (es: ali. « Per cessare ogni vista di tiri, la gran le zza s. Cesari.
CONVENIRE. - indi convenuto, le ini, e il dizi: io, che è participio non
del neutro, ma del call sativo ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto con
venire o gli fu intimato di convenire« Questa (l'anima, dinanzi da sè, il Clti
i lu lu parte del mondo, può a convenire chi le aggrada » (iitll.a Chi conviene
altrui il giustizia di pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto gill di
1, i: i - o sia le convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat, (1:111 o vi
è lll' '.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio della
Virtuſ ». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase:. Questa
piena de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il segno... ».
« E crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l... V Ill.E questo pellsiero la
illlia Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e ricrescevale
l'odio di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si sarebbe morta
s'ella avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il testo li
rincrescevale, ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia altrº tale
che ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come nota qualche
espositore, ma cau sativo retto da pensiero, il quale non solo la
innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai
qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che
segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì?
DERIVARE. - «.... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle
piante, così.... ». Segn.«....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in
queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi
infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore
questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor
che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori
avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto, erano
seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la ria.
Fallire neutro, vale: li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el sagi li
''I raro, commellere fallo, andare a vuolo - si leiler n: - la debolezza
vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a passi folli
la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli sll'eli e
pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne..... (es. \ i rolli: il falli la
speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a Per cessare
il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca dei suoi 1
ratelli.... ». Bart. « Chiedeva lo riposo per interce e di non morire in
quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver, si duro soldo o l)av.« Finite
i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri ». Ceskani.«
III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli e le
alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av. –
IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a) -
a... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O finire
Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ). Passa V.
b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato «
quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la
vergogna, finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo
è neutro, 11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE
– (Conf. Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in
chiese e in luoghi religiosi si ll ' ». Vill. MANCARE - « Questa asprezza
delle grida era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte
di quei dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi
mancato la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della
Inia rovina ». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on
f. ll - i vari di questo verbo - Parte III. MONTAIRE a..... e così in
poco d'ora si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con
falso viso di felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria
». Vill.Anche i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì
i rall - sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise
I'm to raise. MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli
che a torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in
mano, uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo
plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella m'ha
morto o lº i. - - - - - e ln, il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il lesti
nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per cui... »
Cavalca., Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,. Mista l'o
di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto l'umana
natura ». (es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ». Dav.
Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle.... » l)a V. Fra l III olti isl
lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e lº i loro
esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una spiaggia i fili:
I l a tºrto e lº iallo el'a lln sentiero s gli Imbo. (.li e in liesse il
1 l la n o della lacca Là ove piu. he a mezzo muore il lembo ». l)ante.l'ASS
ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui ponte, Il
1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e l'rego un ge:11: le
li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli,, per natural cort sia, o per
che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla llli e passo llo ».
Bart.I mi: rilla I e i soldat,, lire il v vien le lunghe navigaziºni passa vano
il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ». Bart. - Passare il tempo,
frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo rosamente parlando,
trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì rimuoverlo,
scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben, cioe parsa lo in senso
causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia non si
trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W. Il vertreiben, non zul
rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla scudo al
mio pensiero. ') po.. er detto che alla donna conviene talvolta di Inorrarsi in
ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è rimossa -:: -
il l '::: il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene. Essi, se:I l il 1:
Irri li vezza il I l ' - I ', gli i filigge, lì:almn Ino di, di illl:: 1:1 re a
da passare quelle ». l 'r erni..I )i, he lo n vedi che codesto passare e il
rimuovere sopra detto. I 'I l? I)I.I E Tinete eum qui potest animi: In et
corpus perdere in gehell ma li ig: tris, Vlath.: ' '|... Il cui numero la loi,
scritto essendo completo, ed egli tolse di I lil: do e lo ebbe perduto
senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria III: Iddio ha perduta, cioè
distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll Illini ». l'assia V. (!) È
ben altra cosa il dire perdere checchessia – cioè rimanerne privo – e dire: perdere
uno, perderne l'avere, la riputazione ecc. Quì perdere denota azione
diretta di volontà che fa che altri si perda, rovini; quando nel primo modo è
cosa che, indipendentemente dalla mente e volontà del soggetto, al soggetto co
me clessia avviene. A gli esperti del Breviario romano ricordo la bella
discussione di S. Agostino intorno al doppio senso dell'espressione: perdet eam
del noto eflato di G. C.: qui amat animam suam perdet eam, cioè o l'uno, o
l'altro: colui che ama veramente la sua anima, perchè sia beata l'IOVERE -
NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon fiammelle di e fuoco alimate d'uno spirito
gentile ». Dante (Convito).a.... e però dico che la belta di quella piove
fiammelle di fuoco ». Dante altrove Conv.)« Il Saturnino cielo, non che gli
altri, pioveva amore il giorno che a e ili nacquero ». Filocolo.Sospira e suda
all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar l'aspre saette il Giove, Il quale,
tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i precedenti esempi in strano chi la
o non esser certi verbi, che si chiami lo illip I somali, si rigi il sili, elle
lilli che non siano slali Ialora adoperati - e lo si può ſulla via anche a
maniera di al livi, sia retti solamente Vegge il la cagi li che il lato priore
». l)ante: Innanzi che la ballaglia si comincli - si porre una piccola acqua ».
Vill. Pio rele, o Jian ne, e li o in lei il voraci le possessioni. Segn.
Quando il giali (ii ve lona Pell. e par el l e il libe che squarciata « lona, l
anti, sia reggeri li ricorsi il II Il caso. Nè pol rassi perciò mai lidariri i
re di errore il dire come elletri e le till illegali: le stelle pio rono in
luenze: i nu voli pio con sassi, e c. SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla
di pipistrello era lor inodo, e e quelle solazzava, - che ti venti si trovean
da ello ». Dante TIR.ASTI I,I. ARE e \l trastullare i fanciulli ill el
le;l p. 13ocr'. VENIRE - - - E l' ste detta fu quasi tutta se la raſsi e
venuta al niente senza colpa dei nermi. I n. Vill. nell'eternità,
darà opera che sia perduta, eloè resa inerme, la farà perdere nel tempo:
oppure: colui che ama la sua anima nel tempo la perderà nell'eterno.Quanto
all'uso di perdere a maniera assoluta ti è forse noto, ma non ti verrà discaro
un qualche esempio: «... Essere tutto della persona perduto e rattratto » Bocc.
«... e mise il mare in così sformata tempesta che quattro dì e qnattro notti
corsero per « duti a fortuna senz'altro inlglior governo che... » Bart.“ Guarda
come ciascun membro se le rassomiglia ch'egli non ne perde nulla, Fler. Nota
ancora gli usi: andar perduto di checchessia o dietro a chicchessia i perdersi
d'animo; amare perdutamente ecc. ecc.CAPITOLO III. Voci e rnaniere il
noleclinabili Non sarà certo alcuno, per ignaro e poco sperto in opera di
lingua - il quale leggendo e studiando nel clasisci non s'avvegga che anche nel
l'uso di certe voci o maniere indeclinabili - oltre a quelle che ad altro
oggetto l'agiolai ed illustra i più sopra - consiste talora il vago e l'effica
cia del discorso, e vi è molte volte diversità tra l'antico e il model'In..
Anche a queste forme vuolsi adunque por mente, e farne oggetto di | esame e di
studio. Le dispongo a ordine di classi o serie sol per divisarne comunque la materia,
non per logica ragione che me ne richiegga. Assapora, studia e sappi quando e
con le usarne, discretamente cioè e con lo senno, sì che alla frase lorni garbo
e naturalezza, non mai al fetta la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti
verranno anche qui, come al rove, scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere
lalora annoia, in opera di forma al tutto didattica torna anzi - utile e grato,
e vale qui più che in altre discipline il noto proverbio: Re petita
iuvant. SERI E I. MIA NIERE A VVER BIALI o I o RM: IN C: EN FIRA I,
E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I (I, A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E l I,
GI: A l M (N ) (E SU'PERLATIVO 1) I QU' ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI
Asl. Le quali tornano solo sopra alle volgari: immensamente: incompare:
bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le: onnina nºn lo nel modo mi. glio
e, possibile ecc. ecc. COMI E ME(il,I(); II, MIlGI.I () ('ll E.....; CI
IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A l'III'; ECC. ECC. - – - Spacciatamente si
levò e, come il meglio seppe, si a vestì al bllio ». 13, c.« Senza liti, la
cura e prestamente come si potè il meglio... » Boc. . - “..... riprese
animo, e cominciò come il meglio seppe..... » Bocc.. “...... a dorni il meglio
che sapevano m. Bart.“..... tutti pomposamente in armi dorate e in vestimenti i
più ricchi a e gai che per ciascun si possa ». Bart.AI, « Voi
l'avete colta che niente meglio». Cos. «.... con quella modestia che io potea
la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella maggior modestia ch'io potea.
) - - POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE; AL TI "ITO; IN TUTTO;
ECC. «.... purissinra l'aria ed asciutta e secca al possibile ». Bocc.« Vi
terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ». Cesari, º.....
pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni subitº, « ed efficace
l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea essere, ma..... » Ces. «
E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che il prete fosse al tutto
ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o fare l'assoluzione..... »
Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio «
() (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e determinò al tutto di visitarlo
personalmente ». Fi, retti.a Malvagia femmina. io so ciò che tu gli dicesti, e
convien del tutto l'io sappia...... » Boce. “..... non ha bisogno delle
11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le lodi slle e e però Inc le taccio in tutto ». i
l IIll). PIU' CHE ALTRA COSA; QUANTO NII N ALTIA(); ecc. « Assai più
che a altra femmina dolente, a casa se ne tornò ». I3o. e Lo scolare più
che altro uomo lieto, al tempo impostogli andò alla a casa della donna.... »
Boc ('. “..... il che voi, meglio che altro uomo ch'io vidi mai, sapete
fare con a Vostro sºllino e col V (Stre ll (Vello ». I30 ('.a Vergine madre,
figlia del tuo Figlio, l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te: Irlino fisso
d'eterni i collisiglio.... » I)allte.«.... d'altezza d'allirno e di sottili
avvedimenti quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.« Più tosto si
richiede onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna altra ».
IPandolf.a... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e coll la
virtù e dei miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart. PER COS.A
I)EI, MONI)(); C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME GI,IO
IDEL MONDO: PUNTO DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a.... e
quantulinque in contrario avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo
nol volea credere ». lºoc ('. --- (Simile la fraso del l'uso: per tutto l'oro
del mondo – nicht um die ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la
calca, là pervennero dove... » Bo(('.« Alla maggior fatica del mondo gliel
trassero di mano, così rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io
gli ho ragionato di voi, e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del
mondo iron potea posare ne di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una
fatica al mondo ». Fiel'enz. A CHIEI)ERIE \ I, IN(il \: \I. I)I SC) I PR
A: (() MIE I)I() VEI, I)ICA:....E' I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A
VIISI IN A: ec....... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo
gli capeva che il valesse ». l30 cc. « Il popolazzi,.. asso, st L. e ti
emend al di sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li
accolla io questi gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. «.... colle l'a II lilli,
fierall 'i! te è una favola a dire. Flereinz. « La giovane, la quale senza
misura della partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li:iltri.
sser. In rto, lungamente pialise ». Doce. AVVERBI I) I TEMl PO Ass
v I I REQUEN I I VI po I (I. AssicI E D AI MoloERNI RARE VOI,TE EI) AN('l I E S
(' ) N V ENI ENTF VI l.N l'F, A l)() l'ERATI. Solº, e ben si vel. io il
amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l sentire e del pensare
rivelano assa i volle, chi li Is I l s, che di gentil e di fino. Ad intendere a
che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da non dove si l rais li
tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci che venissero sul gale,
per quanto equivalenti c (lell'lls. I, A I PI? I VI \ (.()S \ \loid
'il: 1 o, e st. In tla prima cosa che faceva, clle dI va, che li l' I, le ill e
I e I blie i. (olf. Al llla si Sel ie. I - il I l I so: volte, i vi si va via,
la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so S. Z:lolo º lº i:li. (n'egli
era a levati, la prima cosa spendº via il rile, i ora zione mentale. »
l3: l 't. (o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in alto il prima giunti (.lle
lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I alla prima acconsentono º,
l):n V (in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t lizione... o V ill I ) \ Iº
lº I M.A... Illando l'alto livlio Vl sse da prima quelle cose a bello. » I ):
l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! » l'elr. Parla dei primi istanti
dell'amor sul.)IN PRIMA – « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca
in « tanto che pecca manifestamente ». Caval. « Io voglio in prima andare a
Roma ». Bocc. DI PRESENTE subitamente incontamente). Matteo Villani
elle questa forma di di e continuo alla penna, e per quanto a me ne paia, non
mai usata a significare il ro che su bila mente: nel qual senso la rove ete nel
primo libro della sua Cronica delle vol, allilelio cinquanta. I3artoli. Ma non
inferire la ciò che sia inal Isa! anche il senso di: al presente. L'ha il Caro,
il Lasca, il Segneri e noi, altri: « Ma forse che di presente non v'è
l'Ics Iso? Segn di presente e gli cadde li Iurore ». I3ore. a... tutte le
Imadri che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1, l. detto monastero e
la badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a chiesa...., e di presente
erano saniati d'ogni info, Irlita., Cav.... e poi le fece il segno della Santa
Croce nella sua fronte. All ra « il demonio incominciò di presente a gridare
e... » (a V.Se l'andò di presente alla madre e contolle tutta l'ambasciatº. »
Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di presente. » (ia la teo. a \ppena
avvisato da lui questo peso l'intrepidimento, di presente º so ne riscosso ».
CesI)I TIRATTO – a...il domandò se..., ed egli di tratto rispo- di si. (-. I) \
INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò di Inai piti.. » I3o:. a
Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia lill).l'EIR INNANZI – «....o
tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel: a dellte cavaliere. » Boicº
a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc. I).A ORA INNANZI - «...da ora
innanzi spenderemo la nostra diligenza « in cose... » Bart. « In fede
buona, discio, io voglio da ora innanzi credere come il re, e cioè in nulla ».
Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30....dì: Mi seguiterai da oggi a venti di
º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI –. E da quell'ora innanzi gli pºrtò
sempre « onore e river olza. » Fioret. I) I MOLTI MESI INNANZI....... con
le collli cl) o l or Ill ort, l':n ve: i rii a molti mesi inmanzi. » Rocc.DA
QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e vergog vi e « confusione la
tua mala vita che ti hai fatta da quindi addietro, se a tu ci vivessi conto
migliaia d'anni. » Cav. DI POCO Inolfo) TEMPO VV VNTI... Di poco tempo
avanti a marito a vomiltºn lº..... » IBoc ('. DA POI IN QI A CIIE.... - -
« Da poi in qua ch'io servo a stia Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi.
» POI AD UN GRAN TEMPO per buona pozza di poi -, senza che a poi ad
un gran tempo non poteva mai andare per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON
MIOLTO): IP()SCIA \ I) l E, TRE... ANNI. –....benchè il « perfido, che
convertito non dalla verita, lira dall'interesse, si era illdotto non ti d
essere, lila a filigersi cristiano, poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A
lui al che si deve la conversione cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli:
sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v. Poi in significato di poichè, congiunzione,
Serio 5.) « tue giorni poi lo i lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le
mie scritture e dei miei passati allora e poi le tenni occulte, e e
l'inchillse, le quali non chi e la potesse leggere, nè anche vedere ».
IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea, la liber. dal au I e - Il giorno di
poi a che Curiazio Materno lo sse il suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo
primo ufficio a mano e di poi se ne fù borsa. » Cron. M () l'(ºll.
- S'arrende Cappiali, si lv ro a dappoi la rocca, -aivo - a l'avel e o V
Ill. l) A IPOI CI IE...: POI CIIE.. posi ea quan Ne furono assai allegri,
« da poi che l'ebbe il signor Tav rit. a E molti enºni, quasi me
razionali, poi che pasciuti erano be; le e il giorno, la molte alle lor, a se,
senza al il correggimento di pa store, si tornav: lo satolli. I3 ). r. «
Quale i fioretti dal lot il no gelo, li lati e chiusi, poi che il sol r e
l'imbianca si drizzi in tu! ti: pe: ti il loro stel.. » l)a nte. - Poi
che innalzai un co pit 'e riglia vidi il maestro di color che saillmo se dor
tra la fil sofi a larniglia o l)ante. IN QUEI, TANTO in quel frattempo i
17 w is henº « Quando -: ti o a un colore e quando sotto un'altrº
allungava sempre la cosa, e secre e tamente in quel tanto attendeva a In
tte, si in I tinto., (iiaml). I F. I I I V () I TIC: \SS \ I I) ELI E V () I
'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla più vi in: le più volte il
portavano. Doce..... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo riguardo ».
Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per timore e avampò per a rabbia ».
I3art. IN (*) Nota uso altro del comune d'oggidi. « Da poi o di
poi, scrive il Bartoli, sono avverbi | - « di tempo come il poste a dei
lattni: non così dopo, che è preposizione e vale post, nè riceve « dopo sè la
particella che, come i due primi. Perciò i professori di questa lingua
condannano « chi stravolta e confonde l'uso di queste voci facendo valere
l'avverbio per preposizione, e « questa per quello che è quando si dice: da poi
desinare, o dopo che avrò destinato; da poi « la colonna, da poi mille
anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi che avrò desinato, - « dopo la
colonna, dopo mille anni..... Due testi son prodotti da un osservatore in prova
di « quello ch'egli credette che in essi la particella dopo abbia forza
d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio, o egli in ciò non vide bene, però
che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che leggiam nel Filocolo (e ve ne ha
d'altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che « dire dopo poco e
dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si posponga per leggiadria « perde il
proprio suo essere di preposizione, cambiando natura solo perciò che muta
luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN TEMPO. –- Si vide egli una volta venire
innanzi quel « figliuolo scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito
di freddo e e smunto di farne, a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli
sulle a labbra ». Segn.AI) I NA; AI) (N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl
collo ad una le l gi che e l'azioliali. (iiillo.E fatto questo al padre - i ti
e, con i ti o dino li avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re
». I3 cc.a Tu puoi quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore
». l3a) (.FII ad un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza
solº l'appli -, ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille
cuori in corpo, credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». (a vill.....e lo slle
- rel. l: elie l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora
piangevano i figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP()
ZIl re e lit, Zeit, frilli - e il '..... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi
quanto al ra i vos- li Illi.: I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro
rvi. l?oce.Io so grado alla ſor. I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a
cammino che bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa. Bocc.. – Quell'ad ora,
se il il ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le
sigllifici:'e': in u il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1
llissell.ALI,()R \, CI IE.... - MIo -s. (r, l il all ora che - guardali do voi
egli crederebbe º li voi sapete l'in - ll - ci, Bocc. - - Allora che e il coin:
sto li ai l'ora che, cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? «....
cominciò a rilere e disse: (iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i
di noi in fo: - ti re, che mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori
(le -se che tu fo: - i il ln igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \
clii (iioti o prestamen! e rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l
'oblio allora che......., col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R.... E allora
allora ve: i cori in 1 il to a venire ill a torno alle gote il poco di
lanuggine ». Fierenz. « Se la Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ».
Fiºr liz. «.... fil percosso da un accidente di filºiosissima gocciola, la
quale allora allora i 'a in atto di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn.
CIII E' CHIE E'. a... fatti ch'è ch'è solº l'1 t.. ri o. I ):) v.
CIIE..., CIIE parte.... parte () e - o re: ni) che re dei rom inni e che a
imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e
quando a sotto il li filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a
cavallo, º eco il che il destrº gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N
AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi - Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco
e ci:n nci i un altro..... noi siamo a.. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC()
(id), l di corto si attºri il tv l e a quindi a mezzo anno seguì. I3art.« I più
furono dei grandi, che di nuovo eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di
poco ». Vill.a....mercecchè questo era timore di uno che aveva di poco
cominciato « a peccare ». Segn.a... forma generica di teli fare che sul l usa
l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che l'ha di fresco lasciato per darsi a
1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. -. Va, figli la mira, e clla Ina queste mie
suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono assai l'unguento e domattina il lande
ete a a grande ora, si colme tll la i detl () ». (a V.Si parla dell'unguento
col quale la Maddalena di ve:a ungere il corpo del Maestro suo nel. ionumento.
E adunque fuori di dubbio (le la frase a grande ora è altretta le cli a
buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota questo modo nei dia gli di S. (i regol io,
e gli pare clie signi! Ichi anzi l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I
PRIMI A (III: A (i I? AN VI \ I I IN() -... ll e il colpagno prima che a a gran
mattino, chiamandolo e scotendo o per farlo lisen Ire del sonno, se º le
avviole». I 3:art.A I, I NOi (), V IP () (.() A NI) \ I I: I ) () l ' () I, I N
(, () V Nl) \ IRI.. A V Vlsa: l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il
litore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza
d'animo seco pro pose.... ». I3 cc. e.... (ºd In questo con 1 il tar lì,
ll la lollo la pezza a vanti e le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo
andare, essendo un giorno il Zeppa il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ».
Borc. Così si dilra fatica a difenderlo, ma spero che a lungo andare la
verità verra pur sopra. Caro.« Chi si vergogna di apparire malvagio è facile a
lungo andare che all ora si vergoglli di essere tale o. Segl). I)ev'egli
telider sull'uditorio le masse deila divina parola, senza restarsi per
stanchezza di lati, che a lungo andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ».
Segn.e Dopo lungo andare, vincendo le naturali opportunità il mio piacere,
soavemente m'a (ld l'Inel tai o, Borº. Si dostò il silo mal illnore, e
che a poco andare livelltò l'ov (ºllo, fl'e lesia, rabbia ».
Giuberti. Non so però di millm altro scrittore e li ll sasse mai il modo
a poco andare il luogo dell'altrº, a non lungo andare. V me pare di sentire
nell'a lungo andare dei citati esempi non tanto il significato di dopo lungo
tempo, quanto quello di continuando su quel tenore, andando avanti cosi, il
quale significato mal si cercherebbe nel modo: a poco andare.IPrima di passare
ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di questo andare un altro uso
avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si gnifica: conforme alla durata
del tempo che impiega quel tale a fare un determinato cammino a l)icosi che, ad
andare di corrieri, sono sel e ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro
ad andare più di due mesi ». Mold. Vit G. C. NON MOLTO STANTE; POCO
STANTE. perchè..... non molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“
E il buon pastore vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso
a lui e piangeva di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci
conveniva venire. E poco stante e disse... ». Cav. “... dissº; e poco stante -
e ne vide il buon esito ». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò
la fallace fortuna ». Vill..... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in
torbido e 'l vento I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font, che in poco
d'ora ruppe un'or ribile tempesta. Barte così i lorendosi in poco d'ora,
irrostrò quanto ciascun uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi
nell'intimo di se stesso ». Segn. SEMPRE (il E., 2 ni, olta ch....: per
tutto il tempo che...; - so. It als...: so l' Ilge:ils.. sempre che p -so
gli veniva, quanto poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I
30 ....ti fa l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai.
Sempre che l Il 'I viverili. (I e Il III lili,, lº e - Add II e le forme
avverbiali, bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e
costruire il to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la
livinnelli e il tempi, e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il
quando di un fallo, e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo
spazio di lempo decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli
aggiunti, le circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro,
ecc. e c. Ma questo lo vedrai nel Prontuario s: II, la parola Tempo.
AVVERBI I I Morbo A: UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*)
A I3U ()N.A FEI)E (red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a
ai 1 l' - Il I la lorº ita. ll I)1, ». (.a V. Di buona fede, con bucna
fede in buona fede solo i nodi, loli si lo dl f. ſei eliti dall' Ilegato,
ma anche diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr,
ritente ritrovisi in buona fede » a 'I'utti gli il milli del boilo enti
lorº porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl. A ſ;I ()NA EQI
ITA' -. il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: (o ri lilllari cari l ' s
ll lo » lºt),Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto nome
di Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ».
Salv. (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA –... In zzando in un
tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno
di mal talento, stizzito,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se ne
compilerebbero i grossi volumi. (es. Simili le frasi scrivere in borra,
borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V EIRE - (osa
fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti maraviglia e se lo te
dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc.A FI RORE: A FURIA -
Quando il rumore contro il re si levò nella terra, il popolo a furore
corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt il:giurio ed esso (i ('.
lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così ingiustamente (a furore di
popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda... ) a Carlo v'andò
coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI ()... prende questo servo
e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a spavento, di lino nel luine:
rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due colpi si sventra ». Da V.A (.() I
'SO I. \ NCI VI'().... volmita le sue bestemmie in una foga di ben nove versi a
corso lanciato, senza il fiatar di mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ((A (()
I.I,() Cori ele, precipitarsi a slascio, a fiacca collo v. Correre,
IProntuario).e due schiere di lenici a fiaccacollo, della selva nel piano e del
a piano nella selva si fuggirono in intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il
fossi on firma l'resso alla terra, e la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo
VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A
RIBOCCO.... fonti... le quali doccia no a sgorgo per dar a bere e saziare a
ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce ». Medit. del | Vlb. (lollº (l' ) ((º
A (IR AN I 'IN A a.... ll'el a tanta la grande gol to che vi veniva, che a a
gran pena vi capeva » Cav.A ((i RAN) E ATIC V.... (con le luci tanto confitte
dentro di quelli e occhi) che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i
cento mila, a gran fatica un solo ». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii
l'olio in co: Vix (lo con tull) l Il till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo
scialacquatore che tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame a
gran fatica potea più reggere lo spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella
povera vedova, la quale vi avea a gran fatica riposti due soli piccoli... »
Segm. duo minuta). ... a fatica poterono le insegne campare dalle folate
del vento ». Dav. ()ttone, contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul
letto e con e preghi e lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi
io, gli ha potuti per un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir.
As. \ MAI O STENTO a mala pena) -.... e a malo stento si tonno ch'ella
nol a fe (o o. Iº nt ('.A GRANDE AGIO -- a... tanto che a grande agio vi potea
metter la mano « e il braccio ». Bocc. A TORTO – « Messer, fa
IIIIII diritto, di quegli che a torto In'ha morto a lo figliuolo ».
I30cc. .A NI IN PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl
Isse a coin a piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III. « E
certaIllelìte se ciò non fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei «
contentato a patto veruno (li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.–
Keilles Wegs, un keine il Preis. - Simile l'altro avverbio dell'uso e classico:
per niun verso, per niente, v. Serie seguente). A CREDENZA (senza
proposito, non serialmente e daddovero) –. E' a debbono essere da sei o
sette anni che un brigante di quei lilli ha a tolto a litigar III eco a
credienza e Vieille alla volta lnia ard Itamente ». Car().« Sicchè lion (1 edo
far I)io bravate a credenza quandº i lºg 'i a fferma a che repentina succedera
la morte ai mormoratori ». Segn. A BALl).ANZA -- a...e questi a baldanza
del Signore si il batteo villana III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo
latilio, soggiunge il Cesari, non si direbbe più breve di a questo: I) Inini
patrocini fretllesi. A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta
ecc.; impunemente) a....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva
). I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea
di corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ».
RO(('.« E perchè tante diligenze? non potea egli averlo a man salva ovun a que
volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino). A MIA POSTA; A
TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento vato sotto A,
Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino
posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come
tu forse vorresti». BOCC.«.... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che
tu tenevi a tua posta ).a... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato
In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a
sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua
posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse
pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà
d'altrui, e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse
Malerno, altra volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi
levare a mariti le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le
sesso scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.«... ma
lascia dire e tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia;
Gracchi a sua posta, tu non le dar bere ». Malm. (r (l\
A \ \ A .A V - Oltre agli altri significati
della V o posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e
però la frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e
di sapere se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce.
MIIC), A SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a
rili la bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della
stella, V it. SS. PP. "... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li
l'Israel a guida della colonna ». Vit. SS IPI. SECOND A - Venendº giù a
seconda di l iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! !
util, a (-1)ITO: A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il
Ill I e il Il l a dito... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche
amico ». Giub. TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i,
opei a re, lavorare a tentone; il nºda, procedere a rilento. SI PI? () lº() SI
'I'() - Fra - della era te a sproposito, gramma t (a 1 rbitraria..., Mla lizl3
Al RI)()SS(): \ BISI) ()SS() I.el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il
lent: fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“... titlito è Irleglio, il
dicit re lº tºga rozza e a bardosso che in cotta las Iva da Irie reti I
ce.. l): V...... tilt. I3rotier.... E ogni liofil Ill se le scolla, Veggendogli
una cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol l'eroerin º ome in
l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a ridosso, ma molti a
viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V.Ridosso, sost. vale: renaio lasciato il
secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso che cavalcare a
bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala pena, per l'ap
punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....«... A randa a randa, cioè
risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto rasente che non si
poteva andar più là un minino che, a IBl1t. « Quivi fermammo i piedi a
randa a randa ». l)ante. «...era apparita l'alba a randa a randa ». Morg. «...e
poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa » Segr. Fior.
IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini simiani nelle
orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI,l ME (che ll ) m l'i(ove
il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume – faro che li ossi:ì a
contrallume. SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie l'anºni a sprazzo,
lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per l'appunto) -- I)a
sesta, com passo. Nota il modo: colle seste. Parlare celle seste, cioè
parlare cal colato, misurato, compassato. «...e menandogli un gran colpo
che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli spiccammo il braccio »
Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen, schief Schlagen. «
Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo... » Pallad.
Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o almeno li n «
molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso, obliquamente,
– «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo. Bern. Orl. «...campi divisati
Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al pizzicagnol,
chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ». Buon. Fiei'.
«... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni palco appunto
un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la natura fece per
l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... » Alleg. – Tagliare,
lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco a poco, a poco per
volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio; dare a miccino;
parlare a miccino.«... E' un dare a miccin la ciccia a putt I, Vccio ch'ella
moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.«... Senza chè qui fra noi I)el buon
si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a spilluzzico, a
spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e male ». Varch.A
GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di coltello). l)a V. A M
AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal occhio, dice « va e pensa
Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A TU PER TU a quattrocchi,
da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a solo )). V. S. (i. l3. «...mangiare
un poco con lui a solo a solo ». Rini. Ant. « E' mio marito, e non è
ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a seco a tu per tu v. Varch.« A tu
per tu d'ordinario indica, se non contesa, almeno un non s. che di lì (r))
amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a Idiotismi lombardi a iosa, frasi
adoperate a sproposito, « periodi sgangherati.... » Mlalz.– Simili: a ufo, a
macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a oltranza, a gola, a buona
misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a buona misura, tormento e
pena a coloro che fanno la su « perbia». Passav. – Retribuet abundanter
facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO CIIE..., DI... – « A
guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi.... ». Rocc. i a...
schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a modo che la madre al
fanciullo quando lo fa bramaro la « poppa ». Fioretti. « F: l'(a
modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti. entrò in una siepe molto folta,
la quale molti pruni e arboscel « li avevano acconcio a modo d'un covacciolo o
d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A GRAN PEZZA di gran lunga, di lunga mano, a
dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1 elill, a lille desll'i: - i lol prendo, per
avvell « tura S III lile a pezza li rl III i ti l'lleri ». lSucc. « Tu non la
pareggi a gran pezza ». l 3 a... che Villce a pezza le forze il ii il II alla
natura ». Ces. «... che a pezza li in poterono i no, l'1:li a liostrº ». Giuli....al
qual peso pollai e gli a gran pezza lo! I SI se lliva sufficien a te n. Ces. ET
- A buona pezza, a pezza sia al 1 ora per: da un pezzo. Il Corticelli lo fa
altresì avverbio di tempo a vu i tre, º io e a dire col significato di: a lungo
andare, indi a gran tempo e.:: il l: l V a Illel lil - go della Nov..º in cui
il 13o a clo, il ricolllla lir di Tebaldo, l'e putato uccisº dal 1. l re:
ti sºlo i clie: l i vº: lo ſtesso, dice: l' 1. l e I edeva no all or I e II la
lr e 11, se i vi ebber iatto a pezza i in li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l
-se che lor e lì i rio « chi fosse stato l'll (iso.Pezza per tratto di teli e
ti In e te l: il sito dai classici:...a e le quali, quando a lei i i nip.. -
rido e la buona pezza di mot a te...., l 3,. \ V, l: do ss 1 di buona
pezza di notte e il ogpl I lioli o il l ' Illi: e... l.... ed i: questo con I
lilla rotto una buona pezza iva il l i soli: si ll il V.. desse º lº). Erano a
buona pezza pia. Il l... » lº. A I) II, l'NG ()...lila po. I sa – 1, piti il V
".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a V.A (..ATA FASCI () Fa
cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff. Io non fu mai. lle solo di
gloria Vago, lº vivi, a raso e scrivo a Ca « tafascio ». Vlatt. Fraliz. l.ibli (i
rte a catafascio. \ I,I, I S.ANZA ()ltre i cliest.: se si lal::lo ba
nelletti regali... ll !) e inoln Ine: l'e, all'usanza (li (1:la, di co- e
dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. «.... se la faceva la maggi. parte le 'a
nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando pit sontuosa ine:lie oil...
» Bart. ALI, I SAT(); AI, SOI, IT().... lle resta V a dl di rilli
all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.«... e ne rinfocola V a l'iberio,
per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a vampati, ne uscisse o saette il
rov in se. l)av.“..... non ga e al solito, Irla cori tlc it to... e co; i visi,
benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V (ralli elite cagles lli.... l):ì
V. AI, CONTINU () Sonando al continuo, per la città tutte le campane... »
V ill. AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e l'elisorili che Marta
s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre dolcissima, al tutto sono appa a
recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin la mia che l vostro par « lare
Imi conforta ». (.a V. AI, CERTO – - a Se....., al Certo i denloni ne
farebbero, gran rumore ». Iºart. AI.I.A SCOPERTA –..... potè poi mettersi
con lui alla scoperta in più a ragionamenti. » Bart.Al, DIRITTO – « Il
Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il te « nero e delicato
colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – «....nnellare d'attorno bastonate alla
disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – «.... appunto culme la nave... sulla quale
tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che dicessero alla spiegata
quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA SPICCIOLATA –. Tagliare a
pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla spicciolata o spicciolati vale:
andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O(o dopo si Inossero gli altri
bravi e discesero « spicciolati, per non parere una compagnia. » Manz.ALLA
SPARTITA –. Le varie scienze brancate non hanno più alcun « Vincolo coinline
che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce « fali, vivono alla
spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA – Andare alla stagliata
per la via più corta i: «.... E vanno giorno e inotte alla stagliata. Non
creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – « Ben è vero che
quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi alla distesa per
tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. « Che lavorio non
si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per servizio dello
spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – « Ruzzando..... troppo alla
sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla scapestrata e senza ordine niuno,
cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili, all'impensata; all'improvviso; alla
spensie rata; alla sciammanata – « Mi diletta oltre Imodo quel vostro scrivere
a alla sciammanata cioè scomposto, se llcito, o, Caro; a fanfara – “..... non
usavano i vecchi nostri far le cose a fanfara ». Allegri; alla carlona; alla
rinfusa; alla sbracata; alla cieca; a mosca cieca; a chius'occhi –. Negligolza
dc lettori che passa lo il vizio, a chius'occni» V ill. ecc. ecc. ALL'
AVVENANTE (a proporzione, a ragguaglio... dispensavanº loro a oltrate
all'avvenante ». DaV. a.... e fece fare... le monete dell'argento all'avvenante
». G. V. ALLA MEN TRISTA (a farla bucina) –. Passato il quarto di,
Lorenzo, se a condo il consertato, non ritornò; talcli è già altri il farºvano
molti, « altri, alla men trista, prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè,
certamente credendo che il re, alla men « trista, il disgrazierebbe ».
I3art. ALLA CIIINA – «... i piaceri sono monti di ghiaccio, dove i
giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a V. ALI,A BRUNA – « Uscire di casa,
ritornare, il sene alla bruna, i di notte « tempo ).PA RTE TERZA Verbi e
alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso all'elocuzione garbo
ne deriva e vigoria (APITOLO I. Verloi di particolare osserva, Aio1
ne non quanto all'ordine dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º
Cap. 2º, ma quanto alla varia maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un
senso e ora un'altro, e quando una frase più che altra concellosa eſlicare e
chiara, e quando Ina forma di dire piacevolis ima. In assello di espressioni
elegantissime, nulla comuni ad altre lingue e al tutto con forini all'indole,
all'original candore dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il
carattere di una lingua è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi
previleggiati, onde quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo
distingue da ogni altro, reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la
natura della nazione che lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i
sel. I pul, lo li arr, lo li hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al
bringen, Schlagen, selsºn, lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er. l i l
des hi: al lati e doti lºrº mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc.
d. I rili esi.Niuno per fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese,
il tedesco, il francese se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali
verbi. Ma e dovrà poi dirsi che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par
liano, lo scriviamo, quando molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli
scrittori nostri del trecento e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono
al tutto ignoti, o non vi badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è
peggio, non pigliano al rina ſatiri di apprenderli?Mentre nel Prontuario
trovarsi in diversi luoghi. “ioè quando sºlº una parola e quando sotto
un'altra, l'uso e il significato altresì diversodi ognuno il ſitº si re bi, in
questo Capitolo sono invece raccolti in pro prio, ci si il li del is fli e,
iro, i molti sensi e gli usi inoll piici di questi si illli i crli. \' scopo
poi il liv sarne in qualche non lo la I al ria, i, li i di li 'il ſole e
portata loro, due orditi (listi, ci:V ci li pi li, si incli di più ampia sv al
l: VitaliiD. llli i cºrti non si li prºnti, il che anche di questi, cioè dei
'oro Ilso l g.gior grazia e vigoria. Il dis(ºr sor. - S 1 º
Verbi più notevoli, ciò è a dire rigogliosi e fecondi di più ampia e svariata
vitalità, e sono: andat e, dare, fare, prendere, levare, met tere, recare,
portare. it jutlatre, sentire, stare, tornare, venire. Arm ci are
Noli II l via di etill irli qll il I agioli alimenti e andarmene in discus si
ti sul come e ind, che a fil e ass. I li II e i di ºrgan, a il più delle volte
a lin, ia, gialli rina approda e laio a anche trilore; imperocchè allo si ling
r. a p. l si la fatica con (edio e danno di chi legge e li in pro º cli il lr
Iriesi e gli anni in istu diare, raccogliere, e vergar car lei e per passi di
quanto scrisserº grammatici e il logi rh, e li arreco subito alcuni sempi colti
li i migliori libri di Ilarsi i lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere
l'uso vario e vagilissimi del vei bo andare: e metto anche pegno che pur
leggendoli nel tendovi un po' di studio, saprai senza scandagliarne altrimenti
le rip. ste ragioni il logiche, convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo,
d aitrella!. ... e son cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile,
dove così andasse la bisogna come a risale: ma lla andrà all imenti. Boce.
(410). Manda vanglisi di Ilona e d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le
poste correrano dall'uno all'altro mare: se n'andavano in banchetti i grandi
delle città: rovinavansi esse cillà..... Dav. ll.(neste cose belle dicerano in
pubblico: ma in sè discorrera ciascuno: questa colonia in piano potersi
pigliare con assalti e di molte col medesim, a dire e più licenza di rubare:
aspettando il giorno se n'andrieno in ae cordi e lagrime: un poco di gloria
rana e pietà pagherieno lor fatiche º sangite ». Da V.“. Somiglianº si può dire
anche il genio e la natura degli abitatori I tillo va in delizie e in piaceri
di musiche e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di Verone degli anni teneri
se n'andò in di pignºre, in tagliare, cantare, cavalcare ». Dav. “....
lullo il dormire di questo molte m'è andato in un sognar continua di nomi,
cerbi crc. ). (es. “... e per non andare in troppe parole... Se in.
Che fama andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a, 2... ºbbºlo per rili poi ci
li ti resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per lullo, il regno. I al I. I
tempi vanno u mi irli, N ſi i St ! ! 1. l’ulla la città di isti i patiti ne
andava a rumore I3. I 413,... la gen I e andò a fil di spada q io ti l ne volle
l'ira e il giorno... l ralosi il pool ogni cosa andava a ruba. (0 utndo questa
cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba ogni CoSa..ln questi mutnici e si
li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa CC0. I.Ma º non crei propri iani
e il liri i titoli I e il I il enci si che face rain, i monaci qualche li ha o
di quelli in blio che, le quali miseramente anda vano a ruba T, il lil. º
mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si incli il non irresi ſtiamº mai
andando me la vita?In queste cose l'isogna andar cauto; ma lo si e va il capo
cantis sino.... \:. A chi con in el l e così i ti e mi isl 1 il ris
va la vita pºi giustizia i a... e giudicò che e' lusse al pi p si
andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al gni suo placer. Fi,
l'. ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si mpre al l ostro pit (e
re... Ci s a I', il lil, i cl e ne andrebbe dell'onor stuo...... (: l',
n. a E se n'andasse il collo, sempre il rero son per dir li Sacchi.
() ual delle due ri pa; lunque più con i nerole: che ne vada l'onor vostre,
orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho inteso: ne vada pur, (lile. ne
ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il nostro. Segli a Sim il cosa
diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le ren d'Ital e andrebbe a male se la V
era si spirl issa'..... I ... ma in vano andaremo i pri, gli i?. «
Lo stral rolò: con lo sl rale un volo Subito mi sci. che vada il colpo a
vôto o l'iissi).Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del
mondo andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' alto allora a sdruc.
ciolare ». Mar lili. V es. º I) il nulla º quando Ma io ride che li detti
lei Sacerdole andavano a quel medesimo ch'egli intendea... Sal Isl.
Ortando la cosa fosse andata per lo contrario....... Fier. (416). “ (r se
li tºsle i tgton son in mileste. Se le tocchi con mano, s' elle ti vanno, con
chi intoli..... I 3el ll. i na circºla dirà: quell'uomo mi gol in una
fanciulla saggia: quel l'uomo mi andrebbe. Son molte le cose che la bano al
gusto e che non vanno (tl e il roll le re. l'orn Ill. () irando tlcuno o
non intende, o non ruol intende e alcuna ragio ne chi della gli Nict. Nuole
dire: ella non mi va, non mi entra, non mi ralsa, non mi rape, non mi quadra, e
il re parole così lalle o. Varchi. ... l'ira e li cruccio, il 'nendo,
andava disposto di lui li rituperosa mente morire 13 cc. (418).... ma non che
la nl o di rivenisse di loro, che anzi non ne andarono pur leggermente
offesi... I3arl. « Quanto all i più sa della lingua ben app s. nelle sue
radici, lanto più va ritenuto in condannare ». Bart.... e da principio va
ritenuto lipoi comincia a poco a poco ad arricinarsi alle pristino compagni. Si
gri i 19«.... se prorar lo potesse, andrebbe asciolta ». Ariosto. a Le trecce
d'or, che dorruen fare il sole. D'invidia molta ir pieno, IE A1 at li fre'don
ne va poco contento IPull. Mi l'.« Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri
Tutti possanza, e a cui l' (cheo s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto
sdegnoso ». Monli. «... nè però fu tale La pena, ch'al delitto andasse eguale
». Ariosto, « Si potrebbe indovinare che noi andassimo facendo e forse farlo
essi all res) n. 130cc.« Concediamo che spendiale in Noren li con rili, in
allegrie e, quel che anco conceduto non andrebbe in men che onesti amori o
Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va fatto. Mtilln).a Le ragioni
contrarie, a roler che sieno bene e pienamente rifiutate. vanno con chiarezza e
con fedeltà esposte. Salv.e dunque non va segnato mai in principio d'alcuna
parola quesi 3 segno. Salv. a... acciocchè resti si potesse e forni di
cavalcatura cd andare orrevole. I 3 o. (20. ... o Nseri utili al loro i
I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi barba e ca pegli ». Bari « Von area
cominciato nella religione ad andar dispetto e vilmente ». vestire alla buona,
cienciosanielle. Fior. Ces.«... perocchè il rigore toglie la con lidenza: e
dove questa lor manchi andranno con voi copertamente, che appunto è quello di
che il demonio si varrà m. Bart. Con lor più lunga via con rien ch'io
vada. Petr. (421. «... io vi porterò gran parte della ria, che ad andare
abbiamo, a carallo. Bocr'.a... ma la bestia voleva pur andare a suo cammino.
Continuare, proseguire. Fier.«... e dove..... da niuna parte il loro cammino a
sè vietato sentono ii fiumi, riposa la mente le lor umide bellezze menando
seco, pura º cheta se ne vanno la lor via. I 3: Illo.... Lu (lor lco se
n'andò al suo viaggio... l' 1 r.... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel
fatto tuo v. Fior. 122,.... ed ella colal salratichella, facendo rista di non
avvedersene, andava pur oltre in contegno ». Bocc. «... un vento
sempre intavolato per poppa e così fresco che anda vano a più di cento miglia
al giorno. Bart. a Siale in procinto di rela, che non andrà a due anni
che di costà chiamerò molli uli roi n. 13arl. (23. - -« Tulli i cristiani di
quel poi lo iurono intorno al l'. Cosimo, a pre garlo con lagrime che non
frammettesse troppo a campar la vita, chè il perderla andava a momenti...
Ilari.a... Ma poco tempo andrà che l'uoi ricini Faranno sì che lu potrai
c'hiosarlo... T)il rile.«... e costoro si levarono tutti smar il talendo questa
parola: poco andò che noi reulen mo....». (.av.« Essendo già la metà della
notte andata, non s'era ancor potuto Telmullalo adultorm en la re. I30cc.«
Ouesla notte che è andata, si sognai ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells
[ach. « () uei area poco andare ad esser morto. Pelr. Si notino Jin (il
men le le ini (iniere: son..... anni e va per......: « Io la persi, son
quattro anni finiti e va per cinque, quant'è da settembre in qua n.
13occ. a Signor mio, son questi 1)ebili premi a chi l'ado di e cole? Che
sola senza te già un anno resti, E e va per l'altro, e ancor non te ne duole?
». Ariosto. Vada questo per quello: «... e non credo errare ad
aggiugne di mio oi namenti e forze a'concetti di Cornelio alcune colte vada per
quando io lo peggioro ». Dav. Andar del pari con...: 42.1..- - - - - ma i fatti
non andaron del pari con le promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del
pari la gagliarda del corpo e la genero sità dello spirito. I3art. - Basti
Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non un con le da giudice si
conosca della sua morte, del resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... «....
perciò dove il fatto andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di
quelle spiagge quasi sempre i rstarano al di sotto. Bart. I t 425.
Note al verbo Andare 41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N
lì so come vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno
bene, 4 1 1 - - Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire:
distrug gersi dietro a cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro
che.... i 12) - L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio
pressa poco di essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è
chiaro che -arebbe guasta la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere
un di questi verbi al luogo di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le
seguenti: andare a ferro, a fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e
vale essere in preda, abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in
altre lingue converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o
che altro di somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi
di tutte o quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato
può riferirsi ad a una o poche (se tra moltissime ». Mi par di poter asserire
con sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a
questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) –
L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di....;
essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc.
Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che
l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar
bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire,
battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire
altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il
Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei
modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e
l'altro: capacitare, appagare, sodisfare. 418 – Andare, coniugato con
certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore
del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e
continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato
di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e
tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere,
voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito;
quell'atto caritatevole va pre miato e Cc 419 – Nota la questa
frase andar ritenuto, guarda i si da.., proceder con riserbo ecc.120 – Anche
l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce agg. partic. o
avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di
contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente
costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto
andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante
miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo
viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a
Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre
al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or
an. Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere,
il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota
costruzione andare a..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa
forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un
altro lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di
passare ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: «
quando e dove potrem noi essere insieme?» Doce.424 – Questa maniera è simile
all'altra già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è
forma di un assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le
belle ma Iliere italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di..... a
perciò dove non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare Il
suo valore, dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare
- latino, geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in
all'ul, consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed
efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue,
inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'(il mul) el'.
Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch. mi
parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu nissimi
e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana e usarne
l'el talmente Metto prima alcuni esempi di un dare quasi assoluto, cioè
adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di assoluto cec.
Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non di significato
i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi alcune maniere di
un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche e
dell'uso. Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le
pietre ra st it ltte- o lºo...37. "...... Sono posti i primi, quando
lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli alla cieca tra
capo e collo, tra tronco e rami ». Segn. “...... e ancora raddoppia V. Il
dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II lisera.... ». (a V.
a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e tll il sai. E davasi
nel petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore se le spezzasse in
corpo, (:) V.“..... e gittato il cappuccio per le ra e dandogli tuttavia
forte.... ». Boce. « Un muletto di Libia avendo scorto nel fiume
l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e bellezza, dati i
crini al vento volle cor rore come il cavallo ». Adriani. “..... (con
questa tenzone il porco, uscito lorº tra le brache, corre per ulo androne e
l'altro porco dietroli, e dànno su per una scala.... Torello levatosi e 'l
figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo fatto. Dànno su per la scala dietro
ai porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di
quà, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria (scº sinº tra bicchieri
ed orciuoli per forma e per modo che pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc.
(438). a Su, andiamo, diss'ella, ma sei mi dà nelle unghie lo concerò io
come ei merita ». I):) V. « Non prima l'innocente colomba uscì fuori del
mido, che diede fra le ugne di un rapace sparviero ». Segn. e Poichè si
diede nel sangue e che "a nominanza era rovina, si attese a cose più sagge
». Dav.a Lorenzo de' Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli
agiamenti a Filenze si vuota: no di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al
I vigº.ia che dava loro negli occhi si era Che uomini di quel conto.... ».
Bart.«.... raccogliere alla rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come
e vedeva i nemici in posa, nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore
del tuo abit dà che si fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che
a casa vostra nulla deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo
che col malvagi conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le
lobbiate a l escere credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza:
vi pal' però che vi torlli (olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10,
assentianro) t439.« Per la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi
o li e la pure si convertirebbe. Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il
cilielli o con sl potlºrosi nellli i n. Segn. 441.E vi dà il cuore di
lasciarveli sta, e nel Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non
mi dà di piacere a Dio ». I3ari. S IVARE IN NEI.: a Essere venuti
quatti quattº pe; tl a getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci
e prema.... I)av. gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra. colito, dava
in affettuose preglio re ». Bart. prorompeva.a Ma su, fingiamo che abbiate
tiato in amici di lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr
ali fatica per mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle
secche, o a dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle
trombe: piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“..... i quali,
quanto prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida
disso! la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi
scorgerete alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a
trastullarsi, dite pur senza rischio di dare in temerità, dite che...... ».
Segm.« Allora il Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri
C..... ». Barf. (442). T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER.....: a... e, dato
dei remi in acqua, si rili se', al ritornare ». BO. a... comandò che de' remi
dessero in acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale
talmente) di questo ciotto nelle calcagna, che cgli si ricorderebbe forse
un mese di questa beffa, e il dir le parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto
nel calcagno a Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“..... e inginocchiavansegli
dinanzi e dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli
delle canne in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al
cervello ». Cav. «... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e
daratti del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia,
cessava il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V. “..... poscia a se ne
disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V. « Cielò ll
llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta
per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari. «.... Si chè,
(Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il
cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. «... vi
possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua dro, ». Segn.
A 13. |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot
ciertt. - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte
le l"il bill leriº ». Bari. «.... le altre filsto dessero per mezzo
delle nellll ll, il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill (Selletta
». l 3ii l'1.“..... Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata e senza
ragione ». I):av. • I) AIR V ()I, I'E: a Tu dai tali volte per lo letto,
che.... » lº i c dimen trsi. a Messa la chiave nella toppa, dandovi da quattro
a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi I ) \ E SI () I RIPI E I) \ N NI
IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v. « Solo coſa
li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font ini, e
e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces. l.Alt E I E SPALLE collar
le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don me, nel cluale
io sperº. armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò avanti, dando
le spalle a questo vento (della mormoraziolie e lasciandol soffiare »
Roce. I) \ IRE STIR A MAZZATE: e.... i quali cavalli in quel terren il
sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan calci.,
Dav. DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco -
reranlassen, « Vero e che queste osservazioni.... daranno presa al lettore
svagato e malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà
troppo noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C.:
«.....lo Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i
eri. » Balt. DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà
molta briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. »
Caro. I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero
Fiorentino, in casa cui lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri
appresso per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli
raccontarono. » Boce. DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde
vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la
Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part. appariscenti,
I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A (III (CHIESSI A (applicarsi, abbandonarsi
t...): e Calalndrilio, Veggendo che.... si diede in sul bere. » Boce.. si
diede allo studio e della filosofia e della teologia. » Bocc. I ).AIRE
NEL MIC), NEI TU () In mein Fach einschlagen –- in casa mia, nella mia bev (t:a
Voi date proprio nel mio: l entrare in discussione intorno a questo [. lll tr.
» (es. - I 3:ì l'1. l3. I ) \RI (III: IRII) I 13 E (da e male riut dal
ridere: e Diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui
non di lessero le lnascelle. » Boi ('. I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE
ecc. a A te sta ora darmi ben da mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc.
a Dar molto ben da far colazione. » Fiel'. I ) \ IX I ) I CC) LIP(). I )
I CC)ZZ() (in... ('('('.: - - Si scagliano di anci, il verso lui e Vanillo a
dar di colpo sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “..... e V:
Illasi a dar di cozzo in una ville. n Bart. I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A: º
Adoperò la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a
S. Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l
IRIETICC) ecc. l) Al l I)I IR E, l)| (()NT E e il lilolo) di “Se mi
avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che l'oratore
sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni appiglio
di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di signorie, per
le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero, soglio sempre
parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze persone in
astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per non darsi
di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il maggiore. » Da
V. I ) AIRE AI)l)| | | | | () (ilira si, in limorirsi, sbigollirsi Sich u
b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e rinnegavano ».
Bart. I) AIA NE' IRI LI, l vale sulla e', i lazzare, r. Scherza) e,
saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare allegramente, E dar
ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo accidente. Buon.
l'ier DARE VDOSSO VI I NO, VI) (N V Cosv (investirlo con parole e con
jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ): con le fa un ser it, che,
vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le bagaglie
abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì (Sllo bolt Ill (n.
l)il V. I ) \ IR E AI ) (SSC) \ I ) (N I \ V () IR ) significa: alle mele
ri con assiduità). I ) \ I RI SI |.I.A V () (l V | ) \ I,(il N (): Diasi
pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i ed io di... » IDa V. « Io
conosco un auto e a cui per questo peccato si diede più volte sulla voce e,
sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i sentito come mi ha dato
sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito? Io non ne n solo la tio
caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l le ricorda a Lucia (lulei
ripiglio sgarbato della signora i 15) I) AIRE A VISI) EIR l, l) \ I l A (IRI,I
) Il RI: «....e dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare, che
andar voleva alla perdonanza.... » Bocc. « Fra Alberto dà a vedere ad una
donna che l'agnolo Gabriello è di lei Innamorato ». Bocc. Conf Far vista,
far sembiante, far veduto - sotto fare). 1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare
di chicchessia o checchessia senza pietà, senza alcun riguardo, con poco senno
ecc.) – l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO: «... die di mano al coltello
e sì l'uccise ». Pass. “ Noi per questo, dato di mano alla rivestita
ampolla, col marchio.... ce l'andammo.... ». Alleg. « Lo duca mio
allor mi die di piglio, E con parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le
gambe e il ciglio ». Dante. «... i più severi centurioni dànno di piglio
all'armi, montano a cavallo... » IDaV. « Draghignozzo anch'ei volle
dar di piglio ». I)ante. DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: «....
braino che ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava, nelle
mie basisse, spirasse e intrafatto perisse ». Dav. «... e incominciò ad entrare
nel passo della morte e dare i tratti ». Cav. 446). Note al verbo Dare
437 – ll dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat lere,
percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p.
es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie:
schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc. 438 – Dànno su per
una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di
moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di
urto. 439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu
geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per:
concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben
dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III).
442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver
tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei
rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato
qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia
beris...). 444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche
nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi... (il) el'ardini. – Simile al detto:
l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza che lontano
Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa
voce addosso: andare addosso a mimici - I bav: l are un processo addosso ad
alcuno (Bart. - DaV.) ecc. 445 – I)are sulla voce è un riprendere, biasimare,
censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi segni, avvisi,
ml Ila/CCe GCC. 446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare che
significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare:... e la Madre e tutte
le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas (sava
di questa vita o º av Fare Lascio le dissertazioni intorno a questo
verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e d'altri
Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari dei quali
tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione alcuna –, ma
colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente cerchi e stu
diosamente analizzali e sviscerali. A maggior chiarezza di idee e ad
agevolarne alche meglio lo studio. distinguerello sei ordini liere di
lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº -
aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che
faceva, che vede a fare ecc.IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe stare
anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia
significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare,
ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di
piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af
facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e
quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile
dal medesimo. (449). --- -- I. «..... onde ella amava piu te e
l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo
co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia
il fut.co alle cose urtte. » l3o.- - - - - che io ho trovato dolllla (la III
lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. »
130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si
risolves se.... ». Bocc. «.... le dice che se ne guardi; eila noi fa e
avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i
cittad. ( Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che raffermando
piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11, in (ieri e
sl gli li dis se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti mando. – Il
lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi manda pure a
te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e, non mi ti
manda, o Bocc. « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti non potea
pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo che altri
fa delle cose Sozze e della Dl'll tll ra. » (es. a.... e percio' che
amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº andare, con molto
maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina, che della
precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia (i a Inor del Soldano
acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse fatto, i 13.'I'll
ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1 con i collle
fac ci tu. ) Bocc. a.... li quali per avventura voi non conoscete come fa
egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1, coiile tll escº l' -
le Vi, e non fa l' far beffe di I e ti chi conosce i filo di tllo come fo
io., B º a Tu diventerai molto migliore e piu costumirato e piti da bent
la che qui e non faresti. » Bocc. a... e nol credevano ancor
fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza (indi i lì0m molto), se ll: l
caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli fosse stato l' ll
cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf (ll II, il III trite ch'ella di V --
andare il lil 1 l 'a sua, com'ella prima faceva, e molto piu..... m (il
V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio, ad perare, che
a fatto non avea il: altra parte. » Bocc. Ed ecco venire in camicia il
Fontarrigo, i quale per torre i panni come a fatto avea i dalmari,
veniva..... l3o a... non v'è oggina, chi ad un amicº, terreno non creda pil di
quello, che faccia a I)io. » Segn. a I)avano vista di non tener più conto
di lui, che si facessero degli al a tri. » Balºt. Ces. « Ma
veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non fece: voi
medesimi già confessato l'avete. l 3o. a Niuna cosa è al mondo che a lui
dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a.... ilſſuale non altrimenti gli lol
corpi cali di li nascondeva che fareb be una vermiglia rosa un softil
vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava.,
Fier. 1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi quanto
face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll..... »
(.es. a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di turbata
peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv. a Amatemi coln, io fo Vol.
(io/ zi. ) ! e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ».
lSocc. S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo
d'uomini, sarei blloli gioielliere. I,il Vlati II. Ed era si gri il de il
percuotere che facevano il Sielli e le lololar,, che slavi, la V il 110 Il loro
o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una foltissi
Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S - li.l'el Issa i
cori e se li 1, l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i' leva ch'esso
facesse le,i di 1 min. 13,.()n l'e (olls gli::. in l. ii dare che fanno per
mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal scperchiar che
fanno le linesse de gli il ll ' (ssell (lo 'll - I ll. (..:Per esaminar che
facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella Sotlill-siIrla a ' ll
ratezza º le farebbe ! l... I l di pill roso e maie a milm:a “ to........
!! (sali 1,3; - Il III ore il plli ſi te e il martellar che faceva
il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po lisa: il si logorava a
disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo e Irl) Il lt, il
battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci si ill si Vºle, tl
a V a Ill quella dei santo.... Dari. a... al Illale il saporito bere che a
Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a (Illel ol'l'el' che gli
viddero fare il lla volta (ll... I3:l rt. colll'elera il d a loro, per venir
me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil I llia.. ll::lzi... »
13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino alle la grini e vedevamo
fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e avremlino a condisceso,
se non clie...... a I3: l l'1. Ne I llli loro a spe, e ne vide i gli
eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei barbari, mist ro tale sp:
vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per atissima stagione di pri
Il l: i ver, l.. I 3: l...... ll vi fa lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l
re a ciò al spiaggia di Malacca fanno venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a
ragione di tr Inn ti che vi fanno spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano
il mio volte sopra al chi. » l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il
vincoli e li poso della carne a e alrdarne a Cristo ». C: Vali.. io -il ebbe il
lile).e Niente ha i sapor di biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te
». Fav. Esop.« Non fa per te lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in
veste negra ». Petr.Fanno pei gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la
posa piu ti rovina clie la tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! !
- i lig lio la l et le ia V gg li: la torbida fà per chi gli vilol piglia ',
III: ng ſare. l)avanz. Noli può fare li Ill re: I l e - - al 1ori la lol (III
il tal11:1. Sºg Il ..-e egli dice, N 1 il por io può fare ch'ei rion si p
it, e se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl!. » Da
V. in quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling
o quando senza esso si possa fare si disdl Bo 155 l Ia' tll a Irli
in olii o li or fan sedici anni, i l... (l Slla V a 56 IV. a Suo cimitero
di Illelia part la lino (1 Epi:ll'o ti 111 i su: i seglia - e ci, (le
l'anima col corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io, giII
il 1 a 1 Ma il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I)
avanz « L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal..., I): v.a La tua
loquela ti fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla
quale lo sa lui troppo mio' si o I): inte. i s'ipno, ti appalesa – verráth
dich.a I), Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo
faceva da Fausto Manicheo si primo mi:i stro: S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori
e leggerezze, l'a lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà
». Fier. a Dunque hai tu fatto lui bevit re. e V., o di siti - 'e gli dai
taccia) Colli i clie ha il ll ll gli fa l'i....... 11: li l 3, i ll l 1:1, Illeſ
le co; to fa lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i
libri li. (s. i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1, ' - ri - i
l. 1,,, l a dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll '
Ina - - a ledir Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che
ritrovarono a questa maledizione dello scrivere. » Caro ottenere, fare a
meno) « Mentre che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì
almaramente. » Fieren. rate che al nostro ritorno la cena sia in essere.
» Caro fate in modo, procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne
ineniamo una colassù di queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne
dici qual più ti piace. » Bocc. l'areva che non ti l'i sole, il la a
Sinigaglia avesse fatto la state. » lºo:. passaio, trascorso (ono fatto fù ii
(li chiaro verso la si dl lizzò., Bocc. | - Il sul far della lotte e presso
della torricella nascoso. » Bocc. 157) l'altra urla de l'en li colli
l?olna li.... Susilli non se lº cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. »
I)avanz. Colne ogni altro frutto tra piantasi il noce: fa per tutto viene
adagio: dura assai: appirasi agevole: la ombra nociva, onde egli lla il nome, o
Da V. 458) V.. Il quale come egli vide fattoglisi incontro gli die lel
viso un gran punzone. » Boc i 150. « Onde non è mai raviglia, che la
llclo, la lit I anni al presso come si e det to, vider co'a ll no della
compagli 1.1, gli si facesero tutti incontro a domall darlo del loro padre, e
se v'era speranza di mai piu rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi (1 lt; lr
sl lol a V i rl facessesi innanzi a l):ì V. « Ma ancora aspettano di dirle
altro, e fannosi innanzi, e mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si
leva rollo costoro, e il maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e
disse. » (a val. a Ver me si fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso
farmi nè ad uscio, nè a finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi
si pari innanzi ». Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra,
proverbiosamente disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della
scala vidi e sentii tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è
andato a disinare stamane con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola,
fatti alla fenestra, e chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi
». ROC Cº.« Fattosi alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli
capelli a presolo, con tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava
dalla riva in lotta con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi
alquanto per lo IImare, dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese
entrambi per le vesti e tirolli a terra. » Bart. « Così senz'altro dire,
la buona quaglia starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva
fece tanto rumore che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo
sparviere. » Fi(l'enz. « E facendomi dal primo dico.... ». Ces.
460). a Fatevi con Dio, e di Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1
rte I. Ca po III.) a Fannosi a credere, che da purita d'animo proceda il
non saper tra le « dolllle, e co' valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che
se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per al tro Inodo in
Vrebbe lorº limitato il cinguettare. Bocc.« facendosi a credere che quello a
lºr si convenga e non di sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti,
gli ol'namenti e le caliere piene di superflue delicatezze, le quali le donne
si fanno a credere essere al ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo
a credere che fu un giuoco, l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio |
risto!.... » Buonar.e Pognano il torto a tua gente, la quale molestando i paesi
pacifici, si a fa ad uccidire uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare
vergini!...» Lett. Pap. Nic. « Chiunque si farà a considerare quanto..... !!, (l'ulse:
i « La vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc. VI. FARE COL
SENNO, COLL' UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire ed in sua
vita. Fece col senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella incontalmente
lasciò quella risposta, e prese conforto e disse: e io farò come la Cananea,
coll'umiltà e coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per avere da lui
misericordia, perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e misericordioso. »
Cavalca. F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla i telli ſi gli
Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e fareste gran
senno. Bocc. Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo ragione che
i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che questo
maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora domanda
consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto prospere,
e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin Vesc.rai: e
Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un disteso ragiona
lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di rimandarmelo ». Ces.
« Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per saper di che tu e ti
rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te, siccome a Savio,... ti
convien confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11 mln l'avessi, e lº si
lalia a indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che pe: quellito egli potra,
Sara Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la sua colpa o Segn.lº co; i
forni 1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle fate pur ragio « me, l
tito:i, che avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.« E in esso luoco, fate
ragione che il Signore venga a purificar quelle anime, quasi lentro un cro,
illolo terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica storia. » Segn.E
pensonni che Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi in a ferino,
come si mo. -toro, hº giacciono qui entro, e in così gran Drsogno, « pensa
quello che li fa resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico che i lutti l
sua sollecitudine pose di far bene l'ufficio, che a le era dato di lui, il quai
ella vedeva che tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona e l'era se:
vita. Ed ella cosi faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e qua:ldo
serviva il povero e l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua persona,
o (v. a E fa ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante. \ V EI ) l I ()
- – I VIR SEM1 I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A | 31.VN Tl.....,
ella a tal - i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene anda va i colti e
in colite- io. Boa l l' allora fe vista di: andare a dire all'allergo che egli
non fosse atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti, postisi a cena, e
splendida In nte li riti, va i se viti, astutamente quella menò per lunga fila
al l: il l - lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto religiosi e molto
costumati, e gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca (66).l'il, l'io li
in voi i 1. ll scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le vi « sto li voler
visit lº serviti e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve vasi, fermavasi, o,
ivi in inet, orire la ti gallo, onde di evano gallopiè. » l):n V:ll 17. a
E fatto prima sembiante il sere la Ninetti messa in un sacco, doverla a qu. te
t - il. 1. Inizzerare, se la rimeno alla sua sorel a l:n. » i 3 t. E
quando i s rso i litro fecero sembiante di meravigliarsi forte. » H3 ).. Fatto
adunque sembiante d', li conoscerlo, gli si pose a sedere a pie a di.. I8o.«
Quindi vicini di terzi levatosi, essendo gia l'uscio della casa aperto, a
facendo sembiante gli vs si a' tr Inde se ne salì in casa e desinò. » Boceº -....
e cosl ad Andreuccio fecero veduto l'avviso lol'. » Pocº. 'diedero a vedere, a
conoscere) 467, FARE AI L'AI TALENA, ALI..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE,
AI.I E (I ) I, TELLATE, A SASSI, AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi
faceva al giudo dell'altalena. » Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla
pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno carte a fare alla basetta. » Cant. Carli.
« IDicesi che c'era un tratto un certo tempione, che si trovava un paio di si
gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva
mai tanto riparare che ogni pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.«
Siccome, se tu fossi nato ill (il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a
In e cora giocose, e gli Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº
non « patirei che quei braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a
sassi a o al maglio, così ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a
giudizi, e alle cause, alle vere battaglie. Dav.« E' facevano al tocco, per li
avea a Inter: 1 primo di loro. IBllonerotti. (469) FARE A CIII PIU'....:
FAIRE A FARE CII ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri
magistrati fanno a chi più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e
Vitelio, con iscellerate all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ».
I)a V.a che è quanto dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a
te a chi più squarcia il buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito
gran guantiere colme di dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e
dopo al parenti. Mentre alcune monache facevano a a rubarsela, e altre
complimentavan la IIIadre, altre il principino, la bindes sa fece pregare il
pricipe che..... Manz. ſ'.ARE A FII) ANZA, V SI(U IRTA' con..... a
perdonatemi s'io fo così a fidanza con voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà
colle riputazioni e per sin colle vite, non solo (le” cittadini, ma.... »
(iilib. FARE ALLE PEGGIORI con i contenersi, governarsi nel modo
peggiore) « Augusto senza dubbio inizio l'I: neilla a fare alle peggiori con
Agrip a pina. » Dav. « Egli tanto più il 1 furiava, e facea con tutti
alle peggiori, fin lì è il re il a Inandò cacciare come il Il ril):I l I
liori li pii l:ì gi. » I3:urt.FARE A MICCINO: consumare, od altro, con gran
risparmio. Miccino vale pochino e a muccino a poco a poco. 170) FARE A
SAPEI? E a crerti, e, ammonire e simili. « E quando tu la intenda altrimenti,
io ti fo a sapere da parte sua ch'egli « Sala tanto (Illa Into e ispetta a Sua
Maesta. » Fier. FARE DEI. SAVIO, DEL SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON
COMPAGNO –- DELl. UOMO e simili da sl l'aria... den gelehrten spielen
ecc).Allora il corvo, che tacea del savio e dell'astuto prese carico sopra di e
- d'esserne (il re... o lº le reliz.« Il che udendo la testuggine e volendo far
del superbo anzi del pazzo, « senza rico: darsi dei e aminionizioni datele,
plena di vanagloria disse.. » Fier. Volelrd, far dell'uomo essendo lo stie,
Illalrdano llla e e rovinano « non stilainelli e.. » Fiel'.« Ho fatto tanto del
buon compagno che me – il lio acquistati tutti. » Caro. FARl, \, FARSEI,
A CON contentarsi.... stai con lento a....). e Domandò come Silv: la facesse,
quello che fosse della moglie e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino
all'usanza dell'Indie con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi, d'erbe
condite sol di ior mede « Sime. » I3art. FAIRE I,i,() V.. l) il liut ) Ni
lºrº in l. FARE ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. »
l80 parlare lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle
parole, rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta,
l'ufficio.... e º no pur cose (la polmderarsi.. » Fier. FAI? FORZA AI ) A
I CI NO) – FAIR FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una
forza da al ll ma l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte:
Aiuto, aiuto, che conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc., il « La reina
faceva ai giudici forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che
incorrendo in contumacia, turbando posses a sioni, e facendo di forza, la
cagion gliene comporta.... » Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.).
'FAR FALLO A abjallen). a donne le quali per denari a lor mariti facessero
fallo. » Bocc.F A R CONTO DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be
mer ken – bedenken ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui,
trionfali dolo ill lor stessi, a e faccian conto che i pericoli passati
son minori di quelli che sopravver « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e
sian prevenuti che....., e ponderino bene che....) a Dunque dovrò
starmene tutto l'inverno tra questi geli e durare si lun « ga fatica...?
Fa tuo conto. » Gozzi a Le saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa
tuo conto, diceva il padre, le sono appunto candele. » Gozzi. FAR
BISOGNO A. Q. C. a e le nozze e ciò che a festa bisogno fa e
apparecchiato. » Hocc. FARE AI) ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc.
I)av. I3art., I ARE CEFF ().472. a farebbe ceffo a questa fiorentilliera
che cosi le propri la nostre appe. con barbarisino goffo e sllo e cellsll
rel'ebbe così. I a V. l'ARE ACQUA a Cercar di al III la sorgente ove
farvi buon acqua. I3art. Fier. a poi ripigliò: forse il dite perche quella nave
qui una volta fè acqua. » l3al rt. 473; I AI? CARNIE: I n di
ch'ella acquiia, era ita a far carne. » Fier. º e Ini venne veduto
quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne, e gia
giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di sangue, che ancor davano i trat.....
» Fierenz. | FARF II. TOMC) Conf. Cadere Pront.. FAR CERA (da Kairen). “
lo indusse a....., a far gran cera. » I)av. FAR GREPPO quel raggrinzar la bocca
che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere) Crusca (474)FAR
GESU' congiunger le mani in atto di preghiera – vive in Toscana FARCI II, CAP().-
FAI? E TANT ()Farci il capo vale averci pensato tanto o pen-acchiato o
provatosi di pensarci, che nºn se ne intenda più nulla, nè anco le cose chiare
e che si vedevano alla bella prima.Fare tanto di capo vale sentirsi stordito o
da pensieri noiosi o da mal CSS el'e o da rumori.M'avete fatto tanto di capo,
dicesi ad un uomo parolajo ancor che ne in parli a voce alta, purchè coºfonda
ed uggisca la mente. Così Tommaseo, Gherardini, ed altri. FARSI RELI.O:“......
che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni smembrate ». Dav. l'AIRSI
LARGO allargarsi, agevolarsi la strada – avere i mezzi di farci rispettare e di
avanzare presto nella via che prendiamo.) « Coloro che per le corti colla virtù
e colla fedeltà si fanno far largo ». Iºierenz. « se non vi fate largo coi
donare.... ». Cecchi. --- Farsi largo colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è
chi llell'ultimo altrui si fa largo donando, chi domandando, chi piangendo, chi
ridendo, chi co mandando, chi in Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A
FARE CO)N..... I)I a bella donna con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che
ho io a fare di tuo farsetto? » l8oce, Note al verbo Fare
449, – Non curo di molti altri usi, vi oi con uni ad altre lingue, vuoi
notissimi e frequentissimi an ha oggi, p. es. far lare nel doppio significato
di ordinare di fare, e di cagionare di fare fare apparecchiare
checchessia anferlingen lassen – fare all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten
mitchen mich erròthen – Lessing. fo0 Anche il to do degli Inglesi
ha tra gli altri molli, un uso pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him
ho looked belle lham he does nou'. fol - Quel come lai lu sta per come
dispiace a te. Nola inversione illicola di costrullo e dell'ordine
l'azione. 4,2, (iozzi chiude parecchie volte le sire lettere così.
3 - Nola anche il secondo: che ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli
stà per un verbo del primo inciso sottinteso adoperando..., che
adopererebbe..... º, o per l'anzi detto esa m in tre: colla quale esaminerebbe
ecc. 4, Per dimolare lo slalo di essere del tempo, dell'aria, del mare
sillili, o loperano i buoni scrillori assai sovente il verbo ſul re': come
latino i francesi il loro laire. – Guarda come, i, - Mlodo a lille
l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa) ci è pol el sºl le limitinº l'e -
esser star bene senza.... ». fºſi - I granimalici li apprestano indi la
regola: « Fare stà per lº minare, compire, rattandosi di Iempo, e ad
esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più semplice la formula che anche il
Tuesto caso il verbo far fa pel verbo essere,157) – Nota di questo gruppo le
maniere: lorº la state, l'autunno ecc. il farsi del dì, della notte ecc.
458) – Analoghi a questo fare sono i mºdi lar buona proºº, fa, gran prova,
provare. Conſ. Pianta. Pront. 459, – Metti a serbo i modi: idr si
incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi alla porta, alla fenestra: larsi
a credere e simili. 460) – Simile: « E iatlosi dalla in attina venne lo
raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche: farsi dappiº, per cominciare dal
primo prin cipio. it:I – Pon mente al senso del pronominale farsi degli
esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole intendere come il modo farsi a credere
non sia come melle qualche vocabolario, un credere a dirittura ma un accostarsi,
recarsi, darsi, inclinare a credere. Simile anche l'altro: larsi a fare
checchessia – cioè mettersi prendere a... 4(2 – E' ingegnarsi, studiarsi,
faticare ecc., adoperando il senno, l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua. Non gli
dar noia.... chè egli la colla cosa sua Cavalca pare che dica sempli cernente
adoperar del suo. 463) – Vale operare saviamente, metter giudizio
emendarsi. E' modo elittico, simile al precedente ma di significato assai più
ristretto e talora diverso. s 464) – Traſduci: mi penso, mi arriso. Si
adopera questo: far ragione che..., di..., a più altri usi e significa quando
supporre, repu tare, e quando stimar bene, opportuno ecc.; mentre far ra gione
con alcuno vale intendersela, fare i conti e simili. 465) – Far conto che,
dicono i...ombardi. Simile anche il seguente del Segneri. 466) – Far
vista, far le viste di ecc. è altrettale che fingere, dare a vedere (v. Dare);
sich stellem als ob....., Miene machem, sich den Anschein, das Aussehen ſi bem.
Pilò però significare anche semplicemente sembrare, parere: « non facendo
l'acqua alcuna a vista di dover ristare, presi dal N. N. in prestanza due mar
lelli. » Bocc. Anche il nodo detr vista (conf. 1)are) è usato dal Sacch. e dal
Cesari (e lorse anche da altri che non ricordo): senso di lar rista, sich
slellen ecc. « 1)avano vista di volervi « andare. » Sacc. « I)avano rista di
non tener più conto di lui « che si facessero degli ºltri. » Ces. 468) –
Nel traslato: fare alla palla dei quattrini vale spendere senza riguardo.Si fa
alla palla di checchessia quando avendone a josa, non si bada a risparmio.
Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso non guari dissimile e vale
traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco, fare a sicurlà de fatti suoi
ecc. 467) – Questo modo far veduto pare che abbia un doppio senso, e si
usi tanto a significare far si che altri pegga o gli paja di vedere, quanto
dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di uccldorli » BOCC.Così pure
dicesi: « far vedulo di commettere, di perpetrare ecc. In questo senso usasi
anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un beverag 21, e lattogli
reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt:
otp lºp o puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp olioIA os IOI o II.) BAIA
ost.I I » – (3 li - ll T. -uui uu.o Idl I « mhop Imi lood ºzuos e.lolu
uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip (IIIII O]UIelo.) (UIII º
II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini il o, o od o lou il timbrº
p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli manlaodm oil al pm b uod
mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln() eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli
uol.opu or) p. I: ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti lot ou. Il sopo I oddiº o
IliioosLI o IIo N. tºzuoloIA In I “uz.Io e Insn alu.I -oUoS UII eoUIuisis
(olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di opotti II un illup llp, mo:) Iols
)llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o | | Il I Isti.Il '.I]od (OloA [oſ
[0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof pl.oool I o: OICI e ouuu è Iopulso.Id
el ouo ez.Io] el º.it / l'Is Out oli ut: qui o ostº.I | Ip Ici.I e
“o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso, JUIO )) o.Ioi II.I]s -oo Iap ouo
o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i pl II IIenb eplau ooo ufos « lama
luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd SS IA (o.llitt.top non lº pztof l
l lo Io: l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo ollopns Istº.Il flop “ps.iol pun o.
pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION luppoI SS )IA (mr lo? oso).to.) o un
ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto; Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A » oso).Ioo
o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al ' IoitII.I so,o un o.I(Ittios o po
“pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I luoloIA o Inslui “o.Iol -od p
osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII ons IoToA In olrmu5epuniº o
olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione ulu.5oIUe,I opuooos ole.A
oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily outloollll D o 1 pp out.),
lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – (), luooo) glo e opuºluo, “l.It ds-p o lred
as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello 5 l Is o “eso.) eull UI!
Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm, I – (6), (o topo.to
llbollmſ ollo ossols ol ooogl. lg olt, uouLIOppe otto “llens o lo)s QUI o loq
ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol Ili iFrenciere
(Pigliare) sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi non ha mai o l: lingua
italiana – quello che si è mola, sin 'I I. (Il les (il n ad (SS (l' \ i re cosi
di questo cori li ai ri veri tra loro - r. 1,ºrticolarità di della I i licli, e
lassici, q o no in una º i il Zii, il colal girlo che non la clin a pezza, ali
di si ! "i sanno che cosa voglia di e prende, ma i I l ' s ci ii, alla l'
hissimi, che ne usano i d, e, l in A, is simo e i I i di classici del medesimi
sono da Lilli il si e al ci a uno lors, ma li avºltº il peregrino. Chi lo
intende, a cargoli d'ese p. Il valore, ma i le poli 1 ai linelli all'uso: bo
i l'rende e dilello, prende i mali con ri. p, i lorº con l i........
consolazione: prendere p, i ti; i mal. ): i i 'ti li' li ti, prendler guardia.
Sospello; lo: l ' s. losi, i di qualcuno
e.: pt ºutlc i l preso ad atleti no bene, ci pass. p pºi lº i dire: il fare
clic li ssi, i pi nel I e il I i gio EpptI re li. Il sol li: V g: li e lode. I
re. E ci l si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i
pir. - di il Italo. “.... pil per istrazia, lo li, pr diletto
pigliare i: l si e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione...... il
II l r chi alla toll:I n. I),li (1. (... a Ella d'altra parte o il I e -
e clerlo; o secondo l' ill Iorli; i vi, i i miglior tempo del lo II e il
- mondi è mrendendo il li tl (. Il li l, l si o di non avvedersi di qll
st. a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si - li l Inattilla va
tlitto solo, prendendo di porto i. (illata Hilaldo e I liv. ri.I l ril, 1, E
molta ammiarzio i seco prendea, a Chè gli parea ognun fiero e gagli E \ -
jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il corti. Il nte la s lo [Il ',,,
- -ti e prese confor. to e disse: io farò come la Callanea ». Caval l. a Laonde
(gli diceva: Se io (Il test gli dis, la di me e.... le mi metterà il odio, e
cos l III li il l: l li, i « moll avrò ». Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril,
li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li richie a - I prenderà g
-dere a cosa, che a suo inestier partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al
bergo co' suoi cavalli e o suoi fan incominciò a prendere malinconia:
r ma pure aspettava, non la endogli lie: far li partirsl. Bocc. «... e
nondimeno di queste parole di Gesù presero un grande conforto nel.. ll or
loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i lil l e la coinsolazione li vo:
prenderete le! Seilt il'.... che egli non vi debba essere altresì utilissimo il
vedere....». Cesari. Senza questo, i lus, ira vºi li i ogni fatica, che ci si
prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che e efll ace rimedio contro alla
disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che la prendono vigo
osaliment. col) folt:ì e sostit ss i v. « Menagli questo cammielo e
digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con III e o insieme
quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.« Ora il n dl
avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che lui si la l
util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el' fettamente in lei
Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o sospetto prende
anc..... » (. I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese sdegno, e...» Bocc.
« A \ onla I sta i presi -. 3 i ari. o Il re, o la - sciarlo a B) c. 5?
I V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La buona Iellini il
l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. «....subitamente il prese una
vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II, il l l Il l3,Gran duolo mi
prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il cavaliere la domandò, se ella
ne togliesse a fare un altro: rispose « che nò; che non le era preso si ben di
lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.« Con la piacevolezza sua aveva
- la sua donna presa, che ella non tro « vava luogo....». Bocc. (fatto
innamorare di sè). Prenderete subito tiltti a Iuliilli il re i tº o di
me... » l)a V, 'comince rete,23).Il quale facendo rumore, che molte strade
d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei conducenti e trascuranza
dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per onore di lui prendeva a
condurre quella, per altro troppo mai - e gevole impresa ». I3art.
e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ». l'8art. -.... stabilito
com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i Catto « liri
che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar di rimuovere
dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn. « Anzi cred'io, che il
rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni altro,
lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm. E così in piedi, prima
di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una lunghissima dice
ia.... o Seg. Ti piaccia ancora di por niente ad alcune altre frasi
nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato Pi esa.
PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI) Eli MIARE – PI º
ENI) I.I è IP()IAT ().In quel ritorno g.i avv (-lili, di prender terra il C: la
lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor: li sta gioli, prese
mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre, quando i nemici, preso
terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il 11ti -- lo ii il solº
a li l e, si ill via l'olio al il 1 l l'olta rsi St...., l il l'1.
1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza, cºn l rai e ad albergo,
slan zare, I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ). 4 a ci ritornò e presa
casa nella via... non vi li gitali di litorato le... » Bocc. a colsero in
gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare di lui per tutto il
paese di cola fino al mare e l'art. a Floro s'ammacchiò; vedendosi poi presi i
passi dell'uscita succise Da V. « si spartirono chi quà chi là, e in un
tratto presero i passi ». Fiorenz. 1 l? l.N1) EIRE l'N SAI,T (). « e
posta la mano sopra... prese un salto e lussi gittato da l'aitra parte
Docc. I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno, allegro, soltre, giocondo,
grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e simili lari. ('('N. ecc...
l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la struttlet. « Ma io mi accapiglio
teco, o Materno, che aver il ti la natura l'latitatº lº « su la rocca
dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons - uito il megliº º il « attieni al
peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A
GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in
al a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da pigliare a gabbo
Descriver fondo a tutto l'uni “ Verso Nè da lingua che chiami Mamma o
Babbo ». Dante. I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per suo letto un
ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi cotale letto
prendeano un poco di sonno ). Cavalca. I 'RESA – Pretesto, molico,
Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE – opportunità,
ap picco, buon gitto o l)Al? PRESA A...... r. l)ai e. a Sesto Pompejo con
questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto, lmorto di fame,
vergogna di casa sua....». I)aV. FAR PRESA. a Sono imbarazzo da leva l V
la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha fatto presa ». l)a
V. Note al verbo Prendere 520 – E' il to take degli inglesi
nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take cold; to take a
turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken ill; to take up,
ecc. ecc. 521 – Conf. voce Partito, Parte l Il. 522 – Notalo bene
l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna quanto al senso,
pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un altra. « Amor che
al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il meglio, ed al peggior
m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora se quor). 523 – li
alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 – lnvece di occupare ecc.
Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi onle ». Bart. –- l)i una
sedia, di un posto ven duto e simili, dicesi che è preso. 525 – Cioè in
cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr Le vere Ha molti
vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i seguenti: I,EV AIRSI
IN CONTI? ()..... . Ma vedendolo furioso levare la r battere un altra
volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il ritennero, dicendo di queste
cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc. Coll dollnes a placevolezza
levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... » I30 ('. “ La quale
veggelidol venire, levatiglisi incontro, con grandissima festa il l'it'eVotte.
» BO C'('. LEV. A IRE I)I V. ANZI « E non pareva potesse avere niti
il 1 Imedi, pensando che quel corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi,
ch'ella nol potesse vedere, nè toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a.
LEV AIRIE I)'INN ANZI V..... .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel
pianto, parve da levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio.
» I)av.a Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi
loro dinanzi a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire,
sicchè costoro riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600). I.I
V VIRSI IN SU PI: I RI; I \, IN (() \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. (es.
! (50 l. I,EV VIXSI IN AI, I'() . ()h Imadre carissimi, noi ti
levasti in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi
quanto era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà.
Cavalca. 60?. I,I V VIRSI A VI () IR E I,I \ AIR IR l VI ()| è l I (50.3.
LEVAR MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604) « E ben
liè.... alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe
a rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o
Giamb. il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a
ccia l'11e fuori la Signo; in e solº l: t., V ill. (i.“ Alqualiti discepoli
s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia
lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta
Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I (I
V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V
le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto (ies Il Nazza l'en lo... (:)
V:. Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r. Ciò
li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e il bel
tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la li1, V e
allo li l al t. LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI () N E ſe i protra riq lui
e l'iello il palese illello, le. - -s. I lilt lil e i parvoli; e nel se
greto rise! V: lui l', lo l ss, levi in ammirazione l'altissimi e menti. » VI )
l'ill. S. (il'. I l V V | | | | (()N | | (50), ll el l e levare i
conti. lle: vev: i l)i V (llll le ll ' o sospiro...., Dari LEV
VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller sulle spalle .... pastore, e li e
o per la l a sti, il liti e riti o vandola, la si a Ievò in collo e le elle l
'i g! ea zii e les", l'ass: v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed
egli si levò in collo costui e portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei
mesi e lasciò la pace e la a quiet, sia per anno del prossimi » (vale a I,lº
V V | RSI I ) \ SI | )| | RI, I ) \ I ) ) I? \l ll l... l) \ I.l.(i (il l RE,
l) \ SCIRI V l.IR l.. e simili. . La quale non altrimenti lo se da dormir
si levasse, soffiando inco Inilli i.... a l?o. LEV Alt SI \ COIAS \
rale nellersi a fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua.lº dicendo
queste parole Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» (il
Villt':l.Piacermi finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a
dell'ilso: LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I. e e la madre guata va se
fosse irreali, i fattori il suo dolce figliuºlo, e per a chè ella non era
molto grande, e levossi in punta di piedi, guatò in mez « zo degli
armati, e Vlde il dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di
o,.... » C: Va a. I,EV Al? E l) \ I, SA (IA ! ) l'() N | E l e il re e la
l I e Nilm o U.EV \ I? E \ I, S.V (IR() I ()NTI: II. N () \ | | | | I....
13 (I l (rli I.EV AI? SI I)EI, VIENT(); I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un
edificio, di un terreno – I.E V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I
E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc. Note al Verbo Levare 600 -
Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I
bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli
occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso.. (olle (l'eslerà
di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. » Fier.Si
inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si risolverono
gli l'iorentini per bli. Inolo le rai si dagli occhi in alto e Iale ostacolo e
per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le rarlo mi
l'ululosso Irli studiel'ò » L'occ. (01 - Simile: salire in baldanza. «
I)a si felice principio i litori salirono in tanta baldanza, come nulla potesse
durare innanzi alle loro armi » Barl. (2 - - ()sserva la correlazione (li
le rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in umiltà. 603 -- Simile
la frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè a tu nullo. dare, da
discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo rumore che molte
strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. » I)av. 604
Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec' ('.605 –
Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i
rt,N/lettere (Porre) fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº
º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I. Al ii l ' - I -
volgarissimi 629, nè la li si l sl i l pi. Ma sono alcuni
altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo l | laii (i l I
t. ! ! - l - l - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il
vago della frase il sisl ei s ci, il ss; li il sia, è ad ufficio e valol
e º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i -: i i no del verbo
con altre pa i. \ I soli linelle, che anzi li li ii considerazioni
e all is | | | i l ! l sl glº: i \ | | | | | | | | | N A S.,
VI A V, l SU ). (All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V (il
l V l l ' Simili. mise cinque mila fiorini d'oro contro a mitic ',
i l. -, metter su una cena a lovella da re i.... l 3 -): l l.. i. - i i lo s; i
ti sul metter de' pegni pegnº tra loro messo loro, I, nºtito pegno i - i;.
- i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i: lessano che la Verità l); i
V. : l l., (-. il \ | | | | | | | | | | ll piatti lº t'
('. I mette ld, e più forte illli, Va'. (I t si - 11: -, -1; I l -
e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi...... (i In li vere - i
rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I ()
- VI I I I I I E \ N I \ I () \ | | | | | | | |, A \ | | | | |.. AIETTERE A
VIVIII RAZI() N. \ | | | | | | | | | | N SI El ' () e Nilli lli. Cadde e
voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite, messe tanto spavento e odio le i
soldati si li filº roi o li I ): t: Ig it li, eſ. Quel giovane.... fu il primo
a mettere in lino agli altri. I3e: 1. (ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando
Agricola mise animo a tre coorti Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli
con le spade ». Da V 63 Ali (III, i se mettevi l'amore tuo. F (a Per la qual
cosa, vedendola di tanta buona f riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. «
Con quei ti:lti lo avi In Irli d mirazione ». Salv. VI a ie. it - lo il I l s. :::
I l lit: i mettono inella moltitudine am. a me, miser pensiero,.lon gli
voles - Il tel rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I
)d V.i diedero a pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63?
\IETTIEIR AI.E MI ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N(\ | | TT | | | | V.. STIt II)
A. muggli, i niggili. MI ETTEI MEZZI e simili. l?el ſ to loos o il fiel (il
V al mette ale, l ' ll I, II ig. Vlorg. (figura, a III, corre col gra il
V el. it: “...... nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei
legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi.. sº i e ai lo schilli e
strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit, che
chiunque l'udiiva spa. ve: lta Va ». Cavalca. Allora qllella
stridento, e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.... » (a
Val n. º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel
bianco ». Bart. .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e
pregare. Cesari. \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | (i | | ()
\ | | | | | | | (() NT (). “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva bene
al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la comperava.
Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di tutti univer.
saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub." l'elisa ggiInai e
delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti, ('esari.11on perhè alla
l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ». l): v. nè i
figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori ogni casa ». DaV.
\ | | | | | | | | | N N | () M ET l'EItE IN ASSETTI, IN Alt NESE – MIET I ERE
IN ESSERE di far q. e. MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er bringen nel tre par
ècril – lo sel clou n. e se l e la III e li e il Ille, i nto Ittendeva a
mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli - misero in assetto di
lar bella grande e lieta est: l. 13,.l'ol le e- il ribe dato o lille con Colpo
del colle e del quando,e che e si luroli messi in arnese di cio che la eva l '
bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il.... e – l llla la si metteva in
essere di baſ taglia. l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno mettere qui in carta (o
poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia l'ille..... o l8al t. V | | |
| | | | | VV () |, V \ | | | | | | | | V I \ V (V. lolla li l'al' e sl
per ol li tºlti mettevan tavola il s si.ora che l'usato si meteSser le
tavole.. \ | | | | | | | V S |; N V (\I | | | | | | | V l, A l' (C ),
Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V, l le 'il l Illia di Illesle lol o
l'agielli soglio li, i li; li il mettere a sbaraglio le la Vita il, (es. i vi
G3 istelli, minacciava di met ierlc a ferro e a fuoco, - t, sto lioli i l V lo
i prigl n. o l8al l. 635 l lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la
vita in avventura, e lui e il venil -, al site Ina ri. l'8art. esporsi al
pe: i per i volo li lo del l - l at si \ | | | | | | | | V |, N | |
N | | | \ | | | | | | | | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S(() |
| | )| |, I N SI | | | (\ | | | V | | V,, Nim ili. Se.... I certo I
(lelli rebl.......... ll tiro e, e ogni forza use; per metterla al niente. I 3.
l.(), si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i
letto i ri; 1, l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ
o ll -i (V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li..... ll e il V e
il messo (es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA,
CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av.
Bari. Ces. METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO,
UN AI3IT (I )NE ecc. - e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i
atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le
qu'il 1 l III I Voll. 13, a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere
un viso ilare e gli vi e.» lº art . Pon giù i ferventi amori e lascia i
pensieri triatli o Bo MI ETTEI RE IN N ()N CALE \ | | | | | | | E IN I 3
ASS() - MIE I TI lº l: l N S() )() - MIE IT EIRE IN I () IRSl - \ | | | | | | |
I: IN IP AI ' ()|.I. Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in non
cale ogli i l el-i (. l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili solº
rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir grandezza
il basso messo. 1)ante.«... mi par necessario definire prima e mettere in sodo
il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi farebbe i re votare
i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro popoli, e mettere in forse
la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30.e in altro non volle prender
e I - i nº di lover'a mettere in parole se lo delle sue galli; la', e....
» I3o MIETTERE IN V.JA con.... \li raftivella, cattivella, elia non
sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aja con gli scolari.» I;
º cimentarsi, intrigarsi, avventurarsi a voltº la fa r, voler l' il cºlle agli
scolari, misura le sue forze cogli - METTER MI VNO A o per q. c. “....
e messo mano un di di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran
colpo...., gli spicca inno il braccio., Fiereni. e Messo mano ad un coltello,
quellº apri nelle reni, Bo 3;I All. N l VI (III (S \ () \ Q. C. - ....
pose mente alla sl i 1: 1. I s e, ponete mente le carni mostre e lui è
stallino. » I3 n. 1:. Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e
divili la li l: i les li Se i 1. Ponete mente effetto i li e le e il via
il cºsi della lor debolezza. E \ | | | | | | | | | | | |,((| | | SSI \ A
SI N N () | ) l...... (3,, e gli misi a suo senno, e iroli -
\ | | | | | | | S | A N \:3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | |
SI SI | | NZ | () \ | | | | | | RSI IN | A | è (Il I (C.llESSIA – MIET | | | RS
| S (| | | V () | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V. dal si misero al
ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4, N
-- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3:: 1........ i si metie
siienzio. l 3 l: i. () il l i VI inelli - la si mette al niego.» I ). l.le
sia l i lliesto. Meini. S'era messo in prestare Scpra castella, l in tre loro
entrate. » netiersi sulle volte e lo i leggi i ve. » l?ari. cioè, tor isl
l l: i veri il si per la via, l No!:l, si mise. » l 3o. \I E I I I
I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la sua vita per Nell'all. \ |
| | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V. I l. SOS I \ NZE ecc. Udas le
ben (''.. ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' ' li l: osi e se c'è bisogno,
mettiamoci la vita.. (i ll.(i e il (! ! !, il III le pose la sua vita per la
nostra redenzione.» (: v. l ':l.«.... e lui beato che fu il primo che ci mise
la vita! » Cesari. « Però vi esorto a passarli travagli per il lodo, le no, ci
mettiate della sanità. » Cal O. MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI, l' N I ().
« è istigare alcuno e stimul i r, a dov e dli o la r il il na Inglilia o V
Il a lania, dicendogli il modo, lil po-sd. (del liti o lill la, o lil a.
i litº, - - si chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro,....
r Inti o al Ilici che sia imo. Val li Nola gli appellativi: commellinale,
un teco meco: « d'uli con melli a male, il quale sotto spezie d'amicizia
vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero.
Varchi. METTERSI AL TIEIRZ() I (C. I )].I, (il V | ) \ (iN (). e Andavano
dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: - dagno, a
cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i a o l'edità colltro alla
legge, i l): I V. Note al Verbo Mettere -. 628 – Eccone un saggio:
to set al monuſ li I linellere il niente: lo.. set ad usork (porre in opera: to
sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo set aside
mettere da parte, - - " lo set one s self (imettersi a....: so se lo m in
l. ere giù - lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn por gilt,
nettere a terra: lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind mettere in
alti, ricordare i to put a question; lo put to death ecc. ecc. 269 –
Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere le mani adosso,
mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a correre: mettersi,
porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc. ecc. i30 –
lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. « Quel rigòglio è
pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse degli alberi,
essendo il succhio... Cesari.Analogo al mettere delle piante è l'altro modo:
mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira. 631 – Si dice anche,
con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in animo di far 1.
c. vale proporsi di farla ». (5:32 (5.3.3 (3 (53,
(5.3(5 (5:3, io m'ho più volte messo in animo.... di volere con
questo nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce Animo. Neh!
questo metter pensiero non.... è ben altra cosa che il mettere in pensiero.
- Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola (a, e metter la
tar'ola. Il primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap parecchiar la
tavola. Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il verbo git lare
ecc. • Pronto al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio o. Noli
ricol (lo si allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia nelle e al
sacco: Giul), ed altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da parte, far
tesoro. « Debbo saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di mettere a
sacco la lingua e lo stile delle mie opere. Giub. Melte mano in
checchessia o di lar checchessia significa co m in cicli di palla rue e c. Col
I Muno (al). 2. (Se il m o l?a l'1 e I. Al clersi al ritorno re, e
simili, è il laniera elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill, presa
del..... Mettersi o porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che il
cori linciare, apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche
mettersi coll'anima e col col lo t... (Si mºlle con l'anima e col corpo al dice
al la r l ich '5 st. lºl'. (ii il d.Re care Sil primo significato è il l
di poi la e, si rire. Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o di
votarne il recai ed holl 1 e... 13oº'. e con il significa i resi in li lig Il
al miele a recare d'una ill alil a liligi la v. ecc. Mia poli III lil al
li isl 1 l issi di quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e il
no, una cosa ci l 'c li ºss lat, a far lecci es. sia, recarsi a....... liele
Illilli il V e io i reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul re, e
quando i riliire. I l...., il V (l e va dicendo). .. li Ille-t Il l: l ' 1
tl i i l: - i mini recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi a
condizione di privato. a (a s. .... sol che esso si recasse a prender 11
glie. I3. Vedi modo e sappi -, oli di l: parole il pil i recare al piacer mio.
13o. II lis- 5000 fiori il loro i litro a 1000.. ll e io la sll, di reche a rei
a miei piaceri. I3o.il Vello già liledira: o gli animi d i s.it i baroni, e
recatigli alla vo glia sua.» (riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s. vel. l i
r, casse la madre e prin cipi e..... a dover esser cori I lit ' (1
- i Qllesti recando a suo proprio quel con il Villlierlo di I o Izi, a
poco si 1611 le clle coll..... » I Bill'1. - - l'eputaldo, considerando
sullo la r pri... e Ne recava a prestigio i miracoli, e la santità ad
ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il conto di..... a recava la mia
rettitudine ad ipocrisia. (iiil lill).. niun altro l'olila 11, di sua grandezza
il V e il V l Ito dlle lipot i il ll 1 i corpi, recandosi le cose ancor di Iori
il la a gloria. Da V.«... lle v'è uomo che legni di fir se Vilio della slla
persona che sel reche rebbono a viltà. » I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi
e il sabato, e come cosa orali ai passata e in usanza e comune, nè a coscienza
sel recavano, nè a vergogna. Bart. 52, « Non si recava a vergogna di fare,
bisognandolo, l'arbitro con lo dal la belti.... » Balt.« E dicesi nella storia
di Santa Marta che non sia niuno che creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta
vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel to, le ll I ratello cogli altri su
i parenti e amici l'avrebbero e li al celata, impero, le se l'avrebbero recato
a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara cli per contrario se la rechi una carica a
piacere, a premio, a riposo, e.... S -:).e generalmente o il lancio, il ril ci
rechiamo ad un genere di empietà e offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli
non ci dà noia?» Segn. ll – e le: l le, Fi, al di l orlìa 1 di sl, ll la l'ott
1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t. It con 1 l ils: l ', no; i clle Vilì c'ere
i - ilì molte haitaglie, ne recò a più alto principio la cagiona e oltre
- io ho veralmente era, i sse i ll, si era il V V ei lilli, il vi: ill, 'i. I l
i pic lo es reit, del re doll i – l. e/ se \, Va. l. ; le I) i l
rist l li, a. l sei za niun risparmio, N si | | | (V.I RSI | N S.
il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo si recò, e con sembiante
1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i li. | R |,(V | è SI IN VIA N ()
| V | | Si VI \ N () I RI (AI SI IN (() l.I.t ) (| | | ((II ESSIA \ oi vi
recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un malviso e tilt to tu balo
V e l'anall et g ti per le sca', el a idrete dice: do; lo ſo lot, il l)i lle o
il cog el'o... l ' ve. I 33llfli liti o recatosi in mano uno de' ciottoli elle
1 a volti a Vea, disse: l)el V ed si -se egli teste nelle l e lil a Calandrino,
e:... o I 31...(olli e il li elobe Il., 1, li lega i recatasi per mano la
stanga dell'uscio, lioni e sto prima di latte. Il 1 le pel si la stanga le
raddo di malmo.» I el l /.e recatosi suo sacco in collo riposo ni li che egli
ehloe vinto il ſolito.... 13: l'I. l: I VIRSI CO) I I ESE teme le
mani al petto, per riverenza, di rosione, piu'll. i let: Illesi, e latto,
recandosi cortese disse.... » Sacch. | V | | | IN |,l (I Iſetti, il
gran tempo, sia i mas osi, ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo
ingen). Giamb.r- a - li ECARSI UBBIA DI....... « Per dilungarsi dal
morto, e Iliggi l'ubbia e le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch. IRECARSI
A MIENTE (Itidui si a memoria, sorreni e. a Và, e non volere oggi mai piu
pecca e. Recati a mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere
la vergogna degli Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello
che dice la Sci Itt il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che
il rollo di risori, cioe Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i
(It.all.... » l?assa V. IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in
cui molo, la re un fascio ecc. ). « Voi siete ricchissili, i giovani, li
lello e le llo, i soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in
uno e in lar terzo possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun
fallo mi da il cuor di la, e, le.... Bocc. l? EC.Alº:SELA (o anche
recarsi assoluta non le maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie,
pigliare in offesa come falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o
coll'espression della cagione ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro
rotta la pace, a V Ill. « Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che
il vi rechiate, e se 11oli corile da uno ubbriaco. o 13, la consideria oli le
c, fatta vi da un ubbriaco). -in da 11 a V I Nota al Verbo
Recare 526 – Simili i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi
nirlo, perfezionarlo, recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 –
Nota qui la frase: recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la
conoscenza, e simili.52S – Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a
Ilºil, º lº rore ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una
grande ingiuria a stili, mi di si p o giudizio che ll il mi debba
ripulare a farore, che li esser N. N. si degli di stºri verini ». Cal'.F corta
re Al l lano i rili Is, elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº
lisl rilenzi, il re alculli usi notevolissimi e ina niere assai fre le li
sºllia per il la ai classici quello che li li fa il moder li e poco spello del
pari tre latliano, cioè l'uso del verbo portare a va lore di esigere,
richiedere, in prorla e, comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati
dolo e, poi, la r no a uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa,
l ispello a lui li sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati
pericolo di al'.... poi la r il pregio valer la pena: portar opinione. I rl (es.
porla in pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido () i noli e
gli ºri Ilde - i tizi ile, lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le
imprese piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli
ssilli dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » (all'o.Nelle
passioni l'a lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl
l.. ll la V, º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo
portava, che solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il
lette il dile giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli
d'argento in mano pieni di varii 1 litti secondo. lle il 1 l... loli portava. o
lºMla io credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo,
11 le lilt:: via l il 1 l Ces. I:i natura del l s i porta così e io, il -
e lº può altro. » (-. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto
un numero « o d'i!) finite V i..... » (' -. Conservate il vostro, lion
spendete piu che portino le vostre facoltà, fuggite i vizi, seguitate la
virtù. » Pandolfini..... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno
portasse che... Ces. a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non
sapendo che falsi, propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc.
So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva
di farvi grande. Caro. l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che
le porto da fedel solº Vito l'e. » (art). ... i quali del giovane
portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li
fortificasse, chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. »
Cavalca,« Di che il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e
malinconia, che in aggiore non si siria potuta portare.» 13o.« Ma Iddio, giusto
riguardatore degli alti il merili, 'e mobile Iemmina - conoscendo,
e senza colpa penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. »
Bocc. - « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a
costui portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa,
(livelli loin l..... I 3,. le all o!' « E da quell'ora il li illzi
gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I. E 11 lì è da falsene il
raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano alla persona
sia o C i va. a. « E se il confessore lo riprendesse dei suoi vizi, porti
lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili e gli isti,
spesse volte si biasi mano eglino stessi: ma se interviene, che altri gli
riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... » Passav.«....porterà
espresso pericolo di riceve e vergog:i e dal lillo., (iia lill). a
Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett: s tl dl Ill st luoghi. » Segn.
a... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il sonno per risponderº a III
e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l o Ma sai che e'
portatelo in pace. » I 3. « So tu ti porterai bene d'altrui, convien cli altri
si porti di te, e Fioretti.Ajutare L'aiutare dei pochi esempi che qui
arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto, socco so (ail lelen, ma si
rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti fig.li lo help forucard, lo
help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice cosa, in generale, che cresce
altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai ancora i nodi aiuta, e alcuno,
aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una cosa: aiuta, si al lar checchessia
ecc. “.... e che l'Inilia cantasse il na. il Zone dal Lillto di l)ione
aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata.e Ritornò si notand piu da patira, le
da forza aiutato. » Docc. sorret to, sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini
ed aiutati dal mare, si accostarono al pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti.Ma
quel povero Iritto, per aver a con le tar troppi vervelli, e di varie e mature,
spacciata Iriente si inti e di l::i i: si iroli e forte aiutato di lavo a recci
e di concime. l):tv.« Al lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile!:l
ajutaio, lº rese nulov, con siglio. I 3 r..... llQlle - le parti si posso lo
aiutare e collo balillage e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare
il senno per se Inedesimo, quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla
opportunita, intendi necessita e aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole
col piangere, col darsi delle mani nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva
Virtti alle parole.Ma se il lla pl o la par li a lia del celerino per via di
medicina se ne a prenda, con lierà lo stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e
farà buono il lito. » Cl es.. ll orrera a rinforzare, a ravvivare, a
promuovere). « Per fare ancora i vini piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai,
dopo la prima sera, che siell 1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi
va, adopera. Tuttavia, se la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci
commise ne e gligenza, e ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in
questo caso l'aiuta, e 'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel
de fettuoso prele, o Passav. A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE
DI CIIECCHESSIA. « Vedi la bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso
saggio e Cln'ella mi fa tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da....
()ppure maniera clittica: aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l
naso ch'avevi per odorare? Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.«
Anche::lolto è da col Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti
i 11 st.li idoli gittò il: tel l'a, e iº li ill la cosa gli poterono luocere,
nè da lui aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi. a Pero ('ll è: i Frances lli
non atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII e liardi e dei Toscani; ne
il Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572.
e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que sta cosa
al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l...., Boc.Io vò infino a città per a
illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i inestre, o,
c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una comparigione.... il
giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o che lo giadagnato ho
partito per n mezzo, la lilia Ineta col Veri e il l is tra Iletà
dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di
loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130. e Alberſ o d'Arezzo
era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era addolmandato e mitra
ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il dovesse aiutare. » V;1.
SS. Tad. A.I l I'.Al ' SI A...... a.... Ti o, ipo -olio rimasto dei
lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta inte si g l al lilot I V, di
rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a prevaricare, e non vegognandovi,
quasi clissi di al collo la lite ingorde, indisciplina e, le quali allora si
aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per ogni piaggia, carola ndo per ogni
prato, quando antivegg, no che gia sovrasta procella, Segn. s'ingegnano, pro iº
lo trachten, tàchent). Nota al Verbo Aiutare 571 – Parla del seno
delle donne che per parer più pieno si può..... 572 – Così l'ediz. fior.; – La
Cro Sca e La stampa delle Soc. tip. Class. ital. leggono un po'
diversalmente: lion atavano (aiutat vano, nè liberatrano i lio mani. S e
ritire \' illo solillo al Isi pi ii e in no comuni oggidì. Si ado lº' i
''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione, coscienza, notizia di chec lºssli, li
guardi come il latº glise. Nota i nodi: sentirsi, sentirsi (il capo......; Nºn
li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo, la r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli
e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc scºni lir bene, mi alle di checchessia, e
simili. lo soli i ll ella sento di me., Rocc. \ V e i tit Illa ira solº
ai la lollia le quasi non si sentia. » Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta
ogni parte del corpo loro avea considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi
ai? I n l'avesse pulito, non si sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto
mi li ne avrebbe avuto il senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii
senti al capo. » l3oce. I me ne sento alla borsa. (... ll I. S. Bernardo
di e li mi ni loro stupido e che non si sente, è più di º ll I ligi
la lla Salt l' 1 ss. l 1 no li il senso li sè stessº, i. (olli lel quale - la i
vizio della super leia, e non si sente, cade nel V Iz lo lella lissili la
del' 1 a 1 ne, e I diio palese il suo peccato, acciocchè la co. fusione e
la nla li la lel peccato brutto lo fa la risentire, che prima er: il
sensibile, l ' s sv. \ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che
della morte del si sentia niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1::: van ls li a
grande, e quello che più lor gr. l V il V a el.. ll e-- oteva no sapere, il l
ossero stati coloro che i pita la V e vallo. VI: (li, il l Illa 'e liti e le
atl a il no altro ne calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire,
fatta armare una fregata, S I \ i ll lito. (... l 3o. le: le [lli li
elite, e con le addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o
lºo ('. \la poi che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa
alcu ma che mi osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » (asil.si
mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per
effetto; e per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col
venire di doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se
rigli' rdat, v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella,
oliosi ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº
mare, niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se
le scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III
- III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi: ' viº, per
la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il
facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. »
I3o.\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, (Irlino al palo con un stio a
Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che
quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto, La
fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo
(iia corilino l:ori vi. ilava e gli dissi » Bocc. Venuſ o il dl si
alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per
invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ()11 (:il l)ll a l'ebbero
fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia disposizion
fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere la voglio
13o. « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza sente
d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i pieni a ve:
la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse., I3o.a Io il quale sento
dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed oltr'a e io
disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il dire. Fl'ite
\ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,. Ttl st -:) Vissililo,
e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3?). Vll'ill ontro chi, colli
e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e se, che di se goli si
ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili stati e che nel decorso
dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo morl) sente molto avanti
nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i illlo. a S. Greg. S. Agost.,
S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i principali dottori (li Sa.'lta Chiesa,
sentono tutti concordemente l'opposto. » Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè lileno
i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si empia mente; anzi molti ancor de
genili lo reputaron profeta di gran virtù.» Segui. a I Jacobiti sollo (l'isti a
'li...., londillelli) male della fede cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril.
ill.e Della provvidenza degli Iddii niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. «
Allora udi: direttamente senti, Se bene intendi perchè la ripose Tra le
sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno studias-e sopra la questioni della
vision º de Santi, e faces a sene a lui relazione, secondo che ciascuno
sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i. Vill.a Del suo pelo del cavallo)
diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s pare a più. che baio scuro è da
lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo pare che senta Santo Agostino,
quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo. » Vled. Vit. (r. e
Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e dirittamente tra gli uomini a
vivere, e operare. » Caval. Conferisca gli tutto quelio le ella sente,
come farebbe a me proprio. » Casa. Nota al Verbo Sentire 2!) Il V
el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase (v. appresso): la c all rul
sentire chi ce li ossia cioè operare fare in modo che la non i via Venga
il suo l'ecclli ecc. lo 0 lo che li on s. Il ll grazie del 13 o accio ed
altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono del III to pl Ivo, avrei detto: «
La gio valle non si accorgeva se fosse il lerra o in mal'e o, il che sarebbe
dello gl. ss lallali e rile. Il lºoccaccio, invece di dire: non si accorgeva,
dice: nien l Neri li ai clie è molo di dire più scello; e disponi le parole il
selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza. Zali ell ' e io li a Lib.
I. 53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v. g. nella fede) vale nati l'
aver diſello di.....; e sentir dello scemo è aver poco senno, aver la
qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da sè. e senti di scemio è
predica o di checchessia. Analogo a questo sentire è il sostantivo
sentiva della nota fra se sentita di guerra. 32 .... mia egli con
miglior sen lite di guerra, si era posto in ag gilato dietro alle spalle di una
montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli improvvisi. I
3art.Stare Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i numerazione di
qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei del mio assunto,
e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui ii i modi e
forme particolari dell'uso di questo verbo -, e mi starò contento ad ilculli
esempi lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore che lnai o
quasi Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo sente e
pensa moderna li crite. Noterai le forme: slare checchessia ad alcuno,
per convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per costare:
stare bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si, stare per
astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non essere, non
aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per indugiare:
stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile, per non mi i
versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles', ei lo slalo, condizioni e
cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l IIailili di azioli
e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc. I qui li II lotti per i
clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli uomini, il quarto pit. Il ti
line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e lui lg, si disdire. I3o.e E
sev o volete essere di quella legge - se il loro, a voi sta: Ina a valli
lle...., I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l.Sillito la vo' veller', s', la dovessi
la r per III: li o lil II rini, che la a non mi stà. » I, rºll Zo di Mleclici.
V el l l ll: l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I 3,. Bene non istà a lei
il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il sil 1 e il il ti (Il'io Sollo,
'1: iStà bene l'attelldere il d all1, l'. » l 3 m. Frate, bene sta, io li e me
li di roteste cos Ill:..., l o '. Frate, bene sta; baste: ebbe se egli li
avesse ricolta dal fallgo. » Do. S78. e Io non son ancilllla alla quale questi
ill: la III o almeniti stiamo oggi mai bene., Bocc. -i al ddi allo).2ssendo
egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o molto e standogli ben la V li il l30
('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non ve ne troverei uno che così ini a
stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo studiato a Parigi per saper la
ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che sta bene il gentile lloli 1..
l 3o.« At colleerò i fatti Vostri (i miei il III: lliera e le Starà bene. »
l'80. a La qualcosa veggendo Stecchi e Marchese cominciavano a dire che a
la cosa stava male. » l'8o c. a.... di che noi in ogni guisa stiam male
se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a mal pallito).dis- l' ill V: e se
avviso lui Ilai non doversi la a veduto, avesse: ina pur niente perden a lov i
Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio - a listelmell I30 ('C'. N isl, li lev
si stava.. l)av. N si s si s i s; i liss.. - Si stesse, e l'80. lº l' 1: v. I l
il sitº Il le stessero. V...:lle cessassero, si fer Il luss (l ', --
ero (i a noi o non istette per questo che egli passati alquanti di, non
gli r! Inovesse sin – li pirole l 3. Per me non iStara -: i sia. » I 3,
cº. l' egali dolo, l e se per lei stesse di non venire al suo contado,
gliele si li, ſi iss, l 3,. S!),. Senza troppo stare t a il lino e
il territo visto gli rispose. » Bocc. - il 1, sich lange besinnen).l ve: i IIIa
pe: il nº te i ni ivi e no 1 po' Stare un giorno che li ssi. 3,Siette al quanti
l i renz. l i no in Stara molto i l:ì l's il 1., l lel. Stando pochi giorni....
l l as it giorni. Ne stette poi guari tempo e le si. la Iltale della Illin
molte ful lieta is: l BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e
la potenzia il I I ) I V - -, l sºl l e.. l 3 SS0'. l I e Ilio - li - Il
d. si iellza stavasi innocentemente. » Ca \ si... li o 1 i vasi. lº, e lo
statti pianamente fino all'i nia tol nata.. liocc. (.l, polendo stare,
via, - ius o è he mal suo grado a terra: i l ier'.Compa il lato l'opera sta
altrimenti che voi non pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l
Vtloi, stare il II; eglio del miº lido. » lºt,E relet, porrete irrente le carni
nostre come stanno.» Bocc. Staremo a vedere, olle V i governel e le,
Calo. Se volete chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire
non aver voi punto i rotta di convertirvi.» Segn.. « Non mi state a descriver
di I lique il ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze - º stomacose. »
Segn. 881;. - lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte
moli e dell' Is Ilo ſereno: STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la
serie - ed egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a
dazi ordi a mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli
uomini a niun termine star e contento. » Bo(C. « A me li li pare buono
collli, il quale lo ista contento al suo pro prio. » Palld. STAIRE
SOPRA SE In ne halten SS2, a Alquanto sopra sè stette e cominciò a
pensare quello che la dovesse o Bo), Li Volse dire, senza pit | ns. vi
clie e - e u ss (Il 1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis, nel volto, per V del
e se egli diceva la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...:
stette sopra di se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz.
ST'.\ I º I, SU I,.... - - ST AIR E SI |, (il V V | | | | | | | | | ((I (). (sillli
| | | 3 (- ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI() N E. SI I, IPI N I () | | | | | A (VV
VI.I.E I? I A, I) EL (()N V EN I V () I.I. - SI' A | ' I SU I. (VNI) E
c'e'. a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i « Inigliore.
» Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo corvo io lo
paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire in questa
prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della cavalleria che
persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. » Bart. : gli 1 il
ri., l3 l: i. STAIRE A PETTO | ener fronte, reggere al paragone, «
si scusò col dire che non ave: gente di stargli a petto. » (iia Ilil).
STAI? I, IN FIEI)E a Pochi ne corruppe, gli altri stettero in fede. »
l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli altrui prendersi briga, es
serne lui lo premi tra SI \ It I A Ll.((il crisi liti, elorca, la II
nella liti... reggersi secondo... ) l Il e no, le tuito, stava a legge ma
umettana, gli si ribellò... » Bart. S I \ I Rl l?I l l N () / e mi e' e
la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN (i \\llº E forſe da la
persona SI \ RE IN CEIRV El.I () (saldo alla pr 111 ss S I \ RE \ | I \ PIR ) \
A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V NO a lire al visi – STARE
I).AI - I 'OCCIII () (A | | | V (). \la V to io, che gli stava
dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ. S | V | | | | N N | | | |
| SI' A | R| | N | | N | | N N l. (o la base del 1 al pil e quasi ai li o
sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li se in esilio, p - e lo Io e
il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le (liz Si ponga nelle da
li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare, tral le mº) sl. in lui ſia i
c', lino e lo micilio e c. (il voll:i li in lato veri pla, endogli la
stanza, là g: i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille ta i ltta? Fiel enz. E come
le g. a V e li palesse il partire, pur tenendo moli la troppa stanza gli osse
agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia, se n'andò. » l 31.I ra gli alti
Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo perso maggio nella dell'imperato e
in petrò al padr e la stanza stabile nel. Mlea o, e per i o is reti ministri se
ne spedire al regie patenti. » Bart. IPensando voler fare stanza il ga e
continua fuor di Roma, e per la sei i re a l), il so solo ova rinai il
consolato,... » l)a V.Note al Verbo. Stare S7S – Questo bene sla è
maniera in personale e orna all'altra: () - ſimamente, sono con voi, siamo
intesi, basta così ecc.; oppure all'interiezione: capita, buono allè ecc. –
Simile il modo del l'uso: ben gli sta, cioè l'ha il ritata, e
simili. S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per alcuno od -
una cosa dipendere da.... SSO – Alialogo a codesto slare è il sigili il
lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse e poco
slante se ne - vide il buon esito. I3a rI., se li il climpo del pari orire ess
torì un bel figliuolo maschi. I3 cc. SSI – Simile lo slare dei modi:
stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot. Pioli di
compassione il conforlò e gli disse che a buona speranza stesse,
perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o.
13ore. ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- -
CC (”. SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in
so spetto. -- I tiri la nel libblos, sostene e, sopraslaT corri a re Si
lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il
90S, pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al
lile. l iuscii, l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo alla
cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s (t.;)(!
). l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del l'azione, e
lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua. lº a V v l It il il I
e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3...l'alto i a | 11
he tutt, torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca 910,\ l spill 1, si
rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente cristiani, ma
predicatori di Cristo. » IBart.. La nl IV Coletta - I lista e torna in aria. o
Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro pompose botteghe
tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo il l essere.....()
il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse tre e mezzo. » Sacc.? E
il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. » CreSc. a S1, ll ' I g
Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la, la Valle, le carni i listinte...
Egli era tornato ossa e pelle nuda. » (es: l l'.La caduta di lºietro torno in
fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege poi. Ces.Ogni vizio puo in
grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri doll dare il.... l o C.A
dunque le parole di Crist, tornavano a questa sentenza... » Cesari, a
tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui ritornò lo smarrito colore ed
alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere) Boce.a inſer ma di gravissime
ed i maldite infermità intanto che la purgatura del naso e le lagrime degli
occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui, cºn le lido: il terra in
ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual cosa ti memdo l'aolo,
fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della persecuzione, con le piacque
a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la necessità tornò in volontà, e
incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo per amor di Dio, dove prima
era fuggito per paura mondana....» ( l'avalca. I, lu go studio della
volontaria servitude, la consuetudine avea tornata in natura. » Cavalca. º sel
l'eca un inferno) a casa, e con gran sollecitudine, e con ispesa il torna nella
prima Sanità. Io e. e la quale ſia inina, rapida Ilente consiln io e tornò
in cenere quel poco a che l'era rimasto, o (es. le e divenir,.Ma il Si Verio
tormolle all'abito e al ritirarmento..... I 3:1 I t. io e le ſei e ritornare.“
Qil lio stesso ill, la I a bbona e Io e torno il vento in poppa. onde sall'ite
l'ancore, ripiglia o! I l vi i gio. 13ari. Ie e tornare,.... e Sp 111a gli 1
11:1, V., inza, i - II i cd 1, tcrnò in amicizia i parenti i degli ammazzati. »
l?il l di t-se il l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor. tornandogli in
buono stato. Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città come era in
tranquillo.... » Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di tornarlo in istato,
tutto.. s - si gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il Solalilei 11, avea
tornato l'uomo nel primo stato. Il la a V vantaggian (loit di 1 1 cippi pill
dolli l'a Vea - Il bil II la.... (.esil loIII e di.... lIl lla nella memoria
tornato una novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono nell'ivello., 13,
riposero a l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi..... I 30. lIn
giorno di salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S. (i lill allo, a
nella quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V (st Vo Nll II lo, Ca Valca. a
lº fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. » Cavalca fatti
Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e consider: ss l' in
quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a Cavalca. Simile
al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.()NT () T()IANA cioè non c'è
errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce bene, risulta esalto,
riviene 912. TORNAIR 13ENE esser utile, di piacere...... « Coloro i
quali sono grati perchè torna loro bene cosi, non sono grati se a non quando e
quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse quello che a suoi i teressi tornava
bene di far l'edere. Bill I. e fatela quando e come ben vi torna., Bocc. l'()lº
N VIRE IN A (() N (I () \...... stal utile lºlºsa che se a Dio fosse
piaciuto di prosperarla, tornava mirabil mente in acconcio al desiderio del
Palavi, e a grande utile alla Corona a dl l'ortogallo., Bart. l'() I N VI
RE IN NI EN I E lil liti º se assai, le ſtia li tutte in vento convertite
tornarono in niente.. I; ) -. l' )| | N VIRl V (il l ()| | | ((I | | |
)| la Illal e sa tornandogli alle orecchie., Fier. Il testo la r o' e
tornate agli orecchi di.... » l?art. l' N VI E \ I ) | | | | V | VIRI e
c. si pa rtl e tornosSi stare in Verona, e (ii:alm! Note al
Verbo Tornare !)()S Sinile al tour ner dei francesi e più ancora al to turn
degli in glesi: The milk, the beer, the urine, le cream, ere g thing li (ul
lunn ed sour. l he jeu is going to turn christian. – l'his young mall
first intended to study Ihe lav, but after W:ards lle l urned Soldiel ecc.
ecc. 909 l'illlo simile anche in ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va
dicendo. 9 () Nolalo questo modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor
mare in sangue e simili cioè diventare, convertirsi in.... !) | | Nola,
la maniera: tornare alcuno in islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene
alcuanto della natura ed essere di quei ver lui che mi piadue di contrassegnare
col nome di causativi (Par le 2. Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al
tutto singolare che vuolsi qui ancora notare. 912 – Tornar con lo simile
a metter conto, metter bene, metter: me glio - è altra cosa: « Non li torna con
lo recare all'anima tua un minimo pregiudizio º Segn.Vernire Olire
alle cose delle alla parte I. Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i
seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V EN Il ' E IN....: e il ct rich o V | N | | | |
CI I IE(CIIESSI \ ecc., per dire nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e c'
Nini ill, sul Pil l'as tre rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le. gli il
II pe: a lo; i erano venuti a quattro, il le All - lls-ii e dtle (e-il rl.,
(iia lill)..... ades, a ndo i piti leggeri di cervello, il bril iati il danari,
preci pitosi i ga bligli, venne a tale che.... l)a Valz. e assile la
Itosi.... a patire la la lire, il s II', sei, con tutti gli altri st Illi e
disagil.clic..., era gia venuto a un termine. lle il disagio non lo olfendeva e
dell'agio noi si ci a V a (riali W e il briligen dass...., 11 -: dosi illeri,
il venire a volte si furioso.... (i, allil, il (ſlale il tori, ea lilelli e il
nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e 1 - o ti il to Il sito altri 11 venuto in
povertà, il ire gli il li ri.:) V:llieri, c. I I I I I I I 1, divenne a tania
triSiizia e mia iin coinia il si volev l l I-; e il l. » l' 1-- I v. desiderosi
vennero il 1 I l l: V.. le; e...., I 3, «... sino a tanto, he venuta discordia
civile tra l ti: io e l'altro paese...., (i 1,1 mil).« Tanto pili viene lor
piacevole. Ili: i to li aggi e stata del salire e dello slli (olti ro la gri V.
Zza. » Bo ('. VIEN II? | IN ()| I. IN |) ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V
| N | | | | IN S(I R].ZI () (.() N.. V | N | | | | | N | V \ | | (i i | V V | N
| | | | V..... per renire, di l riraro. venutasene in somno furore...., l
3, ('. calo il 1 alta trisi izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe
razione. » Fit, l'.Veilezia turbata li. Il testa per lita sarebbe venuta in
qualche disor dine. » (ii: Il j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i
telli e li fa Vella....» Boc. « Non ostante che tutti venuti fossero in
famiglia, uniti che mai strabo - -, le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi
sta pagatore l'Io venga a dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te
olltraria alla donna, a quello a che di ve nire intendeva. I 3,. VENIRE
AI) Al Ct N ) che che sia, conseguire, meritare. – VENIR | N (()N (I ) \ ENIRE
I 3 EN E ad ai tirio per riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | |
| V ((N SEI RT () V l'Nllº I; l'()N PUNTO). Nori gli potea venir molto
polti tre li dottrina, ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse
acquistal n. » C aro.(Il le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll
facevano con lor sen e 11. » I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si
levar l'assedio e tutto venne bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo:
empo per le foreste e discorrere a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d.
ordo li la sto la soro, il to he ognuno possa fare della parte sua quello che
ben gli viene. Fiorenz.ma per le ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in
porto che s'incontrò il l.... o IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon
punto, al re lo mostrasse. » lºart V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo, e,
v. occorrere, apparire, mo strarsi, affacciarsi. - Aguzzato lo ingegno
gli venne prestamente avanti quello che dir do a vessº. » I Bot (. « A
rispondere assa glon vengono prontissime. » Bocc. VIENIRE A l) ALCUN ()
ll. F AIR CIIECCHIESSIA (loccare, Jemand die lei le kommel, . A te viene
ora il dover dire. o Boct'. VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) –
VENIRE DEl. CAPRINO e simili - ed anche solo venire per venir fuori
uscirne odore, esala l'e ecc. E quando ella andava per via, sì
forte le veniva del concio che altro che torcere il muso non faceva, quasi
puzzo le venisse, di chiunque ve « desse o scontrasse. » Bot ('. 920). E
se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il
pianto loro. » Bove, Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che
ancora ne viene. » Lipp, \ ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere,
« Quella che mezzaliani ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc. VENIRE
ALLA MIA, ALLA | UA..... a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill
e da hin bringen \ EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i
lobi o delle promessº e simili) \ niti il partito il 1 e il l via
lo venir meno al debito delle loro promesse. I)a V. Risl -, si il ve: a
'I 111 ssa: l' 1 si lill la le giova il 18 di:lli, al quale non intendeva
venir meno. B si ti: 11 e 1 li della s la propria ssi, V EN II I \ (ENI )
(). I ) I (I,N | ) (),....... e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete
sostenendo. I 3 i '. e venutogli glia ridato la d... [ 1 - Vi - e se l a......
il venne con siderando., I3. Fi: no alla porta a S. Galio, il vennero
lapidando., (ovale, e fattosi dall, Illia! til:: venna lor raccontando.... (- I
ri. L'utilita dell'udi e le ville º si liti di ora in colloscere, e le nel
venirli stirpando.» Cers. la lo) l'o a salitificazioli (poll istal Ile!
llo!) il Vel difetti, l'Il Note al Verbo Venire ecc. è, in
Irli Is. Il li sll l'e 'oli 920 - - V oniro (lel cºncio ll - [llella
spiace storcimenti e con l'azioni di viso e di p l'Stllil, - - - volezza
o nausca che al rila di ce:icio o cosa illilipsilica che gli verrisse vedi la.
scillili, il lills il 1.: -) () s 2". Altri verbi di particoiare
osservazione, del cui retto uso si adorna il discorso, ed anche l'idea prende
talora maggior grazia e vigoria; e sono: accadere, acconciare, adoperare,
apporre, appostare, appuntare, avvisare, bastare, confortare, cercare,
conoscere, correre, divisare, entrare, fitggire, guardare, investire, lasciare,
mancare, mantenere, menare, mattare, occorrere, occºrpare, ordinare, passare,
pensare, perdonare, procacciare, ragionare, rimanere, rispondere, riuscire,
rompere, sapere scusare, spedire, studiare, tenere, toccare, togliere, usare,
itscire, vedere, volere. Accaci e re Il suo significato con Ilie, e
proprio, e lello di arrenire per caso, inopina la mente, in lei venire, seguire
ecc. Il lorno a questo non accade esemplificare che e molissilio e dell'uso
anche più che non bisogni. Mla gli all i classici: l i al dissi i vagano il l
sless, verbo accadere, in un senso assai pil ial, o elill Icannelli e vario.
Gli esempi li diranno come alcune vo' e si rii ti: con il lotto, con il corso,
ed altre con cºn il '. venir in acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo,
loccare, di parlenere, e si ilsi anche a sigilli al e, ora la r di mestieri,
bisognare ecc., ed ora preceduto dalla particella non non essere bisogno, nichl
brauchem ecc. (cc. Conſ. Pall. I. Cap. III. E in ende ai ancora come un sifalto
acca dere si avvenga alla frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra
voce o quello che egli pressapoco º similica. IPerche io ho compero
un podero e voglio o pagare, e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a
Fiera Inz. come si l: Il tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, (c'e'..
lolina illo...., e iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè
colive.lientemente, adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo', e....
e accadendo ti serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno). Io potrei,
per confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una donna di
tanto intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni della
risoluzio. e. (i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e,
dicevole, opportuali, i c.. Etl alla donna, a cui il ll, lº i io li
pi i lito, li: ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io sto
conviene, fa d'uopo. Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come nelle
Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia si
vede, essendo ti-, olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade tratta
e o l?orgh. lon 1. (t, il gli si app:i: tiene a.... e a III e il rio cadesse il
ri; e il vi 11e di ei, avendo rigi a: il che '...., Bo.. t.. ss, - appar
lesse, , i so, li i i ll io V Non dis-e: i a lizi (ſt 1: Io la r
cadde lº do il le?, (es. o o se, a V. Vell veli:.-. ll ii l'.... accada: il la
di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada che non accade adorna le
di l: I: (e, p Cirle...., (: l 'o. i liti e, iroli e le ossa ri..Qll:) !ldo il
rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti -si l: azioni.. (ri, Zzi. lion,
li li la d'ltopt di..... E lic, chi i: istiani - li Iile ! I po a si'l citudine
di sal º:: -i. ] il ce: i letti I l accade, Sia il I l II toi, le cºl
ltsinglliaIlio. è lI::l 'life-ti- iII:, S.....Ali, il non accade, i 1- I lii: i
g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit li lit.....N li accadrà, -. -i, li d'oro
il 1 l izi l: i i sta il listino giornal li le t in. i ! e col Salinis a.... l)
ils IIiti in In.. Segm. non sara bi - Ogil (....Non accade per ta: to i lie i t
II li' li -so di lui l'in - l'Ize. lol dl }ivi, i, l1 Il cli..... ll 1: i ', -,
Il li Sºg lì.Vi bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln...
il mio lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o,
avvis it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie. l.Il
qui e disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che
ha il III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade
II io disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in
fila giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. »
Bell Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo.A
cc orm ciare la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di
eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e
il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11. Sgrill I l
pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon
ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le
gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr. (. ll 1 l. ll.....
di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce: lesto verbo,
costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e
figurato. Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s.... e, a da l
idel e.. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con
qualita il ll Iel: l i - -, l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va, ol'
il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le camere,
ne lar, in olte, sa le a.. si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E e il tro i
la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano acconcio il modo
di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava, i le, (.es.E' e all'il: ci
lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l': i, il l: -- l tra l
' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si veggo:lt il lili iE si
acconci i lil,......... i lor ronzini, e il lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I
I se li ve: ero a F l'elize. I 3 r. ri è st l'illi, il ll(ili ni: elido. lle a
vela l': i slis- gl tl, e g O\ el'll Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù,
la II - a filoco, e col sollecitudine a cuo.VI esse l'...... preso, e per
acconciar uccelli viene in notizia al -.Acconcia il tuo i i possº esser
tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per modo li si sappia sieno tuoi.... »
Morell. (1. (1, il\ vello a tu qll il Coni e il figliuolo e la figliuola
acconci, pensò di più a li le cliniora e il l Inglilterra e lº allogati, i
messi a posto”. Seglioli al time parlicola i manici e usi diversi del
verbo Vccon cia e conciare.ACCONCIARSI p. es. alla mensa. Fior.: ed anche in
significato di porsi a sedere, mettersi a giacere acconcia mente, assellarsi
ecc.. Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi:. Egli verrà la 1 Voi
il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a costata vi salà e Voi
allora Vi Salil Salso. e colli e slls, vi siete acconcio, così a Irl) do e che
se steste e ries. Vi rc II e IIiani a tito, se:iza piu o ai la bestia. »
I 30 ('. \ ((()N (I \ ItSi esser utcconcio ut, o li lati che ce li
c'Nslal ciclot I lati si, russº gnarsi, esser disposto. Il to, tppa i
cech lato..... Io lo:l po-so acconciarmi a l el I e re.... » l 3,.
\ (livelli le li I): 111... a pl i ro a... - l'e. sospil i.... non pote;
gli rendere la lei dili i donila: per i quali cosa oli | il pazienza s'acconciò
a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza I 3,.e Io non posso acconciarmi a
perdere il fi l'io a file si cal. Cesari. « Io mi sono acconcio a biasimar to I
11 che Asp), gli lotli. » I): I V. Io sono acconcio a voler vincere Il -:
i cºnti. » I 3. E come io sarò acconcio, V -st ) e alla va º lº i. Non è
ia carli e acconcia di sostenere. r i ve l Fr. (ii in l. Quanto più se
puro, piti se acccncio di ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in
tiri ſia rico, in acconcio di lavorarvi. » Bali. i la V l',1: vi
m a E ve le; do l' Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto,
appa l' chi lt).... i A((()N (I \ RSI ctconciati e atlcino (() N (I
| I ((I l ESSI A conciliarsi, (te cordarsi pacificatrsi. \lla
fine... s'acconciò col Fiore: il il li:lti i (illelli (li l si allit, to:
Il ssi iI Vleli agli 1. o V ill. (i. Lo e pri: la II:ito il ole, per
racconciarlo con Messer:) lo li Valois. o Vill. (i. ... col quale entrata
in parole, con lui s'acconciò per servitore facen a dosi elli: II; il r
l: Fiºmille. » I 3 (. Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno
pºi se ritore. \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede
e persua tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e !:i 'li, l'Isalli, e ci
sia - acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno, l l3 - li V.
I distinzione e \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil.
la melitoria e le |! l -, vi E acconciare nel mio animo, e non ini parea
lecita - l - e-- l - lº s; - li S liatori. » I 3: u.
Lat. \ (C )N (I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere l
Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc. Vi es. (acconciasse
i fatti dell'anima t: glla le, e l a li: il 1 e il .. l l: l. sl a i
(lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS. I Pil
(ll'. v((() N (I \ | RS | | | | | | A N | VI \ il n. i da i falli
dell'anima. ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima Il
n al! Si li: i pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al tempo,
V ((() N (I \ N () \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'. F.1: e volesse
stare a ctl i l'u. - I l a bottega. E Vi, l Acconcio con Maestro,
la rasse i.... l acconciateli I tl. lillo, a io lì è inil \
l. (N (I \ I tl. VI (Il N ) pr millo. Il tra Ilia I l. l i nºn lati lo
ecc. su l ich len. \ ii farò acconciare i l Illia lii º l
i si tr..... lle tll ci vive: ai. » l 3o. ... Aloi li. m'acconciò
questi ll e g le I); o V el li o, o (a ri. Sll: il l lilli 1, l is s'. ll
I Il 1 littl. I);l V. lliti sei lili la ll !! ll glie lo concierò
l'eli io lº \ IR E. I ESSI A IN A (C ) N (I ) li.... in vantaggio...,
facen do cioè se r, e checchè sia a suoi lini ecc. l?erg: lilino i lor:i,
senza pil nl o pensi e, quasi molto tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in
acconcio de' fatti suoi disse questa novella. » lºoct'. ( \l) Eli li reni e, lo
ma, I N A l in 1 l propºsito, reni in luglio, rec.. Qui cade in acconcio, I, i:
i S. l l si i lºrº di ioso voli in..., se iTorna in acconcio l i -. I l S.,,, i
Nºi voi i 11 - i º se stiti - il re: il 1. º, a tra i -, z º di e, dal e
più acconcio ci veniva, i l ingrºssare il vo. Il V Ad operare
Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi, di
loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad
ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I: alopei a e bene, ma le o anche
solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre,
operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr
lati sì, procacciatºre ci: e inali, il ciclopici ai ci... per conferi e, esser
utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire. l eggi a Iuo prò e
al dile o al resi. V i lido col e si e-s, li iii, ol, i quaie avea l
adoperato per le a slie III: li I., I o el1 I (verrichtei). a ll re quariiunque
adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1: ve il nr ad operaio
i i il 1 il lil... 13:1 rl. Ne ſilesi, gia ch'egli vi adici rosse.
l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s..., vis il l i |,, v – i V, 'l 1 l
il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino ai i quali
s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera l.ene o y I l
a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e vizir - Viv |
- li si diporta, Si ccntiene lº: 1 –- verfahri, vvandoli, iti).e.... li oli mi
ero la gr. z,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i (ri: la no tv e ! 1,
governo di vita, ecc.)e il V, e le si illi, o il la il lili, la liene,
virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido - lo
appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi.. niente ad opera
malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº.
lo II el'o, il rio, dove il confortar ti vogli, si adoperare, e il e...... l:
-, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te ti -Cosi certante iº e Ari it – V
ssc, adoperò colla famiglia. » (i s. si \'.v)lli: li: Il la l o i ri: le tv l
In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope rarono. l'egi e 1, il l / s la i3
(fecero sl, operarono in modo, procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia
di m 1, operò con l'apa Gregorio -, hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e,
operò talmente con Cesare, s. ll e li perdonato il 1 l id.E tº it, adoperarc no
gial l V el:a che... o Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo,
ripassata la Mosa si torllasse llel rºg il s; I (- i........ e farebbe opera li.
it la liri º la sc a lìoln n. » I) tv. id. Io vorrei che i 1, ne faceste opera
di villa N.N. » Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua
gracilità Es ) vi il dl -: ma, in egli era il s ii ei cui i valta - at,
di si' nza, di compagno, di luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il
riori, ch... » Cesari. che dunque a soste itali: rito dell'onore
adoperano le ricchezze, che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io:. il
fluisce, conferisce, giova, « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per
rientrarle lnell'allini: li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, -
Il 1 ne dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare,
procacciare). State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il
valore e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse
ben t infinita. » (iiamb pro accia.. ol' 'Isre). Si moli da ultimo
la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....) lonio (i lissimo e
di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon
garbo, di de enza e di dottrina Vill e va l'aspettativa, mi sentii i
liar, al c il rilore. (i illh.App orre Olll' ai valori e ieller. Il
proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso
e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne........ l () ll il
l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo., p e iº le: li ra i sl: i lig il
'... di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa, aldossati
gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi; ella follia
| I l il 1ale: cippo i si Imparano Is, c live, l ' gi! I lag
esempi. I rito 1 a l er... agi 1 -- lei, e ora apporle questo per i- usi
li - e.. Bo,.E- ii e il V o cl II, l ' Irli i g IIIai sonº la mente io sven t 1
at )::: V, le la cui marie e apposta al mio marito, la quale luorte io l it ti:
B..E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio t'hai fatto e
iiii?, 13, (r, i 'lo: i --: ci t st: l) il che mi apponete di coolnestare
| e e lil iio la c. 1, l Illa.. (i illl).E Ve; 111 e il rili lag ill: r. 1 lo
si, e s'appose, (l'eli t loss (sua 'Iloglie, ei sºlo a l'i! ). » Mallia !
11. l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la illg. elier asse non
ti apporre sti a cento.. l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti li li lilla i lorº le
co; 1 o Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i l io l.go per certo
che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe o Nota al Verbo
Apporre 5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il pporsi, le collge lire, o
forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var cºlli.App ostare
(Dar posta, star a posta) ''sl - di chicchessia o si illeso, cioè
(lulalido si: s -, l.\ - è issa e il luogo e le tipo s'. Il V: - s ci si
s s' il ct ch ein dei tedeschi, l suo pit ) e', e in quel luºgo | | | i
rt (I sua posta, con I. Parte II (I l. ll i, i', º i apposio c;uando i
lollio. si - i disse l'ogii quella :I - le glali lint re è e.... l'.
I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo., (i azi. Appostato il piu ienebroso
tempo i l tacite,, lei, ioè nel quale il so: i s - l.: -, i lil a:. ll sell on
clie:almente. ll.:is: i............... (si ll e lo appostasse sull'ingresso del
Campidoglio. ll mi - la al liri o di s in ital re, di frecce e l Segì).I:: dove
aveva appostato, l et al pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i
retto il colpo).VI it l'ill si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo,
i. Apposta ove colpisca, on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o (il
l.\ v... l l ego lº appostar gli Austriaci, a..... ti tasse il la a sul pi
e-iudizio. » Botta te:I n lo lo i in loli - li alidati i ti. le r data
posta il l lie tiva e noi i vlt il cli'io il vi trovi a Quel mal. Ieri in
una siette due anni a posta d'un sold it. » lo c.App urntare 'A | | | | |
| | | | Il lo si ' i loli - li ai i. riprei il l 'o r. tippli il latre il
ct cosa al di la uno. l'l'ov l'. (ppm ti litri e li e.... ii.... l'i: il 1 III
e appuntiti e un colp, e | illlo presi di illil: l. I gi i - t ' ' ) - !.....
l; i si. -: i l fu appuntai o V tº!:lli lo sono, i Padri - -, i::: ' I in
pirole., I):ì v. I l.... I t'i.- I: - - I., fi, i I l - I li.. I ):
I V , le liti, il li il.... -; l -... l is -si l i - i l. S: 1'
iot: vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro la II, il 1,
Ser Appuntini., (S. S l it 1: AppuntoSSi che s- i t...,
I ) l V. Appuntò coi detti l' 1 l i tutto ciò l: 1:1 Vl:. S.
11, l appuntò un ci: Ip o l: film inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº
i. Avvisare (Avvisarsi - a v vi sco) Allego si ripi non del
verbo il livo a rristi e I tir e risapev. le. I vv. 1 i re, I
menſe, il quale in viso a chi og: g:iela i Il lº 1.. i.
s', i lice: i:l I l il altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3
l: ali in lil (: I )i, ci si lti liasin i d il il; ºlio rilli
- ,, l ' il 's si t. e tt l'olarsi, ordilla) e tº. i di l: colpire
il l' -. ! ! !:ì 1 -, i ri'app lº ri: sv ) I s II, V a 1, gl,
\ si appuntar noi l - I l ' ' il il i il appuntare: eppur un apice,
'i - e tutto appuntano, a l - i; - !:) li... la isso il
pari pt Ito, e noi la r il riso, il vell, I tivvisi, e. l' Ili..
issili i i -s (l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri.. loli l'illoleri. Ira del
leill ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e
avis dei francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a: ci lei e co.,
il cili i so, se ben in avviso, I l si ggi ci si po spelli in opera di
lingua ed è a ' s i cli l'oli gli esser:ili le liti e il prelibar l
I l: !. I si li: al avigliosa gran !...... v avviº arcno: lei, i -
in esser velenosa dive I il avvisava li ss e passa r. » Bocc. sup I
l.. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se;
desso. » Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II: -i, si l e o lº.i l
s ! I 1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò; s.l, avvisando - ti - r.
-I:It i..., Bo,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o.avvisando
i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº.l I | tesi. ll e l: e avvisò il
vocabo l'. I ells l'e li it, S'avvisò a coluso ss e trova: e
di... l... l ' ', | 2,. I atto e deliberò I l e' s si s i vi e - ssi di
vole sapere -: ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i l3,... l, S (avvisati
- - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I.V -: i -. S'avviso il l li llll:n ſ
l /a d'alt lº lì:a: i |....E per ivi set s'avvisò troppo bene, come egli - V. -
ll ': i.Il pil), io si à il lia, s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra
assai Il l: si Se; ll. Se gli al riso al ris di un sinificato
ill: i go sl, lº sllo di crisi i '.: i l'avviso, le ''I I I Ilia della sua
bellezza il V i 1 l in tºs, l \l::lli il II lili il. V e e l o il
sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in
era avviso, li fosse tempo da clan, l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il'
gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo smarrimento non vi rimase avviso da tanto. »
Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I
a ta li li le e l'i cosa.siccoli le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi,
spedI.. 13 i fattl i s Il ri. al li,.I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso
del I a lisca il lº i rt s si s orgea a Apple la avvisato da lui questo
peso il il p. In 11 e-cºit se ne riscosso a Ces: l'i. Note al
Verbo Avvisare 5, S - Nola il linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i
siti si il mal cosa, e vale la d ' a lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci -
ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i risa e il noi cosa, per il rei tir lei,
notarla. Appena arrisalo da lui questo peso di ieri di I e di presente se ne
riscosso (esari,579 – Quanto è vago o lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il
- | perocchè a tali strette, non vi fu empo li peli sare, escogitare, o
che altro cli si limigliari i c. E a stare Polli menſo doppio sensº
di basſati e le seg: lili o il violi: ()nte sl'arle basta a me, cioè in è sul
lirielli e li li li i lis alli: iº basto a quest'arte ho mezzi e forza per.....
le lili l: i lil, le liri, l' 17 e il livalho ad imprendere... La prima è
comunissima e volgare, le tre le chiali con esempi. La seconda all'incontro è maniera
eletti, e di quei pochi che sentono un po' avanti nelle rose della
lingulil. Anche il bastare della frase buts/a r l'animo o Se vi basta
l'ulmino di far che in accelli offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è
al purito il bastare di questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi
esser (l'animo da tanto, giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i
la ro: ra. al its bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e
cresciuti, i il bastiamo a stir : l. bastere;li e.. 13 or sar hl) e ta......
n...... risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a ta,
nto bastasse, I le dele (li. I 3; i 1. Note al Verbo Bastare
) Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si
delle donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è
assai. il so, orsi e rifigio di quelle che ama mio per i celi è all'all
ssati l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i Cercare E il
cristalli lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l
is e, il laga l', col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se
ci I citi una perso il ct -. l)i si il cc i col 1 e una città, una terra
sigilli passa ossei validi.. ei clo, la co. li oli al lilli e soli i
pi: ()li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande
cercar lo il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1, e, i li, li i e i buloi. »
Caro (ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li.\ clotto) etti
si -si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s: il
1:1, e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V.I 'e'.rso li corcarne
la divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior, n iºgge.a Cli ben cerca
tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo
il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i ( (Ill:llito il Sola ([llesi
a breve (r; i t. e S. Iºietro, a (.. º rivolse ogli diligenza - l' e di
Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo. Elissi: cercar:
utti i mezzi. Inet r. - mi premi per ria - V el'.a Sillitti,.a Augusto cercò di
successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo per il
Vere.... e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare falda a
falda della Velità. » Fiel'eliz “ El a Ve lº io cerche molte provincie
cristiane, - per Lolibardia, a º al rallelo, lei passare º I II: iti, i vs en
le le ali da 1 lo di Melano a l'avia, ed essendo gia Vespl o, si s litri
l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc. Mla poi li è tutto il ponente, i
senza gia i ſalti:i, ebbe cercato, i 11 t l'ito il IIIa l'e s ile 1:: 1(),
i V ess: il n 13,.. «.... e pot; ei cercare tutta Siena, e io ve li
troverei uno che..., Boc. a A Vell dol' cercata iutta 'a. li col e ssell gia
stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle::lz.Tutta la vita si fa a sposa
l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi del Giappone. I 3
art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla ti inontrº la, ed
ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi per tutto..... »
(iiil Illb. C confortare (sc e riferta re - Conf. D is sua ciere.
Pront.) (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia q. c. ecc. e pel
sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e. S ºf I larinel è l' p oslo.
N i li per i recari e alcuni esempi. Ed issa i beni a impa -, I li
la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la valuti il podesta V
litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello, che egli a iei
dotina li lasse B I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo- i' (Ill: el:
otto lil (st 1, assa preso di quivi, aveva in un io a ccnfortar Pietro
che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o.e primi i che di quivi si pr
isson, a cio confortandogli il Podestà, i mi odificarono il grillel
statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si specchi, se gli
spiacevoli, come ll e A 1, e ti º 1 ): Ve lei lo i si. l o.I testo ma i ti o
confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli ſessare. » G.
Vill.V e il nero, il V a 11, l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al ri. o I): I
V.Gcnforto tutti a lasciar. si sa – glie, l'orazioni e comunioni Zulin::lli li,
Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel' )nz. - I serio i
silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti il sil i alti ('esa
ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia a noi e le ai le li/
si e io ho dato la carne lli: i.... (il V.\la verido, sto o portata l'. I bias
ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li confortata - l is - e s' i
lisse i olte l'ag: ille, e coll a Inaro pi: il Quai a voi li s oi.. he a
cosi i lte cose m'inducete.... » C o noscere (FR i cc n cos
cere) (o mosco i NI ci li tra i set. -il ii so se con noi il re de I
cl., significa in l'ulci se il '. 'onosce il no,,, l 'ce lessic clu
allro, è di s'ill il 1 I l, is. ('onosce e o riconosce e una grazia, un ja col
e la.... è lov e la, il I l il lirla a... i liti rare di averla da..... -
omose, e della morte e simili li il no, vale riconoscerlo, dichiararlo eo
li..... l?iu', il N.......... l ', l ' l?iconoscersi di una colpa, di un
è liſossal l. s io mi conoscessi cosi di pietre preziose, II e io ſo
d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il Matt.per quello ne mi dice lº ſietto
che sa che si conosce cosi bene di q: lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º
non si conoscono il l fſe 1 l punto d'architettura.... » (es.
\, il donº la rispose: I o la o si: Iddio, se io non conosco ancora lui
da un altro. n l3, l. V qui - unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù
Cristo. » (si ri. a Opera da dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le
nere dalle bianche. » Boc.a.... perchè levati quelli, la plebe irrilla
oserebbe: e riconosceriensi po scia i complici dagli amici, o l)av. « Dal
tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla le Riconosce il grazi e l: i vi itti It.
l):al 11 e. “ Basti G e Inalli o privilegiare che in consiglio dal
senato, non in corte º da giudice, si conosca della sua morte, el r. -t val del
pari. l)av. º.... e riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. »
l'ioretti, e Allora egli riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e
donandogli perdonº. » Vis. S. S. IPad. Correre (Disc correre)
I la molli e vari Isi e formarsi di belle maniere. Nota le principali linello e
Iri III li le seguelli esel pi. e I | rall cesi a ºltrati delit corserc
la terra senza il loll col trasto. » Vill. 585)..... coli in id):i correre il
regno -a loggia il clo. » IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti
d'Italia fra gli applausi le do a voti » (iiillo.e I (Ini di Ibi: o il r.) vi
Il viate corsa questa preminenza. » (a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co
ei clic corra il primo arringo. » Bocc. 5S6. Me felice s potessi correre questo
arringo i velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le
lesiIII, del I II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che
lui, nulla curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla
Vita. » IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e
meraviglia (l'ogli tl 110. » (1 l'o. a.... queste ragioni mi conforta ono
a correre anch'io la mia lancia in questo al gºl nonto. » Cesari. a
Lasserò correr questo campo della poesia a voi altri Academici che siete
giovani. » Caro affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo
correndo le luci la citt non perciò meno l sta inte. ontado., Bo.si li live
sale e contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli
11 corre un intezione di febbri di... - I pessima ragione, ll... (i vzi. Nello
st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ), l'eta di Demoste le: il testa ci
corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \: corresse spazio di un ora. l3.Corre
quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart. Pe o
mezzo a l.it, l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di monti,
e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il I agii occhi gli corse a
--. I3o elle gli SS E al cor mi corse (ia i colli e persona ſr. I l...
l): i. ln - correva per l'animo e.... » IBart. (( I il pericolo
slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1 S) (N ()
l) l. | 3 | | | ill). (() | | | | | | | | | N V | | (). I | Sl.lº \ l/l () l)
l.... In questo a so dove corre il servizio e l'invito d'un mio padrone.
» Caro i. se son pi ve lo disco, cre, usato a significatº: cºn
lº ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che nelal. Mii la- i
ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi venisse, l'it''.e da
questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº, che...» l'80C'e'. a io lo -
i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart. - mi - nza discorrere il
fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende, in li di quei ciuoli, o l
e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe : il data a lillire la
cos:lº.Note al Verbo Correre 585 - l' idoperato quasi al livamente, ma
con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un equivalente al
letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer l'arringo, e
similmente le altre che seguono: correr una lancia, con i ri il campo
ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei ripi, è del
tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill pillo
all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e ad
uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr per
l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al re
lingue alie (i clah r lui ieri, ecc. Divisare Senlio questo di
risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o
dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i
licli, pensati si arrivare (cc. li loro l'illi i i parlare i 'loli i c.
v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o,
deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i
alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che..... a
tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di
visata. » Fiel eliz.a.... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il
silo reggimento due rasse gli divisò » a useiirald, setzte. 13o e dagli
scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il
libro, Ill e li cºl bel ': dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a
l'olen zione del II loli (lo. » I3:ll'1. «.... ed e-sendo: -s: i
feriali lente dalla donna ri vili, le disse che cosi la resse l'il la r la
corre Melissa, divisasse., l?o r. a.... la donna.... 1 i clonna Ilula 1 e
(iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi
Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato,
ti ovaron fatlo., lo.Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare
compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati. Ces.di ſilelle
sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a Verall I e
II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via e o con gli
el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e B...
Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi divisava.»
lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e si Il bo a al
volgo. (sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si elisavallo, avvisa
vi 1..\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla soglia, vi mirino filgl
ill::ld. Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che non a rilisse; o i miseri
di alzar occhio, non li orli: l pil le.. Se gli.11 ilare un vocabolario d'un
per il: Itti i vei bl, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno. » Bart.
do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo a me lungo, e forse a li legge
in si evole: ills in elole, divisar qui le tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì
nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti divisati a più maniere di colori,
con i filisslilli - il milli ntl... Bart. Ermtrare Notevoli di
questo verbo le manie e bellissime a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN
CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare, prendere a latº e ecc.
lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io vivo o morto. » Sacch. Non
m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete (lualche cosa che io
possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna di tanto intelletto
entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della consolazione. »
Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.» Bocc.
poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei paesi, per
avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc. | EN l'It Ali E \ All.SS \,
ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA c'Ca'. La confessione
generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E IN TIM ()I?
E, IN ESI | ) EIRI (), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I (), e c (t (lice
nulo. entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re i 'clie a
g, ilt i, \ l). go l'e l... I mili: i le - -:llito Vivo: e º dell'ill ia 1 1:
era r. ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci si pre e, in ancora spo:
desse li ll, l ' t”. tº ll tº si ri' o 1.... 3 I l Iin una settii malizia
entrato, i vo i es - a l It I lilt il 1 e il - d ENTIR ARl,
ad alcuno Al Al I EV VI (E per..... ed io v'entro mallevadore per lui li l
e se è le. llla III It. Fi..Chi entra mallevadore, entra pagatore. - -.: Ilss
II: Il V tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I V | | è \ \ | ) \ |, l N ();
| N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I ) I.....: - N | | | V | | | | N (i
| | () SI \ e c. I ) | VI (l N (): EN V IRE NEI. (VIP ) \ I ) \ I (il Nº in cig
in cui si, clarsi ad intendere, osti il dirsi (t (red º l ', Ils. ll lo)
I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis, 7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei
III omistero.. (la Valcº. I, qui ii a o o in a. I riti animi entrò smania
nel Ilici; ve a lolli eti, dl e Vil:1. (li paz/ 1. l): i V. per la qual
cosa disse che gli entrò si gran paura º le calde il tºrº, e quasi tutto
stupefatto, ſi angosciando e sud (lii n non Kyrie eleison. » Cavalra. a
Di che la Minetta accorgendosi, entro di lui in tanta gelosia che ce li
non poteva andare in pisso, l e ella non ri - --, l al! -- º
) l'ole e col cºl ll i lili (:: 1, il... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò
nel capo li li dove li te: --... lle e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella
lor povertà. e 13,. I, MI ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita.
m i quali (t. mi ra.Fuggire l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I
l il si alla I - - llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci
essia, e sinii, e quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li
alligare, la luggire, la r portar via ! I l sillili. N Ss, le Ieggi il 1
l I fuggire.» I 3. « Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o
Cavalca. N fuggire il i f. sse a l?o. (l III a - l: le fuggia in chiesa e in
luoghi di re I: gl -, il l V, il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a
quel li s Il \lo, lisl (r,, lº; i l 1. Si il paiolo, e vale
l'ergiversare, cer ir si l gi, scappa! Io, gelli e. v le lis lo
stilli - e o il modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne
fuggiva in parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt.
Guarciare Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di
dirizzar la vista verso il ciggello. Significa quando preservare, difen le re
li ulem, bel dilem, 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con
siderati e poi non le, gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre
garde), pone le dire, in gri ma 1 si ecc. Dal qual errore desidera il no
di guardare quei che non hanno l'ngua la lilla.... n 13...I lolio, il --, ti
guardi la bocca, e ebl e II lili, li dirgliel, che gli si con lic Io ad
imputridire., Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l'. Dagli
amici mi guardi Iddi, he da nemici mi guard'io.», noto proverbio). Ill IIIesso
l' 1 lgiolie e il III lilliga III si ria guardato.. º Te, rarissili lo I rate,
Ille, l la guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i
la guardavano il ritta Vi elit . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l
'i: e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll: e
bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli:.
- sia II, il si n. 13, S: l | | | | º io i ſoli posso credere, le
lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3 onsidera,
poi i lr 1 lite. io lion ſarei a lili si alti guarda i ti piti di sl
latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i Non accade esemplificare il
rito al moli li ll Is: (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti e lui e quello
oli e presº i il lo (il V ) \ I RI, V IN IP() (| | | () (V | | | | | N |
I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl - - nºn lo si ecc'. (il VI
I ) \ I V S() I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l. (i l ' A IRI) \ I? I.
\ (. \ VII.I? \, e Nilm ili. Nolerai da illlllllo il ſigilli il del s II
lil e o si ri.................. che guarda un all ra: que!! piagge, le
quali gt ai lava, l, l i b - lei li di qll illo, o, l rivestire Il suo
primo significa lo è quello di ill e il I ss di II la cal. d'uno slalo, d'un
beneficio ecc. il cili, VIII l iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a
concessioni di dollli li \la di essi il li: li ti in resli e il luindi 1
o, (i l i rili –: l in resti e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i
v. a enti e, d. l, poi, i - l – cioè adoperarlo in compere o si
assalirlo, all'olitarlo (ali fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i
- gli sll'alidell, allf cilie Sand i.: \ (il suo in un anello investito,
il c Valli era: 11.... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I
ri, Iii: gli tv va, dato e s, li ve:lli i l. it: l investire e il.
I li, e la i si l aº, li è per molto l, li e li si - ll s: i gli i
il tisse, si lº ric:a li ai tanto i parti e le ore li li: l. Io
investisse nelle tempia. » Caro, «.... liles is a so di il l I e spiaggi
(ii Zeila: d, a dove investi e l II, e l3:ll Lasciare Lascio
gli isi più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle
adopei al dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì. | \ S(I \ V
| R V | { l N (l \S(I \ | | | | | | | VI (U N () tra lo i veri a lasciate
far me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº.l) Iss le, l io vi sºs l,
lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò, os a bai ei, tanto bella e
Vo: li I \ S(I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di dire,
l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.() a di: se... [llo da
pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate ria. Lasciamo andare,
l'air (Illesto e le ini, che,.. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi li e - le
quai, lascio andare.. Fr. (, i..Ma lasciamo andare questa corn parazic ne,;
- al: i re si s. ll - il 1 i l Io lascio andare e li I, to! i i se' st -
e il top (', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1 si rii i i li: i
li: i I l g il 1 li:i re S e il se i - \li - - -- li tit. º Slº. - l.: don 1,
lasciamo stare.... / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1, i -: i in ' t:lti li'
les. I titºs « Lasciamo stare, l..... ll II, i::. - l l: Iss, l', ' di lt 11t.
Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia: l. l s s i M. ss: -, lazio: i re: re.
I 3. Mla oli e - - Il ti il V 11 i Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il
! io. e.. l........... () 1: - -. Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l
zi, 11 - di e 1, il il: il: il, par i (s; I l i (50!). - 1, V S(I \ I I \ N | )
\ | | | | N (:() N S \ SS (). (VI (li si di lui i lo - e (),. ll lo un man rc
vescio antia r gli gi i.ascia l s -.. I) li ve li. I !, i i t -. e
lasciato andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'.
Vli lascio andare un si fatto tempi orie, (li Il I p. e I3: il FI, r,10.
I, VS (I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V con lisce nel 'I e
a.... Ne' in luti e lei i son ; - la si lasciava andare al motteggiare. l...
V ºsci.. ire in dotaria il 1: l ' il solº Irla li hit: l.. Il V l (il
l. Il tir,..... -: i li' si lascian andare alle vogl e le liti i:
Segni, Arist IR Nota al Verbo Lasciare (it), Q Ielo per es., a
ce lo valore elillico, di lasciar fare « Que s il 1 lili i dirlo io: liti Iddio
non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di
iroli scrivo se non la soli, rila: l'alli e parole la scio. l ' (il d. ed alle
la li lasciar scritto nel testamento..... clie..... e la I Cina lasciò che vi
e' in non po\ esse lorro, moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\
di lascia i colli o alcuno | rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I
o al no si perarlo: lasciar di fare, ecc. (il l. (''NN (I l ' () mi e't le I e
Iºl ll. soli, col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l. (I
) S I l esso la I l: non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella
poli's e..... ll l il..... In generale questo lasciatmo sloti e che,
lasciar stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i
non clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a
lasciar andare. (I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri
lascia lo stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N, ivi, di ques'a
ll'ast: la scia i trialo colpi, calci ecc. l.i v s ital, e fa gr. Il colp.
N/1 arm care I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma
transaliva (man tr. I i l etillo, il soccorsº, Valli e all' ui la promessa
ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric. Il mancare dei seguenti
esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di lare, restar
di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un sì al incotro
che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle occaille bellezze
e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai. e anc, di questo lo endeva
la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù s'indugia, a pill
tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse, ma quel chiavello,
che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse vol e riscuotere,
e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a... vedete che il tempo
mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi soddisfaccia. » l 3o.. 621).a Io
non potei mancare ai molti obblighi che li ti pareva avere con ºutta « la casa
vostra. » Fiel (liz venir Illello.a L'aquilla... se n'andò da Giove e lo
pregò.... Giove che si teneva dae lei bell Sel Vit, nella [llisto il I (i:I
lillili le, non le potè mancare.. I Z. Onile ancor sindusse a e rito, che per
lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile il - III - l I riti o 1 -: ni si
evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli mancava di quanto v' - - riti a
me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non gli fa reva d fel!, li Note
al Verbo Mancare ſi20 – Proprio l'aus bleiben dei cdeschi. Ma i la bell
il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – ()sservo i li. di Illes, c del ese, il
pi. l' Iso di ill siſal o mancati e ai sbloiben). I l personale.
N/i a nte nere Si Ils. I 1 A il l si i li isºl V: l che è il ', e ci li
ulissillo, I la ill: le li soste il l ', i rºſſº', si l' eſiſ, i c'; cli) e il
clero e slm Ili. (i: la rla i 'i ll ll 1'. - manu e nitori di un
altra g Cstra l': I l (.:I:. Mante:rere a pianta d'armi, i lil. a.... \, - ri ),
l e l'i; e cli), a mantenersi, I te, I? I l. ragioni colle quali essi
mantengono la ior causa. I3: r" non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo.....
i, li: l 't a r. e semplice (r se I e ! -.... a.... e per chi l'inge o iv h e
le la V [a fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i.
N/1 e ri a re Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche,
frequietilissime 622, tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga
l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST (N VTE – MI ENAIA
COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani
le.... » (ii:lln), (. I meitai:: in Ceip 3, l ità ell.... Fi, Uilz. (l' -
er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e ciò per
rac i '::: l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla spada e menò
un fendente e lo tig iato un recellio.. l i menandogli un gran
colpo... \ | | N, \! I N VI: 'I SCI di un lago, fiume...... – MENAIR \ N
VI A [...... \ l.N VI R | | | | | | | – Al I.N A | è \ I \ V N '' i; i nne. I
vant 2 figli di eli. - !. !. I I li i. pia di ellite si - nema i piu dolci
pesciatelli di questi paesi ed l.. ssa Iar danno. 2, Fierenz. I: i i li l è
l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii !..l. I l v..... I menava tant'acqua:I pm
i I l ergli o vetture e le quali neri ino V I - I menava vermini.. (a val n. ll
e illlia dell ', o di fuori gliela "; l., i menando marcia e
vermini, e un puzzo intol l si, il til - i lº': i \ | | N V |
| Vlt ) (i | | | | (52 Iliesti nel sima festa, per.............. l e, g i |
tesse la l cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l'. ll di 1 l le (lulello lì
ledesimo Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ».
º... » lº, \ | | N V 2, i v 11, 1, 1: i menarlo il Saverio) con c ss; 13
i: del pari. I 3': Mlſ, N.VI è SMI-AN | E lie il Viglil I |.... l - ne
menava smanie, In il a il l: il b :ljat per poterla va le 13
c. t 11: me itava smanie. All.N.Al ' () IR(i () (i LI () (li..
I) esi, it , l.: 1:: il l nenare orgoglio., I'l' se Fi \ I f.N
AIR E S | | | V (i V | N A -, l lorº ! ! ! !, i. nmenava ovu: ii
qua si ragiº e rovina,, (1:: Illi. \ | | N A | (i il li. (º
'N. | 3 | () N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto 1, per il miti i lui
'cr. l al 1 l. A | | N VI, IN | V | | | | | | “ Il N V qui \] [ N \ (il ..
!. i: l '::l IN | IM V Nl lemer a pari ole. I ciance ecc. I nne
maio il re i re giorni in parole i I 3 l. El! l i 11 il
pi meno per lunga ſino I l. i rmerava d'oggi in dimani. B:
i (i:º: (52 \1 l a li e on e o menava d'oggi in dimani. (-
i. i lo si si, l'. I I Ili Note al Verbo Menare S i li
cias si i. i issili li e v. " I ri. E volgare, ed è a 11 le lis si, i lr 1
tl, mi e' mai rsu Il le, lilli il la la niglia e fa gli menar su. Si h.
Il menati e di questi li li. pare il re tale che produrre, tre I ecati e º sil
I lili. L'u rore mi dicere le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al
l una sl 1 e qui. N. Il cice gi li all' al i sii isl l'allerile cli li il.
I l sse e qiuali, atto alla medesi ma stre'ſ ut, (iiill). N/lutare Tra r
utare, perrr utare) S li li ma alle li e oggidì, sulla: i la il alla
liturnelite, le maniere: p, i lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi
luogo, da una cosa cioè toglier via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una
cosa al li li lu. I - ll 1, i \ I) Iss l Suff: Inarco: () 1);
13 i bel veduto, se egii liol muta di là, i iS - opravvenga, replli o i
mutarci di qui e andarne e. 13o. il l e l'en veder lui mºnti iava mai gli
occhi da lui. m (S. I s VI tramutò a Castiglione, a sp e.i, 1 'la, le col
piedli nè con i llla, ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº(- e il
telº dove ci permutiamo? » S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si
per N tre chicchessia del suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad
l'o e la lºadessa si sse per lui un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l. ll
li l la ll al re dal monastero. t i vi l I C c correre e di
bisognare, far i sli, i i i s I, -, il ll pal i lide si con i poli e ob, a
Valli, incontro, e il 1 l ' ', ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e
incontro a... –- vorkom men, 'n l I 'I ml, li mi cºn silli Ill.« Egli
occorse al III si lillo il caso. I gol so se ne voglia piuttosto dire «
cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella prima apri lira di uº, il cccorse quei
la parola... » Flor. « Dopo molte parole occorse di villa e l' a Bart.«
Occorrendo le AIII e igo viene il servil e V. E. In'è pirso, poi li è per so:
la fida |a, scrivere.... » al V Vell:ldo. VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I
servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli occorrendo per allora luogo pit
si le lis- c. ll -- sl ful (iioVe, e le si Ilierle. Inoli le liote
Iria Il 1: e, a cltro da porvi le ll v a -1 e ſa | | 0. » Fiel'eliz. lli
ll V e' ('il logli il lil, il to,. C c cup a re E | 11 n.... i
violsi: esse e occupato da un aſ ſello, dalla rirti di
cliccchessia. «... I l l da grandissimo sito pi qll st: giovalle,
occupato. I 3o. «.... (Illasi da alcuna i timosità (l, - occupato a V e
so. «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in lo ev ra Iliori,
(iia Irl). Io lili Ss, il l)i, e l Il gla i ll I ssa Il II li altra volta
vi dissi, o il gi:: le pi e in molti i vi: occupato; ch'io I lli sul pe:
lo....» l': -- I v. C rci in are con leggi: iri. I l gli allori
clas prescrivere, nel loro in ordine III: il liclle li (il lill li
I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº: il lill. cliecchessia ecc.
colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll. sporre, s'abilire, di risati
e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l ', li ſu l e' N, la la ſi
l'Irla: orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic mi e che, con l' ('i.
(º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e tre fos sero insieme, a e l: il l:
st i ta.... lo..... se crdinatc Cine dovessero fare e dire..... I 3,. E st e,
con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si gli ºli, sOrdinò con lui, il V: i
villi llles (la li le lºssle le) e, Il ll lºE l evano stimola [o, e
siccome egl o avevano ordinato, i. Il 1 a 1 i lil a ze: \ are i suoi
peccati....» (v. l. E crdinarcino insieme come elle love-sero uscire Il
lo; i il 1/ Ca Val:i. E li si s. p le i s / iol la; e? I doperarli in corsº lle
- e il l. crdinare che niuno di lo; o per la I lOrdinata il v lo s. I l Ilioto
grigia: - tlil. » I) i v. Fassare Nella Sez Io l' 1 l ' 2 (p. 2 Sel
e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai lo li li a usi il ct. I
soglielli in sl ratio al 1 li: l ' si e li alie e di questo verbo, note
volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici. lli: passa i
tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i lorni in i
lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di bellezza, di
sotp e, passa la bene, passar notissimi, sola e simili. I l soli i pll'ic
le solo alcli e oggi (lell' Is. I: l: vi l le passò tra loro.» I ti
it) Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la le!!:i li... o lº
i. E o tiſi into le It V, e passan le cose, o l'it l (',! l /. te
lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e gliela aveva egli
divis: ta.. o l'iter l/. Conto lo quanto avea passato col l e Fierenz.«
Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o.. » l'ier Iz. Deside. I va
in il caso passa. 13,. e - l III:: l - l si l sia sempre mal i
Irlato, il che passi,, ni III o li si s -., Sog Il. ()g! li cos: passo al
contrario. l. I V. 6, lº,':ls, ci; e le CCSe il - passar bene. 13: 1. si
III dialie i cvelle ci passiamo., s - I 3 i “.. i: -1: l I l. I jel, lo ero il
tie-t: -: i Ill 1: II i l:: se - ll Iss di passarserie adita niente | 3 ll, st
1, s. ll 1 (- Iº, io -, si S sa: i lei | 1. l se ne passo. I 3, ti i? I l bene
passare. » (: l V l. 1:i.: l 'N. ll si It... sll (! - I i s l e Ileli |, se ne
passava.:I passo mene qui ora brievemente. Vi SS. l'.lo a V ! ! ! ! ! It,
passarmi al tutto di muover parola.... (iiill. - Ma per che io ci, l... - Za li
Ire, mi pare di pc cr passare - al pr - li e, vi li: l la lierli lie) - Ss ('ll
lo 'll C (i 1: Il 1 so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente
passare. I 3.ei e li i 1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se,
io, Ill. Il lo ! ! ! ! I V (le, l si passava assai leggermente. -. l3 i.
Il II III: 1. ll bh, l' - rili i li li I e il... Ma me ne voglio passare di
leggieri. pe. ll 11: - illili allilnali.... po;: quelli li ti Nolti i
ricorsi i lorº li: I ASS \ | | | | | | N () IN VI, I E l va il l per passare
ol: ti III lili.... B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - -
- p, e vedendo...... - ll I |, il de / Il l l io, s'ils - lli, del a - o e
passò in una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v.
Iº V SS \ I? I, I ) I V l 'I V S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade
s'inti, e le passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re
-si l e. (a V al:i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1, lo le tu di questa
vita passasti, stil a iº l ', ill: l 3 a Dopo non guai i spaz, passo
delia presente vita. » I3. Note al verbo Passare () () Il
passo re di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni
e seguire ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l. (i Nola
la testa litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il
rari Iliello - e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('. (i
12 () uesto passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è
di varia significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la
no, lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li
lasi non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen
ecc.) (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le
fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig, l ' loli e il
rall e il till ', loll dal Selle fastidio bliga (('c). (i i l'. Il
ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da lIl 1 ll I go..
ll ti i lo ) q c'h ('ll. Ferm sare Cerlamelle che a definirlo sia,
come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si alll:
cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser conscio
a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle
coscienza, non pensare, – non è Ian, facile e il rarvici e intendere il colme
dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità,
e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto
e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei
modi: a pensarla –- sinonimo di lenlellarla -, sovraslare inne hallen,
ille si elen, rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za
conchillolere, risolvere o Vellire ad allo; lo pensare una cosa, cioè
indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla pensando:c) pensarsi,
immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche: d)
pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie,
Parte 2 Cap. 2. Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare
sopra i na cosa, di una cosa, che è l'uso ordinario del V b
pelsare. ... era li a lui la pensava, l... l), V. lº da il di illi i 21
pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o
id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli,. p; estini i
ebbe pensato quello che eri da la ! e, e il Salil il llo il disse. l
8, a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ
n loro il c i i liv - I loss,. i: 1- li il Sel può pensare.» 13,. E si pensò il
bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3. Mi disse
parole, le qll al 1' mi pensai (li II: il V oi i tal gelite e Vellisse. o l): l
' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla tanto
li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11 in si
a Va - lo s... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl),, lov e l'll
el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa: dosi,
irrina - ni ndosi. Fiereliz. Nota del verbo Pensare 533 --
trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl, (li lico come si è del [.
e sta per ci pensiamo. Perci con a re (C coro ci cori a re)
Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno, cioè
lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare, cioè
accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili, slarsi.
rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non perdonare a
denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza riguardo ecc.
l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12. ll I po V e le dosi di
III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia vita. V, l ' i'
/ II; di Es po. N perciorasse pietosamente la vita a Roma già - Il l il I
I I I I I e l Si l Perde maie, i, pcrdonate il lil, alle ricchezze, le
i:ì li all'ute, e il l i -, i isl al lilia? e. Ed a 'e la in condonisi di
recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che:lol V - si ill o il
litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate la I loa, che
avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa, i ta, li l... » Segìn. -col
e gli... oi, illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco. (ii:Tilti i 1, non
perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l I e I do la V el -
1, V., – lla slal'e il nido. » I );l v. se polesle.., 1 l l i gia che
perdonereste a denaro.. Segn. \ V e perdonato a fatiche a spese a industrie, ed
avrebbe tollerato di veder l illa del tri: 1 il pe: i - se poi li fa render
beata?» Fºro cacciare llo is o V al I e il I e il I l re di pi
curarsi, o procu 1 a 1 e ad al Illo che chi essi, i licl il sels, VII l
essere illeso anche il I 1 (lo: di malati e il p o ti º lo gi la di più
l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a quello del p,
r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi lilla nelle fare in
molo, ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii. (il è per or |, se |
-s,l, le to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l '.frastaglia trieli: e
vi dico, i lle i procaccerò s. viza la, che voi di nostra e brigata si ete. »
I3.Volla procacciar col papa che i voli llli d 1- elisasse. » l?o. « Il llla e
Veggendo la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò che era, e coa Ina ndò ad un de
lalnigli, che si li/a. Il dilg 1, procacciasse di su montarvi, e e L, i
lati. Itasse ciò che Vi 1 - - o lº. r a )ra si procaccia Viati.i:i di
avell are agli al s oli, (! elisol II: la Vellasse e loro IIIo o il milmente, e
co., lilolte lag rili. (ilValca.« Procacciante in atto di mercatanzia., lº.. )
- I tos, l l Ilsl rios,. a Procacciam di salir loria che si abiti: (.li gia lo
si pollici se il dl Il: l iode. » Dalì e.gli venne illio va cile i litoria, i
i' si della reli gione, si, ra ils it la', pro cacciava tornare al regno. (i: i
i. E pensolini che la lon:.: 11 1 1 l vi aveva del o i S. (iii) valli che -
procacciasse d'andare i l leili, e Il 1:1 11 e disse loro, a dire i lic
va ri-s..... - il i: i lila i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I
sl11: rr, te.... procacciava di favellare loro. (il via l. e º pe; soli i clie
il vºltº il rii (- si VI: i dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li
li, V e lere chi e gli scril I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia
ben guardato, e Irla. 1 ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e
11est: i stanza li li l: - tra, (. I v Sſare.Procacciando d'aver libri i -1: l
silt: l o (.es: l'i..... e senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi
coi laici, e c. l e perso le di l -si l III: ( Ragionare Notevole
l'uso di Illesi i verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc.
2, a val I e di disco, ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di
checchessia ecc. e t -, la e 1 l, i -; tiri. I ll zza. ll (iesti ila -s,
e per ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº., Cavalca, a IP Srla
e le m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i
ferº, del veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato
m'avete, a che Iriella: il rili al V Ita el l Ila. » I 3.« Come il di Ill
venili o ella Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. »
Borc.« All (li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò
non si a vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di
diverse novelle, o Bocc. -.... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di
diverse pietre.» Bocc. E' stato ragionato quello che il maginato, avea di
ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del
mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla
per te.» Sacch. Nola da ultimo i nodi: entra e in ragionamento v.
Entrare: stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel
ragionare, i sul l tgionali e ecc. e.... e di questi ragionamenti in
aitri stili sul ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i
lori i l a l)io. » B cc. Rinn a ro e re Restare) (ill: il da
colli i lill li si l Ill li Ilsill', li, elillica nelle, il Voll)o rima nei '.
I in nºi sl, per cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me
si, i 'sl di I Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie
selle, non la re ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g. I li, che
nel e li li e di Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti art
firi per il lo, che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il st
il dele, che egli non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via In
li vo che per questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13 i n
i VV e il 1. pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per
venil e il II lo al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13, i.a Madonna, per
questo non rimanga la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc.a
IPercio hº, quando io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi li
portava.... mi ero un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se io
non me ne rimanessi, io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i
nferno. o lº e'.quanto pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn.. ()
il -. o è mal I atto, e dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - -
ess idono da alcullio loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure
per non dargli quella lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» (es. r ....
e oggi se ſiore ho di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a ringhi e
voglio oggiinai rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea corteggi a me
sono con i bronzi e io iIII il gilli, e li riti li Il cast: li o!' « contro a
Illia voglia. o I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel pt at, e li pil
re: che se a ne potesse rimanere. » (es: ri.a sfolzil Vasi di oli dll l'1 e l:
I); Vill: l 3 lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre che restasse di
più opporre imp, dillio Io...., (es. “.... ei percossº. Il lin fascio di legno,
e tratti ne II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò mai di battermi. »
Fie A. 537 Note al Verbo l?ipararsi o al clie ripara i º il so, il
II lil in qualche luogo, è rill Rimanere 536 – Maliera elillica e vuoi
dire che i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe effello, ma che per la
ri', la da lui sarebbe anzi il V Venll: 1.537 – - Aggi Iligi la frase: l in an
rsi con alcuno, cioè resi il l'accor d. « e cosi gli raccollò IIa lo si era
rimasto col giudice.. lierellz. | | - Riparare giarvisi, ricoverarvisi,
prendervi stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e rsi la checchessia,
prenderne riparo, e di lenale sene, schermi il seno ecc. e lº co-l
facendo, riparandosi in casa di lil I rate! l la li (Illivi ad Isllr:
prestavano e ili pe: I lil. I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V Vellino
che (ºgli il [..'Irld). o I3,,« Nella quale, Fiesole, gran parte riparavano le
sito soldati. Aln. « Nella corte del quale il conto alcuna vol 1, l gii ed il
figliuolo, per a Ver (la Illa ligiare, molto si riparavano. » I3o. «.... e
avendo ll dito il nuovo riparo preso da lui.... » I 3 c. « tempeste terribili
con poco schermo dell'a! | a ripararsene, per cal gione dei grandi spezza
Irnelli i che vi la line, le cellule.... I a r. FRispondere Si lis: per l
en le e, l ali che si appr. pria ad usci, finestre li ries si | I go ecc.Vi si
st l'1, ed ali e loro entrate,, le quali di gran vantaggio bene gli
rispondevano. l'8 c.E,si i si l:n linzi li o gli rispon deva.... » I I.il
rolliri to, di che gli rispondeva a stia p.'ol s olle, o Ces. \ la ti
tale sopra il maggior canal rispondea, e (Illindi s (si d. io, e - ta la
io el l altra parle dell'andit, I Gime r spondeva nei cortile..... Vl in
1/. (::llo iella (.li es, e a tinto dal lato che rispendeva verso la casa
parrocchiale, a in la I bitulo, il 1 bugi a: il ii Il \ l: il la.
Riuscire la I e di jiu il '..... in li le rispoliciere V. g., di una fi I
solº i di qualche logo. il ri si il V lente a che il fatto riuscisse, l V
e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll. e qui riusci la fede di Il sºlte. lti...
» l al [.. 5.3S l..... il che riusciva º;; l'orto della sua casa. I leveliz. !...
ll le gabbia e gli altri o il certo I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra
una bella pescaia di dettº Villa. » l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad
cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed il (s. Note al Verbo
Riuscire 5:'S -- Nota anche il modo: riuscire nel contº aio (l?art. Fier.
Ces: C' ('C'. IRorn pere assolti alle il c. e di 1, il I e pºi e' ipi di
isl, scoppiati e, a Isbrerli li, re nir fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il
1 ot, la nulli), il ſuo Srl, il l i tic li e si il ()sserva Colle. spia º
la r la e i d g romper nelle I):ì v. che il mare ſta il lo rompe la fortuna, si
i º la ve.... » Bart. Ma:ì colm pass ºli d'ºl - lo d lo c. lI l a zato a
rompere in questo lamento. » (il.... Si V ) ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la
più Sfornata tempesta... » I3: it..... ll si l il Iss....... si ricco d'a ll
sor, enti e pio a 'le. verno rompe, i cli è noli ha pºi il l si 3 l rt. Al
romper de' primi alberi 13: e () li liseri e vili e le colle vele, il re i
riposare, per lo irill (o di veli! rompete l il sit I'' | il ti» li: il tragi,
l)a 1! (Convit.« IP:lrla il santo I)otlo e della penitenza, l silligli: il 7:
che rcrmpono in mare. 5 (), IPass. A 11aloghi al I o mi per e silciello,
solo i lil (ii: l'olio di chi ce li ºssidi I l -, di risi) di cui i ne sfr
millili e le alli: il ri: (ii Ili. l'uol li | redica o di persona e val lira
hi:il di ogni vizi e delillo, si bilo il l'il': rollo palla e se l'I l ºrº al l
(t poi i lil si al I olla e. A vizio di lussuria fui si rotta, (ll iil I
I: i (il bi' -ilm o ill che e' il ci li lo | 1:1,.. ); I l ' e li o di po; con
roito parlare disse a I io -, i di loro chi sono pi posti a go. erno dei
legni. li enz. !, si parti:: rotta ». a MIozy Iºirellz. In t....ti,
i a crive a rotta. si 1, ero i rossi V lillili ». CCS. Note al
verbo Rompere , 4ſ) Quando il discorso non è di na Il giro e si vuol
sare la so irriglianza del mal frigio si dice l o nº perc in m al
'.Sapere Nola il sale dei seguenli esempi, e osserva come sia usato a
inves ce di conosce e, cioè il lal luogo e follia che penna volgare inon sapere
di lole la conosce e lo elli in etile per saper lare, saper trovare,...... lill
il sels l o spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li rion Nat per lu nº,
se per male, saper meglio, peggio e o il il I - sapeva ed il luogo
della donna, e la t o!: liss. 13,. V sapete bene il legnaiuolo, Il
tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ». ... si il gialli avi,
le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per ine sapevano bene
la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle (i val.i (o si º
li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio (a V alcºl.I ll (lº vi o li sapendo
la mala volontà di Alberto, (ii:alml). l'er certi ti metti da campi che a gli
sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che lolli li Ino; i
do ». Cosa ri. b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e amore ». I o.Sappi
s'ella:): voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce. Se e- l si, val lsi
ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i: it: l. Il tº
sappiate come stà ». I3.V e li li io e sappi se con dolci parole il piloi
recare al piacer mio a. l 31 \ lorni il meglio che sapevamo l?o
l?art. a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che
piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli, l'iol'. a
Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che
una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ».
Manzoni.Note al verbo Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di: super gi atolo.... e
noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica... Fierenz. --,saper di q. c. –.....
In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il
prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed
all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per.....
rale rgli checcles sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli
nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo. gli Scusava altresi
tavolino da scrivere, (es. I) Io g! scusò .... ll Il gi! io lli: It i li
(. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita. ll Ior- e la vi a a la
fortezza degli altri due, gli val-e, gli compe: so. I3: rt.:I III l st 1:1 -
lli -, e o l il l: N velli re º il l il lii lutti, vo: ebbro
piuttosto scusarsi. I), l:iz..... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne scuso
I, pe... li: l ' li enza. Iº e prima lo volle as lta: e cli... (-.
Sp e dire (Spacciare) Dicesi | III o spedire che spacciati e
negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar loro crimine od
eseguirne lo ecc. I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare. libera e mandati
in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso è piu forte ed
incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist e il ses, i ve:
id I e, esilare presto, agevolmente non E spedirsi, all'incolillo, il
senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di spacciati si.Sp li e
lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole spacciare; sicci lire -
Il s s', si e' li i I ispedire erti legozi. lle gli erano assai l | 3: i
t () s Vli - s III Ill: ll spacciare l'Imundò Lui l (- l a \ si
essendo espediti, e partir dovendosi, Messer (I espedita; e le so, i1 il
- ! i, i l 3, lº 1, si l SI II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va
per ispedirsene lo sv. Il relit tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i:
Il mat. Seg Il. \ llllllll cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi
spedirò brevissima e la pill dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI.....
In li spedito e "ri i colli li sa e la col vento in poppa, o ll
Illl), \ si vºli l e spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro,
libero, franco di \ si lss 1 e 2 ti el: - S, (Spacciato se ge il tº l l )
rls, l il s ol'l'eva.. » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello
spacciatamente se a divise o tra loro. » l'ierenz. l est.l. I li: il li li di
analoghi, con lo spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi
lit l. la sci: lil el l Spetcciarsi lºt'....... si li util Napoli, il
rils......... Stu ci ia re Stu ci I co N sl 1 la sl, slultati
e di che ce li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so,
il lendervi con solle Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo
fa rig. I titti i panni i ' iosso gli stracciò: e sì a que sto fatto si
studiava che pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo,
dire una pa! o 1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore. No:i
lasciò il II la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ».
Pass. Forto studiare il l re. ll - ll -si l... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li
studi in ben parere, 1 A v. lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se
la gli ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni: vi ss
v.e Il campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - (il v; l'. No ! I V il r!
- a te, ma studiate il passo, I): Il fe Analogo a questo studiati e e il
- si liv sl ulio le s - le I sei pi Sta per cultura, affezione,
indistria, premi di li solleci il ne. I bassi, si per 'o litig, e, oli!
studio, si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II, e odori | ero III !E
fi1g e 11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. (il V: Il l.lº ! ) ll è
lo studio il "l: V (", 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line
avea t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll -
l3llo lo studio Vill. I l l'illll! ». lPl', el'. lºrosſo si fa tl o studio di
vita perfetta e I l lito, veline ogni l in questa «:i va ilzi 11(lo..... r. C
-a l'I.Questi pie: i l dicazione.... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n.
Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e
s ii: i re, i quali i:ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll
fortd) ». (es: l'i.(ollsidera, a studiosamente III: le V irti - -in a livelli e
in larni il | il il 'Si a..... i. i: l st il n; i ri'. Il te:i, ed
il 1 st ): -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i: - il:
zi, d ' 'ta, l o: la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita l'o si
sfu diava ». (a val. 1 bello slurli. in re o si riali, per ni.
Slare di sl italio è ſl se elilli, il V,le. - I li - ci del liti.......Term e
re (Attero ere) Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che
allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul
lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali
ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi
lilzi ille. N gli ese, il clie sogliolo: lº I. I so di lenere per
legge e, ritenere, in porta e portare, occupare,: lire, ci si r, si ri:ll.I
terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s....., l 3 l:\ e V: l
l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V.I le llll:lollo solo ne teneva
mille di l.... Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di.....)I i s tengcno, le:
l li vuol divenir beato mo Bo, ritengono, insegnano). -, s.............
-: teneva i li, i liatura di quelli non si tor Ita 1 - lasse la lollo le arli
». l)av. (portava, il l, l. S S.,' ' A ripagne che tengono gran i - i loTe', se
-: i e letto a filo il lo ». l ', SS. ) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si.
'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov 1, appena gli amici ten riero I l l'... I tl
V. º li I nel si e' isl e le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E
nctendosene tenere, subita il file con le braccia aperte gli corse. N
potendosene tenere, il dolla Il lo se li gliese losse o forestiera. » Il
lo il vide: o, ſemnersi, o Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in
Inghilterra.» Bocc. (non sl arrestarono li: l.S - e li l silio, e si tiene e
per il cosi è adulatore di sè ss., V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il...
attaccato, legato, olbligato il per l'e,.. al c. aver fode, esser a
L'eredità s'aiteneva i mie, i lire pi stretto parente, Ambra. « I'('la, cals! e
1, V s'a tiene il..., l 3a lr. Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla
Attenendosene S il li, gellolt Ztl....). Si vl it -:: l si. « E
pure con esse si forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante
sarte, ll l'Int irli E' pi 1, la volta gl si caricano sopra bufere di vi
1!...., l?art SS6, ſ" I e Irla Iliere: i l: NEIt (SCI(), IP ()I? I \
I.N | | | V I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'. i
ſicali e le per rielar l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l. (.. Il
lilli lo il 1 ll 1 i gli:iltri i l ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire,
a lui g a Iri Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll. Lo Ialo a Illore delle
cose. Il 1 la tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti. Simile:
TENEI? FA \ El.I. \ per i sloti e di pali la I e cco MI, l' 13e! oli e
veri e I l Is rezIo coi Sere.. (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1.
» I3 r. l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per N
S. I l ct i lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi
essa. E co-i v. illy i lo; p - attenuiC S: MI i beni vi prego le vi
ricordi il l: III e l attenermi la promessa. I. l'ENEI E I) \ N VI
CI N ) per stare per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N.
per esse gli diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In
sella ma li la e per tenere da chi vin cesse. n I):l V. a 'I'll.t: 'ls V -,
cini | Cnea C 9 l l'uno, V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l
(''le. » I 3:. ch, coll'altro, l 3. III, i ql el l.... I | Il t.
Il I | NIEIR (IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat cosa, poi oss. (la
e il secreto di ser lui i c. 1 li tr\la V e V,i In 1 in la di tenerlomi
credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un
pensiero che l lo II v.... 3. Il 1 s ii il va onle lo so tener segreto? »
Boce. l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e l - -
Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per tuo
ben far nemico, o I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto spesso
atto e piano de Laudesi.» 3 m. I Per si s ZZ I l: l'ill orrore che
tiene insieme del ri tirato e del venerando, (il ri. | | N EI ) \
VI, l N () | N \ (() SA, lu' i lat, i guardarla ('() )llº dolla, procu i
ctta la ecc. Tengo da te lite o lei lo 'I EN EIR (i It VN I \ \l I
(il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ()| I \ S() | | | V. e
sillili. il il l'ono a spendere, tenendo gran il l'I) leggiando....
» - z: il l ll dissima famiglia...... ontinua in lite corle, di mando ed
I 3 ). Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se il gºl, l 'e ivi teneva
signoria sopra di loro....» | | (ºl (': l/. I EN EIt All NI E q c. S.Si
Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu di lui? » IPass,
l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I () per i cºſtiere alla pi ora. Se o elillirill I - o
d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè I lill I l: e le terrebbe a
nnartello, o lº s. Silll I | \ / solisti, cli, li i rilio a ppa: eliza di
vero, e poi lo reggono al martello. I renzo Vledici, I | N | | | |
V Iº Alì ()],l. il grand slmo lolor punto, ve gelid si l ubare a costui, ed ora
te nersi a parole. » I3ore. SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li.... per
mancati e poco, a un polo che..... l il pcco mi tengo e il 11 si l V: l...
l 3a rt. a poco si terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull
lossi il giil l a poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l.Qll
('sli l' 1 l V il ll per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo
le parole in bocca al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g.. lIl l: ss e
ll l: 1. ll lentº. » I3a l.\ III:il t 'ito si tenne, li ll i no! I lºo. po o II
lancò che). e non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce.
S89) Liis lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re, e nel parlamento;
lemer cuslità: l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N..
ed all 'i lllolli le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le
Isilli, Note al verbo Tenere S85 - Si inile ſi ſti, slo, le
nei c. ss it ella di Illi, Irla il clii: lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | |
|.. l..., ecc. I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio
sollelizia I cle sia l al dlel', Il si ſti e mi ero lei libri di il. SS5º
- Tè per lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica:
prendi prende le simile il lencz dei francesi. SS6 Vlialogo è il modo:
esser tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat)
) le nu lo. I3 cc. SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai
miei le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I
Na'im. (sil I lili. SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella
lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il... I per il lig, dal pascoli
loil, lo parole (t' '. ('. S80 – I radici: lo si si il... o da qual
cosa i, sia | ralleli. Il. obblig: il, che il... E' il tenersi cl Ilia
cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº
partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui, l ' i', con il l
ecc. (i II l la collo e il lido: Nella lira e bri It i 'i: occo rit... »
Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l occano.,
all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli collºelntill
lento di coloro, a cui toccano.... l. I 3 ),Qi lel il li illli le l mondo si
spenga di fall le, si lle l. ll i non ne tocchi una.. l o. - TI (ccchera il va!
ii, li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano il III | orsoli 1.
Giul, che non riguarda lo) ()iles o ti togli il tº it e toccò l'animo dello
alate.» Bocc. Nill riso si v l.., liti ma les!: il tocca, niun giuoco. » Bembo.
rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s l it toccavano i
soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve....... l):ì V. \ i le li
si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc. Nola al re niti ie e ci si
parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li: l occo, locco line (C
VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle, guadagnarsele. S!)
Si occo l: ve li e la sto male. » l'a!. l.llig. º l:Il quale, il V e ilo dal
canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato, l'Is - il l: i ti,, V al
cell.I l toccarne il 1, lº strappatella di fullle, e fa - e peggio il loro a. m
I.: si Stavano olle ſelleri li non toccar qualche tentennatº. » Lase. | ()((V
| | | | |, I ()| S(). i tcccatogli il polso, i' 1, V o li s. Il: le... »
l'8art g l Il losſ o, egli non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo
trovandogli, tutti per costante ell ss (lilor | o » l 30''. I N A 13ESTI
\ perchè cammini, \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello., V S. (, l.l'ARE
AL TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ, « E' facevano al tocco Per chi avea
a morir prima di loro. » Buonerotti. DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO
dare un cenno e passa oltre). I N A TOCCATINA I)I..Rizzasi in più con
gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi. l'() ((C) I
)I.I.I.A (..AN II º VN V. Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. »
Vill l: I I'()((AIRE I N I VV ()|? (). « Ne i pittori le sºno
ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini. Note al
verbo Toccare 892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e
sigilili: mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc. 893 – Simile il modo
volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop pio significato della
maniera: tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a
lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che
veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in
Africa..... » Salvini, che essergli forza il farlo. Se così ſia toccheran ni a
star e le Mlach..306. « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a
navigare sul quo e sſo Irla l'e. Magal. Va l'. () per il. 894 – Si
costruisce non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare
tal alcu no basl 1 i le ec. li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e
va' l' oli verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e
alcuno delle busse, simile all'esempio di sopra: l occati sconſille crc. - -: e
dicesi anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono
citati anche dal (il era l'elilli. 895 -- Si ſa gillando uno o più dita,
e secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere
(Torre) Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar
via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole
l'uso il liche il lal senso. Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare
significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia, e li on è altro,
a mio il vviso, ci Il loglie i re Isiliv, cioè la re che al rilolga
ecc. Ollil tit, il... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse
non li lall, ll: il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel
poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da...., (amb.No
orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. «... che pole! (ll
gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e o pit and: I mi
tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi tolsi di soi o al
letto... I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e lº renz.per lo
miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. » Fier. E per io
hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con - scesse, llle
slo sllo e Irl, l e ss. r. ll rd venienza, si comio savio, a millno il palesava,
13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu ricordanza per no al
Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se - gozzole ». IB ).e
tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li complimenti, si prese a
liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i sopravvºlga reputo op portino
di mill' arci li lill, (and l: le altrove. B 90?) Itender enn, Ianto che app,
ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e dal a rito il questa l'alti e
toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante. si toglievano gli uni agli
altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re i silli, o l?: il 1. 00....
o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o:i sperandovi con rili pro averi, o
togliendovi il modo di fare un'alimenda onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i
molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la lag iata, senza altro averle tolto, che
alcun “ In ci si fa la guisa i. e genia, poi, o dav:ì il i la llli gl
bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che difender non ti potrai conven per
certo clie così morta a e Irle tu se', io alcun bacio ti tolga. I 3... io ti
dia, Ili venga a Ito di darſi). 905) Nola alla ora le bolle illalli, l ':
TOGLIERE () TOlt It E | I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi
di....., e Tiberio tolse a comparire in le; so I, a ! !', e o, e di
ndere.... » I) i V. « Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per
la giustizi:i tol « gono di morire. » I3: rt. a MI:ì io sono illttavia il
di Ir i l:I l orrei di bel patto a portare a i loro libri. » (es. ll i.
si ripuli e ebbe o beati sº I ssa r, slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo,
d'esser qual s'e di loro il pil abietto e pov... » (a r. a Togliendo anzi
per la sempre tra i - llai, e li rili: r per quali mille. » I30, c.
TOGLIERE A far che che sia, cioè cominciare, intraprendere. « l Il
cavalie e la donna idò e ella ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi
le era preso si inen, l ui, ch', l: sl d let se li Ial lo...., Sacch. a E
debbono esser da ci o e i lini, l III lo igani e di quei film ha tolto a
liiigar II le. (recl, liz I e V, l: il lil V III in: l di alle 11 e o (a ro. a
ciascuno tolse a studiare l sprint re il e la parte del suo in e gigio. »
(iiub.N il so, III: Cºstro l?ier, Ill r l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a
collin, Ch'io ho tolto V ri-lotele a lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci, o
dello Sf i villa ha telto a voler vincere d'astuzia le volpi. » Cecch.
'I'()| RSI | )'I N A (()S \ T IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I
morsi. Nn c / le re 90(5, Si tolse del tilt to di comparire i. a
Cosi i miei avversari si terranno giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla
speranza di vincere. » (le-ari.T()| | |? I | )I VITA -- 'I'() IR I)| | | | | |
| V | | | | | | | | | | | | VI () NI)() ll ('ciulo l'o, a ()li re a cento
inili, creatur il mare si redo per cerlo. sser stati di a vita tolti, o lo.
a Acciocchè una medesimi la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e
figliuolo. » I30. Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.»
Label. « vera niente io Illi fa i in V a Il, se i di terra mol tolgo. I 3.
T()RSI I) AVANTI. a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal
to n ebbe con gli altri a parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V
F VME – I V SET E ToItNE UNA SATOLIA (907. lei li l o, le i vi ve l e li
la volta con esso te o, pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene
una satolla. » I3occ. Note al verbo (T cogliere, S!)!) - Nola
la lesia inti i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il
lui.... 4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi
levarsi. 901 - VI li ra e il lic.. bella tanto, la quale torna al dire:
non gli a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse....,
od all' di s ti riglialle. !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren
loro modo e rut, ci si lal si ch. 903 - ci è ricco gel sole, i VV e li '.
90, cioè si prestavano. !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla
la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re. !)()(i lº pro isalire
le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo: p. I giù smettere Pon gli i
ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc. 007 - Si riii: una
corpaccia la la ne, prenderne una buona si ll: l. l 'iel el Z. U
sare l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'. Rollo
nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra lingua.
e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè ne dica
il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua parlata ecc.
ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser solito a l ora i
si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il, and pilºgan e.
Notevole anche il modo: esse usato, esse uso di fare, cioè aver l'a bil udine,
esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e simili. (), a avvenne,
che usando questa donna alla chiesa maggiore.... » l'80ct'. a S'uscì di casa
costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti. » Bocc.« Le taverne e gli
altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. » Bocc.« ma pure
accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto nella casa usava, non
potendola ad altro in li!: la 1; i ''i corruppe.... » Bocc. «.... io cercherei
qui sta po- - ssi i li !... ciov e ne filmi, nè ruine di piove me li potassolio
tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che vi ſul - -. l'::::) ): l ': -
- « In quel tempo usavano relia coi ti atia li., Fioretti. « non colli e
g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti anni., l 3' r. (ſ « Si (lio
(le a Cl essi i gi ad usare « con coloro che ri !!i e !,; - i dile tt - «
Vallo. » PO (('.«.... il quale il più del ' t com........ i usava. » Bocc. «
Quanto più uso con voi. lii i l'.« Questi due giovani s II: usava: 2 insieme e
pe tiello che ino « strassono, così - al vario, o pi iri li.... Ave id si «
adunque quesi a pl (III essi il litº, e l'insieme conti: uamente usando. » Bart.
« senza che, con le era usata di fare, li l --: lì la lite. » Bo. a º
miglii, l'i oli 1 e (l'1 I l tº Sa: i erati 0.. « In quella cav, i 1,
dove di piangersi e dolersi era usa, si ra ornò » Bocr'. «Noi siano molto usati
di far ria cr:::º, i s; » I30. « Della quº: l' orizi in e non era usato i
(- a e que.li o n t e li ti o 1: i e i piu « di tali servigi non usati. »
l': i Uscire (915) (illal'da b l'1!si, e i ti: i usci) e di che che
sia: ed aliche uscii e s e 7 il l '. Uscir di mendicume – - Usai: cºi gaſ
to selvatico –- Uscir de' Cenci – Uscir del manico (916) S « Con la doſe
- ll: il il l:. i usci de panni ve « dovili -si. I 2 c. « Se io uscirò di
mia natura. l re li li alcuno, sianni qui e perdonato ». Da V.e dilungandosi di
veder costei olla gli usci dell'animo ». Bocc. - E benchè quelle bastona:
in avessero fatto uscir di passo, come a quegli che i trial, la rile: e li lti
la illo, vi invea fatto il callo ». Fier. e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All
III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l lo i tir i pi s v - e, si usci di
lui.» (par issi, an dl -- elle.. cs:i l'1.. Questa lilla s'incon, in Il 1 lo ci
Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o l'
rola v... esº, ere li | ra! ti ». Cosari. e uscito poi della furia...., t, i
fillo. Nola alle ol a l: Il cosi la gºl l ': l S(| | | | | N (VN V (i
N V (ii: l: l. l S(I | Rl, V | 3 V | | V (V e si irrill a Il [il 1 nº.. !
!::: sa: uscire non a bat e taglia, lo; i titi i ti i ):, e filiali nell'
l'all ss:: I SCII? E al alcuno (N I \ N VII I. \ NIE, CON IVAI313UFFI, (()N
I \I IPI si, il i. a Ella m'usci con tºn;, rºm r Gb: i to adesso ).
BOCC. Note al verbo Uscire 915 – Collſ. I liuscire. 916 – disine
Iere i cos vi: Irasandare i termini del proprio cº Silllll ((. t ('. N/ e
clere E' elegante l'uso del vello redere per gliardale, in luire,
esaminare, scaldaglia e, investigal e, (s.srl.... llle: « Pre il lo non dove
ero li ' t.. corsi stili alimente credere, senza « vederne altro. 13, l l
lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra parte, che per avventura aveva più
ragion che danaro, « fieramente sdegnata, volle vedarla a punta d'armi, e farsi
da se giustizia « con le sue mani ». I3art. « Vedere il vero e il falso l
' pt: 11 i ti: i3a t. « Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II.. itti «
e.... ». Bari.«.... Vola e Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e
le - - - « in altra religione pil di gºla o li. I |. « e vedi
con lui insieme i fatti nostri ). I. « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le, pli
i a º il pi Inio». BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le
" I to I. vegga, l a. « mansi a furia i padr: per gl a Il cas.:: i I), i.
« S'egli è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3 917. Fra i
molti altri usi di questo verlo. I l I e voi li ricorderò: AVER VIST.A
con ulla rislut (t l'ºut, li lli il 1 l 3 ). FAR VISTA I AI R LI V ISTI, I A [.
\ EI ) (I ) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I Vedi sopra l)arr,
Fare Note al verbo Vedere 917 – Notale queste maniere, realer
modo a ria se....: re ler l fatti dell'anima: senza reale, ne all ro; reale, il
re o, il falso, vederla a punta d'armi di r i co. Volere Si usa a)
per convenire, dore, si in vari modi, il più cºll'allisso ed impersonalmente,
sì al singolare che il plurale -: b per essere per segui re una cosa, mancar
poco che....: (per opinati '. a rl'isti e' Noterai da ultimo il modo
voler bene. Il quale si adopera a siglliſi care tanto amare germ ha ben che sta
lenº, o cosa simile. 922. « S'egli è pur così, vuolsi veder via se noi
ºppºlinº (i li: i Veio. I 3 (. l « E' opera si grande e malagevole
che di io si vuole chiedere consiglio, º Fior,« Andiam noi con esso lui a
Roma ad impetrare dal santo Padre che..., « ma ciò non si vuole con altri
ragionare ». Bocc.«Se I)i() mi salvi, di così fatte femmine non si vorrebbe
aver misericordia». Rocc. (923). « Elle si vorrebbon vive vive mettel llel
fuoco ». BOCC. « Al combattere si vucI l en uscir spedito, ma nel ritorno delle
fatiche, a qual conforto più onesto che la moglie? » Dav.« Comlare, egli non si
vuol dire». Bccc. nº n convien che si dica). « Questi lombardi cani non ci si
vogliono più sostenere » Bocc. (non con « vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il
beneficio si vuol fare con faccia l'ela, non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a....
e che insegnando egli la verita, e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e
profittarne e si vuol prendere Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta
o o infetta, e di focose libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro
e fuoco si vuole attutare ». Segn. « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti
d'Arezzo volle ossel tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no.
Vill, cioè fu per essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via
impedita, per la quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte
morir di dolore ». Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la
vita). « Gli volle dire che..... –- In:a.... ». Fiel'. « Pitagora ed
altri vollero che esse tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista
l'olio, ills e gla l'o; 1 ). « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che
ben gli volesse ». Doce. « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto
Siele ». Bocc. « V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o. « Tra
lol' 11oli Ill lin: i lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben «
matto ». Malma lì i. « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli
lasciò in capº un ca a pollo e le ben gli volesse » l Note al verbo
Volere 922 –-. \nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali,
oltre a molti altri che il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è
quello di far l'ufficio di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni
altro i b – I rill come, oppure I shall come – secondo cli l' –.923 –
Come il verbo volere sia per lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia
alcune volle senso di colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln
(loressero dale « il ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro
galido la Madre sita che le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve
egli era o. Ca valca.Trovo inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi,
ado perali in questa follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli
inglesi, i quali veri si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio
radurli rolere o dove e.CAPITOLO II. Uso va a rio di alcune altre
voci Olli i Verli di illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo,
argomen lo, talalosso, lui nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto,
mano, netto, pello, pºi i lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente
e vario è par li i lili di elogi rii si rili il. Si lornali o con esse di molte
e belle ma nici e e le viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito,
quella pu I A /a (li - il cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e
classico. \len Ire le palli elle e le voci in generale della Parte I. di
questo Di i 'llo io, li li sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro
all'assetto tegli in mi collosi e non li alla si irl Il ct del lisco so, i
vocaboli di que sla l'arte, ed il l cie: la p. l rile, sºlo per sè, e
precipuamente, for me cloculi e, con l'icienti di lingua. Da quelle le
compagini e la curva, da [lles e il salgle e la polpa. Arm irro co
(illarla come e in tranſ e guisa ne usano i buoni scrittori. Suona press'a poco
quando disposizione d'animo, condizione, slalo di essere mo rale, e quando
intenzione 926, voglia, mi a. lalento, inclinazione e simili. Son, poi nolev li
i modi: a re e, anda) l'animo a...; patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo,
la stati l'inimo: nelle e animo, acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl
cc: dole ne all'animo; dire l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino;
ecc. già d'e è di 16 a li, i veri l piu animo che a servo non
s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in lizio il... » l 3o.... e se tu non
li li cuell'animo che e tue parole dimostrano non mi pas er di vana
speranza ». l o. se dicessimo per correzione e non per animo di
disonorarlo ». Mae Struzzo. « Son testimonio dell'amore ch'egli vi
portava e dell'animo che teneva « di farvi grande.» Caro.« Con animo di ienersi
le liti e li ſale: l it il venisse miglior « fortuna ». Gialnl). « Il
valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe Con animo di ' on oss. l: r. cosa:.
« secondº, che lle.i'animo gli caºgai. º...... parlit - i li fellone
aniins r i pieno di mal i alCºllt ();. « Così slibiti i la forza di «
fargli Inllta: animo ». I. « IParii-si a dillolti e i S::i,...
gra:idissimo animo, se « via gli durasse, e I - 1,; s, di fare a Il « (ora non
Ini: - se. I3 ). « Ed avendo l'animo al di v gli 1 il gione, ed « Ogni
giustizia dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel di « Spose.» IBO.«
Non gli va l'animo ad 1 [. a dre. » l' Issa V. « Consigliata a mari a 1 si ebbe
l'animo a at o...ite di De « Voin, ma tols e Filippi, figlillo., l: (: V., lº:
V.« Tu badi ad l? A lizi ho sempre l'animo a casi vostri, e sempre « mai
ruguino cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a li, l i il i -. » (es.
« Se pure questo vi è all'animo, i d a li.. r?S. Cesari. « Ed a Ile
liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima novella.» Cesari.
« Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per moglie mi prendeva, « se le
femmine contro all'animo gli erano.?, lº. « Se vi basta l'animo di ſei
rail. l 'in...... Il 1 li li. ) !!) (.:ll' ). « Non gli bastando pºi l'animo di
1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei 17.« E Irli basta l'animo di
A ti..... l ie. liz. « Vi basta l'animo di I l Il « atterrirvi?» Sog n.« E mi
basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. » Fiel'('ll Z. « A noi non dice
l'animo di pa..... i da!. di ti liti libri e si lolloni.» Cesari.a se avrete
farne del'a paroli di Vill: il lidi: ) di potere, in que a sta Quaresima, ancor
piac º v', in se i mi dà l'animo ». Segn.« Ma vi dà l'animo in Illi t Impo si
lill, i. e 'I ! clie, è peggio si illl' « bolento e sì tetro, quale si è
l'ultimo della Vila, apparecchia i vi con Csame a distinto a tal
confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno dei suoi lion gli pati mai
l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim 2. o C s. Part. Qì la
- i i, ' ' nette 1 - 3::inno:: i ri. » I3(11v. Cell Qll'il. ll - oscia chè
così e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is r r;o..... 9.30 « Qlla lido,
lili si rivolge per 3 a: rap ità... » Fierenz. a rivoltandomi per l'animo i: i
uli. o l'ierenz Note alla voce Animo 92C, Simile al n. inl degl ii
i: la mind lo buy one. – IIa e yon di minal lo ti il 2 v 92i – cioè secondo le
g, i l va. W i, es il m su Mulh ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1, il ss. cc: i
andar all'animo è sil lillio i: sè i ct g ci li chè a grado l'era, di lui
facesse ndr ) e a sangue quand'el li a noi ci ss a sangue, io la voglio per
disp. ll si o apacissimi di calun liare i lolloni º il lor casi di reisi,
Giub., andare («Se l [llesl e l'agl il sol li a Il slo, si troll ii ranno
». I3uonerotti (('('. 929 - - Sinili: Sich gel i due n; sici: u n t then:
cs dal in brigen: se latire l'orl.... Vlt i ti li I l eguali sono le maniere:
(la re', di e l'utilimio, il cui oi, i n i cldi il cuore di Venire a il meno
con si p del si li ti I. S gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal e il l
IP. Il gol l il lill gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il teleti
si co. e la (ſuale – inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di poter
condurre » (tiro a Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.» Caro, S
affidano di poter brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza. (iilll)..N
'isi singolare trasformia, i tre graduazione delicatissima" di
significati: Chi dice mai basta l'otti in indica con ciò e di polere e di
volere: chi dice non mi basta l'animo indica non già di non volere ma di lì in
pole Vli dà l'animo, il cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi
sento inclinato, avrei voglia, sarei vago ecc. l indoº l. Iuantunque suppo sla,
dall'idea di potere; non mi dà l'animo, torna a: non mi sento punto inclinato,
sento, provo i tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri:
'lalanza venisse da senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di
simile affet to e non per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro
ecc., allora esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di
delle frasi, dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il
cuore di contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi
non gli pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que
impotenza: non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e
lip glianza ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett.
rivolgere a pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol:i,
l in lui zzati l'anima, ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e
addirittura, Argorn e nto « Argomento è voce che ha molte
significazioni, e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo,
d'auto, di provvedimento e si « mili ». Pedi 931, « Qllivi: i foli era
chi con i (Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r. a l'ile f. Ze l iv (): --. »
I3....« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a
dopo alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B e fa la l la fra il
l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli y
olesse... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.«....
a zi, o che il natur:) del III:I e no! p. Iss e, o le la ig it anza de'
Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il debito
« argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i pizi.... a Bocc.
o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li II lit: i sl il...?
l): V. « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li' Ecco l'angel di Dio!
piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li che sºlº gna gli
argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo, chi le ali slle tra
liti sl lo: alli. » I)alit. « E d'onde debbono prendere cagi no e
argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.» l'assav. «.... il
quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento non fosso « stato,
il quale il March se subit Ilmente prese..... » l. ll Il Illotivo, llli
appicco.)Note alla voce Argomento 931 – « Le malattie delle femmine,
prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son bisognevoli. – Per lo
che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento a tutte quante le
loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo il serviziale il
più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso serviziale il noir e
di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci go onlo perchè il
serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un argomento, cioè
d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei serviziati». Aci
osso (A ci cossa re) Guarda come si unisca a molte idee e ne renda
più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che cle sia s inili
all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi. « Escono i cani adosso
al poverello ». I)ante, « Ella m'uscì con un gran rabulff o adosso. »
Boce. « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la lingua loro predice
le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933) « fa che tll gli metti gli ul gli
ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante. « Oll - io veggo porre mano
adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io dole, le cºlore -
col piera.... » (a Valca. « Non pensando che, se fosse chi adosso o
indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che alcuna di
loro.» Doce. 1934) « por gli occhi a dosso ». 13 i c. « Stammi
adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935) « Recarsi
sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa. a 'I'll rarogli gli
occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca. « No.l,
altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui,i della contrada « abbajano
adosso.» B, c. « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre i padri
mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) – darla adosso
– Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno (nodo vivo, cioè
dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare altrui un processo
adosso. (Bocc.) « Addossandosi a lei s'ella s'arresta. I)an e. « A Celso
adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z. Note alla voce
Adosso 933 – Così dicesi: avere il diavolo adosso Passav), andare,
correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca
Valca. 934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine. 935 – Stare
adosso, in generale significa insistere, importunare. E a ri ci co
(E a n ci i re) Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso
legittimo di questa voce. « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando
di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo
ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ».
l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar «
bara (l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o
la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata
repubblica a....» DaV. (940 i liò i S 1: a li i vºli lº s...... II. l. 1 la lo
bandire per coià ir, lo, e al passato i tiri l o il si.... » B irl i: e-
si io ev, e l.llis i in itine del fra tello la bardi, e l l i. E 'lo, li
- a, noi lo handiamo a ti: l ':17 Bandire la croca adesso ad uno v
addS80. Note alla voce Bando () () I )al band, gli che che
sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un lu go e porlo a
morte se vi ritorna. Testa (capo) I sei i modi anche oggi con il
missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll, lsali (lal V. lgo Far capo ad
uno:) I lil I e i i ti to o: io » – Far capo in un luogo ai da quivi, º l'in
visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le: 1) Inn l a t: o ti li(illi
lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva capo a lui. » Giov. V lll.I
fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº). dºtti, e fecer capo agli anziani
del popolo., (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della famiglia, distingua le sue
cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n capo, ed a lui i sien,
ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il Sig 1 e era l, ella
città, continuamente si a torºla in allergo il più delle volte a lima ig e qu'
a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi divoti, ch. vi
facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le dette fontane ad uno
grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. » G. V.« Quelli, che
per con rada non usata camminano, qualora essi a parte « venuti dove parimenti
molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi, stanno sul piè dui
bit si, e sospesi.» B(Imbo. « Per lo fiulrle del Nilo, e li fa i c' a l)
I lili i: l in Egil [o, e mette capo « nel nostro mare. » (i. Vill. Fare
di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do. - - Dir.... far.... di miº, tuo, suo capo
il 1 l il V, Iz« NCE, sapendo far d suo capo. In Illini i sa del mio, il lo.,
A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece di suo capo, IIIa i- I is - e,
i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l i l: nza. » V it. Plth.«
Affel'Int) non di mio capo, III.) di s.it: te de lla ll rati « ma d'alculli (le
Teologi, li la vostra le lezza è lº l'aria delle cose celesti. »
Riel'el)Z. Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: - si e' qua
« di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai! csi, disse: "
I)av. l la ci sonº e lenti a Tirare a capo – Venire a capo
ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo Gueata tela, o
lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in parecchi « Iniglia.»
I3o e'. « Volendo e pil fla III It, i no - e e, o ve le, sa o di troppº
fatica, « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l: li. « Iº gli 11 Il si
verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l). Ccrrer per lo capo a
llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi ad intendere, sli,
la rsi a credere,. E qll si o libi o Ini corsero mille altre o per lo
capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, !, V: seve, lie - -; il V t's - o - I lie
a famente vivere nella lod povertà o I3o. Farci il capo - fare tanto di
capo V. Verli, Fare (ip. I pala l'. I – Venire in Capo arra (!. re, sll len e,
illt (ve: i re.“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o illel elle V | olio li aveva
s pitt, a cioè che in b ºve l'ira di Dio gli verrebbe in capo., Cav: a. «
Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe e sche, n. di voi, qui nn
lo a quello che ell: V. I vi verrà in capo. » l' issava il 1.A capo erto,
a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc. Si usa tanto letteralmente
che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente la franchezza, la baldanza o
la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni del ti proverbiali: Cosa
fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il capo pel rivagno, pigliare
una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco vivere senza darsi pensiero,
o briga di cosa, alcuna). Note alla voce Testa 941 – Di sua testa
non pare il medesimo. Significa: giusta il suo proprio intendimento, senza
altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture di sua testa compilate ».
M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a sì grave quistio (ne ».
Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare di sua a testa o
Fierenz. A proposito di Ics'a lon sala inutile far osservare alcuni usi
di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per persona: « Si levò una
tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la galea) percosse, nè ne
scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza di qua lunque si
voglia cosa, con le: l'esta del ponte, della camera, della tavola, della tela e
simili: (Egli ha allo in lesla d'una sua gran pergola....» Caro; e per
intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato astuto e di buona testa.
M. Vill. di buon capo farebbe ridere). Dicesi finalmente: senza testa non
senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare in testa altrui garrirlo:
fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far lesla (fermarsi, resistere,
difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill. (v. I3attaglia,
Prontuario). Cornto Sono noti e dell'uso i modi: Conto aperto (od
acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon conto, aver a
conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r conto di che che
sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far capitale),
domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa (darne avviso,
notizia, e anche render ragione dell'operato, arere in buon conto (in buon
concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di....., tener conto di
checchessia, per averne cui i: « Non gli restarono altri ninnici che i suoi
figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per orenderne memoria,
in Letraclit zieh en, il V e il considerazione: « senza tenere altrimenti conto
della sua obbliga la fede. (iiallo. ecc. ecc. Di molti altri usi di
questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni menzionare i seguenti:
Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione. « davagli in commende i
conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non sapeva di essere un
personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e stancar l'1 pelllia
di un ministro.» Giul). Far conto che.... ), pensatsi, in Imagina si, sal
ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si addestrino a vincere il demonio in
altrui trionfandolo in loro stessi, « e faccian conto che i pericoli passati
son minori di quelli che sopravver « rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo
alla pastura Un oro, sia costui, o un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si
armene tutto l'inverno tra questi geli, e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo
conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll nelll.', ripiglia via i ragazzi, i
lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le sono appunto candele.,
(iozzi. Metter conto, tornar conto es - or utio, tornar bene, zutreffen).
« A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non perchè alla repubblica
mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli di Stato, il conto lo
l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V. Levare i conti.
º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò un lento sc « spiro.»
Bart.Fortuna liscio gli esempi nei quali questa voce è adoperata a significare
ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è misera la fortuna delle dollll....
lº.. col l'a tt con intento indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a
beneficio i fortuna ». Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I,
buono ed è talora anche l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc.
e le n lo [ili alcuni di un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui
asco di noti e, mare l'ortunoso e simili. Si crt ti ma i ve: lt, A sì
forte, e in petuoso, che - 1: Vili.l'ill st, s, il 1 l e gran fortuna di
pioggia gli sorprese.» (i. Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos. Il l tempestosa
fortuna esser na º |:) » l. e Ond ei pi, e ne rive in fortuna, l): nte. I.:
fcrtuna - i lob pople:ì. » B art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi
colpi la batte (na V ('..... I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill, sl -, mi ata la
nipes: elle qualtro di e quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o
miglior governo che....» Bart. N: \ e li coi reva a fortuna il t:: il e o
IBari, 950) \ ndo si seni fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e
'si. I 3a 1 t.I questo li lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G.
Vil. I bella, li in azione lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per «
alleggi: l' a la rca. » (oll. l'al'. Note alla voce Fortuna
!),() N Iala questa frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he
la sc itelle lo i rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali
birrasca, avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente,
essere tra civili empeste.Faccia (Fronte) Adduco esempi di faccia o
fronte in senso analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli
chiarissimili ed il e lell'uso. « Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li
S.,... ll, l el taccia. « Con qual faccia, s a ci: il I II, - l. Il lidi
e « la fede?» (il lido (iiudl ('. « Adunque con (.. I faccia « add
Llcile? ». (iil I l. a Ol' e il 1 - le fronte il il 1: ' ', i -........
« Poi che l'uoli o si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente
a ogni In. » (IV al a 95 « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle
', il l i « di doverti call Il bial'e il el Vis? S, - il. .... l «
Con faccia tosta - e 17 i pi Va: ll 11, Il). 9, è « In prima si coniII e II in
o Ill o. I l tanto che i « manifeslainen e li faccia, e li ri.. « Quel
che tu in, l): a l ha fa coia, (i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i. « UOII10
Senza faccia - Il v.i.Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere Iſlale., Fl'. (1 o
l'il. « Don Roi Igo 11, l avrà faccia l: Note alla voce Faccia
Fronte 951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l on li ha poi mol
[i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona fali i tºni i l I (n
le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp rsi: a prima onl,
ecc. 952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron le incalli
lat. 953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far crlr facce
di olio in Toscana per la ri. ligure, e poi, i a dover dire o far cose. Il li
li llo ci livelli rili il l ' il. 954 – ci è chi noli la senso di ver:
liti e di 1 ss ('. 955 – non si ardirà a far....... 16Fatica
(Faticare) Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al mondo,
alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno ad una
cosa, a la lira il V V el l con ſali, i pºli, a gre, ai) alicarsi una cosa
(cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro uso men
nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica il
sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo la licati
e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V e voll e,
i l ligar. E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n, e in riini della
persona, per la fatica il Irla l pa
evano le sue fattezze bel e is si lite, l ',,,,, - (il'er le. In le, i ai altro
pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e per
dil 1 lite si l V a oli, il 1 l quali, essendo cia si -, i faticarono la nave,
dove la donna era, e' marinariLa loro si el e, e faticatº o ezia radio gli ali
inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii, e ora il mare, ora la terra, cra il
cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat.» S. Agost. C. l). PRT
atto Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si fallo (di tal
fatta di tal maniera: li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in fatti: fatto
sta che.....: in sul fallo in orielli-: iallo l'arme: uomo Vallo, cavallo
jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l. e piacenti porre alcuni esempi
di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie osservato
oggidi. (ilar la II Il nle iel, l a che va a mente, si adoperi que sta voce
alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora torerno
della p rs not n 1 micr, ii, ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire ſare, esse e
checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc): andatr pei
falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar che si
faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a me....:
disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc. Masopratutto
porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran fatto che....;
parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un gran fatto
ecc. « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani. »
Borr. « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de'
fatti di Calandrino il III - « E se non era il g... l in 1:1 lit, il 1 l
i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni. « Mossi a col il pass oli del
fatto suo.... l « Come se egli - lo so, o de' fatti ric stri - I ' ': l.
i l - li i ll it, l.E mangiato, e bevuto, s'and: i pe' fatti loro,
B « Egli sarebbe necessario che ti l. Ia la ss da il: cosa, e l: sto s « è, che
se nessuno ſi domanda ss e di cosa, l..., o la r. - del fatto iuo..., a
che tu per niente non rispoli il -si -
l: i si v; st: (ii « non li vede l'e (11, Il li Ildil e. ll tº 1 -
in 1 l 'i a ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no], e, a pe fati
i tuoi. VI 'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11, l s. «
Perseguitava una val Int. a quia li i - « giungerli, on.le la line - li
illa non ve li: l rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l..
Flei ei 12. « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i
lit: qi, lu - « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la. « Se ne sta ritorna,
che non par suo fatto. Vi rili. « Dice le cose, che non par suo fatto. I3
i « Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun
altro.» Manzolli. « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin
egli il a fatto suo., Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o,
linellza ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part
se ne andò i (iesi (ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo
fatto, - i: il l... » I3.. « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell':«....
e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli ti
darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da lungi
a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei una
volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e lo limºne
una satolla o, Bocc. « Non sarà gran fatto ch'egli getti qualche bottone,
col qual io discopra il suo pens. ro.» Flei e la.- - - - - e 11: -: la gran
fatto. ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse -il), A di I'll imo,
non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn..... pe. indos I di
-s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig: vedere in alti io, li
noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di tre gran fatie, l: i
Cielo a voi debba costare qualche leggie di s. l ' It, i lil II l S.
In cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato, per un ossequio che
piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il bis – il l gran ta!
to: Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto: ' ', p s a h si rai slm
litato dal pic a col le li,, l ': l /Ed il la 1/ gran fatto in là, ella arrivò
ad una a certa ri; l:1. o lº. I fior enti i: il: i a fiorini d'oro,
senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.» (i. V ill.(gras, a to - I l
ini l e.» I3o. E I. e illliamolata di me cli, ti pal ei gran tetto, lº il l: i
1.1. I vig, l.()il -, vi i: 1 -... sse, e cado: le gran tolli, i loro i
no, mºltº gra.: 1a!! 3. (A, i tl ad. grandi e sanliº. Note alla voce
Fatto !)(,() si,s, li oi i pi si nºi il cli: li presente, sui biſamente,
in mantinente si rii di 1, il calde nori o nella piana el' i l. l'Iron,
pi si..... e di fatto, e senza alcun soggiorno tutti fu I no il pic i fi.
Mi Vili. - (i \nche allo per cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è
s illli bocc. di I lilli. - Che mille volte al ſal'o il lir vien meno. Dalle. «
I fatti son maschi e le li role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co E'
Voce Ilsalissimi, si, i 11. I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s -
che ad al lI'e lillgue 961, si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua
del p '. (il 1. leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i... a no, la tale
solo per certa analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che
iene la mano, a quello che li, al per: per a signi cioè che Ilon V elig l
srli. I -, - i.. l'l'ono ll ( ficare potere, forza azione au il pri, tra i là
di o l'uori lilli, soc corso, aiulo, banda, lutto ecc. « Acciocche a mano
di si', il ri non vertisse. I3o ('. « Venendo a mano il it - - il II, le
V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l. « Molti dei quali lug - I l a
mano de' nemici « uſ. Inini II lontani pervennero. «I terno forte di II
lilli i r... i t. 1, i ir: imam l lilllico. » l?et l'. « La republic tilt
i, in mano. Dav. « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ('.
« E quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della
sim mila (li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV. « Fare i voti in mano di....,
l 3:1 i t. Cºs « Manda il la lizi una marmo l.. « I entulli, Vlt
telli, l.li ra: no ci º randi. I: l.. « far guardare a mano di soldati.
I « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. » Giub. «
Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata. « nè
Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1, a S. Iplone.... a lºoce.
(Lett.) « Sopra i detti fili si da lol: ill. it e s'ilm « ponga
grossa i lile l'a lt 1:: e io i Irella mano « di terra, che s'è la [a di
sotto. 13 Inv. (e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il III liri de
la ri; in Iglia l'incon « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro adosso
subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini.... l) o lo veggia, e porgami
la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad. I is: i o, che tenevano
mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li-, e tenienc mano molti
baroni del Regno.» G. Vill. !. (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano & i
serrano ine li piu se e, più per ſette che mai avesse I t. l. ti l a,
fere cenno ch'esse (le pie i ! !, l i º S rimise mano e disse que le parole che
- il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di Sese). VI:
messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o lº I l ott...
m Se ntano in altre novelle., Bocc. 966). i:ili º di.oli perdere lo stato suo,
mise mano, l s... Il miº l 'ils li a l e E da', e, Vit. S. Giov. Batta. I
ss; Il li i lill I, il I.. ll mi venne a mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I.(olis
derare oltre. ll he primi i gli venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il
pri' il o la ello a mano lavorava con guinzagli di I l (-: i ri.() la d [.li mi
viene ai le mani al lli i giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta
gli fosse. I 3, > cade per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla
l' e il I dil e che li cation [ra mano.» Ces. rss e il dover lol dire,
con lo costoſi alle mani Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove
novelle avea per le mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i
qua l abbiamo fra le mani.» l', - li ttiallo). Se \ (i, e li gli ha fra mano ».
l) il tam. \ Inzi mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i
la S. » l'8 eNoi abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. (:
e quelli, che lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat. S. ll p il
sier in o o d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e,
i sºli, Ina grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar
come coi polledri: con essi ci v(( la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile,
i li, o a casfig rli, a lusingarli; « altrimenti, se ci piglian la
rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl. (( ((
(( (t « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si ri le! V il gelo I.lligi
dovesse ceder la mano. » (es. « Boezio pruova, che l'll in pole, il
II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » (il V: il l.« Se tll II letti ll !
!: i lil:) il il l il bassa mano l. I (', o lì (vl) è mai per roba, che ella vi
p. i, t: a Ilio., (io l. Spor. « Anzi prova il va il V 'o sſ 1: laici e colle
persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite i ro? (d alta, Ina -
Ierio di vi... i mezza rilano. l' « Ull chiassº lillo assai fuor di mano.
l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i si V elido; lo più vili. »
Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3) c. « E quello con lui
fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c. sicuramente,
impuneInel1te). (( (t (I « Senza che al lillo, Iri: i i, ga e
1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man salva - I pl - e el andò
via.» l?oce. « E perchè tante diligenze? 11 i poteri e gli averlo a man
salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio di Cal no. « Vedendo
il caso Ill ! I limiti e li -. V - il era vinta della mano Nerone era spacciat.
» I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I se non vincerli della mano. »
Cesari. « e il buon Gesù Maestro utili per il pa le, e ilppelo, e così
bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano e dall'altra a coloro che
gli erano più presso. » (.. V: il 1. 9ti!) « Va', gli disse dalla mano
dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra. Iº, re « Così
tornava per 'o cerchio t. 4 r. Da ogni mano, all'apposito punto.» Dante
Inf. 7, 32 970) « Così duo spirti, l'uno all'allro chili, «
Ragionava ll di Intº ivi a man dritta « Poi fer li visi, per dirmi,
supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu II “lumi
ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el l -
Il -IV » - 'lue AoN « ossip o:ppp) Non ſi pl), li our il pl), l' op.elp
outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo, Iolel «
OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5 -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il film l u n
t al I ti Ip (in on ott oss, il o »: IIus o otodlam oliil Ip le oumi in l 'oupu
Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In po 'pso.o) on
li tod o p oumul lo), ti: opoit | o olistino ti il litis oi ri: - red o o
Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils.... N (pupoIV) optio.
Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il 'tele i cd in 51 | tell, il
lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri, il ti mid o Iod: II o II:
il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il trito.I lollflot ſpum il:
uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1, l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30
l) il pul) lt.)() () 'l l: il 2 l. N S I. W N il p pli) II cºl l ’s ..o):
I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | | | te, Ip o netto e l our, il tool,
pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un ul. l I, pp.I: ) « oupul pl oood un
lap. tifi oil o sotto ll op. pddos uoi o! Io e,op is, l lo -ſim:(usu ) «
oum il plm lui o il ulson lì Ip o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S
Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo) molti i pl. ): l o il lo ſi un lp: i -lad
pl app:(Utlopl) oum lti li lui il 'lo. I pps: s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N:ol
n. ll o in lui lo pu Inl si.lol::: - -souloootlo otIIIss.Io.A.Iod o letti i l
o, on i lou, il miti il: msoo mun oumu to. I p.), o), mi: ps spel up it I pi:
oss. I lupu ol o toam:o)pſi.o) ll put, l.. ):p) spel il lunni, l -IIu.IoqII o
Insn pſ up) o umi p), p: s e -ed IuI I] Iolod lp output pluti il 1 ol ss (I
-od) oumtl ul.lo, m: In Ir) our li mi i nomi o l oil..I l 5, so uotp o[.Inq
UIoN ) Tn1) o un mit ti, i no 1 o s - Ied II5o au » – ollu. I Il o v. Id e il
pil un omone: i -oq IIosnI.I n el IIIquº plssolo.,ol.) un omi piu pitono i p i
ns o ai -nole uzUIos) olon lupul p: olio: rºns e o os “Il p. I ºIIe aolo)
oum.olm,p ou put il o al piu. l) o is i a i ) I ll,, 1 ) N N, i:
ls, - TeInzza) ' uo) lupu opm o.lu,,, losso: ss s IlTOUI e ouput ul oumu
lp o Ioi o is I, opIV -- o, epi in pu Intro3 o otto Inpulition i volti, oros Ip
II o un p on pu p. “mIIadno nun III olio novo Iorio ſi o IIIod s our in un ou
put np “oumtl p on pnti p: Io I Il tº - il vi:.) e p), il -issmu.out o
Issoptions o I, Ill.) o 5 - -1)ll,9lll:(o)uo III el.oIII).In n our li in e ss «
ouml5 ml o unl ſi u mu.l IV fi, l ' li' in :(IoI, I « IoIIIn IIfop oi 15 º
oliº olpoul “olzIpn15 solo emb lp e los I, -on T ): opcIt II e a 1. o un triplº:
It: [.Ied ſoup oi lotte o lesn po o li li so I I I s | | | | Oue
IAI eooA e le emoN !): ſi - (i I:)(i967 – Questo venire
a mano o alle mani significa capitare, occor rerº, scontrarsi, non renire in
potere come negli esempi del primo gruppo. 968 – Lerare la mano ad alcuno
significa sottrarsi all'obbedienza, usurparne l'autorità, comandare in sua
vece. (Gherardini). In senso analogo dicesi pigliar la mano, cioè non curar più
il fl'eno, ed anche guadagna la mano. 969 – Nola singolare costruzione, l
970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi anche (v. ap l'ºssº e
con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl r(t, a mano sinistra. N
etto E' un agge livº e significa pulito, se ilza macchia o lordura ed
anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto. E però dicesi: coscenza
nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è picciol fallo amaro Inol'so!
» I alle º I l'allava con nella coscienza ogni negoziuccio ». Fr. Giord.; di
mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ». M. V. ecc. Ma si usa altresì a
modo di avverbio, e talora anche sostantivamente. Si notino tra l'altro, le
forme seguenti: Averla netta, andarne netto, passarla metta. « Non ebbono
netta del tutto l'avventurosa vi torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che
non piangesse qualcuno.» Dav. Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do
toscano – Farla netta 980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la
vesſa, e aveva la se... » Fiel'enz. Coglierla netta. « Io non vo' che la
colghino così netta », Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed
anche andar call'o, e simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto,
portar, gittar, saltar, far chec chessia di netto i cioè con precisi rie,
interamente affatto, in un tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto
col capo innanzi il gettò ». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come
un pardo, saltovvi su di « netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si
possano recidere di netto certe grandi | « quistioni ». Tomm. Il netto di
una cosa il chiaro, il fatto preciso). Note alla voce Netto 980 –
Significa in generale fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche
larla pulita, farle pulite. 981 – Meglio il modo lo scano: mettere al
pulito. Fetto L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì
noto e comune che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E'
dizione eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del
cuore, la stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua
persona, la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere. «
Camminando adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del
veduto Alessandro ». I3o.« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo
petto ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per
isfogare l petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì
fatto spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle
donne, che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. «....benchè tu non se'
savio nè fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il
maligno spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il
vostro petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano
colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria
vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per
comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl. (985) « Se le prime
novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo
le fece le tarili o ridere.... che » Boce, « Le miserie degli infelici
anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli
occhi e 'i petto ». Bocc. « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i
uscii fuor dell'aura morta Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto
». I)ante (986). ma i loro petti empire di far là da poter disputare del
bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti che.....? »
Bart. «... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei vostri petti, e la
dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I) io, che avvampagli
dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi (rnº ». Seg Il. «
Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll, Il avete petto (la la
re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu sozze, piu abbori
inevoli? » Segn. º...... allora sì che Dio non potè contenere l'ira nel
petto.... ». Ces. « Ma son del cerchio, ove son gli occhi casti Di Marzia
tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per tua la tegni ».
I)ante. Si notino da ultimo lo seguenti li laniere, Stare a petto. «
Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza ». G. Vill. «
facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a petto ».
Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ».
GiaInb. Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con
prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com
parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill.
« Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a
costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. «
Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.«
Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere
». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce
Petto 985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra
voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve
in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di
I)anle e I3occaccio: Contristare gli occhi e 'l petto. Fartito
(sost) Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla
boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi
di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver
samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e
piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a
ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per
avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha
senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo,
stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal
altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc. e biasimarongii forte ciò, che
egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun
partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per
amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce. a Parendogli in ogni altra cosa
si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito
credeva. Doce. « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da
quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito
passar volea.» Bocc. “.. ma egli a niun partito s'indusse a compiacerne
io ». Bart. (990) « In verita, madol, na, di vol in'incresce, che io vi
veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce. 991; a Noi abbiamo da
fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc. a....chè in verità vi dico
che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto « elegger l la povera Ionica di
Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co' « redini suoi ». Cavalca
(cioè mi desse la facolta di eleggere tra due cose l'uma). « Di S.Gregorio
si legge, che posto al partito per un piccolo suo pec « cato, quale voleva
innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o « stare tre dì in
purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca Valca. « E
così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe ». Nov. anl. «
Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse scandalo e
alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa, che...» Fie renZ.«
Laonde egli si delllier, il tutto e pi UI | o di pigliarvi su qualche «
partito; ed ebbe: p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in legge.» Fierenz.
« Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ». Fierenz. « S'avvisò
di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ». Borr. « E pc:nsando
seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte ». Bocc.« Prese per
partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re « d'Ispagna ». Bocc.
99?« E sentivasi si forte il lo!..e, l'e..a sl Imav i pure lnorile, e non sa
peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval a. a Adunque a cosi
fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira della Nilletta, se collº
llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -. (( « Ora approssima in dosi Impo
cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost l'ºl, e....... gli Srl ii) e F
vedeva l'1-1: mal partito, per blè 'll tta la « gente credeva a llli..... (il 1
l. ſt a.... dell'anno li. ll irl I e I e - il li fili l'a ll III
lo.. lle al partito a m'ha recata che | Il lill V li ». l 3 993 º..... ed
essi tutti e tre a Firenze, il veli lo dirilenti, il to a qual partito gli a
avesse lo sconcio spendere altra vi lta recati, non ostante che in famiglia a
tutti venuti fossero piu le mai tralocchevolmente spendevano. » Bocc. «
Per io chè se io veli di al II li volessi, riglli ridando a che partito tll po
a nesti l'anima Inia, la tua loli lili basterebbe ». Bo. Si irolillo da
Illino lº ſi rime: Mettere il partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol
liberare, lo ritenne, e fece mettere il par e tito cui eglino volessero
liberare in quella l'asqua, o (i sti o 13:ll'abba ch'era « ladro ».
Cavalca. Andare a partito Mandare a partito Mettere il cervello a
partito. « E poi quel, che per i consiglio si vince - e, andava a partito ai
consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori ». G. Vill.« Con codesto tuo
discorso tu II li hai messo il cervello a partito ». Fièrenz. « Coss oro han
messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla voce Partito 990 – A
miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di frequen tissimo uso, e vale
in niun modo, per niun verso, a niun pat lo, keinesu egs, un keinem
Preis. 991 – cioè: con questa maniera di agire, su questa ria, a tal
termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una che si con fessa
e non è punto disposta a cessare i peccati. º2 - Nolale queste maniere:
prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per partito. Coif.
Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del proverbio: «Preso
il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è forma av Verbiale e
vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele, minalamente. « Per
cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o, M. V ill. 993
- Era inferna. 994 – Non mi pare al lutto sino in dell'altro: mettere,
mandare a partito, cioè porre in deliberazione, Fºarte Voglionsi
notare di questa voce i nodi seguenti: Salutare, dire, fare da parte
di..., per parte di.... (995) « Con lieto Vir-o salutatigli, lo ro a loro
disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte di tutti che.... »
Bocc. « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile Rucella, perchè le
faccia a reverenza da parte mia ». C sn. « V. S. gli dica da parte mia,
che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red. lett. Dalla parte
di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio, dal inio lato. Sono
frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.). a Egli era dalla sua
parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3', cº.« Perchè noi dalla
parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas. lett. Lasciar da
parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per ripor itare, per
serbare, per discernere, Tomm., ed anche per non farne conto, non farne cap ale.
« Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb. 996 «
Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte. Borgh. Tosr. A
questo do.. I nn l r noi, posti da parte tu! l i t. In di 1, st i. Va:
lli. Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in disp:te
– Tener, fare a parte, Star da parte vale non confondersi con
altri. Tirar a parte è alline a lirar in disparte. Si dirà: tener
conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti. a Tratto Pirro
da parte, quinto seppe il mie li, l'. IIIb:is glata gli fece di l a Slla donna
». Bo, « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o. « Quello
che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ». Varchi. a Tris -
stando i in dispart..... o I Piety'. a Cl teneva il flz, li i parte, I3
r. ll ! Il. Prendere pigliare, terra re in buona, in mala parte ecc. I) e
lui lo:li e 1: lt i tºv - '' i, ve: t 'i nt i presi in mala parte, e non in
buon grado, dl-so un inti, li' gli gli porgeva colla le stri, l'a.tro
colla a sinistra prendeva gli o. Salv. Note alla voce Parte
995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a nome mio.»
Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra: lasciar sta i c. V. Verloo
Lasciare « Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda.
Tolim.Storna c co E' voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e
tanto nel pro prio che nel traslato, cioè per indignazione, commozione e
simili. Ricordo alcuni modi e l'asterà: Dare di stomaco il cibo
recello, i militarlo Fare, dire.... con istomaco. « Onde i veri padri con
grande stormaco ricorrono al senato ». I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi
con istomaco o. Call. Fare stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. «
I no stile da fare si omaco a tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. «
Non si lesse il testamento, per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria
e l'odio dell'aver i là (p - o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La
sofisteria, e l'incivili a li quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ».
Caro.Fare sopra stomaco a male in cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).«
Io vi dò questa commissione in al volentieri perchè so che v'è contra «
stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a Versl.a Tengan per me e do i miuse,
conte di Virgilio, tra quelle sagre om « bre e fontane, fuori di solle il l cul
e e mi sta di far cose tutto di contra sto « maco, libero da ci rte lla e va
ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio trasporta a questa a Iv: us inza, ancora
che gli voglia « Inale e lo faccia sopra stomaco ». (il NA erso
Tutti sanno che ci sa è il re so in poesia, il verso sciolto ecc., il verso
degli uccelli Gli uccelli, su per gli verdi rami cantandº piacevoli versi, ne
davano agli orecchi testimonianza, l'occ. « E gli augelli incominciar lor rersi.»
Pelr.: ed è altresi comune ad ogni penna l'uso vario sia del la preposizione
verso, verso di..... l' 'No ! )..... che del sostant. verso per banda o
palle. « Questa è la cagione che ſa che gli scrittori d'agricoltura concedono
che per un verso le piante si pongono più presso che per altro.» Vatt, Colt). E
così va intesa la forma pure dell'uso: pigliare una cosa per suo trerso.Verso
per riga, linea, l'ha tra l'altri il Caro. « Scrivetemi solo un rerso clie le
V, slle cose valli lelle. Ma ciò non è tullo. La v e rcrso, ed è quella
delle forme qui appres so, si adopera alcol a a sigllil: l'e: manici di modo,
ria modus, ratio). Per Cgni verso –- Per mium verso - andare per un
medesimo, per un altro verso. \ niIn: ' di e tre i ri. 11,1 per cgn, mai verso.
Iº lº I. (.: s. Ne pilò per verso alcun l era -i a el re li oi i to; a sfa l I
mali. Varell. El'col.Andando la cosa Itta via per un medesimo verso gli Is g:
va pe: lo; za li: rtir di lllel il 1 g... FI el'eliz. - e (II), si vi: il 1
l' II it: i 1, se vanno verso. (ia!. Si-t. l'er 1:1 r.- 'i.. v verso i
cui il non vi fu mai ». I 3 l': 1. () rl. Trovar verso, () ribe, II; s -.
1 (orv... - se i trovai 9 verSc 1Z. I 11:). mi ri. ll It - ir: - si rl:. Mutar
verso. « I l in un li versa i Z. Andare a verei andargli al versc.
Q). l io.... ci segui i aridare ai versi, - l'ill Il '11 l..... ll:: V.i
i-silli i tii: il il 1 che lor non vannº a ver, i il lo « S: si orz: v.
li:: Isili andarle ai versa, e !: I)1s, il l. - ir.Di alcune parole ad uso e
valore di voci e parti del periodo collegative e talora anche
integrative. E e n e – NA1 a 1 e al 13 EN E. lasci º si va il
riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le, con la mente, l'ulo non le,
sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene, il no per bene di garbo,
la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a bene a lilot line ecc...,
e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e la cosa piu o meno
riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o, e tiene alcuni poco del
tedesco li li l. (5(i Ma egli Iul bene, qui intlin [ue s
elevatissili, proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st. l l
): l 11/.Nel l bene i l.. a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i ti I
t'l spes-, a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io bene,
che io lo tiroll o spesso la II l3, r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le trili
i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº. Ma se vi pi e, io o le
insegnero bene tutta n. Boc. Voi - i pete bene il legnaiuolo, dirimpelto, al
quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1 re, ed io a te
ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra. Il mito lei e la la l la.Si le, e visti
di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz. Bene i ll vel, che....
l o.Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido li nº i lorº liti o, ben è
vero a che quella grandine di coli e lini e di li tir e il 1 o nlinua cosi alla
distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel... he il l e le::i riti - nte
d'Illi: lo za sull e iol e, e la a !:ilta, il ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi
e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo., (art.e e appresso gli dimorava
una serpa, la quale bene spesso gli divorava i figliuoli poichè erano
grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba lº stermini: i i ben il V
e V el - i:n corso a lanciato senza un l I l tar di II lezzo ». (es.b.
M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto ciò che è coll trari, il
bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il, inisſallo, danno di sgrazia,
lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e volgarissime le frasi: a rer a male,
a malati e di male, a re e il malanno e l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo
l'all ecc. ecc. Via li li so. I rile dei moderni o volgari scril lo i c li si a
la vo male, Isi Ina in ſilella forma, vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che
nei seguirli i esempi. Leggili, rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l
non so clie di vago e per gl II, che è il lilà di così d'arti l'isl ic. (li el
II zi, le elegi Ssic li. a... st V: l III mal conceito fuoco. I 3. «....:).
Il coll mal viso - Il l I am li ri- -e. l. «.... il rinai.. Se; (iappa letto i
lic - i pm rai 1, si, l ma le agiato el' 1 (-a del II lo; lidº, o. I 3 ).maie
agiato l' –, li la a gil: i il.. 11, l Inl, o male agiato esse, e male,
pe. lli, a - io, e -::: a male i:n bocca si, vitili era, o e, l 3:1. I 1
A. « c' 11 se l' ', male: l e \ Il..li, lili i lo nia?.... (, l. Il n.
volt': li la III, i mal piglio, l.ll è lie: \ e le colli e iº sº io -, il V
rºtale lili, i.. » I el'eºlz.Il ragi la I (l ai: le maie a lo)ia si convenesse.
l...chi v e iilipov rito: chi vi: ini: i il a, l.. i: ti: ti l i male arrivati
)). I.a do III', nd Indo pier lorº i val, l l', l ' I mal degno n. 1 ss, loſ
nig ill: I li.Voi sie (o grilli vecchio (pole le male durar fatica, l ', di
liri a III nte, l'8 ('. e I, il III lo zi le: i riz liz li mai -; l I
e a:I III lil (i: /:1 e n. la t al I ): v. lll. “..... rip, ta io a lor
lui gli le male accozzate i - V a essere male in essere di d. Il l ri, li -: li
i l ':.. l 3. l l'I..... poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! «
parole molto lis o eo. 13ar [.. e.... tutto pe o, se male a me non ne pare.. l
3 l. e Onde pa, che male si a latino al vstro lº so, si fa i lma iº e d'ill «
si fa ». Si li.a e finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº --, e non lo
's io i ri vare alla male abbandonata e sta ». (i 22. Vi esort era il 10
al 1- e' di vi con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si.
n. 8s. (S: - I:ile i siti: il ma! - be il s.. i: e i nº, lo re I ma
le:nctiuisi o V i S:s lº i l: i Note alle voci Bene - Male
(iſ, 1, di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel
i pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc (li
l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V !
ss. 13 o.Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi lo
lingua (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del Gozzi,
e di tali li: ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c. Il riso le li
ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo; e
inalier e del glorioso tre i º (S Sla i bene, male in gambe è I l
is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali
ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li
trial lo scadille, snoss, alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li
s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle. N/I a i l
'avverini, ma, el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il
S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i: il
13 irl li, esempi, e non |. lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la
non si sia rolla o. lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già
gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels, l'in alcun len o, e
d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ', cliave e indizio non solo I! I lil
si le lilla legil'i; il cos! i le Alti i basta ad ill riderlo il si mai e
cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso l. il
li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l | |
–– 281 – stri di lingili ilaiii. Il II ci del e di averne senza più
conseguito il 1 ello scultri, i si p.. si, Direttorio, al quale più che
le definizio i l sl 1: i il [.. assioli, lei relalvi e semi pi Ne li Ilo (ſi
alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e vi gie li ti
li l.. i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche venisſà, lo si pel
lo i c' rss, i indi, sia cli e Villga in al cºn l 'mi pi.... ll il 'Nsui
le nip. S roll e li ll (). o per arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se
il l i. intellsivo della s. ssi ma mi tiro i si, a Pe! l III list,
1 l g io, i tic, l l. si mai nascesse.. I 3, i. C. ll pill IIIa li e p.
mai drappi ! -- dialli, IB,. m Coln in 1 il i i il mai !:
esse MI, sl l'a ll il Ver mai. I 3,.. “..... i isl - se mai i
piaccia, ti con i le itto i pal.11 st: Il lit -.... più che mai i - a che
VoIIIeri le spalle, a II. 13o..E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... »
I30. e I)isse Fer Ildo: () li mai. ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio
V il. () Il l - - I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It, il l in I l.. 13,....
l'av: elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº. E venivasi li rila lirlo !
! oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai:, a connesse, e piang nel loi i riti,
sop.......... e sop a che n 1 - i poli ebbe dire. Cavill. a... ma per
certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai».. a Questo e i pili allo
Stato li Itc 'igi ssi mai e lº I l. le quali fili o no e primi clie -, e le sei
mai: l ill). Fl: assalti i al IIIa la..., l mai, i [.ra ti:lel cliore ». (iiil
III l. e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V, il lill a fa rii mai
santi!. Sºgli. a Ed è possibil. che mai gli 11-:. «.. quali lo In'a ci r.,
ma andr: il 1:: i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti, i lil il gºl ! I mai e
Cmpre. « Se i II a i º I)isse Nicostra [o: Maisi, i pizi - li lo i
vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci anni Sempre mai ! ll -,
a che ella mai:i cosi fatti novello: l il. a Corne, disse Terondo, dunque
so io, io in l? Diss il 1 Mai31. I 3 pt i'. derili ti far sempre
mai il i. I lil -Note alla voce IM ai 70 - Vive nei diale l'i: Come mai?;
è afflillo come mai, ecc. (li si voglia di si ill di gr. ss, ognun sel
sa, ma gli esempi più che le parole i cli, tris li rello so e vero
significato della voce lia, a |iliale og i è sl Irola o la le adolierala,
che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si lasci li il 1 orla non
disdirebbe. \li i e,: i fia l' -. / lia la tll ci ! ll li Ill'ai». l 3oni
e.. I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - - | li i - li i si ve l fia il
presente º il tilli: i I !: )st l': l 'li l'tl S... - 1:11 -
I ll v;t, fin l v.. l 3o.. le fia, 13. Qui i fia ir: le l Sel lembre.
Caro. l fia..... I v.I! ! -, l ia suggel che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \
i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i., (iianl). ll (: | | | l fia l e l'1 a 1
a: perchè - º la piovana -.. n Il re deila t rra ». l)av. !, lil: il -......
p le i, illi, e alle fia di loro, se l' - I no ll v i l il 1 li i:''i. I
l ' l : i .... le St i t, i s. i mi vo'il a sito dispe to
lanni di chi fia la colpa? » Se ll. V et cine e gli oli Illi i: l i
tº vi N ſia mai vero, il l. Si i pil I: I: 1' i rp - a io i
vi prosperare? a non ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li l' osti i
Ira d rupi scoscesi, che fia iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei
precipizii, a tracciare sì belle prede. Segni. non oltri, he pli il...
ma hi l - ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e
Non in senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e
assai in list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia,
di merito, di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce
nei cº. I il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy,
111 i clide e ci III, Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la
lingua I e Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la
III er i cie..: grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al
lli e nºi ci o, e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri
classici. Eccone alcuni esempi. 4. a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e
quanto poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“..... II e io ll li ll 'oi, i
vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('..... di e il Si r. le gran
mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le (esil, e Lazzaro, gli andò
incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida
i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli(ti - e' leg lì: i di V (I
lil alla casa dei servi Illo I., (a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il '
Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i
vostra mercè., Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel',
i vi....: la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di
Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a.... io lli soli,
condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei
sussidii, ecc. e, Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero
fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi
aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi
Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro
prontezza? Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il
divoto Illo « ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui -:llitti,
Il lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio
non abbia fa ſto. » Bo. Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso
liberatore. Ces.Note alla voce Mercè sserverai bella elissi, quand della
preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non
esclusiva della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'.
grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra: e tru vo, grazia d'Id
duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito
l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai
lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto
di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si
lascia adescar da doni. Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di
ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non
le I)i, dipendente da mercè (tut I simile al francese I)i i merci. La qual
omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè:
Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono.
I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito
mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ».
l?occ. Fºurnto E sl il. e lui le avverlio viene la voce punto assai
volte º: ri: i vi il ci ills e. I e - n 11 lissili, lira gli eserº i pi
li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i clo, lerivi
grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli: essere in
punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle re in
punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia,
l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal
punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso: di lui lo punto ecc.
ecc. I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li
r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del
point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo;
un nonnulla ecc. ecc.... Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci
sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e
a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.
« In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini. “ Dunque, ripiglio
I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni, « Cosi già in
punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il
dl IIIessa.» Bal'.. « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp.
e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I. ....
coli 11el (i imporre si sl: e- si va in te sul punto da i
convenevole. ... e stalli, il ciò tintº sul punto della Cavaileria che....,
9, i 3 art..... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o in strasse.
o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1,,, li: soli iti e litta a ce ngiura
« era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li i luro, i ti o al
lav.o, e, Inque « di le filsle e il Cat Ir furc no in punio di navigare i
IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº stalli 1 e ! il....
in punto.» I)ava inz. le Illali e se li ril s gloiro, altri li a gr. -
era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l: II le gital (ial s.
i «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to punto nè fiore. SI).
Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll. Il li otto. o I
i I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1, lizi.»
l?art. a e lei si riglia e li rvirill d. I 1111, si lire, i 1. I tigli:
il re - se le punto « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii Illesi,
l 'empio., 13 art. a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi si trova
in l.1 o ſu il lie la lite « in boc. a. » Cal') « Moltº è la
plance..... ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi volete
punto di bene, il 1 e il v; 1..... B... Sc Il legna illolo e punto abile. I...
Il D... - il l.« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il i li. « Ma no: percio
che ino:o -aio i lil i: li, sa p.ti, i 3 malteschi, le « pronti il d
urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle illa', o li co.. e.,
li;..... si l.l.i.« loli sara forse gl.lli la o, ll il Il l il 'cloro. Cili
punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno a dirvi co; i pl º tes, e
del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza dov l'à (il dere. » Stg,
()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E nn la di ea. ch'e g: ai le
pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione, qua l.do gli vi..
li. a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº soprastandovi punte ri le
volle a l livi rie, ch'ezi, i lio un'anima « molto in onda in castità, le ril
ma ne per os - l II l i lilla.» (1 Valia. a (iò sarebbe, da re a discutere la
Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a Cicondono a quaii, ve ella pa in
punti necevole al lo le pillol!: o a degi strati, agevolmen e riuscirà
d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a lela la grazia e col finarlo
fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce Punto i – Punlo, nullat,
un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si li lilli, e di till inedesillo,
IIS, e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap. 3.7S Sinile: vesti di punto. I
rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -– Nola il modo: stare sul pil n lo
le l con rene role, dell'onorevole, della cui l'alleria ecc.St – ci è punto
punto, li ill.; II l Il significato di punto, niente, un non nulla ecc. Il 1 si
il 1, il ppo gli antichi, e ha sli la nota frase di Danie: Peli a orinai per le
s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni! SIII le litel del Manzoni: Ma di che i
julo gli p lesse esser il Ila o al l: che già brillo ricorre Va al fiasco per
l'Irnell e i il cerv ello, il tale circostanza, chi la lio di se uno lo dica. E
i lichi il sito quale intensivo di non: « I giovani e maggiori e le I compagni
di Celso, non si s not guti o no ! io e, anzi li i più i dirali contro la
plebe....» l.iv. M. \nche il mica dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che
li li è poi la lil I lilli: rido che li in fosse già sulle I rili e al recello..
V | lale l'ill, rispose: Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li:
ogni le, alzi vi dimenale ben si, che...... l occ. e Vale le ali le illla nica,
un miccino, Il lanlio, l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti
l'ora li li el'alio mica una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal
Villi.SI – Tra di lei quel rialleschi: pl o lili il menar le mani.
(schlagfertig, Tutto l'referisco qui le lole Iorme avverbiali:
lull'uno, lullo da vero, al lullo, innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu
ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo, aggettivo o sostantivo che si voglia, è il
variabile e sempre di un ge nere e numero, e piaceni allegare esempi di un
lullo avvel bio e pur de cliliabile o si scel libile di genere e lllllllel'.
Aggiunge energia, e vale interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici,
che sostille dosi questo a quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne
venga non meno alla Irase che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi,
come che troppo diverso, che non è il francese, sia il governo ed uso del
nostro lullo, e ben più vago. Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei
modi: tull'orecchi: l’ullo gambe; tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e
par che si dica: a tutta forza e vigore, non alllo illeso che... immerso in...,
non d'altro occupato che..., anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc.
(85) « Io conosco assai apertamente niun altra cosa che tutta buona dir
po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il 1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge
le fila li il carro di tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii
di Illo: Illoli, di frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It
llia, tutto solotto si mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò
la gent. l giovane tutta [imida star las Stil. » I3(º. « Senza - I tal l' -, e
sollecitata da suo, cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e.. I3).I)imo a lido
il giov: in tutto solº nella. orle del suo palagio, una ſe II lillell'i.. i l
lo lill sill: l., IB ). Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do
disse.... » l 3. o i lut. In te la II: sua la Ilte ne ſei a spiare. (trovo che
Verºl Incli e I giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo., 86 Bocc. il qua
e es-endo tutto leggi e tutto antichita... » Bari.....i-1 l'1 lis, (llella e la
i i, il ll 1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill le liri, tutto e
il o li in soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo
fallire: Su diss'egli ch'io Il il 'l' Illi)., Se. ll.Io dovrei di file stamane
esor farvi con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC:: 1.\l di Iliori
tuttº animo, tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o
l'abb 1::. » Sºgli.a MI, oli qua e. l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli
di un animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte
le più ſiel e ! Il re.» Sºgli. Note alla voce Tutto S, I ),
ſu Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i
spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera
di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci
si darà ragione di parlarne più a V: Illi.Anche del modo elettico: tutto
quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o: lutti e due, lu lli e l re
avremo occasione di ragio irare ad altro proposito. 86 -- Agiungi a
questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte
dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i, in Il lavoro: vino da bersi a lui lo
pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n
tratto – Urna volta Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi
smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in
quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi
prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel
che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss
si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi una
colla, un l al lo le, i cser I i l n al di l l sch si: si h mail al n. Non mi
'mal her, guck 'mal hin, n un link in all '. (r.I e II si li primi o li allo;
anzi !: allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi pensare
un irrillo ecc. ecc. Si, non spettan quì, -, li o lo così in di grosso
l'ein Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('. N la
non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li. ri che tu n'a Vesti. » l80cc.: i
i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a voi..... I
3, c.I un iratº o. Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t i d si facesse
un tratto l'l V v tl le l V, e, le in: Va l'allino un tratto « non ci si va a
il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto dal funesto
letargo, il chav si g la lolla, i vv i, illuminato gli o chi? lla loro
mente....» Barbieri. a cede per or. Fa1, del late che si sveg Note
alla voce Un tratto - Una volta S; - - e pensò un suo nuovo l rallo
da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell
alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte Forte è sos la
livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for
Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si
essi, il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live in
Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl, ecc.. Il l io le lel
(li 'al si e del lill loversi dei soldati ». (esilli, ecc. Foi (e, e chi liol -,
è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I clia, si l //,
illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se il III lilo. Ma
non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai li ute le sulla
penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe, gaglia, la mente,
profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal alla rocr', e
clillo alle alicola ve. inenza d'animo, che lalillo anzi non lo disgrazi, 1: Il
che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche oggi piacesse
mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi esempi, fra i
moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id, lilei e il III al II a Telli, ci se,
ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e lelli, e lo I. I
lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita le piu la non
vedev., 88 Bocr'. e Avell (lo V (lll v. " (il V (, l: i re, is l'all: lui
(º littº « piacendogli, forte desiderava di aver, ma pur non s'att | I vi
li do e Irl:ì ll l: l ' (). » I3 ). a e saputosi il fat o forte fu biasimato.»
Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3 Cornº che ci si liri o
altro dormisse forte, ci illli cli. l 'i lei la stato era, a 11 mln (lo
l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i tre li ſi ill: lli.
Bo. e....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse (Illa: li egli avea. »
I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la illl'o, cominciò più forte a
chia a mare. » I3C).commendolia forte, tanto nel suo desio a cellulºil (lo-i,
(Illanto da più a i rovava essere la reilla che la sti i passatº - il la.... o
I30. a I)i Alessand o si meravigliò forte, e illibitò noi foss....» Bocc.
E avendo la barba grande, o, ieri, e il vita, gli par si forte esser bello e
piacevole ch'egli s': 1. Vis:I.... » I30.e.... e quando ella a ridiva per via
si forte le veniva del cencio che allro llo t r ore il III Ilso l1 Il ſºl,
Va.... » I3..a.... i quali dubitavan forte non S (ii i ppel º lo gº
ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria alla donna, a quello a
clie di ve a lil e intende va. » Pocº. a.... e perchè mio marito non ci
sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... » I20 ('. a.... per le
quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte... l'occ a Forte nel cuor noi
la pietà compunsi.» Dittani.a.... ma poichè si vide ferito invili si forte.»
Bart. «... Allora come a cose di sapore che pare a loro aver forte
dell'agro....» Bart, Note alla voce Forte NN Il Cavalca idoi era
anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº di illi: azione.
« E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte nºn le; [ueste
due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo, perch'egli era così
buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava». Troppo () lesta
voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi, or è già l'anno, e
l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e pi le del sacro
leso: Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del basi qui li
adurre, sentenziava egli. (º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e lle lol la
ad un massimo grado slip I lal V, che la llli gli i alla lia li li ha. A li io,
che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione, la voglio
sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials, falsissimo
replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so se all ra
lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le italiano
dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V (e un
così fatto superlativo. ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al
classici non significa soltanto il lellera' e minimis Ilia il minis all
resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi
meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai
suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la
quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione,
dirò così. superlativa. Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga a
\-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più
cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che
queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non
t'avvisi.» Bocc. « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli
e polie-se, ull a: illo ne porterebbe troppo più che alculla di lei., 90,
Bo e. « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della menata
pre Sente.» E0cc. « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o viene
citi l aprillo, iroppo sarebbe più piacevole il pianto loro. Bocc.
e Vi tl o V () la II, e tali ltto, le V a - troppo più cle tll la la
spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa. » I 30 cc. E
Annibale l il troppo più accei io a l.Allti e, lle a suoi Cartaginesi Stato il
n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di troppo più splendida fama
stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app lºsso ioi. » I3, c. «.... a
Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e ardimento; Ina il Saverio la
cesso ogni per i lio. » I 3. l'i. «.... ed era la piu bella lei mi a, le
si rov a -- I l II onl, silvo la Vergine Maria, la quale era troppo più
bella di lei senza niuna compara zione, pill e cori raimlt ita'. » Cav al
1. e.... il giova il tilt o il 'li i lil III e col il III (-s Si l' 11 le alle
sºle Iila li; e lo II, li e il V e --, pill lo i soglio d'es s-it rs', mila
anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè rifiut l 'lo, per occhè era
troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn credeva. I3: i rt. 91, e Ma to li
1:1 tii, Signori, I il III, che troppo ancor più alto con via li le Val SI. o
Segli. III' troppo altro gi ill ols e le:lo I, a.... livi- i lo., (- a
li. a dimosti o che troppo più che alle pratiche e negoziati.... era da
repliare alle orazioni lºr Ille-to elietto da il latte a l)io. » (s. a N
in sol: III e il I e tornò i llo II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in
Indolo di troppo più doni, lo sll blin lo... (e il li. Note alla
voce Troppo 8) –. Troppo, il re al significato di soverchiamente, vale
anche mol lo, e questo significato s'incontra spessissimo ne buoni autori. (orlicelli.90
– Parla dei soverchi ol'nalienti delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho
preso questo esempio un po' più da lontano che non biso gliasso al fallo
nostro, come ho alſo gia più oltre volle assai, e ſarò sempre che ti potrà
tornare non solo in utile ma ed in piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a
quello onde questo luogo vuol essere esempio, hassi al resì a gustare e quel
non che...., ma anzi, e quel non –- non credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là
ºggi si griderebbe l'affellazione, oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e
colali all'e ciance, chi alla Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile
all'oro, il cloro e all'onde sia lic volmente da premettere il correla livº li
Illillo si voglia far emergere l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a
quel luogo ecc. l'icinsi clicccè si vogliano a me non dà l'animo di
partirmi da una sºlola iroppo più aulorevole e veneranda che la moderna a pezza
non è li potrai li li essere. l Irisi: più là che bello: più la v. g. che
l bruzzi ecc. ti mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore
classico, il comparativo del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà.
Non gia: più in là, più in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra: pii là che
ecc. e in brieve grida lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp,
di S. Ai 1 Igo el:a i -1o. 13,. (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di
Inangiare pervenne là dove l il bio: e el in. a i là onde r, il o se al
povero non ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l...... - 11/a
lista le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il
sieri e niti 11 o il 1: vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove
l'ietl o aveva certi anni, dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli
rispingeva là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e
pianti, cotal si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa
l l'ill lento ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e
a: la l e a Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi
cosi colà dove si pllo: e (io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1
i lo, l III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis.
ss 1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13, Di lei sil, la norò sì
Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li
h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e
Cai: noi il 1: I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si - lo, ine,
rispose M -, si e avei ('. » lº. « avea preso -i alto grado di perfezion, he
non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose, i
veri:a il vedute che...» (.esi...... ll 1 più là li oli lo i possibile a
ridare. » (...Quello Il Boccaccio, il Passavi, il. il Pil dl Iſi, il (il
Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori e
discepoli della scuola tallica, Ilsa l'olio assai, e i le stra, il guidi
e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello posto
a glisi di 11 Il ro, ci si d. it -igi, i lic la lino Illul lI d l
Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge e d
in quello, in quella, pari alle lorni e avverl: i: in quel menti o, nel menti
e, in quel momento ecc. e si dis: quello li n. - - id. v..... vi i e
quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1, v.... I3.-: Itt - il 1 se. l
' a 1 il 1. l it; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('.: l o.lutti; - i
fri lis. quello li da N i e:: si iro l'1 -, -1.. » 3 ).l'In/ li lis- I - - I,
quel ch'io? » I3. I -, quello le 1, III -- il l sa io vi li essi. o lº '. i 1:1
! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi a id:assino ſ: o ll il. » I 30
t. ... e io! I si, a quell cche io mi tengo l i le sc (l ' e 'li.» I3. 92.
o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e. sse) l da l. (III l 'o più a ll'Iva n,
piu lui iro il lit. 2' l'1 e va e le, i di 1 e ven re a quello, al quale
dopo lo I - ra l III antila li -si, er., FIl colo. Itispos, il III ), gua a
lile. ll III i lII il 1 o quello clic pil III e il bis: - rizi - - I..A questo
II e les, il II, II - Il to si It, l e il q"1ello che è det o a lI - l...
l'a - sav 1:1ti.I, -era ril II- I 1 -i di quello che: ' ' Vt a la l.... »
Fioretti. E p. lito, ve li quello che i li' Inita col suo compagno
» 'i e il v. I:: v. i: quello che i lr che, è.... » (,s In
quella cli..., l. E le IRillall stro, col il l e, c in quella. I 3.. QII,
il q: le! Io o clic si s la fa in quella a Che il 1 l vi le Cllº gir 1 m
-:1, III: qlla - là saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri. f: l'.. it: l'.. l):
"ll. « In quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a
b) allo a ll'ano e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante.
93) e con [aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i
piedi « In quello clie e gli pas.. a.. Ces. Note alla voce Quello
!)2 () i la fa da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa,
o che è lo stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I
e rolli (' Ill. V el'b, le nuºre. 93 – lº è) ssere che colesto in quel
vaglia non in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale
per istracco s'ap cli i non le segli le relil (Inl verbo le nei cº.
U Corn Co (li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far
lui l eleganza? I tagione e Il li se no e loli più là. Eppure alche uomo
è al V re sulla penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al
grato velluto, al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo
in senso di un e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a
verbo su. VIa avverli a ricola sul gills o governo, costruzione. lº.....
ll III li ucnnc lo i ri: i V li l: e cl’egli non voglia “..... pl
il l n t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo. l
3 l i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7(t, lo uamo il l
im. it - l'alcuna persona clie ne fa cesse e sei a -- quello le Luigi per
il mio e di I)io. Cesa l'i. « E nel vero l' 1, a: per lo I e uom dice he
io lº blo essere a Imo:tº giudiruto. io no! oli in Is I niti i r. 13.“
Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom «
dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel
piacere e le « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli. 94;
Cesari. Note alla voce Uomo 94 – Che cosa è l'ou dei fr: il
cesi - e li li Il collll al ci di home? (il man dei [ d sch è altra cosa li ler
Alain n il trio? (ili inglesi poi dicon, they, I he people say ([. he loria al
nostro: la gelle dice ecc. Fers o n a L' Iso odier 1 esſi voce è il
rilalissili, e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II lil il
genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le, ma si l
rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e ido, di s
la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra vale colpo,
e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o al significa I
" Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i, n. ss II, il li
do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'. )sservill e gli sla i li
a presto. I )elle frasi cl in 1: la III | I molte re persona crescere di
corpora Ira: fare di e in persona di... () le lil del a | Iel primo superbo in
persona di lulli gli allri, Isti: prolcl:: 1)i, isli in corde lilo e Passav.:
far la persona di.... li l: lle spielen, sostenere la parte. «I di quie Por ogi
si che ſce, a chi l il suo personaggio nella gloriosa e parsa la valli al I e I
r!. 9, la la persona adosso ad alcuno, soperchiarlo 96: mettere in persona di
alcuno qualche cosa v. g. una r lidi:i, costi i lirl li di essi, 97 e.. ci sarà
poi la cril sio: e li i la rli id al l silo. Iº, i cºl logli -s e
II l bel fante della persona. l a IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane:
11 ol, issai, e destra a e atante della persona ». 13,.... te, i bil 1 E
le iclè ella fosse contraffatta della persona.» B ita', e.... essere tutto
della persona perduto e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della
persona, e le, la inelite lion molto sallo.» (11:llillo,\bbiati i cavalli i ve
li lilli- al grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li.il se - ll
o chi a losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti
mi onsiderand d'o culto alliore t. vt', ll tell it | º li li: ss e.. l 31,,la
li e ti e i, till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo -, i
periti, o oss - so, li i n e -se. I 3,..ed i a º s', 1 e la piu role belle e ri
che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la giovanetta,
la qll ', a pl p - o li -: i B, l stat 'i: si val.etta....) S
-- ti:. ss e i stesse persona, il 1 - si l qll il il 1 1 1 o cava tv:ai.
i cºllo persona se n'av v (lº - e lº t. Io li n..... I, l l la ventura
lestè, che non è pcrscina. 13 \ i i vi li Ilia i persona.» l'8oce.
Io e li (s'o, che tu non facci liliale le a lui ne a persona.» e al ll un
altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si è, - - al lil. I - - -
che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che lui per niente non ri spondes;
a pcrscita, tra seri li essi vista di n. 1 l ele: è e noi li udire.» l3.
I | p. g v, se i persona come fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io
etli. Ed ho da mio at oli ed za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r,
Ili.li i per ſuo - o il 1: ini: 1. ll il a persona del In illo., Bocc. « E ' il
l - tira perso ia mi li, e ! i Zzo perdonato. » l 3o. I; rulli, a non salirà
persona se: it 11 Note alla voce Persona ), simili ma in tal
caso spogliandosi il principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi
egualmente coi titºli di sè, gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra
grandezza, Castigl. Corle- giallo. «Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra
le conver sazioni soli e di Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano
il luogo di quella che mi conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill.
96 - Lo stesso che la re l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl,
col le minacce. E volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S.
Giovanni a Irovar mio fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona
addosso, Illando egli meritava d'esserne casi i g: l '. (a l..il Diil
(iherardini. Voci e maniere. - 9' - l'orili, il francese sui la le te e
il gosl o volgare in testa d'al clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei
le in persona d'un al ll o, Calo. S e lºro orie di terza persona
d'arri lo i lilli neri e genitºri, che si riferisce | |
sempre al soggello del verbo, adoperandi si lui e lei negli altri casi. II o
Irascritto di peso la definizione che ne da la Crusca, e basterà. Come
piacesse p i al Boccacci re di all i trolli. In colal sè in In lo
assolti, o e coll'i: definii, l gicli e Illasi si ºss, V edilo, di con Io
e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi esempi. a Per un cali o
ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni sll ' Illall « dal Il (). » I30.“
'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me essere in questa opinione.» Iyoce.
s “ Gli altri llitti, che alle tavole e rallo, illli I sienne dissero, sè elier
a quello che da Nico, uccio era sta lo risp sto). Bo.Aiess. Il dr ) gli 'e il
dè grazie del cori l to, i sè a l og: li sll, collandin - In li o di -se esser
presto. Boce.e loro, che di queste co-a lui il rili, or -: van,, strillse a
confes º - ll sè i sien: con Folco esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli.
» I3o. “.... - e pel I i ll e le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a
Vli, o e da lei, non essere incor, di tanto tempi gri, il 1, che | i leta
potesse es e Stºre la crea llra. o loce. Questi e Quegli Si
che lo scrittore il derll, lo usa, e l'uno e l'all ', posto assoluta nell le in
senso di costui e colui. Ma non la iſo a colifortarli all'uso quanto a
mostrarlene sil vero uso e legittimo piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I
ond II o luotiIoluogtro vito ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os
mlnuto un olo luou l. In ott Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io
v o ottussIssotti Ip ons e 1.Il 'lo s: l'impolli o lo I II Is v.ll st..ol. Il
“odſuo ul lui opeo li o outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº
up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti Ip e I potti o.I | Il los. I volo “ol I pm Ilio.
I l'i: i) a luito o illu po olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los
il I _ e ne» \:sºlº. I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ): IR il
p to eve) op e idos il ci lop o oulo “ollomb o.: ), ond is oli otti. I l III II
e III Is l'otti o solll V Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l
'esoi II) l'Ilop º oluto tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss
o IIIo lº I so.I ) e il V Il 5 UI,i. S ): IIoII. 113enb Ip o Io, lui il di lui
se li ti os o II. o Il s o II is º III o II, 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113
onb I 'll A ). l is tº lo 118omb e p. Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o)
toni tu III o l on tº il 118anº il - IV l. 1: I 'l: i sanò “I I V
r) « e ſu di ni: I.I I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l 'ItI A o « Us
II. t: l ' I l. ) A l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n. I I I..I ) \
I? i.) I vi: - st, l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI
sl II-nd in euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i. I | III F
III l st ) ) somb o-s II s l. I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò
uºi In I tºl In A III o Noll - sanò o il III: -nIossº o ollo.I costi. Il
cºlson l olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o
allo l o oum. Il I I I I I I I I | 11: Il i li osso il s II II l s
ri: o II. ii l' oil. ss I.) o VI i.I o III II. I | anbuntuoo ºpttodsI.I
15 o infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in ouaq els ſolluſosutti -
o Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli
talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e
mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago
ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il
senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè dirò
della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o
fuºri's e il di il colllllllissimi i: non ha guarì, a significare non º gran
tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello che di ogni
altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu'
sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli
di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai. e cosi
conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so non
decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì. a.... nè stette guari
che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il rie-
dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la dis, sl,
' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz..... non
istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e...., il quale non istette guari che i
rap issò mori; o lo e.... ed essendosene entrati in cani ra, non istette guari
che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... » I30.ti e
credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve: nè a
stette guari, che il lì gl al S. ll:lo il prese e Ills- I l ltdori nell' ato.»
I30' ('. a... ll è il ro i ti elideva, che da llli (ssere richiesta: il che non
guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed il ti: i Volta e l all
'a.» I30 ('. «.... di paese non guari al suo lo litri:). » I3:1
l'I. a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che la ingr i vidò, ed
al tempo « I rarº ori. » Bocc. « Il quale non durò guari che, lavorando
la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero llella testa. » I 3,
c. e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio ſull'olio al 1 la i
clie....» Bart. e.... novella non guari meno di pericoli in se.. ll I e
nel II e che la narrata e di I.allretti. » I30. « Dopo non guari di
spazio,.... » Fier. «.... nè guari tempo passò.... » I3. a Fermila lire
e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti gli asterà quelli che : oli
dallalo. o 6, Bocc. « Essendo essi non guari sopra Majolica, seni l'ono, la
nave sdrucire. » lo c.Note alla voce Guari (- Nola II sto In lo
leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi il li: non isl le quali i clie....
per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e indi a I l in iſo, ecc. iti
- l' illo dei litri casi nei quali la voce guari non è a governo di ll () ll t
) Il t '. N/1 c r ) ci ci li del non lo al mondo aggiunto ad altra
voce qualsiasi, non le " "lilli ºli il III si p. I livi, è a nella
livo e intensivo della stessa, " Sºlº sºlº sºpra all'allo, incomparabile,
qual che si voglia minimo,; il t N.Nll) l ('C'. \li gli esempi soli si
chiari ed i maestri di ogni età si autorevoli che rebbe superi il rallenervici
a lungo, e discorrerne più che tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a
come l'occaccio, per esprimere il mirino, ed anche a singolarità e superiorità
assoluta di oggetto o sa (ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che
non farebbe un illi a V cc, la II lillici a: con persona.... del mondo, e come
quel gran il lacsl lo i pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi
lette l'alleli e lo imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere
di il ri molli, si possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una
la licet (tl mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali
alla lelleria dal Villellissillo (esal I. Senl e al lillo del l rall cese
non le, in: le moins du monde, e simili. Ala non sarelli, sì vigliacchi di
gridare per i lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle
toscanismi si illi, i nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani?
a.... e 1 litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del
mondo l'all ('., l 3o t.a.... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò
a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3, c.E quantunque in
contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol
Vole: i creilere. » l3.benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a
palagio.» I3'll [.« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con sue
novelle.» 3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna persona
del mondo il « Sa.» I30 (('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il meglio del
mondo.» Dart. a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca là
pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è noli
e.» Fior«.... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior torto del
mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il volo e le
l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio senza una
discrezione al limondo, o Fier, » I30 ('. a gente che vuol
conseguir la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg
Il. « Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato
e lnal con o com'era. » Fier. « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente
in quei pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior
fatica del mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo.,
Cesari. ſr L'Opinione giornale, con la stessa serenita olimpica con
cui sentenzia che il quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del
teatro moderno, senza un riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i
no I re a 1 | i soli, SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875.
!)!) Note alla voce Mondo 99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per
amor della lingua di quel giornale, che è buona, non bastarda come quella di
molli al ri. | Bene è vero che così lo studio di cer ti detti e sentenze
come anche la Retorica sono ben altra cosa delle intrinseche dovizie, degli
scandagli linguistici di questa nuova palestra, ma avuto riguardo all'assetto
singolarissimo di alcuni effati che, stu diando negli autori classici, più mi
ferirono, e che non sono così ge nerici e acconci ad ogni linguaggio, come sono
ad esempio le così dette figure retoriche, che non siano anche particolarità
italiana e inerenti al carattere e alla natura della lingua italiana, non mi
pare iuor di luogo di compiere l'opera e mettere qui alcuni di questi modi che,
se con metafora, hanno anche nome di gerghi e proverbi. l t. N. 1 l il
miº cl. ii e il ct mi al buio. l ' e' l lo sa il n 1 uct I tuolo li
l'. I l ' il mio cºnci li elolco'. Iº - appropria lo a uno che iene del
semi I lice. l'ut I lo i colle si sle la Nesla, allico sll lllllelo la
misura. Slc re e il m li se li diglllllare, Vlcºl l'1 si in capo
l'alcolaio gli ribizzare, fantasticare. l'atl e il III milita in all
'cati si im sul qual mquam – darsi aria d'im li. l. I cºllo l'e' in sul
quat mi qua mi - col ridicola gl avità. Spacciati e il quinque mi voler
farsi lenere il gran fallo, \ 'il tr le cellula ne alla les la Scilli si
allera o da qualche impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc. li mpri e
la scopa l si a Vila disonesla. lo son litigliato a questa misura Ambra -
esser fatto così, di que s Iella la luna. lisse'r la Ilio lo bene o
male, l'irla pºi punta di lo) chella con grande affelazione,
l'aitre e gracchiare come i cani e ranocchi alla luna. Giub. – gri di I e
il Vallo. Trorarsi nelle secche a gola. Caro - esser povero. Mºller l'ali
- a Tre Iarsi.Alzar le corna – il super bile. Restare sull'a mm allona lo –
l'Illia nel poveri. - Stare in Apolline – Irlangiare lautamente inodo di lire
del valo da una stanza dedicata ad Apolline in cirl Lllo lillº laceva la
illissili le celle. Mangiare a ballisca i put - maligiare i piedi, il II
elli. Esser al coniile mini – il punto d. Il 1 l le. l scire il jislolo da
dosso tl i no 13 i. logiici si da il lalso sci spetto, cessare di ang.
Isi il gli ill li li il l i gilli il I, si spelli gri si ecc. E nodo
basso. (i li fanno afa i beccalichi e gli pizzo no i li, i i lati in to
fai il l ll - calo, il fastidioso delle cose pit s ti Isile. \ on Nat per
cli Nº – Il ciglio del volgari esser li li (li si. Esser nell'ol o di
gola –- riccone, ricco di rili. Esser innanzi con uno -- essergli il gri
7, i vi Vlesser Al dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi con il tessel
(i: Viscolli Saccl. e Fui figlill il di illi: i giallole e gelilli. I l lale e'
il molto in mani si coll’ili per il I e. (a V. Torsi giù dal pensiero di
fare... (o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi 'lendosi di I Dio e
alla sua provvi le 12:1..... Civ. ('ori e re boll len clo e II lilo cli,
le legi, i l. ri ci, i Nº but I lemulo. I)av. Sillili: ballo e il gri sil. lo,
il lersela. Esser in pie' e plando (alba era in piè lenne la col ſole.
l)av. 1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l' Iss: li si illa
col Cli/i 'le il cili si riac | Ie. l'ut I e il loro o di ll (mc (l ci
lidi ri. il II e il I l: cos: 1. (iel I al I e il m (t mica, clic'I l o
lut No il re i v. l il li Is I l iss. aggi. Il gel (lalli al clarin.
Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco.
13arl. Pagare di moneta senza comio spacciar Iole. I, Ils, I)alle e
il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo si
illl'allino che spesso ne fa les r, il III: Iggio elica li col l mali e il del
sl1, clile. Tener a piuolo (inf. tenere. l otre all rili il lettino
ſalgli il lates l' 1 all ss. Promelter Itoma e Toma – più di ciò che si
può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno. 1 mln usdtrº uno
indovinarlo, conoscerlo per quel che è. Fotr uno scilo m (l parlare a
lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e. Scoprir paese. Ma il 1/.
veli al chiaro di talche cosa. ('a calcare la capra in rerso il climo. I3
cc. Irovarsi in pericolo di i l'l': l ', l ' ('. I malati sºnº col
cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog -- 'l): - ol,l DS. l.los
1)llop ).Im. I “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl Ivan,
'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip: l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli low up
Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli. ll u n
t pel lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod ollo
Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore -II All.) Iloio; il 2.It I.) II.Il lod
o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1,:los.lop 5 º ) - ol. I ti ll)
1)(l. p) ll. 1) / S (p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I loI – l.ool
o l. Il ll o l.oo, o o l o I: 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill) ll ſi o p. ll
l l ll olios o I Il d lºs o I o II ): ossopu o il n. 1: s ).Ill).Iod o
O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol. l p ou puo ul l tool pd l olltilt
il.lol - D) ll plcl. ) ol I.... ll N o Illy) li ll lo) lo IV lUI.).llº A (OIis
Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O ).IopUIodsl. I lli
Iloit...... Ip (o.lios III. Il l.Il vi:.). I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb
Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl I.), m il plli) opos I DIS
o]llottle Illllio II o III o III: VI.Il Dl I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll
plli) ledttii: s.l Il pl.. p il plp pso.o ol.) i pm b l l), I l'Iss) I
|.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº)
ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I
opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l “od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le
i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I p.ll.I. elu.II).I e o Ioli: mlpo il pil 1)
l.I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti e sulle op ten. lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5
o II. I | | | | | | Isenb oso.) ol lº)lo.I e rozzo.Id | V: o il II o I pil V ol
I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl uopo, il plss..... ) I pu to.I o | Ioli -o
AIIo,oul IIIfo e opotuli o luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei
leitilissi: prºo Impoutuo o senb epito o on I e II li.tel li olo il 1 l.... ll
o.lo) lo IV popd ns addez ellop step (lo). )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi
s o I e II º I - ºlns Il pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli.I l o Io te stili npd
a IA QIo III “o.I lº IIaq lp Isl: le... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l
occod ll o no) in olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp
loſioli os– uodlo)s upſilo N uomo io) ) – pnbon, p. ll lº un il dl pliol - - u,
li updsfiniid uop lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op)
o il lou pm b.o) l i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV
pun uoldo II - orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo
IVmlnpoolpo Intti epp An – mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I
oITuttI III ottonlaAu ozuos o InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº
! "l.l (uoſ Dil pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos
ollo,lto. ll to, l' (uobollſ lnplV sul u Il uoqnm.L uo uo) p.t lo 0 olp
csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos
dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso –
onbop onp m. i tm)S vo) lo I l Iolu.lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) –
o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o
oli; io -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll – mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd
o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I o lui ottio 5.It: III los IIIl
regolº (Ideos e un “o5 old I un o.In.Ao.I | – plo) o ſi o l.olmnb tod ll
sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto op Is tr.lo.) Iº puoti in
ſqu;Il pells optIo:o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o sol) I d o III. I tessed
Iod o. Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop o Id e out s Iseill):
1.I.ood I.If I “esInI?lo Id utin lp e.I srl III o II: I –.ooo I o in l
uld lp olio lpold l I m/) p.1:).ooo! I ouolfim. plums lp o un atollm:I'ouoizu:
un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll amfium IV ro5.Ioi
ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it: A1: os Izi Il sod o Iop
e Iru.lo Iui ol. -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e Aol 5 o [ tt. Ieri lo
tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop plumnl muon pun uo.
luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il lossl.AA) - Iſſ.Il lº
oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n...Iosso titill l'Ilodes - ppo. pl uali olo,amp
ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D opup.oul.Ilm mosul pl
oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m opII, sotto lo v o 5 e
I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II.Ipaduti.Iopulo. In “of.In
loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) (p lo) um. m / mons ml opuo.oos
ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id nei rioti o Iſo.).on Ip e li s
III3o Iod. I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl ons pl opuo.o, is ouons ll o
un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l oil.i ſi lod pu nu aºasi il
Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o unopm ofli ſi lod i puo IV i
trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il l'Iionſ la vi: - l I.),ol.)
o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi opt odm ou up il lun.olui !:..Ip
Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I ve IIoII o II o o olni sotto, oi i
s.I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo o Ie.Il sotit.Iod » – i loro lºſ
oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il.Iod o orifi-osICI o II love II li Io I o o
lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip ol.I.) Io RI... ] I III o Ip Iso.
Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p los lop. () il 0.1 O) ſpi o N. I.IRSI Ind
e J a o o-neidsip o II lºso. lei in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o.
p. lug oosn IIIIIIo I. - a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a
IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In mezIo opleIII “Iuotze.IouI.Iotti
IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm) o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I –
RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li “ou upd ll tml ſip.I Izzotti In
olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ
ul tolla IV IIIo o Iop o Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip
-– o opms lou odm o lo o imbum IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è
maniglia, nel figurato appicco, pretesto. Arei mantello a ogni
acqua – esser pronto al bene e al male, accu In dal si a togli 'osta.
Arriluppar l rasche e riole – inventa e se lalse. Mentre il rasli ello -
predare, saccheggiare. Gianl). Super di barcamenare – essere ac orto e destro
nel condurre i negozi. Mangiare a bertolotto - senza darsi briga o pensiero di
dover poi pagare. Il langiare a lla ecc.I?accoglie e i biocc. - ascoltare gli
all rili discorsi per poi rappol largli - da bloccolo, particella di lana
spiccata dal vello. iellar la broda adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la
cuccu ma li portuliare, alloial e. l?idere agli angeli - l idel e per chè i
dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li o le ba)) sori dere di nascosº o con
gioia li ali ziosa di cosa che ad all ', oli sia pia ere nè oliole e che
palesa la tollell (le l'el)))e. l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi
d' A Iglisla. l)av. v Vo I rinata dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi
lavella piano perchè: il l 'i ll ll sell la. l)a V. ('olo il c un disegno
ed egli lon dal lido si sta al lina o indugio ai colorire il disegno suo.
(ilan, b.: effel! lla e ſulello che si era progettato. (''rcati e ai
ſalula di ſalula V g. della verilà lorse da Fallen, piega – scandagliare,
investigail e, indagare. (''rc at ) e della Notn il dl rivolse ogni
diligenza sua e dei medici suoi di cercati e della sanità ». l al. l'utre
un laccio ſolise di 'as dei l si compulo all'ingrosso, slagliare il ci
lil, al tribuire al lavoreccio, un valore così in massa senza calcolare per la
inintità a ragion di elipo e ti tanti è, fai tutto un moni.lasciar alcuno sul
latº metico v. g. di andar cercando... I3oce. I)ire a sor do.... ma se li la
cavi di dosso io non li con i radico. Non disse a sordo, che di subito codesto
povero gli cavò la tunica di «dosso ». Fiorelll. Prendere, pigliare,
cercar lingua di...... Qllesli andò e cercando lins gua di lui nella
cillà....... » Bari. « Poscia mandalo da ogni parte a prender lingua del vero
». I3arl.Fare del buon compagno - fare bus na compagnia. IIo l'alto tanto del
buon compagno, che ini gli ho guadagna i fulli o. CaroFa alti ui tornar sulla
testa la loro la mei e le Isar I. - farla paga ('il l'il.Guardare, ridere
sollecchi – di soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on der Stºile (tm) schielem
Valo sbirciaro ).Scaponire - vincere l'altrui ostinazione. Dal pronominale
incaponir si, osſimarsi in mºdo duro e goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è
affine a scaponire, nella frase sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza
un suo capriccio. Non lo scam biare con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire
del guercio, sentir di scomo –- V. Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI
(los!p [u optioutod) w' los to Ossip o 'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q.
o 110u 'ou JIt', o outu, o – los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s
O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o
IOIl.A IS JAOI) vr] [toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/.).t.) 1.to.)S
'ou01Zu? Iop1st 10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.).) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds
'd III) tºp tºt! Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001
un) nu 1 op 11.)sm -- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op -
Ool/l), los o//mſ lp orum.omputorit ºp ty.)s ) 'old UU10 |su (I - Oulu pm
! tto.1 dl 11) 1.).), do. t/S : 9IUA 'old U]SI115513.1 al.IU! 15u11:55 U.u
oIJ U uit: Ids -- O.tn)so.)./l 1 v.10.1/12/ 'o1.IU UIoo tº los.IUUI5 Upt?Inn -
DSO.) Dun gs.tv.)./of/ '.I)! I 'Or]UJUI - putd] !! ) () [qtis 'out I tºp ! 11.1
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II II !! A visso, 1110.) ost).), 'I l ºp 11 f: [1: I. st: 1) u! iſ.) p/lp
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(IIII!)o.Ioppi lp elli. A olo.A: o od il plli ll o).olo, lo o ollo. Il rolli Ip
oieA Iosso - tel.In I: o lui o li tºp - O.It:) o un.olm p o lui olfi ll o.tolo
V so ) (put.to, ll p.ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl: Ill o. I
Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui, o tu As o le volp lº lll.lo.llol).ll.)N
) quel!)..I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA | otteAopuol o le los ti
otitº.All. Iuºl, vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº I o II.it I col
eztloloIA:l 55o o II. I ll pp l Il pm.os. I tolti “ouolzuºu e un ostello e
Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol! UIoS oleo,
ill. Il II si ulltiltos o il tri.I potti il 15 III e III. ll: as op.Iool.I tioN
o Ido. Ito. Ip oi lotti:p o.I I I I II, I l o I, lun. 'N Al (I It:p los Iop
751.I. ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII p opup Is e III
Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II il 1 olt: \ l:
p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º u.).ooo, pp.to,
ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I., l:.........“olons
n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls
(ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m, lo s. l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip
(I. 1.I luo. Iº o II la V A: l I. A 1:(l.) lp Qss pd o ICI: onb.me l o lo us.
Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do il I so ). l. (l -oud ul o e lied
n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i do tal ul A l:(:s-oo e o.Iluo.o
tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e
o III o VII. il 1) il fi. ll o il l eso.o e o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il -
vi III i -tito) Ip o Iniel Ip miss, loolII. Il. Is.I tºp IO.), lº ol n.),
uo, pl) lim) I l / es.) Il fo: III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in
I o.lui iuta il tºp.Io vu: toll o l..).l. o loo.l.) I l I o II
lotti o I e II li. mld II l.lo I i v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). Il
vl'Ifo II: ool.IntIo5 outot a o,opo – olº.Iotti: lui o Iosso pri uop uo,
o, pil ll.. l oliºfolli: lo ol o elusi o II (1 ptt pil “eIollo.II on.A
mlnq – oſinod III e II o riſpºl u ntlmi il miº ll, i NN, i ll l all I
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IV (uopolosa oa si ſomus.o!) I. (I pillso i tm l lo o psso l'on. 'I l I.)
ſuoqmaſoo run II tap ) foll pdl – ma lo u VI top / SI. IN DCI - -und ll
mys unb: osodsII el'uoloA elis e o Infioso e vo vop Is otto. Il 5 l.lo il
po “Ipnos Ip op IISIui Iod olose oilo elodi:).II In lui: oddo l II ale.II Ionb
e olinqII 'u ottIssluſo un ollo II ), - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo
olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o
non limp out il l pts No I.).ool. o.tplli o .IoI I II.).I l? \.I - «I –
pose II III opud Ip – otInoso) opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p
impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo
o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too losso noti i plimd lp opuol losso
lou I milſild l) il dſ II o Il pl) il 5 il ril oi lotti lop plAtº t.I
sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds llo.ool o lo opm ſi pull Dl
Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo ) Izzo!) o tool -ms ll o oli uos
lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto, un uld lp l loll (I lo
Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo
pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons,oo Ilſi o llllllls,o. lllullS
lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s
opuolod l 1 ) Iollfill, l.lo. I l II), noſ) | I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl
pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od tuoi olto i ton.) A eCI ) un
lato i po.t o, ul, olpm Is u. I (- Il n.ll l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1
I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi
ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I molfin. pl Dz.iol pl o il to, Atº
(l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli)
0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to
il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons
ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon. ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti
o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I
u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll pol lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D
I SI onl:) Nm p... W i tons ) un I.iol 1 m. pl/mq uoq loss o o d Il 5 o
II o II.oni, ons lop Ile ond o Intini - l I..)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd
un ufi () epº.I s I.).ol. II. o II. olio Alio. es. otI.), tºnfi le id o
Ie Ip e lo IIIIIII.I Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m
ollo il pilo.) p.). Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.)
ollonh lp pp roll l I.) m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl
pil in o I. ll I “) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln
out e tio.Ipel otrosso Joid lp o.I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i
lutti lop e tituli lod o.Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle
ol) optio.) ng » - o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl
uonq un lui li ott o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.)
O.Iones li oli ed i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i
ti so I ep III lº Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion
lode. In lons illie od o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o!
A nſiti nunoIl lod p) Il p o V ».).oogI pl/lo. m l), m)pum OUI.) oll) Ollion |
In AO.I] () otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb.
Volpe recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal
latino intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il
tedesco pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a
clerer one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi
mot. Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca –, W e
nicht gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso.
Selbst isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben
chi paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se
non ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen.()
gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al
tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i
quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich
nich I heiss. Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente
che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti
l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l'.Dopo il bere ognun lice
il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila)
e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen
nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () /
mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui
prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo
il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace, accoglie
vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si
sliluirvi la ledesca, malerialissima: Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i old.l
grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel). ('ol
mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi il
trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und beiszt
nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può cantare
e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco digiuno non
spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch. Giuoco che li oppo dura, di
ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill: uscha, i machl
schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier (Der schinste
(piel li atl oil einem VV trim.La donna è come una castagna ch'è bella di fuori
e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si fa il fiorino.Le
fave nel nolaccio, il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e buono è lenulo può
fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco non ruol esser
losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli strangulioni. Docc.
strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili. Chi lava la testa
all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al cuoio Schuster
bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far l'altrui mestiere.
Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al licere – a chi ſe
la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè lui possa, acciocchè
qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la misura che lati,
misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra le vendulº. Q ual
proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches mit (, leichem
rergellºn. Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non posa. Chi offende
s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, «che, dice il Meini,
giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chil' igne ha più lunghe». A
confortator non duole il capo–e dal confortare all'operare è gran (le diffel'eliza
edistanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma Inoli o malagevolo).
Bocc. La determinazione suprema
della voce, «la
favella, cioè la
pronuncia articolata della
dialettica psichica» ('),
è il vero
fondamento dello scibile
(*), perchè concreta
sensibilmente lo sdoppiarsi
del pensiero: è
«la formula e insieme lo
strumento più eminente della manifestazione spirituale» (*).
Sebbenené la favela, né la facoltà di acquistarla siano necessariamente
richieste per determinarela posizione dell'uomo nella natura (•) il sorgere del
linguaggio, è, come il pudore, sintomo della spiritualità che nasce e si
afferma. Lo studio della linguistica che sembrerebbe poter procedere sopra un
terreno libero da qualsivoglia passione( [Introduzione alla coltura generale,
pag. 141. ][Op. cit., pag. 144. ]Prolegomeni I, pag. 367. (*) Introduzione alla
Coltura generale, pag. 121. (*) Massime e Dialoghi^ Fasc. 86, pag. 8. (•)
Prolegomeni I, pag. 368. 390 1^0 Spirito
oggetiivo] sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere
teologiche, o in balla del liberalismo naturalistico o finalmente asseconda le
simpatie e avversioni etniche. «Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di
essere il primo popolo della terra, cosi crede ed ha creduto sempre di
possedere la più perfetta di tutte le lingue» (') opinione che naturalmente
osta ad un bilanciodel contributo che ogni idioma portò all'educazione dello
spirito umano. Il problema dell'origine delle lingue, cosi come fu posto per
tanto tempo, è assurdo, giacché
«presuppone prenato alla
lingua il pensiero, il quale
mediante essa debba
riferirne l’origine. L'unica
ricerca genetica che, fuori del dominio speculativo, possa condurre a
utile risultato, è la
determinazione di un
periodo riconoscibile nelle vicende storiche, dal quale si siano
sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l'idea e
le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è idealmente
definibile, perchè è meramente naturale: è una ragione psichica immediata come
quella per la quale il riso è foneticamente altro dal lamento e significa
diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle
forme materiali e radicali: giacché agevolmente si capisce come una radice
viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato,patisca in questa
determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione; anzi,
la (*) Considerazioni ecc., pag. 12. Lo
spirito oggettivo 391 radice e l'idea si legano reciprocamente, e così l'una e
l'altra sono arrestate nel loro metamorfico svolgimento. Si
può dire che
il pensiero di
un popolo tanto
più li- beramente si svolge nella storia quanto meno
sia spiritualmente legato dalle radici vive della propria lingua, e che
reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici vive come
l'attività le corrompe e spegne (').
Molta importanza ha lo studio delle lingue per la istruzione e l'educazione del
pensiero: l'uomo è tante volte uomo quante lingue conosce, giacché tale studio concerne vari modi
che rispondono ai
vari gradi del pensiero (*). Infatti
l'idioma accennò progressivamente a) a dare le forme sensibili,
3) le intellettive, e) le concettuali(*). Quanto più il pensiero si avvia
all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze tutte
formali della lingua. «Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è occasionato il pensiero;
più tardi capii
che la lingua è
mezzo necessario alla
sua formulazione; finalmente concepii
che la vera
forma intrinseca del pensiero non
può essere manifestata
da questo mezzo
estrinseco, che è
la lingua» (*).
Il che significa
che essa, giunta che
sia di fronte
alla speculazione pura, o per dir
meglio, al sistema contemplative si esautora da sé medesima, riconoscendosi
insufficiente a esprimerlo concretamente: anzi, «la lingua (*) Idee radicali delle discipline
matematiche ed empirico-induttive. Fasc. I e 2.
(^) Introduzione alla coltura generale, pag. 121. (*) Prolegomeni, pag.
368. (*) Massime e Dialoghi^ Fase. 18, pag. 18. 392 Lo spirito oggettivo
volgare, per l’uso pratico della vita, vuol essere studiata assai
differentemente che la letteraria e la filosofica, perocché lo scopo delle
varie forme linguistiche non è menomamente identico» C)«Anche la semplice
nozione storica di un paese è assai collegata colla conoscenza del suo idioma
speciale. Narrando di un viaggio fatto dall'eroe di uno de' suoi tanti romanzi,
il Ceretti dice: «Il mio protagonista studia vasi sopratutto di
famigliarizzarsi coi singoli idiomche erano svariatissimi e giudicava che
la nozione à\ un certo paese supponesse quella del minuto popolo, epperciò una
pratica dell'idioma locale» (*). E vedemmo che così si comportò nei suoi viaggi
egli stesso. Quanto alla questione
circa la preminenzadel toscano sugli altri dialetti
nella nostra lingua letteraria, ecco le osservazioni, che noi riferiamo qui non
perchè ci paiano originali, ma per dimostrare, una volta di più, quale
sicurezza di sguardo avesse il Ceretti in ogni questione, che si affacciasse al
suo intelletto: «La lingua italiana possiede,
come tutte le altre, il suo
proprio genio caratteristico, per il quale non può essere confusa con veruna
delle lingue romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e svariatissimi, si
distinguono fra loro singolarmente per il loro specifico carattere, ma nessuno
potrebbe sospettarli dialetti d'una lingua altrimenti che l'italiana: questo
avviene eperchè fra tante differenze essi posseggono un caratter comune(')
Memorie postunte, Fasc.13, pag. 6. (') Itinerario di un inqualificabile, Fasc.,
i, pag. 14. Lo Spirito oggettivo 393 grammaticale e lessicale; e l'unità dello
spirito italiano, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in questo
generalissimo tipo comune dei dialetti.
Oggidì da letterati si disputa seriamente se il solo toscano sia il tipo
classico della lingua italiana, ovvero se il genio della nostra lingua, essendo sparso in vari dialetti, si debba
ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione. Il
toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il
più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è
senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano; ma non si deve
dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto-sivoglia buona, è pur
sempre un dialetto, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente:
nessun popolo scrive come parla; le lingue parlate nascono e crescono nel
popolo, e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica
sviluppano il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze
progressive delle lettere e delle scienze. Ora questo materiale della lingua
parlata sarà tanto più sufficiente quanto più ampiamente sarà desunto da tutti
i dialetti italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie
all'idea, quali non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste
precellenze particolari la lingua delle lettere e della scienza deve liberamente
approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo
il buon esempio del grande Alighieri,che, quantunque toscano, esordì
a scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua
veramente italiana. 394 ^ Spirito oggettivo.Molte forme grammaticali e lessiche
sono riducibili allo spirito generale della lingua italiana, talune non lo
sono: il buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se
l'idea esige neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e
omogeneamente ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti
nella lingua italiana.
Coll'idioma esclusivamente
toscano s'immiserisce non
solo la lingua,
ma con- seguentemente anche l'idea,
la quale trascende
le limitazionilocali e popolari» (*). Luigi Cerebotani. Keywords: implicature,
la lingua e lo spirito d’Italia, Hegel, il Tedesco e lo spirito della Germania.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerebotani” – The Swimming-Pool Library.
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